Crevalcore/Parte quarta
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PARTE QUARTA.
IL MARCHESE DI CREVALCORE.
La notte del trentuno maggio moriva tra i profumi di una rapida e violenta fioritura della campagna. Ferrara ne assorbiva le lontane fragranze dalle bocche livide de’ suoi cortili pieni d’ombra, dagli archi delle sue porte misteriosamente aperte nei silenzi della notte ai fantasmi del passato.
L’ultimo raggio di luna battendo sulle rovine di Crevalcore penetrò nella finestra dove dormiva Meme e venne a destarlo colla dolcezza imperiosa di un bacio che si fosse posato sulla sua fronte. Quello era dunque il gran giorno!
Nel lieve bagliore crepuscolare in cui affondavano gli oggetti, Meme non distinse subito la sua cameretta ed i mobili consueti. Avvezzo a vivere fuori della realtà, il possesso primo di cui sentiva il bisogno affacciandosi alla rinascita quotidiana era quello de’ suoi sogni; ed ecco la chimera dalle ali azzurre, dalle ali d’oro, dalle ali iridate di tutti i colori, ecco la chimera immortale sorgere e moltiplicarsi intorno al suo guanciale, sorridergli cogli occhi di tutti gli angeli dei paradisi sognati, toccarlo colla mano lieve delle Fate così bene conosciuta nei racconti della nutrice, guizzargli dinanzi e lambirlo colla veste fiammea che egli aveva cotanto amata nelle veglie invernali dell’adolescenza.
Tutti tutti i suoi sogni gli si affollavano intorno, i paesi meravigliosi della primavera eterna, le reggie fantastiche, le foreste incantate, i templi misteriosi eretti al dio ignoto, la preghiera senza parole che scaturisce dal cuore come un zampillo di sangue e le lagrime, le lagrime anche dello spasimo segreto più dolce di qualsiasi gioia.
Non era questo il suo mondo? Ogni via stava aperta fra lui e l’idea. Parlava ed era inteso. Ascoltava e mille cuori si aprivano intorno a lui, vibravano, palpitavano con lui. Un’onda di voluttà gli gonfiava il petto nel possedimento assoluto di tutto ciò che egli amava: silenzi d’ombre, scintillìi di raggi, slanci generosi, ardore di darsi, di bruciare tutto, di morire e di finire nell’amplesso di una nobile fiamma.
Oh! come l’aveva desiderato l’amore alto, eccezionale, inarrivabile, impossibile, l’amore senza speranza e senza premio, che tutto dà e nulla chiede. Non era stato questo l’ideale primo de’ suoi giovani anni, quando nella ripugnanza del contatto brutale aveva fatto a sè stesso quasi un voto di mistiche nozze? Ed ora che la realtà coronava di singolarissimi fatti il suo sogno più audace, con quale palpito egli stava per avvicinarsi alla donna amata?
Vicinanza di semplici sguardi, lo sapeva; forse un grazie mormorato piano dalla sua dolce voce.... oh! questa sarebbe stata la più ambita delle ricompense; altre nè le pensava nè le avrebbe volute. Inginocchiarsi vicino a lei, solo questo, dinanzi a Dio! Tale gioia mesta e profonda doveva essere la sua.
Nessuna conquista dei sensi lo avrebbe penetrato di così acuta ebbrezza come quella dedizione di tutta la sua anima a colei che dell’amore aveva conosciuto appena la prepotenza volgare. Come sovra un altare profanato egli avrebbe deposto a’ suoi piedi in religioso silenzio l’urna propiziatrice del suo sacrificio. Ed Elganine, la misera fanciulla tradita, la fanciulla che doveva imprecare all’amore apparsole quale il più ingannevole dei miraggi, non per lui forse stava per riprendere fede nelle più nobili forze dell’uomo? Lui strumento trascurabile di un’alta rivelazione morale: questo pensiero lo esaltava fino al delirio. Ella saprà, ella saprà che non tutti gli uomini sono bassi e vili!
Lentamente, seguendo il progresso dell’alba che già rivestiva della sua pallida luce gli oggetti circostanti, Meme riattaccava i fili della vita. Girò gli occhi sulle pareti dove la spugnatura rossastra disegnava gruppi di macchie simili ad un misterioso stillicidio; vide il gran Cristo nero bucherellato, vide i suoi libri, vide sul tavolino qualche cosa che lo fece balzare dal letto, rammentando. Era un astuccio di forma rettangolare, elegante nella sua semplicità. Meme ne fece scattare la molla e contemplò per un attimo l’oggetto che conteneva, poi lo rinchiuse.
Nello sfacelo totale della famiglia, attraverso il turbine che aveva travolta la grandezza dei Crevalcore, una reliquia potè passare incolume di generazione in generazione, mediocre tesoro di valore materiale, ma segno così evidente della gloria antica che poche grandi case possono forse vantarne una simile. Occorreva risalire alla metà del secolo XVI quando il duca Ercole II aveva condotta sposa in Ferrara la figlia di Luigi XII, Renata di Francia, colei che tenendo a battesimo una bimba dei Crevalcore introdusse in questa famiglia il proprio nome. Ed era tradizione appoggiata a documenti dell’epoca che fra i doni della regale madrina si trovasse la singolare pietra dove un artefice di quel secolo d’arte e di bellezza aveva incisi i due stemmi riuniti degli Estense e dei Crevalcore; pietra magnifica, di una trasparenza e di un colore che la faceva somigliare ad una goccia di sangue cristallizzata.
L’idea di presentare alla sposa come dono di nozze quel prezioso cimelio era sorta nella mente ambiziosa di Renata. Ella aveva esitato un poco sulla forma in cui ravvolgere la pietra per darle una prestanza moderna e femminile in corrispondenza allo scopo, e dopo una lunga conferenza coll’orefice si era decisa per uno spillone da appuntare il velo nuziale. Sulla testina bionda della principessa Bazwill la pietra color di sangue doveva rifulgere come in una cornice d’oro vivo sollevando ancora una volta agli onori del trionfo le imprese dei Crevalcore.
Intanto che Meme si preparava con animo trepido e commosso all’atto più importante della sua vita, con diversa commozione, certo più chiusa, forse più intensa, Renata desta anch’essa prima dell’alba e vestita, e pronta, interrogava il cielo attraverso i vetri della finestra.
La sua parte attiva era finita. Al pari di un condottiero che ha dato tutti gli ordini, che ha preso tutte le disposizioni e, percorso con occhio d’aquila il piano generale della battaglia, incrocia fieramente le braccia aspettando il destino, l’orgogliosa donna si componeva un aspetto impassibile e un cuore di bronzo che non dovesse venir meno nell’ansia snervante dell’attesa.
Nemmeno voleva cullarsi in progetti oziosi e soddisfazioni puerili come faceva suo marito, per il quale la grossa somma che era in giuoco rappresentava il godimento, mentre per essa voleva dire sopratutto la vittoria. Dei denari anticipati non aveva speso per sè un solo centesimo. O tutto o nulla, suonava il suo desiderio a cui la grandezza stessa del concepimento conferiva la nobiltà istintiva che è in fondo ad ogni opera ardita. E poichè ambiva la ricchezza non come fine ma come strumento di potere, era in lei la calma superba dei dominatori.
