Odoardo Hillyer Giglioli

1902 Indice:A Prato impressioni d'arte.djvu Prato (Italia) A Prato Intestazione 26 gennaio 2019 100% Da definire


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Odoardo H. Giglioli
a Prato

IMPRESSIONI D’ARTE


O meravigliosa Arte, tu serbi in vita le caduche bellezze de’ mortali, le quali per te hanno più permanenza che le opere di Natura le quali di continuo sono variate dal tempo che le conduce alla debita vecchiezza....

FIRENZE

F. LUMACHI, Libraio-Editore

Successore Fratelli Bocca


1902

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A mia madre e mio padre

affettuosamente

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Quando piove da mesi, tutta la Natura sembra morta; le sue voci sono mute, le linee ed i colori sono confusi e le nostre energie fisiche e mentali si assimilano all’ambiente triste e monotono. Ma quando il sole sorge bello e maestoso e avvolge nel suo aureo pulviscolo il paesaggio che nei suoi contorni si stacca nitido, con vaghezza di colore, il nostro spirito infiacchito si solleva, le energie si temprano rigogliose, e inebriati da tanta luce e bellezza respiriamo, a pieni polmoni l’aria limpida; ed il nostro occhio è più disposto a contemplare e a ricevere le impressioni dell’ambiente festoso.

Ed è appunto in una di queste serene giornate invernali, che, con alcuni amici, andai a Prato, la piccola città industriale così [p. 6 modifica]interessante per le sue opere d’arte, in cui si ritrova la semplicità della vita e l’anima dei grandi artisti passati.

La campagna con i suoi pioppi sottili e nudi, irrigata dal torrente Bisenzio, limitata all’orizzonte dalle colline e dalle montagne, rammenta certi fondi nelle tavole di Piero Della Francesca, del Perugino e del Pinturicchio.

Il paesaggio non è arte moderna, come si crede da molti; oggi assume un importanza che non ebbe in passato, oggi trionfa come soggetto principale, mentre prima era solo l’ambiente in cui agivano i personaggi religiosi; ma con che amore della Natura erano rievocati dall’artista quei motivi, che ancora oggi si contemplano e si ammirano nella campagna toscana!

La facciata del Duomo (Prato) era immersa in un bagno di luce che dava splendori smeraldini al verde di prato, e un aspetto d’avorio al marmo patinato dal tempo.

I putti danzanti nel pulpito di Donatello, sembravano muoversi più festosamente, quasi che il sole infondesse la vita nelle loro agili corporature. Era una gioia di colore e di linea che ci lasciava estatici ad ammirare prima di entrare nella chiesa. [p. 7 modifica]Giovanni Pisano, che nel suo naturalismo scultorio ebbe grande influenza su Giotto, nella architettura trasforma certe pesantezze di stile del secolo XII nell’eleganza maestosa del XIV, e ne è prova questo Duomo di Prato, a cui s’innesta in mirabile armonia lo svelto campanile.

Sulla porta centrale una lunetta di Andrea della Robbia, raffigurante la Madonna tra S. Stefano e S. Lorenzo, sembra invitarci ad entrare nella Chiesa. Il carattere di robusto realismo che Luca imitò da Donatello, qui si è attenuato in un motivo tradizionale ma pieno sempre di grazia materna e di idealità religiosa1. [p. 8 modifica]La semplicità della facciata continua nell’interno dove due filari di grosse colonne di verde di prato metton capo al coro in cui Fra Filippo Lippi profuse a piene mani i tesori del suo ingegno. Secondo il Baldanzi2 egli eseguiva quelle sue mirabili pitture tra il 1456 e 1464 nell’epoca in cui un’altro grande artista, il Mantegna, dava all’arte il suo capolavoro nella cappella degli Eremitani a Padova.

Ma qui, pur troppo, dobbiamo assistere ad un’opera vandalica che mostra sempre più come nel clero d’oggi sia scomparso il culto per l’arte antica, a cui si preferiscono madonne, crocifissi e santi di cera o di gesso coloriti da qualche volgare mestierante.

Quanto fu diverso il clero di una volta che non solo considerava gli affreschi o le tavole della chiesa come sante reliquie e opere pregiate, ma ne favoriva anche lo sviluppo, ordinandole ai migliori artisti del tempo!

Una specie di goffo baldacchino di tela con carta impiastricciata sopra, è elevato durante i mesi d’inverno per circa tre metri d’altezza e assicurato ad assi di legno fermate [p. 9 modifica] contro le pareti, coprendo così tutta la parte inferiore dei due migliori affreschi: il convito di Erode o danza di Salomè ed i funerali di S. Stefano. Io domando e dico che cosa fanno gli ispettori dei monumenti e lo appello ad essi, perchè ci restituiscano nella loro integrità i preziosi lavori di Fra Filippo, provvedendo, con una doppia vetrata nella grande finestra, a togliere la necessità di quell’antiestetico riparo destinato a proteggere il clero officiante dai rigori della stagione.

Arrampicati per una scaletta a pioli, noi abbiamo però potuto contemplare le due scene interessanti.

Le composizioni sono grandiose e armoniche, con robustezza di disegno da ricordare gli affreschi del Masaccio nel Carmine e con una soavità d’ espressione e luminosità del colorito degne del Beato Angelico. Nell’una il tipo femminile è umano, direi anzi voluttuoso nella languidezza dello sguardo, nella tumidezza delle labbra; nell’altra e quasi incorporeo, spirituale, come una mistica visione.

L’artista in questo Convito di Erode, dalla creazione Giottesca della cappella Peruzzi, in Santa Croce, dove la semplicità della composizione fa emergere la sola Salomè come personaggio principale, assurge ad un insieme [p. 10 modifica] più vasto, e più animato. Ma in Giotto la drammaticità costituisce sempre il carattere dominante, rivelando la serietà di pensiero e la forza di coscienza del grande artefice; qui il Lippi lascia trasparire quella voluttà femminile che nella testa di Erodiade, creduta la Buti, ricorda la sua famosa fuga con la monaca, la sua avversione all’ordine religioso, la sua vita insomma libera e mondana.

Un tipo di donna con distinti caratteri fisionomici si ripete in tutti i lavori di Fra Filippo, con la fronte leggermente bombée, le palpebre un po’ grosse, l’orecchio col padiglione largo che va assottigliandosi al lobo, il collo lungo e sottile. Le parole che Shakespeare fa dire ad Amleto: Frailty, thy name is woman! (fragilità, il tuo nome è donna!) parmi definisca benissimo la donna del Lippi.

Salomè ha un’eleganza di forme e di vestito mirabile e nell’ondeggiamento del corpo si intuisce il moto e la danza. Essa guarda vagamente davanti a se, quasi fosse col pensiero e coll’azione al di fuori della realtà in cui si trova.

Erodiade ci rammenta tutte le Madonne di Fra Filippo e specialmente quella nella tavola della Galleria Pitti, dove però l’espressione è mesta e più materna che mistica nella sua dolcezza. [p. - modifica]Fotogr. AlinariBongini

ERODIADE
dettaglio dell’affresco Il convito di Erode di fra Filippo Lippi
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Queste figure gentili e delicate, dalle carni trasparenti nei chiari e vellutate nelle mezze tinte, saranno poi dal figlio Filippino idealizzate come la più poetica visione della grazia e della sentimentalità femminile.

Il pittore sembra rievocare le sembianze della donna amata, con tutto il fuoco della sua passione, che ora tempera ed ora ravviva; ma se nelle sacre rappresentazioni, per le esigenze del soggetto, frenava questo suo romanticismo pittorico, quando si trattava di un soggetto mondano, come Salomè danzante davanti al padre Erode, tutto il suo carattere erompeva con foga, e con una maravigliosa versalità creatrice.

La capigliatura che è una delle principali decorazioni al volto muliebre, Fra Filippo l’acconcerà in modi diversi, ottenendo nella massa la morbidezza, la finezza nel dettaglio.

Erodiade porta in testa un diadema di pietre preziose, di sotto al quale escono i riccioli in capricciose volute ricadendo sul collo, la cui linea ad arco si arrotonda nel chiaroscuro; mentre i capelli di Salomè sono ancora più mossi e ondulati e si annodano sul capo in una semplice crocchia.

Questa Danza di Salomè, nella storia di San Giovanni Battista a destra entrando nel coro, ed i Funerali di Santo Stefano a sinistra, [p. 12 modifica]sono i più vasti e importanti di questi affreschi, sebbene non scevri da qualche ritocco ed in parte danneggiati dal tempo.

Il Cavalcaselle3 nell’esame del primo non trova felice il movimento, nè belle le proporzioni nella figura di Salomè; ma io lo credo in errore, malgrado la mano difettosa e altre mende minori, e benchè in altre figure vi sia una più solida modellatura ed una vibrazione più intensa di vita; come nelle due donne strette l’una contro l’altra, che si spaventano alla vista orribile della testa recisa che Salomè — inginocchiata dall’altro lato dell’affresco, secondo l’uso del tempo che in un sol quadro raccoglieva varii episodi — offre alla madre Erodiade. Quasi sembra di udire le parole sottovoce, mentre i corpi sembrano fremere nel nervosismo dell’inquietudine.

Anche il volto della moglie di Erode si impone nella sua impassibilità, e se nei lineamenti ricorda la figlia, è così diversa nell’espressioneFonte/commento: Pagina:A Prato impressioni d'arte.djvu/85 da essere ugualmente interessante.

Fra Filippo è riuscito dunque, conservando un tipo femminile unico, a mettervi in rilievo tutte le passioni umane come un attore che [p. - modifica]Fotograf. AlinariBongini

SALOMÉ DANZANTE
dettaglio dell’affresco Il convito di Erode di fra Filippo Lippi
[p. 13 modifica] nella mobilità del volto e nella truccatura interpreta il carattere di varì personaggi.

Gli altri affreschi che completano la vita di S. Giovanni Battista, la Nascita e la partenza del santo, sono certo inferiori ed anche meno importanti per il loro soggetto; ma vi sono sempre gruppi improntati con vigoroso disegno, con vivacità di sentimento, con movimenti sobrì e naturali; senza le contorsioni così caratteristiche in alcune pitture del divino Botticelli.

