I Nibelunghi (1889)/Introduzione

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Anonimo - I Nibelunghi (XIII secolo)
Traduzione dal tedesco di Italo Pizzi (1889)
Introduzione
Avventura Prima

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INTRODUZIONE




NN
ella leggenda eroica, che trovasi raccontata nel poema germanico «I Nibelunghi», si vedono congiunti e confusi insieme due elementi essenzialmente diversi, uno mitico e uno storico. Dei quali il primo discende da tempi antichissimi e ha stretta parentela con altri cicli di altre mitologie indo-europee, laddove il secondo è assai più recente e risguarda alcuni fatti storici del Medio Evo. Il primo, se si considera quale e in qual misura esso è entrato a far parte del poema, si riconnette agli antichi miti degli eroi uccisori di mostri e di dragoni, dei quali sono piene le mito[p. x modifica]logie indiana e persiana, greca e italica, perchè racconta di Sifrido, il bello e giovane eroe dagli occhi rilucenti, che uccide un drago ai piedi di una montagna e si bagna nel sangue e diventa invulnerabile. Egli è, come tale, il nobile e fatato guerriero che muore tradito nel fiore degli anni, una lontana, ma pur sempre vivace reminiscenza del mito del sole che disperde la nuvola tenebrosa e le potenze demoniache dell’aria. Tale almeno, senza esaminarla, è l’interpretazione che secondo la mitologia vuolsi dare alla storia dell’eroe.

Non a caso abbiam detto di sopra quale e in qual misura il mito di Sifrido è entrato nella narrazione dei Nibelunghi, perchè appunto nei Nibelunghi esso non è che esposto come episodio e fuggevolmente, e molti particolari che pur servono a far meglio risaltare la figura del fatato eroe, o vi sono oscuramente notati o taciuti del tutto. Nè si potrebbe ora conoscerli, nè ci sarebbe [p. xi modifica]ora dato di considerarne l’importanza storica, se essi non venissero dichiarati ampiamente da un altro poema epico che è strettamente affine a quello dei Nibelunghi e abbraccia un maggior numero di leggende mitiche ed eroiche. Questo poema si è l’Edda scandinava, nella quale ad un ampio ciclo di leggende divine, succede un ciclo di leggende eroiche, laddove si narrano le avventure strane e nuove, sanguinose e truci e misteriosamente cupe di molti eroi di quel gran mondo leggendario. Tra i quali eroi, è pure il Sifrido dei Nibelunghi, col nome di Sigurdh, uccisore del drago Fafnir; e di lui si narrano molte avventure che precedono quelle raccontate nei Nibelunghi, mentre in questi soltanto con la debita ampiezza vengono narrati gli amori suoi con la bella Nriemhilde a Worms e la sua fine miseranda procurata dai cognati invidiosi. Anche questa parte, benchè con differenze non lievi, trovasi nar[p. xii modifica]rata nell’Edda, ma l’Edda dell’altra parte precedente possiede e reca una narrazione compiuta, laddove nei Nibelunghi la narrazione n’è fatta soltanto per via di episodio.

Ma, sebbene l’Edda sia scandinava quanto all’origine dei suoi canti, e la forma nella quale essa è pervenuta a noi, sia dovuta all’Islanda, tutta quella parte di leggenda eroica che tocca di Sifrido, venne all'Edda dalla Germania settentrionale. E ciò è attestato dall’Edda stessa, laddove i suoi cantori si riferiscono sovente e accennano a sorgenti germaniche; oltre di che e il Grimm e il Lachmann che furon tanto benemeriti degli studi di questi poemi, s’accordano nel riconoscere nella leggenda di Sifrido una leggenda franca, del tempo che i Franchi abitavano non lontani dal mare del Nord.

L’altro elemento entrato nella composizione dei Nibelunghi è un fatto che sem[p. xiii modifica]bra storico e tale dev’essere certamente. Ora, mentre quel primo elemento mitico ha informata di sè tutta quanta la prima parte del poema dei Nibelunghi, dal canto primo al decimonono, questo secondo elemento storico, invece, informa tutta la parte seconda del poema, cioè dal canto ventesimo al trentesimonono. E vi si racconta lo sterminio di una famiglia di principi borgognoni avvenuto alla Corte di Etzel re degli Unni, fatto storico raccontato anche da Prospero d’Aquitania, secondo il quale il re Attila (Etzel nel poema) avrebbe vinto e sterminato un re di Borgogna con tutta la sua famiglia nell’anno 435 dell’era volgare. Ancora, nel poema di Eckehardo I, abate di San Gallo, nel Waltharius manu fortis, si ricordano alcuni principi borgognoni i cui nomi somigliano assai a quelli che essi recano nell’Edda e nei Nibelunghi, e questi stessi nomi di re sono pur ricordati da re Gundebaldo di Borgogna, allor[p. xiv modifica]quando, nella sua raccolta delle leggi, volle parlare dei suoi predecessori. Attila poi, il terribile re guerriero che fu detto flagello di Dio e intorno al cui nome si raggruppano tante leggende paurose, tanto occupa di sè la scena del quinto secolo, che la sua figura terribile e grande era bene appropriata per entrare a far parte dei grandi racconti epici.

Ora questi due elementi, uno mitico e l’altro storico, e lo storico composto di due momenti, quello dei re borgognoni e quello del re Attila, erano già acconciamente accoppiati e intrecciati insieme prima ancora che fossero composti i canti dell’Edda, ai quali non si può dare un’antichità maggiore del nono o tutt’al più dell’ottavo secolo (e ciò per i più antichi soltanto), e perciò prima ancora che fosse composto il poema dei Nibelunghi quale lo abbiamo noi, e a cui non si può assegnare un’età che vada più indietro del dodicesimo. Che anzi, mentre nell’Edda scandinava, [p. xv modifica]come abbiam detto, la parte mitica che risguarda Sigurdh o Sifrido, è più ampiamente svolta e le avventure tutte si seguono in tanti canti staccati e indipendenti, nel poema dei Nibelunghi tutto è bellamente coordinato, tutte le parti sono ben disposte e poste in reciproca armonia fra loro. E sebbene nei Nibelunghi sia manifesta differenza tra la prima e la seconda parte, ciò che, del resto, procede dalla natura stessa della leggenda, pure il poeta (qualunque esso sia stato) ha saputo far corrispondere queste parti in modo fra loro che la prima non avrebbe esito senza la seconda, e la seconda non avrebbe ragione di essere senza la prima. Ovvero, per dir con chiarezza maggiore, la morte di Sifrido, che si narra nella prima parte del poema, domanda vendetta e l’infelice sua sposa la compirà, e la compirà nella seconda, quando, alla corte di Etzel, potrà averne in sua mano gli uccisori. [p. xvi modifica]

Del resto, il soggetto del poema è il seguente, brevissimamente esposto. Sifrido, figlio di Sigemundo e di Sigelinde e signore di Niderland o dei Paesi Bassi, avendo udito vantar la bellezza di Kriemhilde, figlia di Dancrat e della ricca Ute, si reca a Worms a chiederne la mano. A Worms regnava Gunther fratello di Kriemhilde, il quale, minacciato di guerra dal re dei Sassoni e dal re dei Danesi, trova un potente aiuto in Sifrido. Cessata però la guerra, egli con Sifrido si reca in Islanda a chiedervi la mano di Brünhilde regina dell’isola; e perchè Sifrido voglia assisterlo nella difficile impresa, gli promette la mano di sua sorella Kriemhilde. Ritornato Gunther a Worms con la sposa, tra costei e la cognata Kriemhilde, che frattanto si era sposata a Sifrido, nasce una grave contesa, perchè ciascuna di esse crede di avere uno sposo più forte e valoroso dell’altra; e Brünhilde che si crede mortalmente offesa, sol[p. xvii modifica]lecita Hagen di Tronega, il più fido amico di Gunther, a vendicarla. Hagen allora, accordatosi con Gunther, uccide a tradimento il prode Sifrido mentre stava bevendo a una fontana, e ne fa portare il cadavere dinanzi alla porta di Kriemhilde. La quale, nell’immenso suo dolore, mentre fa celebrar splendide esequie all’estinto sposo, giura di vendicarlo, fatta ormai certa da non dubbie prove chi sia stato il traditore.