Quando credette giunta l’ora opportuna andò a raggiungere Meme in camera per aiutarlo negli ultimi preparativi della partenza e non le sfuggi il più piccolo particolare nè del suo contegno nè del suo abbigliamento. Fu con lui dolce, seria, materna; gli diede qualche consiglio per il viaggio, lo incuorò mostrandogli la magnanimità del dono di sè stesso che stava per fare.
La bàlia, col fiuto segreto di certi animali che sentono avvicinarsi la bufera, girava intorno a loro muta e palpitante, non osando interrogare, perplessa e triste per un oscuro presentimento.
La partenza per Venezia era fissata col treno delle undici. La precedette un leggiero asciolvere al quale intervenne anche Giacomo Dena, facendosi aspettare un poco, splendido nei panni nuovi che aveva finalmente potuto indossare dopo tanti anni di vita cenciosa.
Secondando i suoi istinti di bell’uomo e di antico artista, egli si era compiaciuto nella ricerca degli effetti, attenuandoli con una linea di serietà che doveva crescergli importanza e circondarlo di rispetto. I suoi capelli di un bel grigio uguale, folti, bene pettinati, gli si gonfiavano sulle tempie colla solita piega; ma pur essendo la solita, sembrava svolgere come un’onda più larga e più sicura formando arco al di sopra dell’occhio da cui lampeggiava tratto tratto un fascio di scintille.
Richiamati a tempo, i ricordi del palcoscenico erano accorsi volonterosi a prestare per una volta ancora a Giacomo Dena il portamento e l’incesso di un personaggio importante. Vestito bene e con nuovi denari in tasca che gli erano stati spediti da Scarpitti gli veniva una dignità naturale, una sicurezza di sè stesso che ne faceva un altro uomo.
— Vedrai — egli disse a Meme con una cert’aria di protezione — che bella città è Venezia.
— Non avrete molto tempo da vederla mi immagino, — replicò Renata, — poichè domani sera dovete essere ad Abbazia.
— È vero, ma potremo fermarci nel ritorno.
Così soggiunse Giacomo Dena, mentre una folla di pensieri giocondi si rincorreva dietro la sua fronte, e cento visioni lontane, dimenticate, credute morte per sempre, sorgevano a fargli tumultuare il sangue nelle vene. Con un movimento di intima compiacenza si stirò il panciotto sull’adipe appena nascente, e non ancora turpe, che una finissima stoffa inglese secondava con signorile armonia.
Renata a cui il gesto era noto gli lanciò uno sguardo obliquo carico di severi ammonimenti.
— Non importa, — pensò Giacomo Dena dondolandosi lieve sulla sedia, — mia moglie è una gran donna, sarei un asino a negarlo; però, che cosa avrebbe fatto se non ci fossi stato io?
La bàlia, servendoli a tavola in silenzio, osservò che Giacomo Dena mangiava molto, Renata poco, Meme quasi nulla. La signora le aveva detto in grande confidenza che stavano per ricuperare una parte delle loro sostanze, senza entrare in altri particolari; ma la bàlia che vedeva quel caro figliolo alle prese con una fiera lotta interna, non si accontentava della spiegazione e lo covava ardentemente cogli occhi cercando di indovinare. Disse alla fine con una passione che le fece piegare gli angoli della bocca:
— Ma se non mangia così non potrà viaggiare.
— Sono due ore appena, — rispose Renata. — Fra due ore, a Venezia, troverà tutto quanto gli occorre.
La bàlia sospirò.
Avvicinandosi l’ora della partenza, Meme incominciò a dar sintomi di inquietudine nervosa.
— È naturale, — disse ancora la bàlia, — non prese nulla!
Renata volle andare in persona a preparargli un cordiale. Giacomo Dena susurrò all’orecchio di sua moglie:
— Quando sarà il momento penserò poi io a metterlo in forze, non dubitare.
— Sei bene d’accordo con Scarpitti?
— Sì.
— Lo troverai alla stazione?
— Certo.
— Bada a non commettere imprudenze.
— Non ne avremo nè il tempo nè il modo essendo già tutto regolato come sai.
Questo breve dialogo avveniva tra i due complici intanto che Meme faceva gli ultimi preparativi.
— Sei pronto? — domandò Giacomo Dena accomodandosi con garbo sul braccio un elegante soprabito chiaro.
— Pronto! — rispose Meme.
Il timbro della sua voce sempre tremolante risuonò come lo squillo di una campanella spezzata. Renata gli si fece dappresso accomodandogli la cravatta, baciandolo sull’una e sull’altra guancia, sorridente e tenera.
Venne la bàlia e lo volle baciare anch’essa. Egli le mormorò piano all’orecchio:
— Prega per me.
— Prego sempre, figliolo.
— Più ancora.
— Lo farò.
— E.... prega per un’altra persona.
Quel tremulo soffio di voce gli morì in gola. La bàlia proruppe in uno scoppio di pianto.
— Andiamo, andiamo, — fece Giacomo Dena correndo giù dalla scala.
Renata, allontanando con un gesto la vecchierella, si affacciò al balcone per vederli partire.
— Hai l’astuccio? — gridò chinandosi sul parapetto.
I due uomini la rassicurarono entrambi con un gesto e sparvero subito all’angolo della via; prima Giacomo Dena, poi Meme che guardò ancora in alto a salutare la sorella.
In quell’istante decisivo, mentre si voltava l’ultima pagina del suo destino, Renata sentì il cuore che le si impietriva nel petto con una sensazione di freddo non mai provata. Più profonda di un sospiro, più paurosa di un pensiero, sorta da ignote latebre della coscienza lungamente rinchiusa, una domanda tentò il varco delle sue labbra: E se mi fossi sbagliata?...
*
— Non c’è che dire, si viaggia magnificamente in questi treni moderni. Ma vi sono sempre gli incontentabili che hanno bisogno di brontolare su tutto. Quelli meriterebbero le diligenze sconquassate di una volta, le strade impraticabili, i vetturini ubbriachi e un buon assalto per giunta. Ricorderò sempre il primo viaggio che feci, giovinetto appena, da Roma a Forlì nel mese di gennaio, con una nevicata che ci bloccò a mezza strada obbligandoci a passare la notte nel nostro cassone. C’era il ministro Peruzzi, buon’anima, e due sposini inglesi che non capivano una parola di italiano. Si pranzò con dei cioccolattini e con certe salsiccie piene di paprica che facevano arrossire fino al collo la sposina inglese; dico fino al collo perchè più in là non ne so nulla.
Soddisfatto del suo spirito, Giacomo Dena si abbandonò sui cuscini del vagone di prima classe che lo portava a Venezia. Egli parlava in apparenza a suo cognato, che per vero dire lo ascoltava distrattamente, ma gli occhi non si muovevano da una bella signora che gli sedeva dirimpetto. Si era già di soppiatto infilato sul mignolo un grosso brillante che non aveva voluto mostrare prima, temendo le osservazioni di sua moglie, e che ora girava e rigirava con sapiente manovra appoggiando la mano sulla portiera del vagone per presentarlo nella miglior luce.
— Ti senti bene? — domandò al cognato colla affettuosa previdenza della persona pratica che accompagna un inesperto. — Non ti viene aria da quella parte? Si può chiudere, sai.