Bellissimo è il gruppo dove S. Giovanni fanciullo con tenerezza infantile, colle manine giunte saluta la madre che chinata su di lui lo accarezza amorosamente e volge lo sguardo altrove, rattenendo a stento la forte commozione. Questa dolcezza materna, questo affetto filiale si svolgono sotto la benedizione di San Zaccaria, figura imponente e venerabile!

Dalle pitture di Fra Filippo intravediamo quelle del Ghirlandaio nel coro di S. Maria Novella, dove il più perfetto equilibrio regna tra la forma ed il sentimento; e nei 4 evangelisti della volta, come osserva giustamente il Cavalcaselle ritroviamo punti di maggiore somiglianza.

Il Lippi tratta anche il paesaggio con fine sentimento del vero e predilige, come quasi tutti i quattrocentisti, il terreno roccioso con [p. 14 modifica]pochi alberi e intersecato da un corso d’acqua che rompe nella sua sinuosa striscia argentina la monotonia del motivo e l’ asprezza della linea con una nota gaia, mentre i monti si delineano a contorni netti sul cielo.

Nell’altra parete vi sono fatti della vita di S. Stefano e la scena più importante ed anche migliore per l’esecuzione, è certo quella che raffigura la morte del santo.

L’artista che doveva aver ammirato l’affresco di Giotto nella cappella Bardi in S. Croce, la morte di S. Francesco, e studiato le pitture di Masolino e Masaccio nella cappella Brancacci, nella solidità di alcune figure rammenta questo artefice, mentre nella calma dei gruppi si distacca completamente dalla commovente manifestazione di dolore che Giotto ha impresso nelle fisonomie dei discepoli piangenti, preganti, estatici davanti al morto maestro.

Vi sono pero quelle due donne sedute sul davanti presso il cataletto dove giace S. Stefano che esprimono efficacemente l’angoscia di quel momento, benchè la posa sia composta e non agitata e fremente come nei personaggi giotteschi. — Una vecchia donna, forse la madre, piange trovando quasi un. sollievo in quello sfogo al suo dolore e la bocca si contorce nello spasimo intenso; un’altra donna invece volge la testa a sinistra, quasi non [p. 15 modifica] potesse frenare la sua commozione alla vista del morto, che sembra dormire un sonno tranquillo.

Con naturalezza è resa la rigidità cadaverica del corpo, e mentre i piedi sono contratti nella loro muscolatura, le mani sono posate mollemente sul petto con le dita intrecciate. Due gruppi di persone a destra ed a sinistra, ascoltano le preghiere dette dal vescovo; splendida è la figura di quel sacerdote volto di tre quarti, che tiene la Croce. Vi è una severità ed una forza di modellatura degne veramente del Masaccio, con un colorito più caldo, con una maggiore morbidezza di chiaroscuro.

L’Architettura della chiesa nella semplicità del suo stile classico, con la profondità dell’ambiente resa nella graduale diminuzione degli archi e delle colonne si trova in perfetta armonia col soggetto dell’affresco.

Nel ripiano che a ferro di cavallo, gira intorno al letto e su cui stanno in piedi i personaggi vi è da un lato la firma del maestro Frater Fìlippus op.

Messer Carlo dei Medici, figlio di Cosimo nel 29 Luglio 1460, cinque anni dopo la morte dell’Inghirami fu accolto con grandi feste dal comune che lo elevava alla carica di proposto della chiesa maggiore. Se non ebbe come il suo [p. 16 modifica]antecessore l’acuto spirito scientifico ed il culto appassionato per le opere d’arte, dalla casa paterna aveva ereditato la predilezione per l’antichità classica e a Roma raccoglieva codici per la famosa libreria di Firenze. A lui si deve il merito non piccolo, che fra Filippo Lippi seguitasse e compisse gli affreschi interrotti nel coro della chiesa. Tutta la parete a sinistra fu probabilmente ordinata dal Medici ed infatti nella pittura inferiore che rappresenta i funerali di S. Stefano, vediamo il ritratto di messer Carlo, magnifico nel succoso colorito, potente nel disegno.

Egli si trova nel gruppo di destra, pingue nella corporatura, con espressione triste e pensierosa nella fissità dello sguardo.

La sua fisonomia, come osserva giustamente il Cavalcasene ricorda il ritratto di Leone X di Raffaello nella Galleria Pitti. Porta in testa un berretto rosso che dà un risalto luminoso alla faccia larga e solida; un lungo mantello avvolge la persona e è in parte sollevato e tenuto dalle mani posate sul ventre.

Il Burckhardt nel suo Cicerone4 sembra [p. 17 modifica]rimproverare al Lippi l’eccessivo naturalismo in alcune figure e sembra poi contraddirsi quando in lui ritrova l’ispirazione del Beato Angelico, ma la contraddizione è soltanto apparente perchè se il Lippi accentua più dell’Angelico la linea realistica, si avvicina però ad esso nel colore di alcune sue tavole come la Vergine adorante Gesù bambino nella Galleria dell’Accademia a Firenze. I colori sono stemperati con oli e resine speciali per renderli inalterabili e più fluidi, come fece l’Angelico; i toni sono chiari e delicati con lacche rosa e con azzurro lapislazzuli sul manto della Madonna che stacca luminosa sul paesaggio cupo. Sembra che il Lippi abbia voluto quel contrasto di luce e d’ombra per dare alla Vergine e a Gesù l’aspetto soprannaturale di una visione celeste. Questa interessante tavola è l’unico esempio di una diretta imitazione tecnica del Beato Angelico.

La lapidazione di S. Stefano ridipinta quasi totalmente ha perduto l'antico valore; belle e genuine le figure di S. Giovanni Gualberto e S. Alberto.

I vetri colorati con la Madonna tra gli angioli in alto e con i santi Stefano, Lorenzo, Paolo, Pietro e Andrea, non mi pare che nei disegno portino i caratteri dell’arte di Fra Filippo, come crede il Cavalcaselle; sono di [p. 18 modifica] un effetto stridente e stonati nella loro forte colorazione.

Il Baldanzi nella sua coscienziosa descrizione della cattedrale di Prato attribuisce la vasta vetrata al prete Lorenzo da Pelago fiorentino che l’avrebbe eseguita nel 1459.

Gimignano Inghirami, uno dei più dotti prelati nella curia romana, dal 1451 al 1460 sostenne la carica di proposto nella chiesa maggiore di Prato, chiamata allora Pieve.

Egli comprese l’ingegno di Fra Filippo così agile nelle forme e così fecondo nelle concezioni, ed alni si rivolse perchè dipingesse in una tavola la morte di S. Girolamo.

Qui il Lippi è riuscito veramente drammatico e commovente nella evocazione del dolore, dimostrando di avere studiata e capita l’intima struttura dell’affresco di Giotto nella cappella Bardi in S. Croce a Firenze.

Il dolore non è più calmo represso come per la morte di S. Stefano dipinta nel coro, ma è agitato da singhiozzi e da lamenti. I discepoli sentono che nella morte del maestro è distrutta una parte della loro vita, la forza e l’esempio morale della loro coscienza che vorrebbero risorta dalle membra irrigidite. Il corpo amato giace su un ricco drappo trapunto in oro, nella sua umile veste monacale, con le mani posate sul petto. [p. 19 modifica]Il volto è grave e solenne nel sonno eterno, con gli occhi cavi, con i segni della dura vita ascetica; la fronte sembra anche più vasta colla testa canuta mentre una barba fluente e morbida scende sul petto.

Un frate bacia i piedi del Santo, un altro si terge il pianto col lembo della tonaca, altri due singhiozzano; chi coetaneo al maestro si china sulla testa di lui con le mani tremanti, chi si nasconde il volto tra le palme per sfuggire lo strazio di quella vista, chi guarda pensa e sente tutta l’angoscia di quel momento, chi inginocchiato si raccomanda a Dio perchè conceda la salute a quello storpiato che a stento si trascina presso il Santo sostenendosi su di una gruccia. Egli domanda pietà per le sue carni miserabili, per le sue membra impotenti, e agita il suo braccio paralitico, mentre la sua grossa testa incassata, immobilizzata tra le spalle scolpisce tutta quella vita di miseria.

Quel prelato dalla testa calva, dal profilo aristocratico, che prega tranquillo, quasi fosse estraneo alla scena, è il ritratto dell’Inghìrami, che il Lippi ha eseguito con ogni cura. Guardate come le belle mani dalle dita sottili contrastano con quelle dei frati tozze e sformate dalle dure incombenze di un lavoro manuale; qui si indovina subito il dotto studioso [p. 20 modifica] il quale non conosce che le fatiche dei libri e delle solenni funzioni religiose.

Sul fondo del quadro si disegna un paesaggio roccioso con radi alberi qua e là; si vede un santo che prega, due altri che parlano tra loro, di cui uno in abito da frate e l’altro da vescovo; e infine la Madonna e S. Giuseppe che adorano Gesù bambino. In alto il Cristo tra due angioli in atto di scendere a prendere l’anima del Santo, mentre altri si degradano intorno a lui sulla mandorla luminosa dalla cui cima s’ erge Dio con sotto lo Spirito Santo in forma di colomba.

Se l’Umanesimo non era ai tempi del Lippi nel suo massimo splendore, egli non è però rimasto immune dalla corrente che già trascinava le forme e le idee all’arte Greca e Romana; e, nei suoi fondi architettonici, ne segue lo stile, come nella sontuosa sala in cui danza Salomè, dove la prospettiva lineare e lo scorcio delle figure indicano chiaramente il progresso fatto dall’artista dal 1452 e continuato fino alla sua partenza per Spoleto dove lavorò dal 1467 fino alla sua morte avvenuta nel ’69.

Quel coro che doveva dipingere il Beato Angelico, fu a Fra Filippo commesso dai magistrati del comune, riconoscendolo essi come il migliore artista da scegliere dopo il rifiuto dell’Angelico; e se i lavori, ora procedenti con [p. 21 modifica] lentezza, ora interrotti per le scappate amorose del pittore impenitente, scontentarono talvolta la città ed i magistrati — invocanti perfino contro di lui l’intervento di Carlo dei Medici succeduto all’Inghirami nella propositura — quando dopo tanti anni di attesa furono compiuti, calmarono tutte le inquietudini e suscitarono l’ammirazione più schietta.