Passano frattanto alcuni anni, ed essa va sposa ad Etzel re degli Unni, dopo essersi fintamente riconciliata co’ suoi fratelli. Ma poi, non potendo dimenticare l’atroce offesa e molto meno scordar l’amor suo per Sifrido, manda ad invitare i fratelli, acconsentendovi Etzel, alla corte. Da principio essi concepiscono qualche sospetto per tale invito; ma poi, dietro consiglio di Hagen, partono armati per difendersi con valore, ove necessità lo voglia. Alla corte di Etzel però sono essi accolti assai freddamente da [p. xviii modifica]Kriemhilde e poi, dopo un fiero combattimento suscitato nella sala stessa del convito, scannati tutti con tutte le loro genti. Kriemhilde stessa, alla fine, è uccisa d’un colpo di spada dal vecchio Hildebrando.

Ora, il racconto dell’Edda e il racconto dei Nibelunghi sono in gran parte eguali, ed eguali sono pure i personaggi che v’entrano, quantunque alcuno dei loro nomi differisca, sebbene di poco. Al Sifrido pertanto e alla Kriemhilde dei Nibelunghi, corrispondono il Sigurdh e la Gudruna dell’Edda, ma Gunther è Gunnar, e Hagen è Högni, ed Etzel è Atli, re degli Unni. Soltanto, mentre in tutte le altre parti del racconto i due poemi s’accordano fra loro, nell’ultima differiscono non poco. Perchè, laddove nei Nibelunghi Kriemhilde fa scannare tutti i suoi fratelli per comprendere nella strage anche Hagen, uccisore del suo Sifrido, nell’Edda trovasi che Gudruna, fatta da senno la pace con Gunnar e con [p. xix modifica]Högni, come essi con gli altri fratelli entrano nella reggia di Atli, per invito di costui, vorrebbe salvarli e v’adopra ogni suo potere. Atli però, frustrato nel suo disegno di possedere il tesoro che quelli avevano nascosto nel Reno, tutti li manda a morte, e Gudruna, per vendicare i fratelli, appresta allo sposo un’orribile convito facendogli mangiare il cuore dei due suoi figli, Erp ed Eitil, e incendiando poi la sala del convito per perir poi essa stessa nell’immane incendio con lo sposo e i convitati. Nè di tal mutamento si può assegnare alcuna plausibile ragione, se non forse che nell’Edda, più antica e pagana, prevale e vince il sentimento di famiglia, vivissimo presso le antiche stirpi germaniche, laddove nei Nibelunghi, più recenti, prevale e vince l’amor di sposo.

Ma, se non nella sostanza del racconto, nel modo di condurlo e nelle idee che accompagnano e informano il racconto, tro[p. xx modifica]vasi tra i due poemi differenza assai maggiore. Perchè l’Edda è ancora pagana, come ora si diceva, e spira ancora tutta la fierezza del paganesimo, e i Nibelunghi, sebbene rechino ancora molti elementi pagani, resti cioè e frammenti di miti antichi, hanno accolte le idee cristiane. E il poeta narra e descrive di uomini e di cose molto lontane da lui, almeno per l’età, allo stesso modo che narrerebbe e descriverebbe cose e uomini del tempo suo. E però il suo fare è più placido e gentile, laddove i cantori dell’Edda sembrano aver sempre, e hanno, un certo impeto lirico; e i suoi cavalieri sono veri cavalieri di corte, con tutti i costumi gentili e raffinati del tempo, ciò che contrasta con la fierezza e la durezza di certi fatti che pure nella natura loro non si potevano mutare. La qual cosa ha fatto sì, forse, che tutto ciò che di mitico si trova nella figura del fatato Sifrido, nei Nibelunghi, o inscientemente o di propo[p. xxi modifica]sito deliberato, è detto e rappresentato in modo fuggevole e oscuro, come elemento non più atto ad acconciarsi alle nuove idee alle quali viene informandosi il poema. Pare che su questi miti il poeta si soffermi poco volentieri e condottovi soltanto da necessità, riserbandosi poi di dire e di ridire altre cose, anche con soverchia ampiezza, più vicine ai tempi suoi e ai costumi dei tempi.

Onde avviene che molti punti del racconto dei Nibelunghi rimarrebbero per noi oscuri per sempre, se non ci fossero di valevole aiuto i canti dell’Edda, nella quale l’elemento mitico campeggia in ogni parte, anzi vi sembra esser trattato con predilezione particolare. Ora, tra i punti più oscuri dei Nibelunghi, trovasi la leggenda dell’oro che porta sventura a chi lo possiede, e la conoscenza o amicizia che ebbero tra loro Sifrido e Brünhilde, prima che questa fosse sposa di Gunther e quello impalmasse la bella Kriemhilde. [p. xxii modifica]

Quanto alla leggenda dell’oro, appare dai Nibelunghi che Sifrido s’insignorì di un gran tesoro un giorno ch’egli trovò Nibelungo e Schilbungo a piedi d’una montagna, intenti a spartirselo. Perchè essi lo pregarono di farne la spartizione e perchè erano riottosi e superbi, egli li uccise e si insignorì del tesoro che poi, morendo, lasciò alla sposa sua Kriemhilde. Ma Hagen l’ebbe poi nelle sue mani, e da ciò e dal desiderio di vendicar la morte di Sifrido procede l’odio implacabile che Kriemhilde aveva per costui. E appare più volte che l’oro dei Nibelunghi è possesso fatale che reca sventura a chi lo possiede; e tutti sel contendono. Sel contendono primi Schilbungo e Nibelungo, poi Sifrido lo toglie a questi due; morto Sifrido, il tesoro è trasportato in Niderland presso di Sigemundo, padre dell’estinto eroe, donde poi Hagen lo toglie per nasconderlo nel Reno. Sul finire del tragico poema, Kriemhilde ne re[p. xxiii modifica]clama il possesso, e giunge per un istante a prometter salva la vita ad Hagen, purchè manifesti il luogo nel quale egli l’ha nascosto. Hagen si ricusa ed è colpito a morte dalla inferocita donna.

Questo nei Nibelunghi. Ma perchè l’oro porti con sè sventura e di qual natura sia questo tesoro misterioso, non è detto. L’Edda invece vien raccontando come un giorno tre Dei, Odino, Loki e Hönir, giungesserò viaggiando ad una cascata d’acqua, laddove trovarono una vipera. Essa fu uccisa da uno di loro con una pietra, e la pelle ne fu tratta e mostrata poi a Hreidmar, presso il quale i tre viandanti, la sera di quel giorno, si erano ridotti ad albergare. Ma la vipera uccisa era il figlio stesso di Hreidmar, trasformato; e però il padre, chiamati a sè gli altri due suoi figli, Fafnir e Regin, e raccontata loro la morte del fratello, fa prigionieri i tre. I quali, convenuti di coprir d’oro la pelle dell’uccisa vi[p. xxiv modifica]pera per fare ammenda e riscattarsi, mandano fuori Loki a cercar l’oro. E l’oro è trovato, rapito, insieme ad un fatato anello, al nano Andvari trasformato in pesce. Il nano derubato, scaglia la sua terribile maledizione dietro al tesoro, e tosto la maledizione fa il suo effetto. Perchè, all’atto di ricoprir d’oro la pelle della vipera, Hreidmar si accorge che una squama sola ne resta scoperta. Loki allora aggiunge l’anello di Andvari. I fratelli dell’ucciso vogliono aver parte della preda, e Hreidmar è ucciso da loro; la maledizione insegue i parricidi, perchè Fafnir, trasformatosi in dragone, si porta via l’oro e si nasconde con esso nella selva di Gnitaheide, e Regin ricorre a Sigurdh (il Sifrido dei Nibelunghi) perchè l’aiuti a ripigliarsi la parte del tesoro che gli è dovuta. E Sigurdh uccide il drago Fafnir e con Regin ne arrostisce il cuore per farsene cibo; ma poi, avendo toccato quel cuore col dito per provar s’era [p. xxv modifica]al punto d’esser mangiato e postosi alle labbra il dito, scottato dal grasso ardente, acquista la facoltà di intendere il linguaggio degli uccelli, e ode intanto certe aquile che discorrevano tra loro del come Regin meditasse la morte del suo compagno e aiutatore. Sigurdh allora, con quella stessa spada che Regin gli aveva fabbricata per uccidere Fafnir, tanto sottile che, immersa nell’acqua del fiume, tagliava a mezzo i fiocchi di lana portati giù dalla corrente, uccide il traditore e si porta via il tesoro, montato sul suo cavallo Grani.