Meme dichiarò che non gli veniva nessuna aria. Non c’era in lui la goffaggine del novizio che si meraviglia di tutto. Il suo spirito abituato alle astrazioni non era mai così completamente sulla terra da avvertire le piccole molestie che impressionano gli altri. Aveva poi per istinto, per atavismo, la serenità e la sicurezza del gran signore ed uno sprezzo profondo delle cose che formavano la felicità di Giacomo Dena. Egli non avvertiva neppure la differenza dei nuovi abiti che indossava, nè il lusso del vagone in cui si trovavano. Sembrava che tutto ciò che era fuori di lui e de’ suoi pensieri non potesse interessarlo. La sua realtà essendo il sogno, egli passava attraverso la realtà in attitudine di dormiente.
Giacomo Dena intanto aveva accavallato un ginocchio sopra l’altro mettendo in evidenza le calze di filo di Scozia e guardando sempre la signora colla fissità magnetica dell’uomo irresistibile, finchè il treno si arrestò a Rovigo.
— Abbiamo qualche minuto di fermata — disse a Meme — discendi?
Al cenno negativo di suo cognato s’avviò tutto solo verso il caffè della stazione col passo elastico della persona sicura di sè, delle proprie gambe, del proprio stomaco, della propria borsa. Ordinò una bibita, la più costosa, volendo rifarsi delle privazioni di tanti anni e la sorbì in piedi col mignolo della mano un po’ rialzato affinchè il brillante scintillasse.
Al momento di pagare rimosse con impazienza gli spiccioli che gli ingombravano il portafogli e gettò sul banco con un gesto largo un biglietto da cinquanta lire.
— Signore, — disse il caffettiere, — non ne ha di più piccoli?
— È il più piccolo che tengo, — rispose Giacomo Dena con una indifferenza superba.
Nel tempo che il caffettiere impiegò a cercare il resto in fondo alle sue ciotole, Giacomo Dena tratto un londres ne aspirava lentamente il fumo guardandosi in giro, caso mai ci fosse tra la folla dei viaggiatori qualcuno di sua conoscenza. Assai, troppe volte era stato costretto a rannicchiarsi per nascondere la sua miseria; egli ora rialzava il capo come un naufrago che avendo avuto l’acqua nella strozza respira finalmente l’aria pura. Gli avrebbe fatto un piacere immenso trovare qualcuno di sua conoscenza e a furia di guardare gli sembrava quasi di averlo scoperto in un povero scompartimento di terza classe: ma proprio allora suonò la campanella della partenza ed egli fece appena in tempo a saltare nella vettura privilegiata della quale un inserviente ferroviario gli teneva rispettosamente aperto lo sportello. Nè appena vi ebbe posto il piede che rivedendo la bella signora, immobile allo stesso posto in cui l’aveva lasciata, si voltò indietro a gettar via il sigaro intero come stava, e solo dopo avere compiuto questo gesto elegante prese lo slancio dinanzi a lei mormorando: Pardon.
Tra Monselice e Abano il panorama grazioso delle colline parve interessare Meme. Avvezzo ai malinconici orizzonti di Ferrara, quel sorriso di poggi verdi e fioriti gli penetrava per la vista al cuore portandovi una grande dolcezza. Lasciava errare lo sguardo sugli alberi fuggenti, sui nastri sinuosi dei sentieri, sulle umili case sparse senza formulare nessun pensiero concreto, sentendo passare sul suo volto le carezze della vita.
A un certo punto il cimitero di un villaggio si presentò tutto a un tratto colle sue croci meschine, colle poche lapidi sulle quali correvano al sole le lucertole. Peuh! — fece Giacomo Dena con un movimento di disgusto. — Meme invece sorrise. Anche dalle croci, anche dalle pietre abbandonate gli veniva sull’ali del vento la sensazione di una misteriosa carezza.
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Una fermata ancora a Padova. Questa volta Giacomo Dena si accontentò di scendere sul marciapiede della stazione accendendo un secondo sigaro e dando aria alle pieghe del panciotto dove si nascondeva con soverchia modestia una grossa catena d’oro. Un signore che passava, in seguito ad alcuni minuti di esitazione, lo riconobbe e lo salutò senza smettere di esaminarlo minuziosamente, quasi non credendo ai propri occhi.
— Come! come! sei davvero Giacomo Dena?
— In persona, — rispose Giacomo Dena rizzandosi leggermente sulla punta dei piedi, raggiante.
— Quasi non ti riconoscevo.
— Eh! gli anni passano.
— Non per questo.... oh! al contrario, ti trovo sorprendente di conservazione. Vai a Venezia?
— Sì. Viaggio con mio cognato il marchese di Crevalcore.
— Caspita! — fece l’altro arretrando di due passi per guardarlo meglio.
Giacomo Dena avendo pronunciato a voce alta “mio cognato il marchese di Crevalcore„ godeva ora insieme alla sorpresa dell’amico la curiosità ammirativa o gelosa delle persone che gli stavano vicine. Chi lo sa se aveva inteso anche la bella signora?
— Allora.... buon viaggio e a rivederci.
— Addio caro! — gli gridò dietro Giacomo Dena salutandolo ripetutamente colla mano gemmata.
Il treno riprese la corsa verso il mare.
— Tra poco ci siamo — affermò Giacomo Dena.
Meme ebbe un sussulto di commozione quando intravide i primi banchi di sabbia sulla laguna e da lontano, fra lo specchio delle acque, le vele rosse delle paranze. Già il fascino di Venezia lo avvolgeva tiepido e molle, così somigliante a un dolce incantesimo femminile; ma quando vide spuntare sulla leggiera nebbia dell’orizzonte i campanili della città fu ripreso dalla inquietudine, ed era tanta la vibrazione de’ suoi nervi che si ritrasse in fondo al vagone per raccogliersi un istante e per calmarsi.
Intanto, dalla folla agglomerata intorno al cancello di uscita verso la città, una piccola forma nera si spiccò guizzando e venne incontro ai due viaggiatori. Era un ometto dall’età incerta, dal volto sbarbato, dalla pelle bronzina, dagli occhi neri e lucenti come capocchie di spillo; tutto nero lui, tutti neri gli abiti; solamente quando aperse la bocca sorridendo una larga bianchezza apparve sotto forma di due enormi rastrelliere d’avorio e da tale improvviso contrasto il volto dello sconosciuto sembrò ritrarre una espressione ancora più lugubre.
— Scarpitti! — esclamò Giacomo Dena muovendogli incontro con vivacità.
I due uomini scambiarono una stretta di mano energica e lunga.
— Presento il marchese di Crevaleore, mio cognato. Il cavaliere Scarpitti, il mio migliore amico.
Meme salutò con indifferenza; l’altro, previa una profonda scappellata, gettò uno sguardo diffidente su tutta la persona dell’ignoto che doveva rappresentare una così gran parte nella commedia da lui iniziata.
— Che te ne pare? — gli mormorò all’orecchio Giacomo Dena.
Scarpitti si strinse prudentemente nelle spalle.
— Parleremo poi. Ora andiamo all’albergo.
Una gondola li aspettava; vi salirono tutti e tre. Durante il tragitto i discorsi furono incerti e scuciti. Scarpitti sorvegliava Giacomo Dena che non era ancora riuscito a prendere la nota giusta nella imminenza della grande battaglia e saltava dal serio al faceto in cerca d’equilibrio. Meme, solo, semplice, puro, fidente, teneva gli occhi fissi sui gorghi che si allargavano intorno al fragile legno tessendo nuove chimere. Vedeva egli forse in fondo alle onde verdi la sirena dell’Adriatico eternamente giovane o vedeva le tombe dei tanti amori che vi giacciono sepolti e sentiva piovergli in cuore le lagrime millenarie delle grandi passioni infelici?