A quei tempi ed anche molto prima, ogni bellezza artistica era compresa dal popolo e basti ricordare le feste che Firenze tutta tributò al Cimabue, quando dipinse la tavola della Madonna nella cappella Rucellai in S. Maria Novella, che fu portata in trionfo per le vie della città.

Fra Diamante ajutò Fra Filippo, ma deve essersi limitato alla pittura di pochi accessori, giacchè questi affreschi troppo spiccatamente rivelano le qualità caratteristiche del maestro.

Alla copiosa e bella opera del Lippi ha consacrato ora uno studio il critico inglese Edward C. Strutt5, il libro è corredato da splendide illustrazioni dovute in gran parte alla casa Alinari di Firenze, edito da George Bell benemerito per altre importanti pubblicazioni artistiche. [p. 22 modifica]L’autore dedica pagine assai interessanti alla vita romantica del nostro pittore, e alle sue relazioni con la sorella di Lucrezia Buti, Spinetta; e nota che la sua ispirazione artistica e la sua fede sgorgano da una medesima sorgente: la passione amorosa, rievocata quasi sempre nella immagine della donna amata che sarà il tipo tradizionale delle sue Madonne.

Lo Strutt mostra il progressivo sviluppo degli affreschi nel coro del Duomo con l’influenza che la vista di capolavori come le pitture di Benozzo Gozzoli nella cappella del Palazzo Biccardi a Firenze e quella di Piero della Francesca ad Arezzo, hanno fortemente esercitata sul carattere così impressionabile del Lippi.

Tutta l’arte Lippiana è esaminata coscienziosamente con un buon materiale storico e bibliografico, con l’aggiunta di documenti compulsati e notizie e osservazioni personali; sono stabiliti i vari periodi d’interruzione del suo lavoro a Prato e combattuta l’opinione del Baldanzi sull’epoca precisa in cui furono incominciati gli affreschi del coro, che fissa all’ anno 1452 anzichè al 1456; tredici anni furono impiegati al compimento dell’opera insigne segnando la massima attività nell’ultimo anno 1464-1465 dacchè aveva ricevuto un ultimatum dal successore di Gimignano [p. 23 modifica] Inghirami; nel 1457 dipinse la danza di Salomè, non prima del 1460 la morte di Santo Stefano che è la sintesi mirabile delle sue qualità di colorista e disegnatore. Lo Strutt rileva anche la collaborazione del suo aiuto Fra Diamante non solo negli affreschi, ma anche nelle tavole d’altare esistenti nella Galleria municipale.

Ma altri eminenti artisti si sono dati convegno in questo Duomo; dalle pitture della Cappella della Cintola cominciata nel 1365 e finita nel 1395, chiusa da una splendida cancellata di bronzo eseguita nel 1444 dall’orafo fiorentino Bruno di Ser Lapo, noi gustiamo la semplicità di quel primitivo che tanto si ammira nel coro di S. Croce a Firenze.

Questi affreschi del Gaddi sono tenuti malamente e la polvere e la poca luce rendono difficile l’interpretazione di alcuni soggetti, che pur sono importanti anche come documento storico. Il Baldanzi ci racconta come Michele dei Dagomari, giovane pratese, facesse parte di una spedizione mandata in Terra Santa nel 1096 dal comune di Prato e che trattenuto colà per affari di commercio vi si ammogliasse. I parenti della moglie come dono di nozze, le dettero il Sacro Cingolo di Maria Vergine. [p. 24 modifica]

Il Gaddi ha illustrato gli episodi più importanti di questa storia; vi è il ritorno in patria del Dagomari colla santa reliquia, l’apparizione dell’Angiolo per custodire il Cingolo mentre il giovane dorme e infine questi che morente lo consegna e lo raccomanda al proposto della chiesa di Prato.

Il Baldanzi del resto ha tolto il fatto dalla vita di Giovanni Pisano scritta dal Vasari; lo scrittore aretino dice che nel 1141 fu consegnato da Michele al proposto della Pieve il sacro Cingolo, che nell’anno 1312 fu rubato e il ladro scoperto fu condannato a morte.

«Da che mossi i Pratesi di fare, per tenere più sicuramente la detta Cintola, un sito forte e ben accomodato onde mandato per Giovanni che era già vecchio, feciono col consiglio suo nella chiesa maggiore la cappella, dove ora sta riposta la detta Cintola di nostra Donna.»

L’Annunziazione è ben conservata e mostra tutti i caratteri della scuola di Giotto che tanto si distacca dalla senese. Questa dava la massima importanza al dettaglio e cercava la grazia delle forme, la dolcezza delle espressioni, il colorito delicato e luminoso; quella voleva l’insieme semplice, ma metteva in rilievo con un disegno incisivo l’ossatura del corpo ed il carattere di una fisonomia. [p. - modifica]Fotograf. AlinariBongini

LA MADONNA DELLA CAPPELLA DELLA CINTOLA
di Giovanni Pisano (V. pag. 31)
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E così dall’Annunziazione di Simone Martini e di Lippo Memmi nella Galleria degli Uffici di Firenze riceviamo una gradevole sensazione cromatica all’occhio, mentre nell’affresco di Agnolo Gaddi non siamo distratti dall’oro della ricca veste dell’angiolo; ma concentrati solo nelle espressioni che così bene sintetizzano il momento solenne, anche se la scarsa luce e la polvere ne offuscano la primitiva bellezza.

Nell’affresco della Natività è notevole il volto meditabondo e malinconico di S. Giuseppe appoggiato alla palma della mano; e certamente una delle figure meglio conservate di tutto il ciclo; sulla volta ha dipinto i dottori e i quattro evangelisti.

Nella Purificazione della Vergine e nella Predicazione di S. Stefano dello Starnina maestro di Masolino, (in una cappella a destra del coro) noi abbiamo l’anello connettente dell’arte di Masaccio con quella di Fra Filippo, preannunziante già i caratteri del grande Rinascimento.

Gli affreschi invece dello scolaro Antonio Vite sono mediocri, benchè non privi d’interesse per l’epoca che rappresentano. Facendo un confronto fra le pitture di Antonio Vite con quelle dello Starnina si possono vedere i progressi dell’uno sulle incertezze e ingenuità dell’altro. [p. 26 modifica]

Il prof. A. Schmarsow in un suo articolo: Die Cappella dell’Assunta in Dom zu Prato citato nei Miscellanea dell’Archivio storico dell’Arte 1894 esamina minutamente questi affreschi escludendo Antonio Vite e attribuendo allo Starnina solo le pitture della volta con le mezze figure della Fede, Speranza, Carità e Fortezza.

Rodolfo Ghirlandaio più che la maniera del padre Domenico, seguì Leonardo da Vinci; tanto che, alcuni suoi lavori come l’Orefice nella Galleria Pitti passarono come opera del grande artista, e vi troviamo infatti quell’enigma psicologico che si nasconde nello sguardo della Gioconda.

Nella tavola del Duomo di Prato è manierato nella composizione; e davanti alla sua Madonna che rimette la Cintura a S. Tommaso, noi restiamo indifferenti e quasi si pensa alle forme spasimanti e contorte della Decadenza, ai movimenti teatrali del Baroccio, alle leziose figure del Guido Reni e del Carlo Dolci.

La scultura quattrocentista, che sorge dall’ardita scuola naturalistica di Donatello, ha nel Duomo di Prato i suoi più degni rappresentanti: i tre fratelli Giuliano, Giovanni e [p. 27 modifica] Benedetto da Majano, Antonio Rossellino e Mino da Fiesole.

Questi artisti in parte temprati allo stile di Desiderio da Settignano — che attenuò con una forma più gentile e un sentimento più soave il carattere drammatico di Donatello, che doveva accentuarsi in Michelangiolo — furono i più grandi interpreti della serenità della morte nelle loro tombe marmoree.

Il sentimento di tristezza che suscita in noi la gelida figura giacente sul letto, è in alto attenuato dai rilievi della Madonna e degli Angioli, che come una visione di bontà e di grazia portano all’estinto la felicità eterna della vita celeste.

Le tombe di Sigismondo e di Barbara Manfredi eseguite da Benedetto da Majano nella chiesa di S. Girolamo a Forlì, la tomba del cardinale Giovanni di Portogallo di Antonio Rossellino nella chiesa di S. Miniato al monte a Firenze, quella di Bernardo Giugni e del conte Ugo di Mino da Fiesole nella Badia a Firenze, attestano le luminose doti scultorie e decorative nell’arte funeraria dal 1427 al 1497.

Anche i pulpiti, che Nicola Pisano scolpì sentendo il naturalismo attraverso le classiche tradizioni greche e romane, che il figlio Giovanni vide e copiò direttamente dalla Natura, diventano, con Benedetto da Majano, [p. 28 modifica] Rossellino e Mino da Fiesole, più leggiadri nella l’orma, più ricchi nella decorazione: quasi che nella severità stilistica dei primi si ritrovi l’austerità del Medioevo, nei secondi la gaiezza del primo Rinascimento.

Rossellino e Mino da Fiesole hanno lavorato insieme per il pulpito nel Duomo che fu finito nel 1473, mostrando le loro tendenze speciali, il loro carattere tecnico ben definito: il primo artista eseguisce i suoi bassorilievi con cura, con giuste proporzioni, con un insieme armonico: il secondo è invece trascurato nell’Anatomia e nella prospettiva come nella Danza di Salomè di cui ha giustamente rilevato i difetti Domenico Gnoli. in un suo articolo pubblicato nell'Archivio storico dell’arte del 1889 dove parla delle opere di Mino da Fiesole in Roma.

La figura di Salomè si muove goffamente e, sebbene sul primo piano, appare minuscola al confronto del re Erode e dei due suoi compagni seduti a mensa: le loro faccie sono abbozzate come enormi e volgari mascheroni!

Dobbiamo dunque rimpiangere quella grazia di forma e soavità di sentimento che si aveva ammirato in altre sue opere scultorie, come il dossale d’altare nella Badia a Firenze.

I bassorilievi che rappresentano l’Assunzione della Vergine, la lapidazione di S. [p. 29 modifica] Stefano e la sua morte sono certo i migliori di tutto il ciclo: ma in essi si cercherebbe invano la vigorosa modellatura e la vitalità maravigliosa che rende così perfetto nel suo insieme e nel dettaglio il pulpito di Benedetto da Majano nella Chiesa di S. Croce a Firenze.