Tutto ciò non si trova nei Nibelunghi, nei quali si legge soltanto della spartizione del tesoro e della uccisione del drago, ma nulla della natura di esso tesoro e della maledizione che l’accompagna.

L’Edda ancora ci fa sapere la precedente amicizia di Sigurdh e di Brynhilde, alla quale i Nibelunghi confusamente accennano. Perchè Sigurdh, ucciso Regin e tolto con sè [p. xxvi modifica]il tesoro, prosegue il suo viaggio finchè giunge ad una casa posta sopra una montagna laddove egli vede un guerriero addormentato. Quel guerriero, chiuso nella sua corazza e addormentato, altri non è che la bella Brynhilde (la Brünhilde dei Nibelunghi) che il dio Odino aveva immersa in un profondo sonno in pena di una colpa commessa da lei. All’appressarsi di Sigurdh, la fiera e bella Valkyrie, poichè Brynhilde è tale, cioè una dea guerriera, si desta dal sonno, e con l’avvenente eroe che l’ha sorpresa nel sonno, impegna la sua fede. Sigurdh sen va alla casa di Gunnar (il Gunther dei Nibelunghi), e allora che Gunnar salperà per l’Islanda per domandarvi Brynhilde in isposa, Sigurdh lo accompagnerà. Ma Brynhilde abita un castello circondato dalle fiamme, e Gunnar non è tanto ardito da superarle per guadagnarne la soglia; e però Sigurdh, col suo destriero Grani, supera il difficile passo, [p. xxvii modifica]entra nel castello e si posa accanto a Brynhilde senza però toccarla, perchè la sua spada Gram si sta sguainata nel mezzo. Brynhilde, allora, va sposa a Gunnar che ella crede essere l’ignoto guerriero che si è posato accanto a lei la notte. Ma quando Sigurdh ha sposata Gudruna (la Kriemhilde dei Nibelunghi) e tra Brynhilde e Gudruna sorge quel sentimento di gelosia che conduce le due regine a contendere fra di loro quale dei due sposi rispettivi sia il più valoroso, come Brynhilde ha potuto sapere che l’uomo che le è stato a fianco nel suo castello non è già Gunnar, ma Sigurdh, quel Sigurdh che già con lei aveva impegnato la sua fede molto tempo prima, un implacabile desiderio di vendetta tutta la prende. Sette giorni essa si sta senza cibo e senza sonno, finchè, incitati col marito gli altri cognati, essa fa uccidere a tradimento per uno di loro il suo antico amante. Ella poi, compiuta la bramata vendetta, sale volen[p. xxviii modifica]terosa sulla pira e là si uccide di un colpo di spada accanto al cadavere di Sigurdh.

Quello poi che è rimasto e rimarrà sempre oscuro senza che l’Edda ci possa dar qualche lume, si è il nome dei Nibelunghi. I quali, nel poema, sono da principio i due figli di Nibelungo, del possessore primo del tesoro, uccisi da Sifrido allorquando essi lo chiamarono a spartir fra loro quel tesoro del padre; anzi i loro nomi sono appunto Nibelungo (come il padre) e Schilbungo (Avvent. III). Ma poi, al tempo della morte di Sifrido, i Nibelunghi sono mille guerrieri fedelissimi a lui, che pur avrebbero acerbamente vendicata la morte del loro signore, se Kriemhilde e Sigemundo con preghiere non li avessero trattenuti. Al contrario, nell’ultima parte del poema, sono detti Nibelunghi gli stessi Borgognoni che con Gunther e Hagen si recano presso re Etzel nella terra degli Unni. Donde si vede che il poema stesso non sa nulla di certo [p. xxix modifica]di questi Nibelunghi che pur gli formano il titolo; nè l’etimologia del nome, quantunque certa e sicura, ci aiuta. Il nome tedesco die Nibelungen, in scandinavo Niflungar (l’Edda è scritta in questa lingua), deriva certamente dal nome nebel, la nebbia (in scandinavo nifl), e accenna al lontano e buio settentrione donde esso, lontano e buio nel suo significato, è venuto a noi.

Non v’è alcun dubbio che il poema dei Nibelunghi, quale al presente l’abbiamo, non sia una forma molto recente rispetto non solo all’origine della leggenda e ai tempi ai quali essa si riferisce, ma anche rispetto ai primi canti che la dovettero raccogliere. Perchè, quanto alla parte mitica, essa leggenda risale a tempi antichissimi, e quanto alla parte storica essa deve esser riferita al più oscuro tempo del Medio Evo, allorquando la storia del terribile Attila dovette cominciarsi a narrare in forma di leggenda. Ma quale sia stato il poeta che ha ridotta [p. xxx modifica]essa leggenda alla presente forma, è questione che tratteremo fra poco; laddove qui è necessario vedere se dai secoli precedenti si ha memoria d’altre forme o redazioni poetiche del medesimo racconto epico. Perchè, lasciando stare la forma che questo racconto dovette prendere nei paesi nordici sino alla presente raccolta dell’Edda, trovasi per testimonianza di Eginhardo che Carlomagno compiacevasi di trascrivere e d’imparare a memoria antichissimi canti barbarici che celebravano guerre e imprese d’antichi re. «Item barbara, egli dice, et antiquissima carmina quibus veterum regum actus et bella canebantur, scripsit memoriæque mandavit.» Trovasi che al principio del nono secolo l’abate Waldo, nel monastero di Reichenau, faceva trascrivere dodici canti in lingua tedesca, e che Saxo grammatico ricorda che nel 1157 già si narrava come Kriemhilde avesse traditi i fratelli, e che nel 1130 un bardo sassone aveva cantato in [p. xxxi modifica]pubblico lo stesso fatto. Queste testimonianze prendiamo dal libro del Laveleye, che con tanta lode si è occupato degli studi dell’Edda e dei Nibelunghi; ma nè il Laveleye, nè alcun altro ci sa e ci può dire che fossero questi canti antichi, mentre il poema dei Nibelunghi quale al presente lo abbiamo, per ragioni di lingua e di forma poetica e per il colorito cavalleresco e cortigiano dato al racconto, non può esser posto prima del dodicesimo secolo.

Al qual proposito osserva il Bartsch, accurato editore e illustratore dei Nibelunghi, che i sentimenti cavallereschi e cristiani e le descrizioni frequenti delle corti e del vivere cortigiano e quella consuetudine vanitosa di descrivere ad ogni momento vesti e abbigliamenti di dame e di cavalieri, tutte cose contrarie per natura al racconto antico e barbarico, non possono che additarci di lontano e in maniera al tutto incerta un poeta cortigiano, un elegante cavaliere delle corti [p. xxxii modifica]tedesche del dodicesimo secolo, esperto in ogni arte gentile e forse più atto a cantar d’amore che a celebrar gli eroi del tempo antico. E sembra che il poeta cavaliere sia vissuto intorno al 1140 e appartenesse alla nobile famiglia austriaca dei Kürenberger del territorio di Linz, presso al Danubio. Ma, in qual misura egli abbia adoperate le fonti dei canti precedenti, non è dato a noi di sapere. Sembra soltanto che, mentre la forma che egli diede o trovò già data al racconto, è rimasta e tale e quale è pervenuta a noi nella sostanza, altri più tardi, forse intorno al 1170, abbia introdotto maggior regolarità di rime, laddove quello, al modo della lirica del tempo, si appagava di assonanze soltanto. E questo lavoro si continuò, a quanto pare, fin verso la fine del milleduecento, nel qual tempo il poema si sarebbe arrestato e fissato nella forma nella quale ora l’abbiamo. E questa forma è quella che porta il titolo: Der Nibelunge liet, che si[p. xxxiii modifica]gnifica: la Canzone dei Nibelunghi, quella stessa che qui diamo tradotta col titolo: I Nibelunghi. Ma v’è un’altra redazione del poema, più raramente conservata dai manoscritti, che, partendosi da quella del 1170, cerca togliere certe contraddizioni e tenta, in sulla fine, di legare il racconto ad un altro componimento, detto il pianto dei Nibelunghi, composto, esso pure, intorno al 1170. Quest’altra redazione porta il titolo: Der Nibelunge nôt, cioè: La rovina dei Nibelunghi, titolo preso dall’ultimo verso del poema:

Daz ist der Nibelunge nôt,

cioè:

Questa dei Nibelunghi è la rovina.