Poco tempo dopo, avendo lasciato Meme all’albergo, i due amici avviandosi verso una piazzuola deserta discorrevano liberamente.
— Tutto è dunque combinato?
— Sì, ma il principe insiste perchè la breve cerimonia si compia subito appena arrivati.
— Sarà a notte fatta.
— Appunto. È l’ora che si preferisce quasi sempre per tal genere di matrimoni. Si resta più al sicuro degli importuni.
— Dopo dieci ore di viaggio!
— Press’a poco. Partiamo alle 13.45 e passando da Portogruaro, Cervignano, Monfalcone, Nabresina, si arriva ad Abbazia alle 21.47. Una buona carrozza ci porterà in mezz’ora a Villarosa dove tutto è pronto. Ma tu dici che il marchese non sa nulla del contratto. Ne sei sicuro?
— Come di me stesso. Bisogna conoscerlo per sapere che tipo fuori del mondo....
— Sta bene, ma non farà sciocchezze? — interruppe Scarpitti in tono asciutto.
— Non saprei.... Tu detta quel che dobbiamo. Egli è già preparato ad un contegno di estrema riserva, il quale poi combina perfettamente col suo carattere. Piuttosto sei sicuro che i denari li consegneranno a te e non a lui?
— Questa fu la cosa più facile a ottenere e piacque anzi tale simulacro di disinteresse. Del resto sarai presente. Ho già avvertito che il marchese arriverà accompagnato da un congiunto. Stabilite tutte le regole, rimosse tutte le obiezioni, le parole da pronunciare si riducono a ben poche. Appena articolato il gran sì, noi raggiungiamo la nostra carrozza e tutto è finito.
— Ah! — fece Giacomo Dena sospirando — quando avremo finito davvero sarò più contento. E, dimmi, del romanzo imperiale non è trapelato nulla?
Scarpitti si strinse nelle spalle.
— Fuori non udii alludervi mai. A Villarosa furono licenziati già da mesi i domestici non perfettamente sicuri. Credo che ora ci stia appena una mezza dozzina di vecchi servitori al comando della baronessa di Saint-Hilaire. Nè il principe nè sua figlia non si vedono affatto.
— E alla Corte del Kronprinz?...
— La Corte è lontana e tutta occupata nei preparativi per ricevere la granduchessa Anna.
— Ecco due matrimoni abbastanza singolari, — sentenziò Giacomo Demi. — Chi sa che quello combinato da noi non sia nemmeno il più da compiangere.
— Se non altro, — soggiunse Scarpitti mostrando il suo riso sinistro, — gli sposi non avranno tempo da litigare.
Giacomo Dena si provò anche lui a sorridere, ma lo sforzo gli riuscì male.
Se durante le distrazioni del viaggio il suo spirito aveva potuto brillare nelle faccette iridescenti di un ben pasciuto ottimismo, ora, prossimo al passo fatale, sentiva la mancanza di sua moglie. Per il primo istante da che aveva lasciato Ferrara pensò a lei desiderandola con un sentimento misto di ammirazione e di timore. Le sue ultime parole lasciandolo, la raccomandazione di non commettere imprudenze, gli tornarono alla memoria.
Rientrato all’albergo trovò una lettera di Renata, una lettera che aveva viaggiato con lui, ausiliario nascosto e fedele, e che veniva ad incoraggiarlo proprio nell’istante in cui stavano per venirgli meno le forze.
— Che donna! — mormorò rialzandosi prontamente dall’abbattimento ed accarezzandosi i capelli col gesto fatuo che accompagnava sempre in lui un’impressione piacevole. — Che grande donna!
*
La notte di giugno era tiepida, piena di molli fragranze.
Una berlina chiusa tirata da due buoni cavalli percorreva la strada di sogno che conduce da Abbazia a Villarosa costeggiando da un lato il mare, dall’altro un seguito non interrotto di giardini fioriti e di boschi di lauro.
Il paesaggio ravvolto nell’incantesimo speciale delle notti lunari estive appariva quasi magico ai viaggiatori rinchiusi nella berlina. Ogni tanto era la testa ben pettinata di Giacomo Dena che si affacciava allo sportello guardando fuori per rendersi conto della via percorsa; ogni tanto erano gli occhi troppo lucidi e troppo neri di Scarpitti che sbirciavano sospettosi le ombre della strada; ma più spesso Meme, sfuggendo istintivamente il contatto immediato de’ suoi compagni di viaggio, aspirava attraverso il piccolo vano l’ebbrezza immateriale dell’aria passata su tanto spazio di mare.
Egli occupava il posto d’onore in fondo alla carrozza, a destra. Era calmo, un po’ stupefatto, pronto. Il pensiero di rivedere Elganine fra poco e in condizioni tanto mutate da quando gli era apparsa come una visione di cielo, questo pensiero che da oltre un mese era diventato sangue del suo sangue e midollo delle sue ossa, aveva preso così bene la forma di tutto il suo essere, che non era nemmeno più un pensiero ma il senso riposto della sua vita, la sua stessa ragione di vivere.
Congiunto a lei per sempre!... congiunto non nella gioia fuggevole dell’istante ma nella indissolubilità del futuro, congiunto perchè lontanamente negli anni, forse portato avanti nei secoli, il figlio di Elganine si sarebbe chiamato marchese di Crevalcore.
E lei, la dolce fanciulla che non poteva amarlo d’amore, quale sentimento nuovo gli serbava in fondo al cuore?
La rinuncia assoluta a tutti i diritti di marito, rinuncia che egli si preparava a sottoscrivere con slancio come quella che gli permetteva di sollevare gli occhi e guardarla in volto senza arrossire, quali orizzonti gli apriva? Fosse un solo sentimento, e neppure di gratitudine ma di semplice pietà; fosse un moto spontaneo del cuore; fosse un lampo di simpatia fraterna.... non più, non più; così poco gli sarebbe bastato ad iniziargli una seconda esistenza. Tutto il resto lo avrebbe trovato in sè stesso, rassegnazione alla lontananza, voluttà del sacrificio, forza di combattere, fede e costanza al suo ideale.
— Ecco, — egli pensò guardando la distesa del mare che palpitava sotto il raggio della luna simile ad argento fuso e la conca soave dei colli che vi facevano corona, — questi monti, queste acque, questo cielo contengono chi sa quanti de’ suoi sospiri! O mia Elganine, mia nell’anima, mia nel tempo e nella eternità, mia per un atto d’amore superiore a tutti gli amori della terra, Elganine, creatura del mio desiderio, quale ti sognai io ti ebbi!
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Giacomo Dena osservò che Meme aveva reclinato la testa sopra una mano e credendolo stanco ne volle rispettare il riposo; avvicinandosi all’orecchio di Scarpini gli domandò a voce bassa se mancava ancor molto ad arrivare a Villarosa.
— Dovrebbe essere vicina, — rispose Scarpitti sullo stesso tono, — quantunque ti confesso che la strada mi sembra questa volta molto più lunga del solito.
— Effetto della notte forse.
