Vite dei filosofi/Libro Settimo/Vita di Zenone

Libro Settimo - Vita di Zenone

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Diogene Laerzio - Vite dei filosofi (III secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Lechi (1842)
Libro Settimo - Vita di Zenone
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LIBRO SETTIMO




CAPO PRIMO.


Zenone.


I. Zenone di Mnasio, o Demio, era cizìeo da Cipro, piccola città greca tenuta da coloni fenicii.

II. Al dire di Timoteo ateniese, nel libro Delle vite, aveva il collo inclinato da una parte; è secondo Apollonio tirio era magro, alquanto lungo, nero la pelle, (onde afferma Crisippo, nel primo Dei proverbi, che taluno lo chiamò per questo, sarmento egizio) e gonfio le gambe, e floscio e debole: e però, racconta Perseo ne’ Comentarj simposiaci, che per lo più evitava i conviti. — È fama che amasse i fichi verdi e lo starsi al sole.

III. Fu, secondo che già si narrò, discepolo di Crate: e dopo, tengono alcuni, come Timocrate, nel Dione, ed anche Polemone, aver egli udito eziandio Slilpone e Senocrate. Dice Ecatone e Apollonio tirio, nel primo libro di Zenone, che avendo egli interrogato l’oracolo, come potrebbe vivere ottimamente, rispondessegli il dio: [p. 72 modifica]se fosse di un colore coi morti. Il perchè, intesone il senso, si pose a leggere le cose degli antichi. — Si accostò poi a Crate in questa maniera: Portando di Fenicia della porpora per negoziare, fece naufragio presso il Pireo. Salito in Atene, che già avea trent’anni, si pose a sedere presso un libraio. Leggeva costui il secondo dei Comentarj di Senofonte. N’ebbe diletto, e chiese ove stessero uomini così fatti; e passando opportunamente Crate, il libraio lo mostrò ad esso dicendo: segui costui. Da quel giorno fecesi uditore di Crate; atto d’altronde alla filosofia, benchè troppo verecondo per la cinica impudenza. Ond’è che Crate volendolo guarire anche di questo, gli die’ a portare pel Ceramico una pentola di lenti, e poichè videlo farsi rosso e nasconderla, ruppe, con un colpo di bastone, la pentola. Postosi egli a fuggire e scorrendogli per le gambe le lenti, gli disse Crate: Perchè fuggi, Feniciattolo? non t’è accaduto nulla di grave. Per qualche tempo adunque udiva Crate.

IV. Poichè, sendosi scritta da lui La Repubblica, taluno ebbe a dire scherzando, che e’ la scrisse sulla coda del cane. Oltre La Repubblica scrisse anche queste opere: Della vita secondo naturaDegli appetiti, ossia Della natura dell’uomoDelle passioniDel dovereDella leggeDella educazione ellenicaDell’aspettoDel tuttoDei segniPitagoricheUniversaliDelle dizioniDi quistioni omeriche, cinque — Di lezioni poetiche. Sono pur sue: e L’Arte — e Le soluzioni — e due ArgomentiComentarjMorali di Crate — Questi sono i suoi libri. [p. 73 modifica]

V. Finalmente si separò da Crate, e per vent’anni fu uditore di quelli, di cui sopra abbiamo parlato. A proposito di che raccontano aver egli detto: Allora navigai felicemente ch’io feci naufragio. Altri afferma che ciò disse parlando di Crate; altri, che dimorando in Atene, udì il naufragio e disse: Fa bene la fortuna che ci spigne alla filosofia: ed altri che, vendute in Atene le mercatanzie, si die’ per tal modo a filosofare.

VI. Quindi passeggiando nel portico vario, quello che chiamasi anche 'Pisianacteo, ma per le dipinture di Polignoto vario, vi faceva i suoi discorsi, volendo che fosse frequentato anche quel luogo; poichè dai Trenta vi furono posti a morte sopra mille quattrocento cittadini.

VII. Vi accorsero in seguito i suoi discepoli, e perciò furono chiamati Stoici, non altrimenti che i loro successori; prima, a detta di Epicuro nelle Epistole, soprannomati Zenonii, perchè prima appellavansi Stoici i poeti che in esso frequentavano, pei quali, secondo Eratostene nell’ottavo Dell’antica commedia, ebbe assai incremento quella denominazione. Del resto gli Ateniesi tennero in sì gran concetto questo Zenone, che e le chiavi delle fortezze presso lui deponevano, e l’onoravano di corona d’oro e d’immagine di bronzo. Ciò fecero anche i suoi cittadini stimando un ornamento l’immagine di tant’uomo e fecero altrettanto per lui anche i Cizici di Sidone.

