zione spezzata, a cui manca quella continuità che è propria della narrazione epica, e quell’artificio abusato troppo spesso o del ripetere o del riassumere o del dir cose fuor di luogo, massime in fine della strofa. Ma di cotesto ha egregiamente parlato il Bartsch, citato di sopra. Riesce poi noioso e fastidioso di là da misura quel frequente descrivere gli abiti pomposi e gli abbigliamenti delle dame e dei cavalieri, fatto con la vanità di cortigiano elegante che bada di cuore a queste cose frivole, e non ha alcuna idea di ciò che possa e debba descrivere col suo verso potente un grande e vero poeta epico. E non è da poeta epico, sempre sereno e sicuro conoscitor delle cose, ma da cronista del Medio Evo, quel dir frequente che egli non sa cosa si facesse o non si facesse nella tale o tale altra occasione, e che non conosce certi luoghi, ciò che induce una incertezza impropria nel racconto. Ma che talvolta il poeta dei Nibelunghi sembri più cronista