— Forse.
Il silenzio si rifece perfetto nell’interno della berlina. I tre uomini che vi stavano rinchiusi, se pure avevano un interesse comune e vivissimo, rifuggivano dal parlare. Ognuno di essi era un mondo apparentemente equilibrato sul medesimo asse degli altri due, ma vivente di un organismo proprio, con un diverso carico di pensieri vaganti per vie opposte ad opposte brame. Solo Giacomo Dena di tratto in tratto respirava pesantemente, come colui che meno sapeva sopportare l’angustia della prigionia.
A un certo punto i cavalli svoltarono in un sentiero ombroso lasciandosi dietro il mare e con esso la luce. Sotto il fitto delle piante riccamente intrecciate, dove non penetrava raggio di luna, la carrozza procedette cautamente rischiarata appena dai propri fanali.
— Siamo giunti?
— Non ancora, ma quasi.
Un brivido passò nell’oscurità accanto ai tre uomini. Scarpitti si levò in piedi.
— Vedi qualche cosa? — domandò Giacomo Dena.
— Nulla. Ah! sì, là in fondo, un lume.... Deve essere una finestra della Villa.
— Una finestra appena?
— Che! — fece Scarpitti con ironia beffarda. — Ti aspettavi forse dei fuochi di Bengala?
Meme non parlò. Si compresse il cuore colla mano sbarrando le pupille nella notte nera.
Giunsero finalmente. Il rumore delle ruote sulla ghiaia li avvertì che la carrozza entrava nel viale di ingresso. Chi avesse visto in quel momento Giacomo Dena si sarebbe spaventato del colore terreo del suo viso.
Due fanali erano accesi dinanzi alla Villa; un domestico venne incontro alla carrozza guidandola verso un rialzo di pochi gradini che dava accesso al pian terreno e senza dir nulla spalancò una porta.
Si presentò allora allo sguardo dei viaggiatori una specie di galleria di vetro sobriamente illuminata, attraversando la quale il domestico li condusse sempre in silenzio a un salotto meno illuminato ancora, quasi cupo nella volta altissima e negli scarsi mobili di un gusto severo. Qui rimasero soli.
— Non è molto ospitale il principe — borbottò Giacomo Dena.
Scarpitti gli fece un cenno per significargli che non era opportuno fare commenti. E stettero in piedi tutti e tre nel mezzo dell’ampio salotto guardando ora le ombre che si infoltivano negli angoli, ora la lucerna protetta da paralume verde che disegnava un rotondo di luce sul piano di una scrivania sulla quale un calamaio e pochi fogli di carta giacevano in aspetto provvisorio, appena posti lì, evidentemente, per la circostanza. Non si udiva intorno nessun rumore, non un passo, non una voce; la Villa sembrava disabitata. In fondo al giardino, verso il bosco, una civetta faceva udire a intervalli il suo lugubre strido.
La sensazione di malessere che pesava sopra quegli uomini riuniti in causa di un losco affare da una parte e di una sublime illusione dall’altra, riuniti ma non fusi, ma incompatibili tra loro, in quell’ambiente di mistero, col terribile ignoto che li attendeva, stava per divenire insopportabile, quando una porta si aprì silenziosamente dietro ad essi e un vecchio signore entrò frettoloso cercando cogli occhi. Scarpitti lo riconobbe; era colui col quale aveva già dibattuto i capitoli del contratto.
— Signor barone — disse inchinandosi ossequiosamente — ho l’onore di presentarle il marchese di Crevalcore.
Un’occhiata indefinibile, un moto nervoso delle labbra, un cenno del capo breve e altero. Null’altro.
— Il signor Dena, cognato....
Colla mano il barone tagliò corto a questa seconda presentazione. Sembrava che il parlare gli costasse assai, ma facendo uno sforzo disse con voce gutturale ed accento straniero:
— Il signor marchese è invitato a seguirmi.
Ciò dicendo riaperse e tenne schiusa colla sommità delle dita la porta per la quale era entrato. Meme si mosse e i suoi compagni fecero atto di seguirlo.
— Domando scusa, è il marchese che deve passare. Loro signori sono pregati ad attendere qui.
— Ma il congiunto almeno — balbettò Scarpitti — come testimonio....
— Non occorre. Abbiamo provveduto a tutto. Quanto a....
Giacomo Dena diede un balzo temendo che il barone si mettesse a parlare del denaro in presenza di Meme e soggiunse con pronta remissione:
— Benissimo, benissimo. Noi due attenderemo il ritorno di vostra Signoria.
Meme intanto era passato innanzi. Il barone si volse e disse gelidamente:
— Fra dieci minuti sarà qui l’incaricato colla somma.
L’uscio si rinchiuse.
Meme seguì lo sconosciuto per un lungo ordine di stanze e di corridoi fino allo scalone che conduceva al piano superiore. Dovunque la luce era misurata allo stretto bisogno e dovunque regnava il più assoluto silenzio.
Prima di salire, colui che Scarpitti aveva chiamato il signor barone si fermò, parve esitare un istante cercando la frase e poi disse:
— Suppongo che il signor marchese sia edotto della situazione precisamente come è, per cui possiamo risparmiare inutili e penosi particolari. La sua presenza qui mi dice che ella accetta le condizioni poste dal principe. Va bene? Accetta?
Da tale premessa, Meme non poteva intendere altro che i riguardi dovuti alla sventurata fanciulla che moveva a sì malinconiche nozze. Rispose con slancio:
— Tutto mi è indifferente. Vengo solo per mantenere la mia parola.
Il barone colla testa leggermente gettata indietro lo guardò per un istante come se avesse udito accento e parole contrarie a ciò che si aspettava; un sorriso impercettibile misto di finezza diplomatica e di sarcasmo gli increspò le labbra mentre cedeva il passo al marchese sull’ampia gradinata di marmo in cima alla quale aspettava, muto come una statua, lo stesso servitore che era andato incontro alla carrozza.
Barone e marchese attraversarono alcune sale magnifiche che Meme non vide neppure ed entrarono in una più piccola dove due persone che stavano parlando si interruppero prontamente al loro apparire. Erano in piedi nel mezzo della sala: Meme riconobbe il principe in un signore dalla statura alta, dalla fisionomia aristocratica, coll’occhio altero e penetrante sotto la fronte solcata da uno straziante pensiero: un altro signore più vecchio, dal rigido portamento militare, con un nastro all’occhiello e la chioma e i baffi interamente bianchi. Meme li scorse appena come ravvolti in una nebbia.
Il barone fattosi innanzi pronunciò con un tono di voce molto dimesso: Il marchese di Crevalcore.
Nessuno fiatò. Due fronti si piegarono lievemente. A voce più bassa ancora, come si trattasse di una comunicazione privata, il barone disse a Meme senza indicarli: il principe Bazwill, il generale von Keptz.
Meme non si era ancora riavuto, nè ancora aveva preso possesso dell’ambiente quando il barone domandò:
— I signori sono pronti?
Il principe si scosse a quelle parole, quasi fosse anch’egli stordito da un sogno di incubo e tentando di padroneggiare un troppo visibile disgusto si volse verso Meme:
— Tocca al signor Marchese.
— Io! — fece Meme a cui quella accoglienza glaciale stava suscitando idee nuove non mai avute.