Ma, qualunque sia il poeta al quale è dovuto il poema, credesi che il maggior pregio dell’opera sua consista nell’aver magistralmente delineato i caratteri dei suoi personaggi. Che se egli non li inventò, come è na[p. xxxiv modifica]turale, ma gli vennero essi piuttosto con le memorie del racconto dei secoli passati, è certo però che egli li ha conservati con molta arte, e tali quali erano, li ha presentati ancora. E tra questi, primo si fa innanzi Sifrido, il bello e valoroso Sifrido, al quale aggiungono venustà alcuni tratti non del tutto cancellati dell’antica natura mitica, ond’egli appare più splendido e più ideale e lontano dalla verità dura e volgare della vita. Come è valoroso e avvenente, sì che egli è il sospiro d’ogni fanciulla in qualunque luogo si rechi, così egli è rapido di pensiero e di mano, onde, non appena si affaccia qualche nobile impresa che possa arrecar gloria a chi s’accingerà a compierla, ed egli tosto vi si sobbarca; nè dal pensiero del sobbarcarsi al mettersi di tutta lena all’opera corre per lui gran tratto di tempo, ma concepire e fare sono per il fatato eroe una sola e medesima cosa. E però gli amici e i creduti amici sempre lo trovano pronto a conceder [p. xxxv modifica]l’aiuto suo fortissimo, ed egli non solo promette e porge l’aiuto richiesto, ma ancora fa volentieri ciò che altri dovrebbe fare. La qual cosa procede in lui non tanto da generosità innata, quanto anche da una certa infantile e ingenua credulità, che, del resto, è propria di tutti questi eroi primitivi e non di rado s’incontra ancora in uomini di cuor generoso e magnanimo. Era un’età fanciulla quella che concepiva questi eroi, e la natura fanciullesca dell’età s’imprimeva in essi tanto profondamente da non cancellarsi mai più, anche dopo che il racconto delle loro imprese ebbe attraversate molte età e molte generazioni.

Anche Sifrido, in forza di questo suo carattere particolare, appartiene a quella schiera d’eroi, dei quali ogni tradizione popolare ha l’esempio, e che, mentre sanno compiere una grande e gloriosa impresa laddove si richiedano forza di mano, ardire di propositi e impeto di cuor generoso, cadono [p. xxxvi modifica]poi miseramente vinti quando sono assaliti con armi che essi non conoscono. L’animo loro è troppo semplice e ingenuo, troppo alto e nobile, per comprendere che siano e voglian dire la calunnia, la menzogna, il tradimento e il parlar finto e subdolo, e restano al di sotto come appena siano presi da queste arti perfide. Ecco, uno dei più noti esempi si è Otello, su le cui sventure la musa dello Shakespeare, del Rossini e del Verdi ci ha fatto lagrimare. Anche Otello sa vincere con armi leali e tocca però splendide mête; ma, alla prima parola subdola, perchè egli crede leali al par di lui quanti l’attorniano e circondano, s’abbandona quasi da sè stesso e di animo deliberato alla sua rovina. Allo stesso modo, nella più vasta leggenda epica che si conosca, l’epopea persiana di Firdusi, il Libro dei Re, Rustem e Siyâvish, vincitori di mille battaglie, vincitori di draghi e di fiere, beneficatori del loro re e della terra dove son nati, cadranno [p. xxxvii modifica]per nulla e moriranno miseramente, il primo, tradito dal fratello Sheghâd, un maligno e spregevole omiciattolo, e il secondo, per le calunnie dei principi turani, presso i quali egli, fuggendo l’ira del padre, aveva chiesto e trovato rifugio. E Achille, vincitore di Ettore e di Troia, non cadrà forse per un colpo assestatogli a tradimento da Paride, imbelle ed effemminato? E Orlando non perirà forse per il tradimento di Gano di Maganza? Anche Sifrido, per placar la voglia di Brünhilde, sarà ucciso a tradimento da Hagen, perfido e crudele e d’animo truce; anzi, nel bosco dove sarà vibrato il colpo traditore, dopo aver date mille prove di destrezza nella caccia delle fiere, egli accoglierà con animo festante l’invito alla corsa, senza sospettare dopo tanti ammonimenti della sposa, presaga di qualche sventura grave, che quello era per lui un invito di morte. Perchè Hagen, fatta la prova del gareggiar correndo, trafigge di pugnale l’infelice che erasi chi[p. xxxviii modifica]nato ad una fontana per spegnervi la sete. — Se Kriemhilde si mantenesse nella seconda parte del poema quale si mostra nella prima, cioè fin dove essa piange la morte del suo Sifrido, il carattere di lei sarebbe uno dei più dolci e soavi e tale da star degnamente accanto a quello dello sposo, col quale mirabilmente risalterebbe sui due caratteri opposti, foschi e diabolici, di Hagen e di Brünhilde. Ma Kriemhilde, la dolce e ingenua fanciulla che, ammonita da un sogno funesto, mostrasi schiva d’amore a principio e poi s’invaghisce di Sifrido e, divenutane la sposa, vive soltanto per l’amor suo, nella seconda parte del poema si fa truce e terribile, ributtante nella sua fierezza che rasenta l’insania. Nè la scusano il dolore per la perdita dello sposo e il desiderio della vendetta, perchè ogni moto dell’animo, anche fiero e tremendo, deve avere i limiti suoi e l’arte che vuol rappresentarlo, i suoi freni. Ma, e per la meditata vendetta e per [p. xxxix modifica]il desiderio di riaver l’oro dei Nibelunghi che Hagen le ha tolto con violenza, sembra che, morto Sifrido, il cuore di costei si chiuda d’un tratto ad ogni affetto umano. Perchè essa con poche parole e poche lagrime si distoglie dall’unico figlio suo natogli da Sifrido, e presto se ne dimentica e l’abbandona per sempre allorquando, chiesta in isposa da re Etzel, si toglie da Worms per recarsi all’amplesso del novello sposo. Il quale è compiaciuto da lei nella sua domanda non perchè ella speri di ricambiarlo d’amore e di consolarsi della morte del primo sposo, ma soltanto perchè il potente signore le agevolerà la vendetta e il riacquisto dei perduti tesori. Anche un secondo figlio, nato da lei e da Etzel, essa perde più tardi, anzi in guisa crudele, allorquando Hagen inferocito gliel’uccide sotto gli occhi, ed essa non se ne dà per intesa. Ma Hagen è il vero autore della uccisione di Sifrido, e però su lui soltanto deve sca[p. xl modifica]tenarsi il furor della vendetta di Kriemhilde. Eppure costei assiste impassibile alla morte de’ suoi fratelli innocenti, anzi ne procaccia la morte e promette oro e favori a chi li scannerà sotto gli occhi suoi. Nella quale efferatezza ella è anche codarda e vile, trovandosi ch’essa teme di essere uccisa da Hagen e prega d’aiuto Dietrico perchè la difenda (Avvent. XXXIII). Ancora, essa sembra misurare il sangue de’ suoi nemici a goccia a goccia, e gode e si compiace di vederne rosseggiar le vesti di Hagen (Avventura XXXV), al quale tuttavia ella sarebbe disposta di perdonar la vita (scordando così la vendetta del suo Sifrido), qualora egli le volesse manifestare il tesoro nascosto. — Nella ferocia stessa e nel barbaro costume può qualcuno, come abbia anima grande, serbare una certa maestà che incute rispetto e venerazione, e il Vico già disse che la barbarie va d’accordo col grande; ma in Kriemhilde che patteggia sangue, oro e vita, [p. xli modifica]maestà e grandezza non si trovano, molto meno la maestà dei tempi eroici.