Il Baldanzi fa rilevare l’inferiorità del lavoro di Mino da Fiesole rispetto a quello del Rossellino dai diversi pagamenti dati agli artisti in presenza dei due arbitri Andrea del Verrocchio e Pasquino di Matteo tratti dall’Archivio del Ceppo di Prato, Libro Debit. e Credit. dell’opera del Sacro Cingolo.

Riporto i preziosi documenti:

«Antonio di Matteo scarpellatore di marmi di Firenze deve avere a di 23 Agosto 1473 fiorini sessantasei larghi per la monta di tre pezzi di marmo da scarpello per fare il pergamo, dove si predica, nei quali intagliò due storie di Santo Stefano e quelle dell’Assunta, d’accordo con lui come si vede al ge, segn. E, a c. 117 per fare le figure in tutto monta L. 363».

«Mino di Giovanni scarpellatore di marmi da Firenze dee avere a di 23 Agosto 1473 fiorini trentaquattro larghi per due storie di San Giovanni che intagliò per il pergamo, dove si predica, in premio della manifattura sua d’accordo con lui, presente [p. 30 modifica] Andrea del Verrocchio e Pasquino di Matteo scarpellatori, come al libr. maestro segn. E. sono L. 187».

La forma stessa del pulpito di Prato a guisa di un’enorme calice, incontrò disapprovazioni tra critici pedanti, abituati al tipo tradizionale dei Pisano più organico e compatto nella sua struttura architettonica.

La Madonna dell’Ulivo a cui lavorarono i tre fratelli da Majano ha i caratteri speciali dei fratelli maggiori Giuliano e Giovanni.

La statua della Vergine in terracotta, getto spontaneo di calma e di grazia è opera magistrale di Benedetto, mentre lo zoccolo marmoreo fu eseguito dai fratelli.

La scena della Pietà è modellata con durezza e le faccie nella eccessiva contrazione dei muscoli sembrano una caricatura del dolore.

Questo tabernacolo fu costruito dai tre fratelli nel 1480 e collocato presso un loro podere in località chiamata l’Ulivo (come si rileva da alcune denunzie di beni in terre, riportate da Gaetano Guasti) e vi restò fino al 1866. Nel 1640 fu in possesso del cavaliere Alessandro Falconetti; nel 1684 passò alle monache del convento di S. Vincenzo; nel 1867 fu collocato dal comune nella cattedrale, quando, per la soppressione del [p. - modifica]Fotograf. AlinariBongini

LA MADONNA DELL’ULIVO
di Benedetto da Majano
[p. 31 modifica] convento, si temeva che l’opera e le terre a cui era allegata andassero vendute.

Giovanni Pisano ha scolpito la statua della Madonna con Gesù bambino per la cappella della Cintola; ma per una consuetudine religiosa è coperta da un drappo che lascia vedere solo le due teste e così siamo privati del godimento di un’opera d’arte, che un calco nella sacrestia ci rivela così viva nella fisonomia, e così naturale nell’atteggiamento.

L’arca marmorea che racchiudeva il Sacro Cingolo si trova in una stanzetta presso la cappella. Le sculture che svolgono la storia della Cintola sono tozze, grossolane e insignificanti e rivelano un mestierante della scuola dei Pisano.

La Madonna che rimette la Cintura a San Tommaso mostra l’abilità di un vero artista, che ha animato i suoi personaggi e ingentilito le loro espressioni. La Madonna si rivolge al Santo con una certa grazia, mentre gli angioli volano intorno alla mandorla suonando i loro istrumenti. Il Rossellino ha seguito il motivo dello scultore primitivo in una faccia del pulpito, trasformando la durezza della modellatura in un’armoniaFonte/commento: Pagina:A Prato impressioni d'arte.djvu/85 di linea che smorza ogni contrasto violento.6 [p. 32 modifica]

Donatello nel Pergamo su uno degli angoli della facciata del Duomo, volle glorificare la fanciullezza nella sua vita gioconda. I genietti alati danzano al suono dei cembali tenendosi per mano, i loro occhietti brillano di vivacità e le loro bocche sono sorridenti, le vesti ondeggiano lasciando nude le gambe e le braccia grassoccie. Le scene con quattro o cinque putti si seguono a semicerchio separate da doppi pilastri scanellati (V. frontispizio).

Donatello in questo capolavoro ha ottenuto la perfetta illusione del movimento, sempre occupandosi dell’insieme, poco curandosi del dettaglio che spariva per la distanza che separa il pergamo da chi lo contempla. Anche nella Cantoria dell’Opera del Duomo a Firenze seguirà la stessa idea raggiungendo lo scopo che si era prefisso, mentre al contrario Luca della Robbia si studia di ottenere la massima finezza nella esecuzione, nulla trascurando; e se il disegno è più castigato, non vi è quello slancio giovanile che Donatello ha impresso sugli agili danzatori.

Ma la scultura aveva bisogno del complemento architettonico che in una veste severa [p. 33 modifica] e grandiosa mitigasse la frenesia delle danze, e Michelozzo scolaro di Donatello comprese il grave compito e seppe degnamente adempirlo.

Nei Miscellanea dell’Archivio storico dell’Arte 1895 scritte da Cornelio de Fabriczy e ricche di notizie su pubblicazioni estere, trovo un prezioso cenno su un lavoro del barone Geymüller sull’evoluzione di Michelozzo architetto e sulla sua collaborazione con Donatello. Die architektonische Entwickelung Michelozzos und Zusammenwirken mit Donatello.

Il noto critico e storico, che alla storia della Architettura ha dedicato tutto il suo ingegno, sostiene che non al solo Michelozzo risale il merito della architettura nel pergamo di Prato come nei monumenti Coscia e Brancacci, perchè nei particolari e nella sagomatura rivelano uno stile più perfetto del suo, di cui, come riporta nel suo riassunto il Fabriczy, non si vede traccia nelle opere posteriori di Michelozzo, come il convento di S. Marco. La conclusione del Geymüller sul pergamo di Prato è che vi si trova lo spirito se non la mano del Brunelleschi, allora grande amico di Donatello, e non crede improbabile che questi si sia valso del suo consiglio, se non del suo aiuto diretto. [p. 34 modifica]

Come vediamo questa non è che un’opinione di un eminente critico, basata unicamente sull’esame del lavoro in quistione senza l’appoggio inconfutabile di documenti.

E ora torniamo al Pergamo.

Una tettoia si stende come una gigantesca ala protettrice su di esso appoggiandosi sopra una robusta colonna; è rivestita di lamine metalliche all’esterno e internamente decorata a rosoni inquadrati da fascie divergenti dal capitello della colonna.

La base del pulpito posa su mensole su cui si stende una foglia d’acanto e tutto il ballatoio è sorretto da un pilastro con capitello di bronzo che è un finissimo lavoro di decorazione di Donatello. Il Vasari dice che un altro simile fu portato via dagli spagnoli nel sacco del 1512, il Müntz in un suo studio su Donatello mantiene questa opinione; il Guasti invece crede che il secondo capitello non abbia mai esistito.

Lo Schmarsow in un suo articolo nell’Archivio storico dell’Arte 1893 dice che il capitello di bronzo fu gettato da Michelozzo alla fine dell’anno 1433 e i suoi putti sono somiglianti a quelli scolpiti nei capitelli del portico di Ragusa.

Dal libro sul pergamo pubblicato a Prato nel 1887 da Cesare Guasti rileviamo notizie storiche importantissime. [p. 35 modifica]

Fin dal XII secolo esisteva sulla facciata di mezzogiorno del Duomo un pergamo esterno costruito in pietra ed in legno, da cui si mostrava al popolo la santa reliquia della Madonna della Cintola.

Il 13 Aprile 1330 fu dal consiglio generale del Comune deciso di sostituirlo con uno di marmo bianco e l’esecuzione fu affidata a Niccolò di Cecco del Mercia senese e a Sano suo scolaro.

Questa sostituzione di un antico pulpito in legno, avvenne nello stesso modo nella chiesa di S. Eustorgio a Milano, e quello attuale fu eretto nel 1597 dal governatore di Milano D. G. Velasco. Il primitivo servì a Pietro da Verona per predicare contro gli eretici7.

Col ripristinamento della nuova facciata si rinnovò anche il pergamo e nel 1433 furono cominciati i lavori da Donatello e Michelozzo.

Da memorie tratte dai Diurni del comune del 1330 si stabilisce che nella prima faccia del pulpito dovevano essere scolpiti i bassorilievi con la storia della Cintola e scene della vita di S. Stefano e in ciascun angolo un angiolo atteggiato per sostenere una fiaccola [p. 36 modifica] durante l’ostensione della reliquia; invece Donatello ribellandosi all’antico progetto diede piena libertà alla sua fantasia sognatrice di altre idealità più umane, da cui le sofferenze del martirio ed il misticismo sentimentale erano banditi con sdegno.

Dall’ardita ed animata opera di Donatello che ci aveva sbalorditi nella sua plastica potenza si sentiva il bisogno di raccogliere il nostro pensiero nella contemplazione del tabernacolo dipinto da Filippino Lippi sul canto al Mercatale. Qui tutte le energie vitali sembrano fondersi in una pace infinita, tramutarsi in una eterea visione di bontà e di bellezza.

Il sole che illuminava la sacra imagine, la campagna che si stendeva nelle più belle gradazioni di colore, una vecchietta che venne tremando ad aprirci il vetro che custodisce il prezioso tabernacolo, lasciarono nel nostro animo un caro ricordo, la più viva impressione che possa dare un’opera d’arte. In quel medesimo punto fu ammirata dal Vasari e da altri artisti che si recavano a Prato, ed ancora per secoli formerà la delizia di tutti coloro che hanno vivo il senso dell’arte; [p. 37 modifica] ed io pensavo come il triste e povero viandante dovesse pregare con più fervore davanti a quell'affresco; rivolgendosi alla mistica immagine come ad un conforto e ad una speranza.

Filippino Lippi, educato alla scuola del padre ed entusiasmato del Botticelli, attenuò la voluttuosità dell’uno ed il nervosismo dell’altro, creando un tipo di donna più equilibrato nel sentimento, più ideale nella bellezza.

La Vergine ha sulla testa un manto che scende sulle spalle e il cui colore azzurro è quasi scomparso lasciando qua e là appena qualche traccia.

