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I Nibelunghi xlvii


Anche Etzel, nei Nibelunghi, è ben lontano dal mostrarsi quel terribile re guerriero che da noi meritò d’esser detto flagello di Dio. Alla vista dell’uccisione dell’unico figlio suo per mano di Hagen, egli non si commuove, e nella orribile carneficina in cui si termina il poema, egli sta più volentieri a parlamentar lungamente e mostrasi inetto nel tentativo fiacco di sedar le passioni tumultuanti. In parte lo scusa il dovere d’ospitalità, non tanto però da concedergli di poter essere codardo e imbelle, tanto più che gli ospiti suoi sono ospiti che troppo baldanzosi corrono al sangue. In verità, ogni uomo che abbia dignità di sè stesso, vorrebbe essere l’Attila delle nostre cronache, flagello di Dio e figlio d’un cane,

    in isposa a Ghêv. La prima notte essa lega suo marito e lo nasconde sotto una panca, finchè giunge Rustem per rimproverare la figlia e ristabilir l’ordine in quella casa.