Brünhilde invece è carattere odioso nei Nibelunghi, fattovi fastidioso anche perchè rimpicciolito dal poeta. Il quale, perchè gli era necessità di far così, tacque tanta parte della storia di Brünhilde, perchè storia mitica, e però ne lasciò monco in alcuna sua parte il carattere. Nell’Edda questo carattere è integralmente conservato, e la tragica morte della fiera Valkyrie, che si uccide e si fa ardere sulla pira accanto all’uomo ch’ella ha amato e non ha potuto possedere, è una vera apoteosi, e tale la rappresenta l’Edda nella sua magnificenza barbarica. Ma, nei Nibelunghi, tuttochè la fiera voglia di costei si manifesti e nell’occasione delle sue nozze con re Gunther, e più ancora nella procacciata morte di Sifrido, essa, morto Sifrido, scompare d’un tratto dal poema, e sembra che il poeta l’abbia del tutto dimenticata, laddove l’Edda prosegue di [p. xlii modifica]tanto amore la sua eroina da raccontarne e descrivere la discesa, quale un trionfo, alle sedi dei morti.

Quarto viene Hagen di Tronega, che la Edda dice fratello del re di Borgogna e il poema dei Nibelunghi attesta esserne soltanto il più fido amico. Come tale, esso è l’anima dannata, se così può dirsi, del suo signore, per il quale egli non esita ad affrontare arditamente qualunque pericolo e a commettere qualunque opera, anche la più rea e trista. Il prode Sifrido, perciò, cadrà per sua mano, e del gravissimo misfatto, mentre gli altri tutti pensano qualche finto racconto per discolparsi nel cospetto di Kriemhilde, come saranno tornati a Worms, e già s’argomentano di dirle che ignoti ladroni le hanno ucciso lo sposo nella selva, egli stesso, Hagen, dice di pigliar per sè tutto l’odio e la colpa, perchè egli non è avvezzo a tener conto di pianti di femmine. Dal qual fatto abbastanza s’intende che Hagen è es[p. xliii modifica]senzialmente feroce e spietato, spietato talvolta senza ragione vera, o almeno plausibile, come quando d’un tratto, sotto gli occhi di Kriemhilde e di Etzel, loro uccide il figlio Ortlieb che s’aggirava fanciullescamente attorno alla tavola del convito. Anche qualche tratto demoniaco è nella natura di Hagen, e in ciò egli disvela una grandezza maestosa e una fierezza grande, e pare che egli ricuopra e protegga della sua potenza quasi diabolica quel suo re Gunther che sembra pupillo inetto dinanzi a lui, come Roberto di Normandia dinanzi al cavalier Bertramo e il dottor Faust dinanzi a Mefistofele.

Ora, nella relazione in cui stanno fra loro i caratteri di Hagen e di Gunther nei Nibelunghi, è bellamente e pienamente osservata una legge costante di queste antiche epopee, dovute in gran parte al genio popolare. Nelle quali fu già osservato che accanto all’eroe principale sta sempre un altro [p. xliv modifica]eroe di grado secondario, che è come fedele e alacre esecutore di ogni disegno del primo; ma appunto perchè egli è tale e col braccio fa quanto il primo ha pensato, e risplende più per valor personale che per vigore di mente e di consiglio; così, nelle tradizioni popolari, avviene che la figura del secondo eroe si mostri più splendida e con più magnifica arte delineata, laddove la figura del primo, nel confronto, sbiadisce di non poco e quasi si perde. La quale arte è dovuta al popolo, primo autore e compositore dei veri canti epici, perchè egli non intende quale e quanto sia il merito di chi guida un’impresa col senno e col consiglio, ed essendo preso d’ammirazione maggiore per i bei colpi di mano e gli ardimenti rischiosi del secondo eroe, questo ama di più e preferisce al primo e con maggior compiacenza ne racconta e descrive le imprese. Che anzi di tanto cresce l’importanza del secondo eroe rispetto a quella del primo, che il primo, anche con [p. xlv modifica]tutto il suo senno d’autorità, non potrebbe, senza l’aiuto del secondo, condurre a termine l’impresa in cui s’è messo. E però, senza di Achille, Agamennone non vincerebbe; e veggasi intanto di quanto sia meno luminosa la figura di costui dinanzi a quella del gran figlio di Teti. Nè i re dell’epopea persiana potrebbero o saprebbero ributtare gli assalti dei Turani riottosi, sempre irrequieti ai confini dell’Iran, se Rustem, il maggiore eroe di quella grande leggenda epica, non li aiutasse. Nella maggiore epopea indiana, Râma nulla può senza di Hanumant, e nell’epopea francese, Carlomagno imperatore spesso si troverebbe a mal partito se con lui non fosse Orlando, e nei Nibelunghi, Hagen tutto fa e in ogni impresa arditamente si mette, non lasciando altro a Gunther che di volere e di comandare.

E però Gunther, nei Nibelunghi, è il personaggio più inetto e insipido, tanto da bastar poche parole per tratteggiarlo. Di suo, [p. xlvi modifica]veramente, egli nulla fa, perchè egli non può conseguir la mano della fiera Brünhilde se Sifrido non l’aiuta, poi, nella seconda parte del poema, se abbiam detto che Hagen è il suo cieco senatore, l’anima sua dannata, ora possiam dire che egli si riduce ad essere inerte e impassibile spettatore di ciò che l’altro fa per lui. Anche possiamo aggiungere che la fantasia popolare s’è non poco divertita nell’inventare un episodio comico per questo re dappoco. Il quale, come fu entrato la sera delle nozze nella stanza nuziale, non potè valersi dei diritti suoi di marito, perchè Brünhilde l’afferrò, lo sospese a un chiodo della stanza e lo tenne in quello stato doloroso e di vergogna finchè non apparve il giorno (Avvent. X).1 [p. xlvii modifica]

Anche Etzel, nei Nibelunghi, è ben lontano dal mostrarsi quel terribile re guerriero che da noi meritò d’esser detto flagello di Dio. Alla vista dell’uccisione dell’unico figlio suo per mano di Hagen, egli non si commuove, e nella orribile carneficina in cui si termina il poema, egli sta più volentieri a parlamentar lungamente e mostrasi inetto nel tentativo fiacco di sedar le passioni tumultuanti. In parte lo scusa il dovere d’ospitalità, non tanto però da concedergli di poter essere codardo e imbelle, tanto più che gli ospiti suoi sono ospiti che troppo baldanzosi corrono al sangue. In verità, ogni uomo che abbia dignità di sè stesso, vorrebbe essere l’Attila delle nostre cronache, flagello di Dio e figlio d’un cane, [p. xlviii modifica]piuttosto che l’Etzel dei Nibelunghi, in quella sua natura fiacca e orba di valore!