Il volto ricorda la Madonna di profilo nella tavola della Badia a Firenze; la trasparenza delle carni è maravigliosa, e sotto la sottile epidermide sembra che circoli il sangue che dà nutrimento vitale a tutto l’organismo. La faccia è delicata, nello sguardo traluce una soave mestizia; i capelli spioventi in sottili filamenti sul collo e sulle spalle abbelliscono l’incantevole ovale. Le mani dalle dita lunghe e sottili con i polpastrelli un po’ pronunziati, con le unghie tagliate quadre, richiamano nei loro caratteri tecnici certe mani nelle opere del Botticelli; e la destra nella Madonna del Filippino Lippi ricorda quella dipinta da Sandro nel [p. 38 modifica] tondo famoso della Galleria degli Uffici. Nella tavola della Badia seguirà un’altra forma con le dita più corte e staccate e più forti nelle giunture.

Gesù bambino guarda con un po’ di diffidenza S. Caterina e col braccino alzato fa l’atto di stringersi al collo della Madonna. Non ho mai visto un bambino più fiorente e più grazioso; i suoi occhioni sono profondi, la boccuccia sembra fatta di petali di rosa per essere ripetutamente baciata.

Il pennello di Filippino sembra aver portato con sè un soffio di vita e che abbia reso le carni così soffici e paffute che una mano palpandole vi affonderebbe come in un cuscino di piume. Sotto al mento, sotto le ascelle, intorno ai polsi si disegnano nella pelle quelle pieghe così caratteristiche in certi bambini grassi.

Un velo avvolge in un delicato panneggiamento il corpo grazioso, lasciando liberi il torace, le braccia e le gambe. Una manina è appoggiata su di un globo sormontato da una croce che la Madonna gli porge.

Il gruppo celeste si stacca su un fondo di cielo con nuvolette che portano dei cherubini adoranti.

Nella testa di S. Caterina, nello spessore del muro che si stende ad arco, la grazia e la [p. - modifica]Fotograf. AlinariBongini

S. CATERINA
dettaglio del Tabernacolo sul Canto al Mercante di Filippino Lippi
[p. 39 modifica] sensibilità femminile come una melodia dolcissima sembrano svelarci l’anima sua. Un sottile tratteggio quasi fuso dà i rilievi al volto, il pennello è come una carezza che sfiora temendo quasi di contaminarne la fragile purezza.

La santa si volge di profilo, piegandosi leggermente in avanti; la linea tondeggiante della fronte s’inflette leggermente nel naso e intorno alla piccola bocca dalle labbra carnose, per pronunziarsi ad arco sul mento. Appena visibili le sopracciglia, grosse le palpebre con lunghe ciglia che ombreggiano il piccolo occhio melanconico.

I capelli a grandi masse fini e lucenti e morbidi come la seta, avvolgono l’orecchio, contornano l’ovale, si raccolgono sull’occipite dove è legato a fiocco un velo che scende sul collo e in cima alla testa vi è una corona principesca.

Anche la S. Margherita ed il S. Antonio abate ci appaiono come la più poetica manifestazione della bellezza compenetrata dai più elevati sentimenti.

Questa soavità che Filippino farà vibrare nelle sue Madonne e nei suoi Santi si trasformerà in una struttura più solida, quando nella cappella Brancacci a Firenze dovrà continuare l’opera incompiuta da Masaccio. [p. 40 modifica]

Il Palazzo comunale racchiude interessanti opere d’arte; l’epoca giottesca è rappresentata da Agnolo Gaddi e Giovanni da Milano, il Quattrocento da Andrea del Castagno e Fra Filippo Lippi.

La Pittura primitiva così drammatica e umana negli affreschi di Giotto, trovò qualche reminiscenza nei lavori degli scolari, tra i quali il Giottino espresse quasi con la stessa efficacia del Maestro il dolore. L’affresco di S. Croce a Firenze dove le Marie piangono la morte del Cristo parmi che ne sia la prova più lampante.

Agnolo Gaddi è chiaro e luminoso, ma più calmo, e spesso i suoi personaggi si affollano a detrimento della composizione.

La sua predella d’altare nel Palazzo Comunale è semplice, ingenua nella modellatura, ma espressa con spontaneità secondo il sentimento religioso ed il carattere drammatico del Medio evo.

Le Madonne che erano caricature del dolore nei Bizantini, dove i lamenti diventano smorfie, nei Giotteschi saranno maestose e tragiche, nei quattrocentisti serene e forti, nel grande Rinascimento belle e mondane, sdolcinate e convenzionali nel Barocco. [p. 41 modifica]

Noi vediamo così come l’opera d’arte sia la diretta emanazione dell’ambiente sociale e politico, nella cui fucina l’artista ha temprato il suo carattere, plasmato il suo pensiero, subendo tutte le influenze, per quanto cercasse di isolarsi dal mondo e chiudersi nel suo lavoro, come fece Michelangiolo.

L’Ancona rappresentante la Madonna in trono di Giovanni da Milano offre i caratteri già ricordati della Scuola di Giotto ed è interessante per l’epoca che rappresenta.

A Gaetano Guasti8 dobbiamo alcune notizie interessanti su questo pittore primitivo, scolaro di Taddeo Gaddi. La tavola è divisa in cinque scompartimenti e ha una predella con due gradini. Nello scompartimento centrale si legge la firma del maestro Ego . Iohanes . de Mediolano . pinxi . hoc . opus. Fra i santi rappresentati vediamo S. Caterina di Alessandria, S. Bartolomeo, S. Bernardo e S. Barnaba uno dei protettori degli spedali di Prato nella Chiesa del quale si trovava in antico l’Ancona; e infatti da una scritta si legge che frate Francesco rettore dello spedale della Misericordia fu l’ordinatore della tavola.9 [p. 42 modifica]

Il Cavalcaselle vi trova caratteri tecnici della scuola senese ed il sentimento drammatico della scuola giottesca.

Il volto della Madonna che, col bambino occupa il compartimento centrale, è alterato da ritocchi eseguiti in epoca posteriore; a destra e a sinistra stanno i santi già nominati, in stato di migliore conservazione; nel primo gradino della predella: la decollazione di S. Caterina, l’apparizione della Vergine a S. Bernardo, il martirio di S. Bartolomeo,, la passione di S. Barnaba; nel secondo gradino le cinque storie con la Nascita del Redentore, l’Adorazione dei re magi, la Circoncisione, Cristo orante nell’orto ed il bacio di Giuda.

Le piccole scene dipinte nella predella sono certo la parte più intatta e accurata di tutto il lavoro: tragicamente inteso e riprodotto il martirio di Santa Caterina nel gradino superiore, e, nell’inferiore, eseguite con la finezza del miniatore alcune storie della vita di Gesù, come la Natività, in cui ho specialmente ammirato un pastore preceduto dal suo gregge, che fa l’atto di levarsi il cappello; qui Io studio della vita nell’uomo e negli animali è di un realismo maraviglioso.

Queste opere d’arte in gran parte difettose nella forma e non ancora decise [p. 43 modifica] nell’espressione servono di chiave al critico per costituire la catena evolutiva, e gli anelli di ferro serviranno a completare quelli d’argento e d’oro. — Dall’analisi di tutte queste tendenze che svelano le qualità ed i difetti organici di una scuola, dalla somma di tutti questi dati si arriva alla sintesi che è generalmente personificata dal maestro, la cui figura stacca allora più nitida sul fondo luminoso della sua gloria.

A Paolo Doni, più noto sotto il nome di Uccello, fu attribuito il ritratto del cardinale Niccolò da Prato, in cui, se si ritrovano i caratteri salienti della Scuola abbiamo però disegno angoloso e un colorito freddo e non vi è lo spirito del maestro.

Egli nato in un periodo di trasformazione artistica, quando già Masaccio aveva dettato le leggi del chiaroscuro e Ghiberti e Brunelleschi avevano perfezionato l’armonia delle composizioni con effetti pittorici nei bassorilievi ed altorilievi, seguì con impulso giovanile la riforma, e nel campo della prospettiva nei piani e dello scorcio nelle figure e negli animali combattè con successo le difficoltà.

Andrea del Castagno si avvicina a Paolo Uccello per l’apparenza scultoria dei suoi affreschi; ma più energico nelle attitudini, più forte disegnatore, nelle sue composizioni più [p. 44 modifica] drammatiche rivela uno studio coscienzioso dell’Anatomia con un colorito più succoso, con pennellata più larga.

Benchè fosse di dieci anni più vecchio del Masaccio, la sua pittura sembra un esagerazione realistica di quella con caratteri meno equilibrati, ma più drammatici.

La violenza del suo stile, sembra quasi rispecchiare la violenza del suo temperamento che si esplicò, secondo il Vasari, con l’uccisione di Domenico Veneziano suo compagno nella decorazione di S. Maria Nuova a Firenze; affermazione però contradetta dalla moderna critica storica.

A Prato vi è una Crocifissione, soggetto prediletto dall’artista e se confrontiamo questa tavoletta centinata con la grande composizione che sovrasta la Cena nel refettorio di S. Apollonia a Firenze, si vedrà come il processo tecnico ed il sentimento animatore scaturiscono da una medesima fonte, sebbene l’affresco per le sue dimensioni sia svolto con un insieme più imponente.

Nel piccolo lavoro di Prato è degno di osservazione e di ammirazione il gruppo della Madonna, di S. Giovanni e della Maddalena dove tre manifestazioni diverse del dolore sono studiate con efficacia intuitiva e rappresentativa. Nel S. Giovanni infatti vediamo [p. 45 modifica] espressa la lotta fra il sentimento che strazia l’animo e lo sforzo di dominarlo rivelato dal riflesso esteriore che conturba la fisonomia; la Madonna è la madre che, debole e più sensibile, disarmata di tutte le sue energie, della sua volontà, si sviene; nella S. Maddalena il dolore erompe violento in una crisi nervosa, ed essa singhiozzante si inginocchia ai piedi della croce fondendo le sue lacrime col sangue del Redentore.

Il San Girolamo ed il San Francesco, inginocchiati ci colpiscono per la strana somiglianza che hanno con i due Santi dipinti dall’Angelico nella grande Crocifissione nel convento di S. Marco a Firenze. Il lavoro prezioso di Prato ha subito dei ritocchi e la sua autenticità è stata da qualcuno messa in dubbio.