VIII. Fu egualmente accetto ad Antigono, il quale se talvolta veniva in Atene, recavasi ad udirlo, e molto lo pregava di andare da lui. Di questo per altro e’ si [p. 74 modifica]scusò; ma gli mandò Perseo, un suo famigliare, che era figliuolo di Demetrio, cizico di razza, e fiorì nella centrentesima Olimpiade, quando Zenone era già vecchio. La lettera di Antigono, secondo afferma Apollonio tirio ne’ suoi scritti sopra Zenone, è di questo tenore:

antigono re a zenone filosofo

salute.


„Nella vita certamente io credo starti innanzi per fortuna e per gloria, ma essere inferiore a te nel discorso, nel sapere e nella compiuta felicità, che tu possiedi. Il perchè ho risoluto eccitarti a venire da me, persuaso che tu non disdirai la richiesta. Sforzati dunque in ogni modo di unirti meco, pensando a questo, che non solo diverrai mio precettore, ma anche di tutti i Macedoni in breve; poichè egli è chiaro, che colui che ammaestra e guida alla virtù il principe di Macedonia, prepara ad essere valenti anco i sudditi; e tali per lo più diventano probabilmente i sudditi, quale è quello che comanda.“

E Zenone risponde così:

a re antigono zenone

salute.

„Approvo il tuo zelo d’imparare, inquanto che chi tende la mano alla filosofia, abbraccia lo studio del vero, e di ciò che mira all’utile, non il volgare e corrompitore dei costumi. E declinando dalla [p. 75 modifica]tanto vantata voluttà che ammollisce l’animo di alcuni giovani, ti fai vedere inclinato alla nobiltà non per natura solo, ma anche per deliberazione. Ora un’indole nobile, aggiuntovi moderato esercizio, e per sopra più copia di chi insegni, facilmente perviene all’ultimo acquisto della virtù. In quanto a me, per vecchiaia, essendo negli ottanta, impedito da fievolezza di corpo, non posso recarmi presso di te. Bensì mandoti alcuni miei compagni di studio, i quali nelle cose dello spirito non mi sono inferiori, mi vincono in quelle del corpo. Stando con essi non rimarrai secondo a nessuno di coloro che sono giunti ad una compiuta felicità.“ — E gli mandò Perseo e Filonida il tebano, d’ambedue i quali fa menzione Epicuro nella lettera al fratello Aristobulo, siccome di aventi famigliarità con Antigono.

IX. Parvemi poi di scrivere qui sotto anche il decreto degli Ateniesi per lui. — E sta così:

Sotto l’arconte Arrenida; nella quinta pritania della tribù Acamantide; a’ vent’uno di Memacterione, vigesimo terzo della pritania, nell’adunata solenne, Ippone di Cratistotele xipeteo, tra i proedri, propose, co’ suoi colleghi; Trasane di Trasane anaceo disse:

„Da che Zenone di Mnasio, cizieo, si dedicò per molti anni, in città, alla filosofia, e nel resto continuò ad essere uom dabbene, e i giovani che venivano a’ suoi ragionamenti con esortazioni fortemente eccitò alla virtù ed alla frugalità, ponendo per le cose ottime esempio a tutti la propria vita, che era conforme alle dottrine da lui insegnate; sotto fausti auspicii, il popolo ha [p. 76 modifica]decretato: che Zenone di Mnasio, cizieo, sia lodato e incoronato con corona d’oro, a termini di legge, per la sua temperanza e virtù, e gli si fabbrichi del pubblico eziandio un sepolcro nel Ceramico. — Della fattura della corona e dell’erezione del sepolcro eleggerà tosto il popolo i deputati, cinque persone fra gli Ateniesi, e il cancelliere del popolo farà incidere il decreto sovra due colonne, e gli sarà concesso porre l’una nell’Academia, l’altra nel Liceo; e lo spendio che si farà per le colonne verrà ripartito dall’intendente del tesoro; affinchè vegga ognuno che il popolo degli Ateniesi onora i buoni e in vita e in morte. — Sono eletti sopra la fabbrica: Trasone anaceo, Filocle pireo, Fedro anaflistio, Medone acarneo, Micito sipaletteo, Dione peanieo.“ — E il decreto sta così:

X. Dice Antigono caristio, non aver egli negato di essere cizieo; poichè essendo uno dei contribuenti al rifacimento di un bagno, fu descritto tra questi, sopra una colonna, il nome del filosofo zenone, ed ei pregò che vi fosse aggiunto anche quello di cizieo.

XI. Fatto un giorno un coperchio cavo ad un alberello, portava attorno del denaro, affinchè il suo maestro Crate avesse pronto di che sopperire ai bisogni. — Dicono ch’ei venisse in Grecia con più di mille talenti, e li prestasse coll’usura di mare.

XII. Mangiava piccoli pani e miele, e bevea vinello profumato.

XIII. Rado usò con fanciulli; una o due volte forse con una fanticella per non parere avverso alle donne. Abitava la stessa casa con Perseo; e questi avendo [p. 77 modifica]introdotta da lui una giovine flautista, e’ s’affrettò di ricondurla al medesimo Perseo.

