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166 | la fortuna di un uomo |
Accadde che circa ventiquattr’ore dopo aver visto quell’angelo per la quinta volta, Gaspare uscendo s’imbattesse appunto nel cavaliere, che usciva; e s’accompagnassero per istrada.
Scambiati i soliti complimenti: — Ah suo zio! Che galantuomo! — esclamò l’uno.
E l’altro: — Lo conosceva?
— Eravamo amici. Un po’ originale, a dire la verità; un filosofo; ma che cuore, che cuore! E che carattere! Uomini d’antico stampo, caro Bicci!
— Ah sì!
— E che bene le voleva, a lei! A discorrere di suo nipote, ci godeva; proprio come un padre.
— È strano — disse Gaspare: — di me non ne parlava mai con me.
Ma il cavaliere si fermò di botto.
— A proposito: lei, senza dubbio, suona?...
Distratto dal ricordo dello zio o dall’apparente incongruenza di quell’a proposito, Bicci chiese:
— Suono?...
— Il piano?
— Sì, alla peggio.
— Anch’io suono — disse il cavalier Squiti levandosi gli occhiali, pulendone le lenti e rinforcandoli: — non il pianoforte, però; uno strumento più geniale — come dire? — più canoro, più.... cordiale.
— Il violoncello?
— No, il clarinetto.