Intervenne il barone a spiegare:
— Il signor Marchese ha già dichiarato di accettare tutte le condizioni poste al matrimonio, per cui, omettendo di ritornare su fatti ed accordi già noti si può passare immediatamente alla cerimonia.
— Ma non vedo la sposa — disse Meme animato da un improvviso coraggio che gli veniva dal trovarsi per la prima volta nella piena responsabilità di sè stesso.
Il principe aggrottò le ciglia come se quella parola “sposa„ gli avesse trapassato il cuore. Il generale gli disse qualche cosa in una lingua straniera che parve calmarlo alquanto e il barone spiegò a Meme:
— La sposa entrerà coll’ufficiale di stato civile; passeremo poi nella cappella per la cerimonia religiosa.
— Egli è che — mormorò Meme soffermandosi con una pausa di lieve imbarazzo — avrei un piccolo dono da presentare....
A tale annuncio imprevisto il barone ebbe duopo di tutto il dominio che possedeva sopra sè stesso per non scattare in una esclamazione violenta. Ricorse invece al suo solito sorriso sarcastico:
— Ma le pare? — disse — Un dono? Sarebbe il colmo dell’ironia.
Meme non ebbe tempo di cercare fra sè il senso di quelle parole oscure, nè di chiederne la spiegazione, perchè entrava allora Elganine e tutta la sua anima rimase sospesa a quella vista.
Elganine, ravvolta in un fitto velo, si appoggiava al braccio della baronessa di Saint-Hilaire che la fece sedere subito mentre, serrandola come dentro una barriera, le si ponevano ai fianchi il principe, il generale e il barone. Nello stesso momento l’ufficiale di Stato Civile, seguito dal suo segretario, prendendo posto presso un tavolino, apriva il Codice.
Meme, rimasto solo dall’altra parte, ebbe l’impressione di precipitare in un abisso. Sentiva dell’abisso il freddo, la vertigine e quel misterioso potere del vuoto che mentre lascia viva la percezione della caduta paralizza tutte le forze di reazione. Dove era? Chi erano quelle persone nemiche? Che cosa volevano da lui? Perchè lo avevano chiamato? Una terribile confusione certo era avvenuta. Occorreva spiegarsi. Elganine era là.... lei sola poteva dissipare tutte le ombre. Perchè non parlava? Perchè non veniva in suo aiuto? Gli sarebbe bastato uno sguardo.
Ah! di Elganine non si scorgeva che la massa bianca del velo accasciata sulla poltrona, seminascosta dagli uomini che le stavano intorno coll’evidente intenzione di custodirla, di segregarla, quasi di difenderla dalla presenza del marchese.
Ciò era troppo. Il sentimento della sua dignità e del suo diritto si faceva strada nella mente di Meme attraverso la lunga abitudine della remissione. Tolto alla sua vita di chiostro e sbalzato repentinamente in una oscura battaglia, gli veniva da intime sorgenti la rivelazione di un vigore insospettato, come se col titolo nobiliare della sua famiglia ne avesse ripreso il carattere di fierezza e di forza e il suo debole braccio si irrigidisse sull’impugnatura di una spada.
Ma intanto che il cozzo delle nuove idee preparava nell’animo del timido Meme la nascente personalità del marchese di Crevalcore, l’ufficiale di Stato Civile leggeva agli sposi gli articoli di legge. I fatti dunque si svolgevano precipitosi davanti a’ suoi occhi, quegli occhi che non potevano vedere perchè coperti dalle folte bende dell’inganno.... Si agitò allora come per parlare, per rompere il maligno incantesimo di quella scena, e già aveva fatto un passo verso il rappresentante della legge, quando costui pronunziò la frase di rito: Acconsente il signor marchese Alfonso di Crevalcore a prendere per sua legittima consorte la signorina Bazwill? Un gemito soffocato uscì dall’ammasso dei veli e fece balzare il cuore di Meme. Non sapeva che cosa avrebbe risposto al Codice, all’uomo della legge, ma a quel gemito della donna cara, una sola eco di consenso egli poteva dare e la diede: Sì.
Un istante dopo udiva la voce di lei tutta tremante pronunciare la medesima solenne promessa e allora veramente credette di venir meno. Con una commozione straordinaria si accinse a firmare l’atto. Elganine intanto si era alzata e moveva lentamente a porre la sua firma, come vuole la regola, subito dopo quella della sposo. I loro occhi si incontrarono. Che cosa lesse Meme nelle dolci pupille arrossate dalle lagrime, smarrite nell’inseguimento di un folle sogno?... Più ratto del pensiero egli si chinò e sul lembo estremo del velo che avvolgeva la cara donna depose un bacio che volle essere nello stesso tempo ringraziamento e dedizione.
Il principe stava firmando a sua volta e non vide l’atto; si accorse di qualche cosa di insolito il generale von Keptz e venne direttamente alla volta di Meme. Meme, in estasi, fraintendendo la mossa, credette che essendo il generale uno dei testimoni e non parlando la lingua italiana intendesse con una stretta di mano silenziosa di compiere un dovere di cortesia, per cui fu pronto a stendergli la destra; ma quale non fu la sorpresa di Meme nel vedere che il generale ritirava la sua!... Esasperato per la rete inesplicabile che lo circondava, che sembrava moltiplicare intorno a lui i fili di una ignota congiura, come uomo che dopo avere ricevuto una mazzata gira su sè stesso prima di cadere, Meme ancora colla destra tesa si fece incontro al barone che terminava in quel momento di apporre la sua firma di secondo testimonio; ma anche il barone scansandosi si rifiutò alla stretta.
Un fiotto di sangue salì alla testa del marchese di Crevalcore.
— Signor barone — egli disse con una voce che non sembrava più la sua — a lei, che primo mi venne incontro in questa casa dove io entrai fidente a portare l’onorabilità del mio nome, domando spiegazione della accoglienza inqualificabile che mi si fa.
Rispose freddamente il barone:
— Signor marchese, io non le devo spiegazione alcuna. Sono libero di scegliere le persone a cui voglio stringere la mano.
— Sarà allora una soddisfazione che dovrà darmi! — esclamò con voce ancor più vibrata il marchese di Crevalcore.
Riapparve sulle labbra del barone il sorriso sarcastico, mentre il generale smaniava nella sua lingua straniera, ma più pronto di essi si fece innanzi il principe misurando Meme da tutta l’altezza della sua statura e del suo orgoglio.
— Basta, signor marchese — disse con purissimo accento italiano. — Ella dovrebbe comprendere che le sue pretese sono affatto fuori di posto. Non tocca a lei abusare di una situazione già penosa per tutti. La prego di seguirci nella cappella per la funzione religiosa.
— Io non muoverò un passo se prima non mi si dànno le spiegazioni richieste.
Così rispose con ferma attitudine il marchese di Crevalcore, sì che il barone scattando d’ira esclamò:
— Ma che spiegazioni! Ella è qui per un contratto e non per altro.
— Io sono anzitutto un gentiluomo in casa di gentiluomini e domando di essere trattato da par mio.
— Da par suo!... — scattò ancora il barone con un ghigno beffardo.
Di nuovo fu il principe che intervenne.
— I nostri accordi, signor marchese, si limitano ad uno scambio di servigi. Mi è doloroso rammentarglielo, ma vi sono obbligato dal suo contegno per non dir altro singolare.