Una pallida idea della grazia ineffabile di Filippino Lippi si ha in una tavola con le figure della Madonna, S. Stefano e S. Giovanni Battista che gli fu ordinata dal comune di Prato il 29 Gennaio dell’anno 1501. Il gonfaliere e gli otto difensori del popolo, riporta il Cavalcaselle10 gli dettero dieci fiorini larghi d’oro per la compra dell’oro e dell’azzurro.

La pittura che era destinata ad ornare la sala [p. 46 modifica] dell’udienza del comune conserva ancora la sua bella cornice intagliata, ma è stata deturpata quà e là da ritocchi e lo stile del maestro è offuscato dalla mano di qualche scolaro.

Le due tavole di Fra Filippo: la Natività del Cristo e la Madonna della Cintola rispecchiano quel gentile misticismo che rendeFonte/commento: Pagina:A Prato impressioni d'arte.djvu/85 così seducenti e poetiche le sue creazioni religiose dove anche l’affetto matèrno ha tanta parte. Queste sue tempere sono così calde nei toni e robuste nell’impasto dei colori da sembrare pitture a olio.

Nell’ultima composizione la Madonna è la fisonomia meno espressiva e curata; ma le giovanili figure dell’arcangiolo Raffaele, di Tobia e di San Tommaso inginocchiato davanti alla Vergine, si impongono alla nostra più schietta ammirazione; interessante anche una predella che faceva parte della Natività ora al Louvre e su cui sono svolte le tre scene: la Circoncisione l’Adorazione dei re Magi ed il Massacro degl’Innocenti; la terza pittura offre molti punti di somiglianza con la piccola tavola del Beato Angelico ora all’Accademia a Firenze insieme a tutta quella preziosa raccolta di lavori suoi, condotti con la finezza scrupolosa del miniatore.

Vi è un’altra tavola che fu allogata al Lippi dagli ufficiali del Ceppo dei Poveri e che fino [p. 47 modifica] a pochi anni fa era tenuta nei locali di quella istituzione. Rappresenta la Madonna in trono, col bambino Gesù in grembo e ai lati Santo Stefano e San Giovanni Battista. Questa pittura ha un’importanza storica perchè ci fa conoscere Francesco Datini il fondatore del Ceppo che presenta i quattro Buonomini da lui scelti e destinati all’Amministrazione; ma è pur troppo rovinata da ritocchi, le tinte sono scialbe, monotone e, per la mancanza di rilievo, le figure sembrano appiattite sul fondo d’oro; la testa della Madonna è eseguita con amore.

In questa stessa sala si ammirano alcuni altri lavori, tra cui un’Ancona attribuita a Lorenzo Monaco (Vedi catalogo citato) che proviene dall’antica Badia degli Olivetani alle Sacca presso Prato; un ritratto di Francesco di Marco Datini supposto di Alessandro Allori che seduce la nostra pupilla per il colorito, solido nell’impasto e luminoso, specialmente nel lucco rosso; e una fontana di Ferdinando di Pietro Tacca (Sec. XVII) notevole per la briosa modellatura del Bacco spremente grappoli d’ uva. Questa fontana era prima sulla piazza del Comune, dove fu posta invece una copia; e se, per ragioni di conservazione fu bene il trasportarla, l’ambiente chiuso non giova certo al buon effetto dell’insieme. — [p. 48 modifica] Troppo lungo sarebbe passare in rassegna tutte le altre opere nella Galleria; mi limiterò solo ad accennare un bassorilievo di terracotta colorita ed invetriata: La Madonna con Gesù bambino, lavoro della buona Scuola Robbiana.

Nel volume secondo delle Gallerie Italiane11 edito per cura del Ministero della Pubblica Istruzione, trovo un interessante articolo di Paul Kristeller in cui il dotto critico d’arte esamina con la sua nota competenza una silografia scoperta nel Palazzo comunale di Prato e che ora si conserva nel Museo Civico di questa città.

Egli la considera uno dei più interessanti saggi dell’arte grafica del quattrocento senza però poter attribuirle una data precisa. Dall’accurato esame tecnico e stilistico del lavoro stabilisce che è stata fatta a mano e che le tinte sono state applicate mediante trafori e non con più lastre di legno; che corre una somiglianza tra la silografia di Prato e le meditazioni di San Bonaventura (Venezia 1487); ma poi dalla struttura delle figure e dal carattere delle fisionomie vi scorge l’influenza della scuola toscana, anzi di Filippo Lippi, come gli suggerì il Venturi. La silografia rappresenta la [p. 49 modifica] Crocifissione che in molte ingenuità e indeterminatezze di disegno sembra un lavoro di scuola bizantina; basti osservare come sono trattati i tre nudi del Cristo e i due ladroni: il tratto è duro, pesante, tutta la gabbia toracica è rilevata come in uno scheletro; alcuni volti però rispecchiano una forte e spiccata individualità.

I personaggi è vero sono troppo affollati quasi a ridosso gli uni su gli altri, ma atti ad esprimere la tragica sintesi di quella scena, specialmente il gruppo dove la Madonna svenuta è sorretta dalle sante donne, mentre la Santa Maria Maddalena è inginocchiata ai piedi della croce; al quadro pietoso si contrappone la violenza brutale di due soldati armati di mazza ferrata e di lancia per martirizzare le carni di Gesù, e come altra nota di contrasto un cavaliere colle braccia incrociate fa atto di adorazione; gli angioli volanti coi calici per raccogliere il sangue sembrano imitati dalle pitture del trecento12. [p. 50 modifica]Nella sala del consiglio vi sono affreschi della scuola di Antonio Vite, rappresentanti la Madonna e la Giustizia, ad attestare che nell’antico palazzo del Comune il simbolo della fede più pura si doveva collegare alla prima virtù del buon governo.

I primitivi associarono sempre l’idea religiosa alla politica cittadina, come vediamo nella Majestas di Simone Martini nel Palazzo publico a Siena e in quella di Lippo Memmi a S. Gimignano.

Altre interessanti pitture giottesche sono quelle di Niccolò di Pietro Gerini e di Lorenzo di Niccolò, nella chiesa di S. Francesco; il primo dipinse la Passione e la leggenda di S. Matteo e di S. Antonio di Padova; all’altro con qualche dubbio si attribuisce la Crocifissione di Gesù e la decorazione del soffitto con i quattro evangelisti che mi sembrano ridipinti13. Sono artisti che non hanno individualizzato il proprio stile ed hanno seguito [p. 51 modifica] la scuola come una tradizione e non come una evoluzione di forma e di concetto.

C. De Fabriczy nei Miscellanea dell’Archivio storico dell’Arte (1890) ci dà preziose e importanti notizie su alcune opere di Niccolò d’Arezzo e a noi interessarono particolarmente quelle che si riferiscono a Prato. A lui viene attribuita la nuova facciata del Duomo, come già ebbe a osservare Cesare Guasti nel suo libro sul pergamo di Donatello; e infine a sua massima lode il sepolcro di Francesco Datini con il fregio e l'iscrizione; mentre l’altro esterno fu eseguito da Lorenzo di Sandro Chambini, Ghoro di Niccolò e dal suo compagno Lorenzo di Domenico.

La chiesa di S. Domenico è un esempio di quella architettura gotica, che per impulso degli ordini religiosi di S. Francesco e di San Domenico fu adottata per la costruzione delle chiese nell’alta e media Italia nella metà del XIII secolo. — Pare che Giovanni Pisano ne sia l’architetto.

È indubitato che grande è stata l’influenza degli ordini Francescano e Domenicano sul movimento artistico; e negli affreschi commessi ai migliori artisti del tempo loro, hanno [p. 52 modifica] voluto magnificare, ciascuno dal canto suo, lo spirito del loro organismo monastico. Le chiese di Santa Croce e Santa Maria Novella sono un esempio bellissimo di questo interessante fenomeno psicologico. L’una mostra infatti come la vittoria su gli infedeli si ottenga con la scienza teologica leggendo e spiegando le sacre scritture, e così abbiamo il trionfo di S. Tommaso e la chiesa militante e trionfante nel cappellone degli spagnoli; l’altra invece svolgendo praticamente la storia dell’Evangelo, fa da Giotto dipingere alcune scene della vita di S. Francesco dove in ogni atto è il cuore che agisce e non il freddo raziocinio.

Nell’oratorio della Madonna del Buon Consiglio vi è un bell’altare che giustamente è stato attribuito ad Andrea della Robbia.

La Madonna siede in trono tra quattro santi, S. Maria Maddalena, S. Girolamo, S. Caterina dalle Ruote, regina d’Alessandria, ed un santo vescovo francescano; essa sorregge sulle ginocchia il bambino Gesù in piedi e volgendo la testa verso di lui lo guarda con viva tenerezza materna. Il suo volto è modellato con tocco sicuro e preciso come se tra le dita frementi del plasmatore scorresse e si [p. - modifica]Fotogr. AlinariBongini

Altare della Madonna del Buon Consiglio di Andrea della Robbia
[p. 53 modifica] trasmettesse la forza vitale. Il suo idealismo sereno e la sua naturale espressione lasciano in noi un ricordo indelebile. Un velo avvolge la testa lasciando scoperti i capelli ondulati ed il collo rotondo e pieno; i lineamenti sono regolari con naso dritto, con una piccola bocca che si schiude per sussurrare qualche affettuosa parola. Le mani che premono il nudo corpicino sono ben disegnate, ma il corpo è esile, sproporzionato al confronto della grande testa e non dà l'idea giusta di una persona che siede cosicchè il busto sembra indipendente dalle gambe.

Il bambino Gesù rivela l’autore dei famosi putti sull’ospedale degli Innocenti a Firenze, e lo scultore lo ha ritratto in tutta la sua grazia infantile con un ditino in bocca

S. Girolamo è la figura più espressiva, nel suo realismo drammatico. Egli scopre il petto ossuto dalle clavicole e costole sporgenti percuotendolo con una pietra, simbolo della sua penitenza. La sua testa ha tutti i muscoli contratti dallo spasimo, con la bocca contorta in un lamento.