Tutti gli eroi fin qui ricordati, oltre ad alcuni altri pochi secondari, dei quali qui si tace, si trovano anche nell’Edda. Ma nei Nibelunghi trovansi altri due personaggi che all’Edda non appartengono, e sono: Rüedgero, margravio di Bechelara sul Danubio, e Pellegrino, vescovo di Passavia. Il primo è un vero modello di cavaliere e di gentiluomo, al quale tuttavia la perfetta integrità del costume nuoce non poco come nuoce al Buglione del Tasso l’esser troppo perfetto cavaliere. Il vescovo invece, del quale il carattere ha ben lieve significato, pare che sia stato introdotto dal poeta dei Nibelunghi a far parte del suo racconto soltanto perchè si è risaputo che Pellegrino, personaggio storico, fece trascrivere in latino, togliendole dalla tradizione orale dei menestrelli, le leggende dei Nibelunghi. Forse a queste versioni latine ha fatto ricorso [p. xlix modifica]il poeta dei Kürenberger, e, senza badare all’anacronismo, s’è pensato di potere agevolmente, come ha fatto, render contemporaneo de’ suoi eroi il vescovo di Passavia, farlo anzi fratello della regina Ute e però zio materno di Gunther e di Kriemhilde. Anche un altro personaggio storico, ben più grande e illustre del buon vescovo Pellegrino, Teodorico re degli Ostrogoti, sotto il nome di Dietrico da Verona, a dispetto di più di mezzo secolo che separa Attila da lui, è detto vivere esule alla corte di Etzel e di Kriemhilde, alla quale egli dà molte prove di rispetto e di devozione. Ciò tuttavia non è proprio dei Nibelunghi soltanto, ma ancora dell’Edda, laddove il re Thiodrek (Teodorico) è più volte ricordato siccome consigliere intimo di Gudruna che già sappiamo essere la Kriemhilde dei Nibelunghi. Donde s’intende che per tempo assai un elemento gotico è pure entrato nella composizione di questa grande leggenda epica, [p. l modifica]nella quale il mito e la storia, anche con inevitabili anacronismi, trovano il loro posto acconciamente.

Ma, lasciando i personaggi dei Nibelunghi e i loro caratteri, notisi che uno dei più bei pregi di questo poema per il quale a buon dritto vanno orgogliosi i Tedeschi, si è l’economia di tutto il piano e l’armonia delle sue parti, anche se tutto il racconto è pur stato così architettato prima che il poeta dei Kürenberger pensasse a versificarlo. Il quale seguì bellamente la traccia segnata e riuscì a rendere attraente la sua narrazione e a dipingere con calore e con una certa evidenza le passioni de’ suoi eroi e i loro contrasti. Anche quel fare patetico e sentimentale che colorisce tutta quanta l’esposizione sua, sia ch’egli narri o descriva o faccia parlar qualcuno, inducono nell’animo del lettore un sentimento di mestizia soave che piace. E quell’incessante accennare alla lontana e pure inevitabile rovina che travolgerà tutti, [p. li modifica]un giorno, gli eroi, intanto che fa presentire la forza ineluttabile del fato, come avviene nelle tragedie greche, suscita anche nell’animo un certo sentimento di rassegnazione, non vile, non codarda, ma quale può essere di colui che sereno e calmo, non però spavaldo e spensierato, vede il suo fine, lo attende e deliberato l’affronta. In ciò, più di tutti gli altri, Hagen si distingue. E forse è questo un raddolcimento indotto nella fiera leggenda dal Cristianesimo, mentre che nell’Edda il cantore, qualunque sia, non pensa che all’azione del momento, anzi sembra affrettarla, molte cose tacendo e le cose dette toccando rapidamente con impeto che s’avvicina al lirico.

La qual cosa significa che i cantori dell’Edda non hanno quella calma serena e tranquilla, maestosa nella sua tranquillità, che è propria delle epopee antiche. La calma poi che, al contrario, si trova nei Nibelunghi, sembra essere calma di rassegna[p. lii modifica]zione placida, non già di equilibrio dello animo; tranquillità voluta, non nata da sè, perchè il poeta anche troppo si compenetra dei sentimenti che animano i personaggi suoi. Perciò i Nibelunghi sono ben lontani dalla serenità dei poemi omerici, nè hanno la maestà del poema di Firdusi che contempla dall’alto e descrive la lotta secolare tra Irani e Turani, immagine terrestre, viva perciò ed efficace, della gran lotta cosmica tra Ormuzd e Ahrimane, tra il bene e il male, nè spirano l’aura mistica del Râmâyana indiano, dove gli eroi, altrettante incarnazioni di Dei, malamente e a stento si muovono in quell’atmosfera sacerdotale. I Nibelunghi, adunque, hanno carattere tutto loro speciale, e perchè furon versificati da poeta cristiano che vi trasfuse idee e pensieri del tempo e ve ne aggiunse anche i costumi, diversi assai da quelli dei veri tempi epici, mostrano d'esser discesi, almeno d’un gradino, da quell’altezza in cui ne aveva con[p. liii modifica]cepito il racconto il cantore dell’Edda, allora che l’antichità pagana e mitica, madre feconda di epopee, glielo alimentava di un fuoco vitale.

Donde si vede che non del tutto è giustificato l’entusiasmo che per il loro poema nazionale hanno i Tedeschi, i quali vollero anche, almeno tempo fa, dirlo e considerare eguale in importanza e bellezza ai poemi omerici, massime allorquando esso, dopo un lungo obblio, fu ritratto felicemente alla luce. Ma ora i caldi entusiasmi d’un tempo sono alquanto calmati, sebbene a quegli entusiasmi molto si debba condonare, perchè nati da amor di patria. E però anche dai Tedeschi si vede e si riconosce che molti difetti trovatisi nei Nibelunghi. Uno dei quali, anzi uno dei più gravi, si è che in alcuni punti il poema sembra una povera cronaca messa in versi, perchè lo studio di non lasciare indietro nessun particolare e di toccar tutti i momenti intermedî dell’azione, ha indotto [p. liv modifica]il poeta anche a narrare e a descriver cose che non sono molto atte alla poesia, laddove l’Edda, rapida e concitata, tutte destramente le tace. Però, in alcune parti del poema, v’è aridità, e la narrazione sembra che ristagni con danno grande dell’effetto.

Ma quella maestà e interezza epica vengono meno ai Nibelunghi anche per il metro è che la strofa di quattro versi che rimano due a due. Ora, di quanto questo metro, infelicemente scelto, sia per nuocere a una narrazione epica, si giudichi dalle seguenti parole del Bartsch, che più egregiamente e lucidamente non poteva farne conoscere i difetti: «Io non credo punto, scrive egli nella sua Introduzione al testo, da lui pubblicato, dei Nibelunghi (p. XXI-XXII), io non credo punto che, per quanto sia bella di per sè la strofa dei Nibelunghi e faccia egregia prova di sè adoperata nella lirica, sia stato un pensiero felice quello di adoperarla nell’epica. All’epopea ripugna sopra [p. lv modifica]tutto una spartizione in strofe regolari. La tranquilla corrente della narrazione epica ha bisogno, essa pure, di qualche pausa, ma non ad intervalli determinati; anzi, ad intervalli liberi. La qual cosa universalmente vediamo osservata laddove una epopea vera si è svolta, cioè presso gl’Indiani, presso i Greci, presso i Francesi. E la strofa sforza con violenza il poeta o a dipannare senza necessità ciò ch’egli vuol dire, per riempire la strofa, o a calcarlo insieme a forza, perchè trovi posto nella cornice di essa, quando però, ciò che avviene ancora, ma più raramente, non si trapassi l’argomento da una strofa all’altra; la qual cosa, alla sua volta, è contraria alla natura della strofa stessa. La circostanza poi che spesse volte l’argomento epico del momento che doveva esser trattato in una data strofa, nel terzo verso è già a sufficienza trattato, ha fatto sì che il quarto verso, allora, contiene soltanto qualche pensiero generale, o qualche ac[p. lvi modifica]cenno a ciò che verrà dopo o a qualche altra cosa, un che di superfluo veramente, per cui l’insieme va scapitando quanto a vero contegno epico.» Alle quali parole del Bartsch questo può aggiungere per conto proprio il traduttore in versi sciolti, cioè che nel verso sciolto, seguitato non interrotto per lunghi tratti, questi che nel testo sono artificiali compimenti della strofa, appaiono inutili ripetizioni e interruzioni fastidiose. Al qual difetto si sarebbe anche potuto ovviare col fare, traducendo, tante strofe quante sono nel testo; ma la strofa domanda la rima, e all’obbligo della rima si sarebbe congiunto l’altro, non meno tirannico, di non dire in una strofa italiana nè più nè meno di quello che si trova nella tedesca corrispondente. E poi, quale strofa dovevasi o potevasi scegliere? Non una di fattura italiana, perchè male si sarebbe accomodata alla tedesca; e rifar la tedesca, sarebbe stata cosa impossibile e, quando mai, ridicola. D’altra parte, [p. lvii modifica]il traduttore che traduce in versi, non deve mai dimenticare che egli fa opera con intento d’arte, e l’arte è delicata assai e bisogna trattarla bene; anche deve pensare che egli non decompone, ma ricompone, dopo averlo fatto suo, il libro ch’egli va traducendo, e però bisogna ch’egli lo renda nella sua lingua con tutto quel decoro e quella proprietà che la nuova veste domanda, pur tenendosi fedele al testo quanto più può. Quanto a me, dirò ch’io ho fatto ciò che ho potuto per esser fedele e dar veste conveniente nella mia lingua alla canzone dei Nibelunghi; e altri giudicherà. Aggiungo soltanto, per finire, che io, come in altra mia traduzione di maggior lena, traducendo i Nibelunghi non ho voluto punto soddisfare alle pretese miserabili di quei pedanti che d’un poeta che s’ha da tradurre, vogliono resa e ritratta la parola materiale e non lo spirito, e mostrano di preferire alla divina traduzione del Monti la stentata e sciancata, ler[p. lviii modifica]cia e rattoppata traduzione (se tale si può dire), che uno scolaretto di Liceo può fare, in prosa bastarda, di un brano di Omero. Ma di questi pedanti quanti, pur troppo! non si trovano disseminati per le nostre scuole! Io scommetto che se un poeta potesse tornare al mondo, ringrazierebbe di gran cuore il suo traduttore che ha cercato d’indovinarne lo spirito e l’idea, e manderebbe al diavolo i pedanti cornuti che, nell’aria morta delle biblioteche, ne vanno tormentando il testo per cercarne le varianti e queste portano in dono agli scolari, come unico e sovrano frutto dei loro studi.2