— Uno scambio! — fece Meme al colmo dello stupore; e volgendosi verso Elganine con uno spasimo di tutta la persona, mormorò: — Ma le mie lettere!... le lettere sue!...
— Quest’uomo è pazzo — disse il barone.
Meme, per il primo momento da che era in quella casa, dovette brancicare a tentoni una sedia e vi cadde sopraffatto dall’inestricabile intrigo che lo avvolgeva e nel quale ad ogni sforzo fatto per uscirne sembrava affondare di più.
— È tutta una commedia — dichiarò il generale mettendo insieme a stento queste parole in italiano per colpirne direttamente colui a cui erano rivolte.
— Non ne vedo però lo scopo — soggiunse il principe.
— Sarà per farsi dare dei denari in più — disse ancora il generale — e non essendo riuscito a trovare la frase italiana che corrispondesse al suo sospetto ingiurioso la completò con un gesto di sommo disprezzo.
Nel medesimo istante, quale larva che esce da un sepolcro, Elganine si rizzò in piedi più bianca del velo che la ricopriva e movendo verso il principe in atto pietoso mormorò:
— Padre mio, egli un giorno ci ha salvata la vita!
Meme intese le dolci parole e quasi rianimato da una forza sovrumana, quasi da lei gli venisse la luce e la verità:
— Signora — implorò supplichevole — per la fede mia, per il mio amore senza speranza, la scongiuro a togliermi da queste tenebre dove la mia ragione si smarrisce.
— Lo sapevo bene — concluse fra i denti il barone.
— C’è forse un equivoco — soggiunse Elganine continuando nella sua opera di femminile pietà — di quali lettere ella parla?
— Ma di quali lettere potrei parlare se non di quelle che mi indussero a venire qui, le sue?
Il principe impazientito di ciò che gli sembrava un vaniloquio fece per intervenire.
— Abbi pazienza padre mio, ascoltiamolo — disse la soave fanciulla e volgendosi a Meme collo sforzo maggiore del suo buon cuore, colla maggiore dolcezza della sua voce: — Ella si inganna, signor marchese, io non le ho mai scritto.
— Non mi ha mai scritto?... E le lettere che io le risposi?
— Io non ho mai ricevuto una sua lettera.
— È pazzo, è pazzo — tornò a dire il barone.
— E allora — Meme dopo di essersi stretta la fronte fra le mani, cogli occhi che gli schizzavano dall’orbita si piantò davanti al principe, — allora chi mi ha chiamato?
L’espressione del suo volto era terribile di forza contenuta. Il principe non sapendo oramai più che cosa pensare, smarrito egli stesso, tratto dalle parole di Elganine a rammentare in quale circostanza eroica aveva incontrato per la prima volta il marchese, balbettò confuso additando il barone:
— È il mio amico barone de Tolle che si incaricò di trattare direttamente col signor Scarpitti.
A questo nome un raggio di luce diabolica balenò nella mente stanca di Meme. Scarpitti! Giacomo Dena!... Balzando all’uscio e aprendolo, prima che nessuno pensasse a trattenerlo, scese le scale a volo cercando di raggiungere i suoi compagni nella sala a pian terreno dove li aveva lasciati; ma nella corsa forsennata trovossi al buio, si smarrì, ed i suoi urli disperati rimbombarono in tutta la casa come una squilla d’allarme.
Poco tempo dopo il domestico lo riaccompagnava di sopra affranto. Scarpitti e Giacomo Dena alle prime grida udite erano saltati in vettura allontanandosi dalla Villa.
Spietato fino all’ultimo, il generale sibilò all’orecchio del barone:
— Ditegli almeno che il milione lo hanno ricevuto. Così avrà fine la commedia.
*
Pallido come un morto, il marchese di Crevalcore si ripresentò alla sposa. Ma non era la sua una pallidezza da pusillanime; sul volto cereo gli occhi gli brillavano febbrilmente e sulla fronte e intorno alla bocca una attitudine nuova di fierezza e di forza gli aveva posto un suggello di misteriosa bellezza. Tuttavia il principe osservò se in quello stato d’animo conveniva procedere alla cerimonia religiosa o se non fosse meglio attendere.
— No — disse Meme — si compia ciò che deve compiersi. Domando solo pochi istanti di colloquio. Il signor principe parlava poco fa di un contratto stipulato col signor Scarpitti. Desidererei sapere di che cosa si tratta.
— Signor marchese....
Il barone interruppe con impeto:
— Ma se il contratto porta la sua firma!
Una calma marmorea, una veggenza quasi soprannaturale investivano Meme, come se qualcuno nel buio gli reggesse una fiaccola davanti alla quale cadevano una dopo l’altra le ombre e la via da percorrere gli si disegnasse dinanzi netta.
— Vuole avere la cortesia di mostrarmelo?
La fermezza colla quale questa domanda era stata posta consigliò al barone una condiscendenza che certo non avrebbe avuto alcuni istanti prima. Il contratto non era lontano e Meme poto leggerlo testualmente:
“Alfonso Maria Ercole Luigi marchese di Crevalcore qui sottoscritto acconsente a sposare coi riti civile e religioso la signorina Elganine principessa Bazwill ed a riconoscere il figlio nascituro col patto già dibattuto ed accettato d’ambe le parti, di allontanarsi immediatamente compiuta la cerimonia, rinunciando a qualsiasi convivenza od altro diritto maritale ed impegnandosi con parola d’onore a non più rivederla.
“Marchese di Crevalcore.„
— Ebbene?
— Scusi, signor marchese, c’è una postilla. È abbastanza singolare che ella l’abbia dimenticata.
Meme tornò a leggere:
“Il signor principe Anatolio Bazwill qui sottoscritto si impegna a consegnare al signor marchese Crevalcore od a chi per esso all’atto del matrimonio civile la somma di un milione. Più a corrispondere al detto signor marchese vita natural durante la somma annua di cinquantamila lire.
“Principe Anatolio Bazwill.„
— Siamo noi che le domandiamo che cosa pretende ancora poichè il milione fu or ora consegnato al signor Scarpitti.
La calma di Meme subentrata al primo accesso di indignazione era spaventosa. Solo chi lo avesse guardato da vicino avrebbe potuto scorgere piccole stille di sudore freddo che gli imperlavano le tempia. Piegò la carta e la rese al barone de Tolle senza guardarlo. Disse poi rivolto al principe:
— Sono vittima di una congiura infame.
— Tuttavia — rispose il principe — ella venne qui insieme al signor Scarpitti.
— È vero — Meme si passò la mano sulla fronte — tutte le circostanze sono contro di me, ma è con me la sincerità delle mie azioni e di nulla temo. La signora — si volse a Elganine — dichiara di non avermi scritto?
— No, signor marchese, non le scrissi mai.
— E non ricevette nessuna lettera mia?
— Nessuna.
Meme penetrava lentamente ma con sicurezza nel complotto che era stato organizzato contro di lui. Mi hanno venduto per due milioni — pensò con amara ironia — un po’ più caro di Gesù Cristo, non posso lagnarmi. — Vide in fondo al quadro della fosca congiura il volto enigmatico di sua sorella?... o questa tortura gli fu risparmiata e soli emersero dinanzi al suo disprezzo Giacomo Dena e Scarpitti?...