Questo altare è quasi identico nell’aggruppamento delle figure, nelle pose e nelle espressioni a quello esistente nell’antica cappella della Rocca di Gradara vicino a Pesaro. Anselmo Anselmi ne parla in un suo articolo [p. 54 modifica] sulle maioliche dei Della Robbia nella Provincia di Pesaro-Urbino, pubblicato nell’Archivio storico dell’arte del 1895 e rileva la priorità dell’altare di Gradara su quello della Madonna del Buon Consiglio in Prato, ritenendo questo una riproduzione di quello.

Confrontando le due bellissime riproduzioni fotografiche dell’Alinari si possono rilevare le piccole differenze che vi sono tra le due bellissime terrecotte invetriate, differenze che si limitano alla posizione delle teste.

La Madonna di Gradara si volge più di profilo, il bambino è invece più di faccia, il paneggiamento è identico.

S. Caterina dalle Ruote di Gradara ha la testa più chinata, gli occhi bassi e le mani giunte, mentre quella di Prato guarda davanti a sè ed in una mano tiene la palma, nell’altra un libro.

S. Maria Maddalena di Gradara differisce solo per un leggero movimento della testa di tre quarti.

Il S. Girolamo di Gradara si volge di profilo, mentre quello di Prato è di tre quarti.

Nell’altare di Gradara come in questo di Prato vi è una bellissima cornice architettonica con una predella con tre scene religiose: S. Francesco che riceve le stigmate, l'Annunziazione, S. Maria Maddalena penitente. I [p. 55 modifica] Pilastri laterali ed il cornicione sono ornati da finissimi fregi.

Le statue di S. Paolo e di S. Lucia a fianco dell’altar maggiore sono così grossolane e tozze nella modellatura da ritenerle opera di qualche scolaro.

La chiesa della Madonna delle carceri è un esempio del primo Rinascimento che dal 1420 va al 1500. Giuliano da Sangallo, l’architetto dei convento di S. Maria Maddalena dei Pazzi e del palazzo Gondi a Firenze, dove si mostrò abile ed elegante scultore nella decorazione del camino, la costruì a volta ed a forma di croce greca tra il 1488 ed il 1492. Il Müntz14 ne tratteggia brevemente la fisionomia architettonica, errando però l’epoca del lavoro che stabilisce tra il 1485 e 1491.

Le piccola cupola rilegata agli archi inferiori per mezzo di un attico è nella sua forma simile a quella che il Brunellesco innalzò nella Cappella Pazzi a S. Croce, e la sua struttura architettonica segna un progresso ed una innovazione bellissima. [p. 56 modifica]

Andrea Della Robbia eseguì nei pennacchi, nel 1491, in terracotta smaltata, i tondi con le figure dei quattro Evangelisti.

Gaetano Guasti nel suo libro: I Quadri della Galleria e altri oggetti d’Arte del comune di Prato (Prato 1888), riporta a questo proposito preziosi documenti da lui diligentemente compulsati. Trascrivo ciò che si riferisce all’opera d’Andrea della Robbia in questo Oratorio, estratto dai Giornali della Muraglia, libro 1490-91, nell’archivio del Patrimonio Ecclesiastico di Prato.

«1491. Andrea di Marcho della Robia da Firenze, a di 13 di Maggio l. sesanta cinque, sono chontanti ebbe da noi per parte de’ 4 Vangelisti fa per questa opera.

«A Iachopo di Stefano di Guaspari, a dì 1 Luglio, l. 7, sol. 8, den. 4, sono chontanti gli demo per vettura de quattro Vangelisti invetriati ricevuti da Andrea di Marcho della Robia di Firenze.

«A Andrea di Marcho della Robia, a dì 20 Agosto, l. 78, sono chontanti gli paghamo per resto de 4 Vangelisti della nostra Opera, cioè per ogni resto. Portò Bartolomeo Fantalucchi.

«A Andrea di Marcho della Robia, a di 26 di Settembre, l. xxxviiij, e quali denari gli portò Bartolomeo Fantelechio nostro [p. 57 modifica]provveditore minore. Pagamogli per parte del fregio fa per decta Opera.

«1492. Andrea di Marcho della Robia de dare a di 14 decto (14 Aprile) fior, tredici larghi d’oro in oro, che dallo Spedale della Misericordia per poliza degli operai, per parte del fregio fior. X. l. 2 fior. tre larghi in oro per mordente e oro.»

Il motivo preferito dai Robbia si presta nella sua nota argentina spesso con qualche tenue colorazione, a completare degnamente l’architettura delle chiese e delle cappelle riposando l’occhio che ricerca l’armonia della linea. Ed in questo lavoro Andrea della Robbia è riuscito pienamente nel suo scopo, rivelando a chiare note la grandiosità del suo stile equilibrato in ogni sua parte con la più scrupolosa osservazione del vero.

Il carattere individuale dei 4 santi sorge potente dalla modellatura e raccoglie nella fisonomia e nell’atteggiamento tutto il nostro pensiero.

Il S. Giovanni Battista è forse la più perfetta fra le 4 figure; egli è là seduto intento a scrivere le strane visioni dell’isola di Patmos e ricorda il tipo ormai leggendario degli antichi profeti colla sua copiosa capigliatura e la lunga barba fluente e divisa sul petto! La sua struttura è forte come il pensiero che [p. 58 modifica] si palesa nello sguardo; le giunture delle belle mani sono potenti, ed il partito delle pieghe è trattato con larghezza di tocco. Il simbolo del santo, l’aquila, sta davanti a lui sorreggendo tra gli artigli il calamaio; il piumaggio è studiato dal vero e riprodotto esattamente in tutte le sue forme e nelle giuste posizioni; il rapace aggressivo apre il becco gettando un grido e ben piantato su una zampa dispiega una ala per prepararsi al volo.

Il fregio di terracotta smaltata che consiste di festoni sorretti da nastri svolazzanti legati a candelabri, e di ghirlande racchiudenti uno stemma, è uno dei più bei saggi dell’arte decorativa di Andrea.

Alla buona epoca Robbiana va ascritto il tabernacolo con nicchia per le abluzioni nella Sacrestia della chiesa di S. Niccolò da Tolentino.

Gli amatori di cose d’arte che vogliono averne notizie tecniche e storiche leggano l’articolo scritto in proposito da Giulio Carotti nell’Archivio storico dell’Arte del 1891. Certe qualità tecniche, come la soave armonia dei colori, indussero il Guasti ad attribuire il lavoro ad Andrea Della Robbia. Le opinioni [p. 59 modifica] del benemerito scrittore pratese sono combattute dal Carotti con l’esame ed il confronto di opere di Andrea e di Giovanni, concludendo che il tabernacolo si avvicina più alla maniera del primo e che può ritenersi uscito dalla sua bottega.

È certo che l’opera eseguita nel 1520 seduce l’occhio e ricorda Andrea nella sobria policromia che dilagò invece quasi sempre in contrasti violenti con Giovanni; e appaga anche il gusto estetico, specialmente nelle figure degli angioli e dei putti. I festoni che scendono ai lati dell’edicola smaltata offrono l’unico motivo ornamentale che ricordi il lavabo di Giovanni Della Robbia nella Sacrestia di S. Maria Novella a Firenze, che fu una delle sue opere giovanili del 1497.

Il Reymond nel suo libro già citato sui Della Robbia, sostiene però che se il lavoro non è di Giovanni ha indizi caratteristici della sua maniera. Nel timpano è la Madonna che sostiene il bambino Gesù, in mezzo a due angioli adoranti; in basso segue una ghirlanda che racchiude uno stemma con nastri svolazzanti simmetricamente dalle due parti; e al disotto due putti alati, mossi assai elegantemente, che tengono per il manico un anfora da cui escono frutta e fiori, come da una cornucopia. [p. 60 modifica]

Nella chiesa dello Spirito Santo si trova una tavola d’altare di Fra Filippo Lippi: La Presentazione del Bambino Gesù al Tempio; se le ritoccature eseguite probabilmente con tinte a olio opache e pesanti nascondono la freschezza originale, vi sono ancora le due figure inginocchiate dei frati serviti, committenti il lavoro, a palesare l’arte simpatica del maestro, le sue qualità di forte disegnatore e di armonico colorista.

La Madonna sembra preoccupata, ma piena di tenerezza materna. Gli altri personaggi S. Giuseppe, S. Simeone e i quattro Santi distribuiti due per parte sulla soglia di una porta sono meno interessanti. Da un documento rintracciato da Gaetano Guasti si rileva che la pittura fu eseguita tra il 1167-1168.

Un bellissimo esempio della austera e rude architettura medioevale si ha nel Palazzo Pretorio.

A Prato dunque possiamo ricostruire uno dei più bei periodi dell’Arte Italiana; dalla scuola drammatica di Giotto, e quella naturalistica di Masaccio in cui si temprarono generazioni di artisti. [p. 61 modifica]

Mentre il Cristianesimo scientifico e positivo del Medioevo analizza le anime umane per la vita celeste, l’Umanesimo più poetico anche nella sua erudizione classica, ricerca la bellezza e la giocondità della vita terrena; e così gli artisti nelle opere loro riflettono lo spirito dei tempi e riproducono l’ambiente in cui vissero.

Questa piccola città toscana, per la religione con cui conserva i suoi ricordi d’arte, per l’attività commerciale dei suoi operosi abitanti, sembra ancora mantenere l’antico carattere di Firenze comunale e republicana, quando artigiani e artisti lavoravano per la ricchezza e la gloria della città.


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NOTE AGGIUNTE


V. pag. 22, riga 25:

Da un documento dell’8 di Agosto 1452 si rileva, scrive il Milanesi, che Fra Filippo Lippi15 si obbligava di dipingere a Lorenzo Bartolini per 22 fiorini d’oro un tondo con una storia di Nostra Donna, ed in quel documento il Lippi è chiamato dipintore della Cappella maggiore della Pieve di Prato; da ciò si può stabilire che i lavori fossero già incominciati intorno a quell’epoca ed il Milanesi li ritiene eseguiti tra il 1453 e 1465.

Il vasto materiale storico vagliato e illustrato diligentemente da lui, ha gettato nuova luce su gli studi biografici e le ricerche archivistiche e lo Strutt come altri scrittori hanno liberamente mietuto nel suo campo specialmente nella parte aneddottica desunta e corretta sul testo vasariano.