Ma, tornando ai Nibelunghi, poichè vogliamo considerarne anche la parte manchevole, ci sia permesso qui di esporre libera[p. lix modifica]mente ciò che notammo nel farne la lettura e nel tradurli. E prima di tutto ci pare che vi manchi qualunque descrizione della natura. Anche una descrizione breve, quale Omero ha talvolta, anche in certe sue immagini, non si trova nei Nibelunghi, ai quali manca ancora quell’arte del dare e appropriar gli aggettivi che fa così belli i canti d’Omero e di ogni altra epopea antica, più ancora se gli aggettivi sono composti. Nè si vuol dir con ciò che gli aggettivi manchino nei Nibelunghi; vogliam dire soltanto che pochi aggettivi, ovvii e semplici e d’uso molto comune, tutto fanno e a tutto servono, posti molte volte, non per interna necessità, ma soltanto per compiere il verso e per far la rima. O forse ciò si deve attribuire non del tutto al primo poeta, ma in parte anche a quelli che dopo di lui, come abbiam visto, hanno voluto ridurne la strofa a regolarità maggiore di rime. Anche è da notare, e ciò in forza della strofa, la narra[p. lx modifica]zione spezzata, a cui manca quella continuità che è propria della narrazione epica, e quell’artificio abusato troppo spesso o del ripetere o del riassumere o del dir cose fuor di luogo, massime in fine della strofa. Ma di cotesto ha egregiamente parlato il Bartsch, citato di sopra. Riesce poi noioso e fastidioso di là da misura quel frequente descrivere gli abiti pomposi e gli abbigliamenti delle dame e dei cavalieri, fatto con la vanità di cortigiano elegante che bada di cuore a queste cose frivole, e non ha alcuna idea di ciò che possa e debba descrivere col suo verso potente un grande e vero poeta epico. E non è da poeta epico, sempre sereno e sicuro conoscitor delle cose, ma da cronista del Medio Evo, quel dir frequente che egli non sa cosa si facesse o non si facesse nella tale o tale altra occasione, e che non conosce certi luoghi, ciò che induce una incertezza impropria nel racconto. Ma che talvolta il poeta dei Nibelunghi sembri più cronista [p. lxi modifica]che epico cantore, abbiam detto più sopra; ora aggiungiamo soltanto che molte volte, come il cronista, egli è umile e pedestre, rigido e spicciantesi con poche parole, mancandogli quella vena abbondante e quella pastosità molle e pur solida che fa così belli in tutte le parti loro i canti di Omero.

Ma il punto, nel quale il poeta ha maggiormente fallita la prova (e qui meno che altrove doveva fallirla), pensiamo che sia nella catastrofe del poema, laddove una mano più esperta della sua avrebbe potuto fare un quadro grandiosissimo e stupendo. Incendiata la sala nella quale stanno a banchettare i principi borgognoni, e impegnata la zuffa tra essi e i troppo fedeli seguaci di Kriemhilde, la catastrofe, dopo alcuni tocchi maestri del poeta, doveva precipitare, come precipita rapida e terribile nel canto di Atli nell’Edda, laddove l’ignoto, e pur grande cantore racconta e descrive lo stesso avvenimento. Ma il poeta dei Nibelunghi [p. lxii modifica]non ha saputo, come ha fatto il poeta dell’Edda, abbracciar d’uno sguardo la terribile scena, e alla descrizione dell’orribile tumulto e della sanguinosa carneficina non ha saputo dar la movenza e la vita che Omero le avrebbe date. Del quale non avendo l'arte, l’arte alata, come dice Pindaro, egli doveva esser più sobrio e più presto sbrigarsi, come ora si diceva, laddove egli inettamente diluisce il racconto e fa che gli eroi lungamente stiano a contendere fra loro a parole, bisticciandosi in modo da togliere quasi ogni effetto. I colloqui poi che, non si sa per qual canone d’arte, colloqui quasi platonici, sono incastrati nel momento più terribile della azione, collocati uno dietro l’altro, alternati con tenzoni e duelli, carneficine e morti d’ambe le parti, come ritardano lo scioglimento e son di nocumento all’effetto, mostrano anche che il poeta (se pur da lui procede tale disposizione e ordine del racconto) è impacciato nel dire e descrivere [p. lxiii modifica]qual fu la sorte di ciascuno dei suoi personaggi. Che se fosse lecita una comparazione un poco volgare, io direi che il poeta dei Nibelunghi, con tanta folla di personaggi da far morire, trovasi a disagio come il giocoliere che dovrebbe far muovere una dozzina di burattini e non ha che due mani a sua dispozione.

I Nibelunghi, che pure, anche con le loro imperfezioni, sono sempre uno dei più solenni monumenti della letteratura germanica del Medio Evo, restarono lungamente ignorati fino alla metà del secolo passato, intanto che la letteratura tedesca servilmente imitava la francese. Dicono che il Lessing per primo ne rinfrescò la memoria nello stesso tempo che il Bodmer, svizzero, avendo ritrovati i manoscritti dei Nibelunghi, pensò di farne una edizione, che egli disegnava di dedicare a Federico di Prussia, quando il gran re, invasato d’ammirazione per le cose francesi, gli dichiarò che gli avrebbe get[p. lxiv modifica]tato dalla finestra il libro, perchè assolutamente inutile. Ma poi, destata la curiosità e conosciuto il merito vero dell’antico poema nazionale, esso ebbe edizioni infinite, commenti e chiose e scritti, intesi a dichiararne l’origine, l’importanza e la composizione, a stabilirne il testo. Una ricca letteratura critica si schiera bellamente dattorno a questo monumento antico della letteratura germanica e gli fa degna corona, i lavori, sovra gli altri tutti, del Lachmann, di Guglielmo Grimm e del Bartsch. I manoscritti più autorevoli, poi, sono tre, nè vanno più in là del secolo decimoterzo, e sono: uno di Monaco, un altro di San Gallo, e un terzo che appartenne già ad un ricco e dotto signore tedesco, Giuseppe Lassberg, che volle far dipingere sulle pareti delle sale del suo palazzo i fatti dei Nibelunghi, togliendoli com’erano miniati dal manoscritto da lui posseduto.

