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la fortuna di un uomo 139


Ora, a proposito della laurea, Gaspare non dubitava che presto o tardi, scampato agli scogli della licenza liceale, appagherebbe lo zio e se stesso con un diploma d’ingegnere; e quanto alla milizia, sapeva bene che i volontari d’un anno soffrono, invisi come «signori», le angherie dei caporali e dei sergenti, e che, essendo egli un giovane istruito, diventerebbe presto un bravo sergente, benvisto dagli stessi volontari. Niente, dunque, volontariato!

La qual preparazione ad ambedue gli impegni dell’avvenire gli era così tranquilla, e quasi così grata, che la fortuna avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di soccorrerlo.

Invece fu soccorso. Perchè mai? Un triste dubbio gli penetrò per la prima volta nell’animo: che la fortuna sua portasse jettatura agli altri; ed ecco come. Alle prove di licenza s’incagliò nella traduzione del greco; s’ingarbugliò in un maledetto periodo ipotetico, lungo lungo, da cui tutto il resto dipendeva in connessione logica e da cui egli, per quanto tirasse, non riusciva a strappare un senso razionale. E le ore passavano. Già qualcuno copiava la traduzione in buona copia; già i professori guardavano biechi, passando, ai fogli pieni di cancellature e di triboli, che non davan speranza di prossima fine.

E passò un’altra ora. Poscia uno consegnò il cómpito; quindi, in breve, molti; dei quali chi tornava dalla cattedra con aria dimessa: «sarà