V. a pag. 26, avanti gli asterischi:

Il crocifisso di bronzo nella Cattedrale attribuito a Ferdinando Tacca è esagerato nel suo rilievo osteologico, ma il reclinare della testa e l’abbandono delle membra non ancora irrigidite, è reso con la più squisita grazia e naturalezza. L’artista, se nell’imperversare del Barocco ne ha in parte subita l’influenza, ha saputo anche, trovando la nota del vero, svincolarsi risolutamente dalle sue caratteristiche morbosità. [p. 63 modifica]

V. pag. 51, riga 2:

La figura giacente di Gimignano Inghirami nel mausoleo marmoreo nel chiostro della chiesa di S. Francesco, è un lavoro de’ la buona epoca quattrocentista con reminiscenze di quell’Arte funeraria che fu così nobilmente interpretata da Desiderio da Settignano e dal Rossellino.


V. pag. 53, riga 27 fino a pag. 54, riga 24:

Nel Catalogo descrittivo delle opere d’Arte, esistenti nelle Marche e nell’Umbria, compilato da Giovanni Morelli e G. B. Cavalcaselle, per incarico del ministro Quintino Sella nell’anno 1861-62 e riportato nel Vol. II, anno II delle Gallerie Italiane Roma 1896, trovo che l’altare di Gradara (vedi pag. 53-54 del mio lavoro) è da loro attribuito a Luca Della Robbia, stimandone a 40,000 lire circa il valore. Per quanto il giudizio di giudici così competenti sia da prendersi in considerazione, i segni palesi dell’Arte di Andrea si impongono a mio credere e si affermano in modo assoluto, tanto da escludere qualsiasi altra opinione.


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Opere d’Arte menzionate


Duomo

Architettura di Gio. Pisano, pag. 7.
Lunetta di Andrea della Robbia, pag. 7.
Pergamo di Donatello e Michelozzo pag. 32 a 36.
Affreschi di Fra Filippo Lippi, pag. 8 a 17.
Tavola di Fra Filippo Lippi, pag. 18 a 20.
Affreschi di Agnolo Gaddi, pag. 23 a 25.
Affreschi dello Starnina e di Antonio Vite, pag. 25 a 26.
Tavola di Rodolfo Ghirlandaio, pag. 26.
Pulpito di Rossellino e Mino da Fiesole, pag. 28 a 30.
Tabernacolo della Madonna dell’Ulivo Madonna di Benedetto da Maiano e bassorilievi di Giuliano e Giovanni da Maiano, pag. 30.
Cancellata di Bronzo di ser Lapo nella Cappella della Madonna della Cintola, pag. 23.
Statua della Madonna di Giovanni Pisane nella Cappella della Cintola, pag. 31.
Arca Marmorea pel Sacro Cingolo, pag. 31.
Putto attribuito a Desiderio da Settignano (?), pag. 31, 32 (nota).
Facciata di Niccolò d’Arezzo, pag. 51.
Miniature, pag. 49, 50 (nota).
Sepolcro di Francesco Datini (esterno) di Lorenzo di Sandro Chambini, Ghoro di Niccolò e Lorenzo di Domenico, p. 51.
Sepolcro di Francesco Datini (interno) di Niccolò d’Arezzo, pag. 51.
Crocifisso di Bronzo di Ferdinando di Pietro del Tacca, pag. 62.

Canto al Mercatale

Tabernacolo di Filippino Lippi, pag. 36 a 39.

Palazzo Comunale

Predella d’Altare di Agnolo Gaddi, pag. 40.
Ancóna di Giovanni da Milano, pag. 41, 42.
Ritratto erroneamente attribuito a P. Doni, pag. 43.
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Crocifissione di Andrea del Castagno (?), pag. 44, 45.
La Madonna con due Santi, tavola di Filippino Lippi pag. 45, 46.
Natività del Cristo e Madonna della Cintola — tavole di Fra Filippo Lippi, pag. 46.
La Madonna in Trono, tavola di Fra Filippo Lippi pag 46, 47.
Predella di Fra Filippo Lippi, (della Natività ora al Louvre), pag. 46.
Ancóna attribuita a Lorenzo Monaco, pag. 47.
Ritratto di Francesco Latini dell’Allori (?), pag 47.
Fontana di Ferdinando di Pietro Tacca, pag. 47.
Terracotta invetriata di scuola Robbiana, pag. 48.
Xilografia del 400, pag. 48, 49.
Affreschi d’Antonio Vite nella sala del Consiglio, pag. 50.

Chiesa di S. Francesco

Affreschi di Niccolò di Pietro Gerini e di Lorenzo di Niccolò, pag. 50.
Sepolcro di Gimignano Inghirami nel Chiostro, pag 63.

Chiesa di S. Domenico

Architettura di Giovanni Pisano (?), pag. 51,

Oratorio della Madonna del Buon Consiglio

Altare di Andrea della Robbia, pag. 52 a 55.
Statue di S. Paolo e S. Lucia (Scuola Robbiana) pag. 55.

Chiesa della Madonna delle Carceri

Architettura di Giuliano da S. Gallo, pag. 55.
Tondi da Andrea della Robbia, pag. 56 a 58.
Fregio di terracotta smaltata di Andrea della Robbia, pag. 58.

Chiesa di S. Niccolò da Tolentino

Tabernacolo Robbiano per le abluzioni, pag. 58, 59.

Chiesa dello Spirito Santo

Tavola d’altare «La presentazione al tempio» di Fra Filippo Lippi, pag. 60.
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Scrittori citati


Anselmi, pag. 53.
Baldanzi, pag. 8, 18, 23, 24, 29.
Beltrami, pag. 35.
Burckhardt, pag. 16.
Caffi, pag. 35.
Carotti, pag. 58, 59.
Cavalcaselle e Crowe, pag. 12, 16, 42, 45, 50.
Cavalcaselle e Morelli, pag. 63.
De Fabriczy, pag. 33, 51.
Geymüller, pag. 33.
Guasti C., pag. 34, 51.
Guasti G., pag. 30, 41, 56, 58, 60.
Kristeller, pag. 48.
Milanesi, pag. 49, 62.
Müntz, pag. 34, 55.
Reymond, pag. 7, 59.
Schmarsow, pag. 26, 34
Strutt, pag. 21, 22.
Vasari, pag. 24, 34, 62

  1. Marcel Reymond nel suo aureo studio su Luca, Andrea e Giovanni della Robbia (Les della Robbia — Alinari frères, Florence 1897) ci fa assistere alla mirabile evoluzione dell’arte di Andrea, fermandosi sulle caratteristiche del suo stile e le sue tre distinte maniere. Se nella prima è la semplicità e dolcezza delle sue Madonne che ci seduce, nella seconda dà liberamente sfogo alla inesauribile sua fantasia, sfoggiando i motivi decorativi più ricchi e animando e variando tutte le sue sacre composizioni; nella terza, dominato e affascinato ad un tempo dal Rinascimento, ricerca la modellatura più larga e decisa. Su due antiche loggie fiorentine egli doveva poi rappresentare i due poli della sua attività artistica, la giovanile nei putti dell’ Ospedale degli Innocenti, la senile nell’incontro di S. Domenico con S. Francesco nell’interno della Loggia di S. Paolo. — Il Reymond tratta sommariamente la parte descrittiva, ma a questa mancanza suppliscono le nitide riproduzioni dovute tutte alla Casa Alinari di Firenze.
  2. Baldanzi Ferdinando, Della Chiesa Cattedrale di Prato. Descrizione corredata di notizie storiche e di documenti inediti in-8 con tavole. Prato, 1846.
  3. G. B. Cavalcaselle e I. A. Crowe. Storia della Pittura in Italia dal Sec. II al sec. XVI. Vol. IV. — Firenze, Le Monnier 1897.
  4. Le Cicerone Guide de l’arte moderne en Italie par J. Burckhardt traduit par Auguste Gèrard sur la cinquième èdition, revue et completée par le Dr. Wilhelm Bode. Seconde partie — Art moderne Paris. Firmin-Didot et C.
  5. Fra Filippo Lippi by Edward C. Strutt. London, George Bell, 1901.
  6. Nella sacrestia si conserva un putto a tutto rilievo da alcuni autori attribuito a Desiderio da Settignano, ma le forme un po’ tozze mi sembrano ben lontane da quella giocondità e snellezza giovanile che costituiva uno dei pregi maggiori delle sue opere, come si vede dai putti sulla tomba del Marzuppini nella chiesa di S. Croce a Firenze.
  7. V. Illustrazione della Chiesa di S. Eustorgio di Michele Caffi. Milano. 1841. La Cappella di S. Pietro martire, Luca Beltrami. — Archivio Storico dell’arte 1891.
  8. Gaetano Guasti. I Quadri della Galleria ed altri oggetti d’arte del comune di Prato con documenti inediti. Prato, 1888.
  9. Per le provenienze dei dipinti v. Catalogo della Galleria comunale di Prato. Tipografia Giachetti, 1900.
  10. G. B. Cavalcaselle e I. A. Crowe. Storia della Pittura in Italia vol. VII. Firenze, Le Monnier 1897.
  11. Le Gallerie Italiane. Roma 1896, Vol. II, Anno II.
  12. Anche la miniatura, l’arte paziente e precisa che alluminava i messali e alla quale i frati si dedicavano nelle loro piccole celle silenziose, doveva lasciare a Prato esemplari preziosi con i due antifonari eseguiti nel 1500, che il Milanesi dice trovarsi ancora nella cattedrale di Prato e che egli attribuisce ad Attavante degli Attavanti.
    La celebre bibbia urbinate della Vaticana, i codici nella Palatina di Modena, comprati da Alfonso I di Ferrara ed altre opere che il Milanesi ha descritto in un suo dotto lavoro sul celebre miniatore, attestano eloquentemente come non solo la sua tecnica era fine nel disegno e seducente nei colori, ma che anche la sua cultura impregnata di umanesimo era densa di pensieri religiosi.
  13. Riguardo ai rapporti avuti col Datini, alle ordinazioni ricevute e a notizie biografiche di Lorenzo di Niccolò. V. Cavalcaselle e Crowe op. cit. vol. II.
  14. Eugenio Müntz: L’età aurea dell’Arte Italiana. Milano, Tipografia del Corriere della Sera, 1895.
  15. Le opere di Giorgio Vasari — con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, tomo III. — Firenze, Sansoni 1878.