Quel non so che di grandioso e di fatale che si andava formando intorno all’umile figura di Meme imponeva involontariamente il rispetto. Il generale borbottava ancora in un canto crollando la testa canuta, ma nè egli nè alcuno dei presenti osarono contendergli il passo quando quell’uomo nuovo si accostò ad Elganine e dolcemente a voce bassa le fece questa confessione:
— I miei documenti non sono con me, ma se le parlo come parla un uomo prossimo a morire ella mi crederà, nevvero? Ella crederà se le dico che fin dal primo momento che la vidi, forma compiuta del mio più ardente ideale, l’amai; l’amai perchè bella, pura ed inarrivabile, perchè fra me e lei non c’era posto che per un sogno. E come i sogni appena delineati debbono ritornare all’arcano da cui vennero, io anelai di morire col sogno mio. Quando una lettera (vano è ora il cercare chi scrisse quella lettera poichè essa fu il primo nodo che mi avvinse alla trama iniqua) una lettera sua rivolgendosi al mio onore, alla mia fede (come non potevo credere anche all’amor mio!) mi chiese la sola cosa che io possedessi, il nome che i miei avi mi tramandarono dai secoli, potevo esitare? potevo dubitare?...
— Un falso! — esclamò Elganine al colmo dello stupore.
— E così — interruppe il principe accigliato e preoccupato dalla via straordinaria che prendevano le cose — ella nega di avere conosciuto i patti di retribuzione per il nome da lei offerto a mia figlia?
— Lo nego — disse il marchese di Crevalcore alzando fieramente la fronte.
Nessuno dei presenti davanti a un simile fermo contegno ebbe il coraggio di affacciare i suoi dubbi, ma il barone e il generale discutevano animatamente fra loro:
— Questo italiano è un commediante consumato — persisteva a dire von Keptz.
— E se non è un commediante consumato — ribatteva de Tolle — è un eroe.
— Signor marchese — continuò il principe sordamente irritato e nervosissimo — posso domandarle in seguito alla sua dichiarazione che cosa ella intende di fare?
— Il mio dovere — rispose Meme senza esitanza — è di compiere la promessa che feci sia pure mascherata e travisata dall’inganno. Eccomi pronto. Respingo il contratto del quale ignoravo l’esistenza, ma confermo la spontanea dedizione di me stesso.
— Io potrei rifiutarla.
— Troppo tardi, signor principe. Il matrimonio è compiuto.
— Come si può accettare tale sacrificio? — esclamò Elganine commossa fino alle lagrime e sempre sospettosa.
— Pensando — rispose Meme con straordinaria dolcezza — che l’ho desiderato e sospirato tutta la vita.
— Ella sottoscrive però i patti del contratto, naturalmente? — chiese il principe inquieto.
— Sì, confermo il dono del mio nome a mezzo del matrimonio e la rinuncia a tutto il resto.
— Alla convivenza, ai rapporti sì vicini che lontani.... — insistette il principe.
— A tutto, le ho detto, signor principe.
Il marchese sottolineò queste parole con una ironia altera che parve agitare nell’aria uno staffile invisibile.
— E....
Il principe esitava, spinto fra le due correnti contrarie, di riconoscere la buona fede del marchese o di ritenerlo un furfante matricolato. Meme che lo vide ondeggiare non ben sicuro e prossimo ad una domanda che lo avrebbe offeso profondamente, lo prevenne:
— E basta. Io scomparirò così bene dopo la cerimonia che ogni dubbio sopra di me, se tuttavia le rimane, sarà dissipato.
— Ma il milione è al sicuro — pensò ancora il generale.
— Credo di interpretare il desiderio di ognuno di noi — disse il principe — ponendo fine a questi discorsi penosi. Poichè il signor marchese è disposto a continuare la cerimonia considerando come non avvenute le rivelazioni occorse, possiamo passare nella cappella.
Una cameretta attigua era stata provvisoriamente trasformata in cappella con un altare nel mezzo ed un sacerdote stava già aspettando rivestito dei paramenti sacri. Vi entrò il principe accompagnando sua figlia, il marchese la baronessa di Saint Hilaire; de Tolle e von Keptz venivano in seguito.
Di tutte le persone presenti sulle quali più o meno la grande dignità del marchese di Crevalcore aveva fatto impressione, nessuna come Elganine si era completamente ricreduta nel concetto di bassa venalità attribuitogli. Ella aveva potuto figgere lo sguardo fino in fondo a quelle pupille oneste, ella aveva ascoltata la dichiarazione semplice e pura di quel nobile cuore e, vittima ella stessa di una passione che le era sembrata sublime, sentiva quanto più grande fosse l’amore di quell’uomo che tutto se stesso aveva offerto non chiedendo nulla per sè. Infine la nera congiura nella quale era stato travolto il marchese, crescendogli le pene che già aveva sofferte per amor suo, le apersero l’animo alla più tenera pietà.
Di questa pietà bevve Meme devotamente le stille, inginocchiato al fianco di Elganine intanto che il sacerdote li univa in nome di Dio, sentendo la cara mano tremare nella sua. E qualche cosa ancora che Elganine non potè vedere: supplica, olocausto, spasimo e martirio segreto, salirono misteriosamente dal cuore di Meme, ascendendo al di sopra dei ceri accesi oltre i confini della vita.
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Quando il marchese di Crevalcore si rialzò, il pallore del suo viso aveva preso una trasparenza incorporea. Il principe lo osservava sbigottito pensando tra sè: Che cosa ne facciamo ora? Ma il marchese più fermo di quanto il suo aspetto potesse lasciar sperare, offerto il braccio a Elganine, la ricondusse al suo posto e volgendosi con uno sguardo che abbracciò ad un punto il principe e i suoi amici:
— Addio, signori — egli disse — è giunto il momento della mia riabilitazione. Se qualcuno di voi dubita ancora, fra poco crederà. Sono ben lieto di poter dare più di quanto mi si è chiesto. A loro signori, al signor principe, a’ suoi degni amici, bastava l’avere acquistato per una somma che riconosco ingente, un nome di antica nobiltà senza badare tanto per il sottile alla macchia che stava per imbrattarlo; e se ne accontentavano, e si compiacevano di trasmetterlo ad un bambino innocente che sotto la duplice corona del suo stemma avrebbe ereditato una truffa ed una vigliaccheria.
— Ma signore....
— Una parola ancora. È l’ultima. Mi rivolgo a lei, principe Bazwill. Per il sentimento altissimo ispiratomi da sua figlia e che rifuggo dal chiamare amore in questa casa dove l’amore fu profanato, consegno intatto alla sua posterità il nome dei miei padri che non indietreggiarono mai davanti all’onore, anche quando l’onore si chiamava morte.
In mezzo allo sgomento destato da queste parole il marchese trasse dall’astuccio lo spillone destinato al velo della sposa. La pietra color di sangue, dove erano intrecciate le insegne degli Estense e dei Crevalcore, balenò per un istante sotto il raggio dei doppieri intanto che egli lo alzava all’altezza della spalla sinistra conficcandoselo con violenza nel costato.
Non cadde subito. Estrasse egli stesso il ferro soffile e gettandolo in grembo a Elganine con un supremo sforzo dell’anima:
— Marchesa di Crevalcore — sospirò — ecco il mio dono di nozze. Preghi per me ma non mi compianga. Muoio felice poichè mi fu dato di realizzare il mio sogno!
fine.