La lingua del poema dei Nibelunghi è il [p. lxv modifica]medio-alto-tedesco, incerto molte volte nelle sue forme grammaticali, nella sua sintassi e nella espressione spesse volte troppo elittica e concisa. Perciò i Tedeschi stessi ebbero bisogno di qualche traduzione, tra le quali (anche a rischio di dimenticarne qualche più recente e migliore) ricorderemo quella del Simrock, valente traduttore dell’Edda, del Döring, del Braunfels. La migliore traduzione francese è giudicata esser quella del Laveleye; e noi Italiani finora abbiamo avuto due traduzioni del poema, una del Cernezzi, l’altra del Gabrielli, alle quali, per colpa mia, ora si aggiunge la terza.

La traduzione del Cernezzi è in versi sciolti,3 dedicata ad Andrea Maffei. A me, che pure ho tentata una traduzione in versi sciolti dei Nibelunghi, non è lecito giudi[p. lxvi modifica]care dei versi del Cernezzi; dirò soltanto che la traduzione non sempre è fedele e che talvolta lascia indietro e trascura troppe cose. Si giudichi da questo esempio, scelto quasi a caso. All’Avventura XII, strofa 739 e seguenti, secondo l’edizione del Bartsch, il Cernezzi traduce:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cavalcando
venti giorni, al castel de’ Nibelongi
nella marca eran giunti di Norvegia,
stanchi essendo cavalli e messaggeri
dal vïaggio. Sigfredo nel castello
era presso a Crimilda, quando nuova
dei messaggeri seppero allor giunti,
che all’uso di Borgogna cingean vesti
ed armature. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

E il testo dice: «In tre settimane essi vennero cavalcando nella terra. Al castello di Nibelungo, laddove essi erano inviati, nella marca di Norvegia trovarono essi l’eroe (Sifrido). Per la lunga via erano stanchi i cavalli dei messaggieri. Allora a Sifrido e a Kriemhilde, ad ambedue, fu detto che erano [p. lxvii modifica]venuti cavalieri che portavano tali vesti quali in Borgogna si avea costume di portare.» — Nel qual luogo, tra le altre inesattezze che il lettore può notare, il Cernezzi ha dimenticato l’inciso: dar wâren si gesant, laddove essi erano inviati, e non ha inteso il verso: Sifride und Kriemhilde warl beiden dô geseit, a Sifrido e a Kriemhilde, ad ambedue, allora fu detto, perchè egli traduce: Sigfredo nel castello era presso Crimilda. — Ancora, seguitando, il Cernezzi traduce:

. . . . . . . . . . . . . . Dal suo letto sorse
tosto Crimilda, e ad un’ancella impose
di recarsi al balcone. Allor veduto
fu nella corte Gero e i suoi compagni,
ond’essa al re dicea: Vedi coloro
nella corte con Gero? Qui mandati
li avrà Gontero, il fratel mio.

E il testo dice: «Ella balzò da un letto dove giacea riposando. Pregò allora un’ancella di andare a una finestra; e costei vide [p. lxviii modifica]l’ardimentoso Gere starsi nella corte, lui e i compagni suoi che là erano stati mandati. Per l’angoscia del cuor suo, deh! qual dolce nuova ella (Kriemhilde) ricevè allora! Al re ella disse: Ora vedete che là si stanno quelli che son venuti a corte col prode Gere, quali giù pel Reno ha mandati a noi il fratel mio Gunthero.» — Nel qual luogo notiamo che il Cernezzi ha lasciato indietro, oltre ad altre cose di minor conto, tutto il verso: gegen ir herzeleide wie liebiu maere si bevant! per l’angoscia del cuor suo, deh! qual dolce nuova ella ricevè allora! — che è uno di quei versi riempitivi che, come più sopra notava il Bartsch, servono a compiere la strofa. — Per finire, citiamo l’ultima strofa del poema che dal Cernezzi è resa così:

Ciò che poi fu, dirvi non m’è concesso.
Garzoni illustri e cari amici pianti
furon colà da cavalieri e donne:
qui fine ha la novella, e questi fûro
dei Nibelongi i dolorosi eventi.

[p. lxix modifica]E il testo dice: «Io non posso dirvi ciò che là avvenne dipoi, eccetto che cavalieri e donne, e oltre a ciò nobili garzoni, furon visti piangere la morte dei loro cari amici. Qui ha un fine il racconto. Questa dei Nibelunghi è la rovina.» — Nel qual luogo il Cernezzi ha commesso l’errore di fare che siano pianti da cavalieri e donne i garzoni illustri, die edeln knehte, mentre essi sono tra i piangenti. Il testo è chiaro:

wan ritter unde vrouwen weinen man dâ sach,
dar zuo die edeln knehte, ir lieben friunde tôt.

Di tali inesattezze troppo spessi esempi si trovano nella traduzione del Cernezzi, al quale tuttavia non si può togliere il merito e il nobile vanto d’aver per il primo fatto conoscere agli Italiani il poema germanico.

E veniamo alla traduzione del Gabrielli.4 [p. lxx modifica]Il quale, giovane animoso e nutrito di buoni studi, ha data una traduzione in prosa, bella, spigliata e spontanea, e tale che, a dir il vero, molto volentieri si legge e senza fatica. Soltanto mi pare che egli abbia abbassato di non poco il tono dei Nibelunghi, i quali non hanno la grandiosità dei grandi poemi, come l’Iliade o il Libro dei Re, ma non sono nemmeno di stile tanto umile e depresso quanto quello dei Reali di Francia.

Se il Gabrielli avesse tradotto in versi il poema, io molto facilmente avrei lasciato stare, sebbene avessi cominciata la mia traduzione molto tempo prima. Ma poichè egli ha tradotto in prosa e ha creduto di dare al poema quella intonazione che di sopra ho notato, senza che io pretenda di aver fatto meglio, ma soltanto per seguire una mia propria convinzione, con un tono che ho cercato di mantener più sostenuto, e in versi, ho pensato di condurre a termine la incominciata traduzione. Da parte mia poi [p. lxxi modifica]credo che le due traduzioni possano stare accanto l’una dell'altra, essendo differenti di modo e di concetto. Della mia traduzione, dopo aver appresa la lingua del testo sotto la guida dell’illustre prof. Emilio Teza a Pisa negli anni 1870 e 1871, diedi già un saggio nella mia Antologia Epica,5 inserendovi la morte di Sifrido. Ma quella traduzione era soverchiamente libera, e però la disfeci, ricominciando da capo allorquando il lungo lavorìo intorno alla traduzione del poema di Firdusi m’ebbe lasciato un poco di quiete. Ora la traduzione del poema di Firdusi è pubblicata,6 e questa dei Nibelunghi si licenzia per le stampe. Chi sa che, terminato che io abbia un lungo lavoro che ho fra le mani intorno alla storia della poe[p. lxxii modifica]sia persiana, non mi accinga ancora, se potrò far tanto, a tradur l’Edda, della quale manca ancora una versione italiana.

Torino, Marzo 1889.




Note

  1. In un poema persiano, che fa seguito al Libro dei Re, di Firdusi, si trova che la figlia di Rustem, la bella Bânûgushasp, una eroina vincitrice di fiere, di mostri e di eroi, è data in isposa a Ghêv. La prima notte essa lega suo marito e lo nasconde sotto una panca, finchè giunge Rustem per rimproverare la figlia e ristabilir l’ordine in quella casa.
  2. Un bello spirito ha definito la Biblioteca Laurenziana la macelleria delle varianti. Troviamo un poco impertinente, ma giustissima la definizione, perchè non vi si fa altro.
  3. Il Canto dei Nibelongi, antico poema tedesco. Prima traduzione italiana di Carlo Cernezzi, Milano, Pirotta e C., 1847.
  4. La rovina dei Nibelunghi, traduzione dal tedesco di Annibale Gabrielli. Città di Castello, S. Lapi, 1887.
  5. Torino, E. Lœscher, 1878 (pag. 256-301).
  6. Firdusi, Il Libro dei Re, poema epico, recato dal persiano in versi italiani da I. Pizzi. Torino, Bona, 8 vol., 1886-88.