XIV. Era, si dice, tanto compiacente, che re Antigono spesso facea bagordi da lui, o lo conduceva in sua compagnia a farne dal citarista Aristocle; ma egli vi si sottraeva dopo.

XV. Narrano, che e’ schifasse la molta frequenza del popolo, assidendosi fino sull’alto dei gradi, e quindi ne profittasse per un’altra parte di molestia. Cleante, nel suo libro Del rame, afferma, che esigeva da alcuni circostanti anche lo sborso di una moneta di rame, perchè non gli fossero importuni. E standogli intorno molte persone, mostrato nell’alto del portico il giro di legno dell’altare, disse: Questo una volta stava nel mezzo; ma perchè impediva, fu posto da banda, e voi pure togliendovi di mezzo, non c’importunerete.

XVI. Democare di Lachete salutandolo e dicendogli, che se abbisognava di qualche cosa, ne avrebbe parlato e scritto ad Antigono, quasi di tutto fosse provveduto da lui, uditolo, non praticò più seco. — Raccontasi pure che dopo la morte di Zenone, Antigono dicesse: quale teatro ho io perduto! Onde anche per mezzo di Trasone, legato presso gli Ateniesi, chiese per lui sepolcro nel Ceramico, e interrogato perchè tanto lo ammirasse? perchè, rispose, delle molte e grandi cose ch’io gli diedi non mai s’inorgoglì, nè fu veduto avvilirsi.

XII. Investigatore della verità, ogni cosa esaminava con gran diligenza, il perchè Timone così parla ne’ Silli: [p. 78 modifica]

     Nell’ombroso suo fasto la fenicia
     Vecchia ghiotta mirai, desiderosa
     Di tutto: ma in andar smarriasi il suo
     Picciol paniere; e avea d’una chitarra
     Peggior la mente.

— Disputava assiduamente con Filone, e seco lui ricreavasi; onde presso il più giovane Zenone non fu in minore stima di Diodoro suo maestro.

XVIII. Gli stavano d’intorno, come dice Timone, non so quali uomini ignudo-sudici:

     Chè una nube di poveri raccolse
     Fra quanti piu meschini e più leggieri
     Eran per la città.


— Egli poi era triste e severo, e raggrinzava la faccia; ed era oltre modo frugale e portato, a pretesto di economia, alla sordidezza dei barbari.

XIX. Se riprendeva taluno, il facea copertamente e non troppo, ma da lontano. Sia d’esempio ciò che una volta disse ad un tale, che si ornava con ricercatezza. Passando costui, con circospezione sopra una pozzanghera, disse Zenone: Teme il fango a ragione, perchè e’ non può specchiarvisi. — A non so quale Cinico, che affermando di non aver oglio nel suo vaso, ne chiedeva a lui, disse, che non ne darebbe; esortollo per altro, allontanandosi, a considerare chi dei due fosse più sfrontato. — Sentendosi amorosamente [p. 79 modifica]disposto per Cremonide, e, standogli assiso da presso quegli e Cleante, ei s’alzò. Meravigliandosene Cleante, dissegli: Odo anche da’ buoni medici, il riposo essere un potentissimo rimedio per le enfiagioni. - Due in un convito erano seduti superiormente a lui, e quello che stavagli dappresso urtava col piede il sottoposto. Lo urlò egli col ginocchio, e dissegli, poichè si voltò: Che pensi dunque soffra da te colui che ti sta sotto? — Ad un amatore di ragazzi disse: Non hanno senno, nè i maestri che conversano co’ fanciulletti, nè costoro. — Ripeteva pure che i discorsi degli eruditi, eziandio quando perfetti, erano simili all’argento alessandrino: grato alla vista, e improntato d’intorno, come la moneta, ma perciò non punto migliori. Quelli che altrimenti, assimigliava all’attiche tetradramme ornate a caso e rozze; per altro spesso preponderanti alle dizioni bene scritte. — Si disputavano da Aristone suo discepolo molte cose senza ingegno, alcune anche affrettatamente e con petulanza: Impossibile, disse, parlar così, se tuo padre non ti avesse generato mentre era ubbriaco; il perchè lui chiamava chiacchierone pur quando era stringato. — Ad un mangiatore, che nulla lasciava indietro a’ commensali, fu una volta servito un gran pesce. Se lo prese Zenone, e cominciando a mangiarlo solo, disse a lui che lo guatava fiso: Qual pensi che fosse il patire de’ tuoi commensali ognidì, se tu non puoi comportare un giorno solo la mia ghiottornia? — Propostagli certa quistione da un giovine curioso oltre l’età, lo condusse innanzi ad uno specchio, e gli comandò di guardarsi in quello; poscia gli chiese se tali quistioni parevangli [p. 80 modifica]accordarsi col suo volto. — Ad un tale che andava dicendo molte cose di Antistene non piacergli, chiese, recitando una sentenza di Sofocle, se non gli parea ch’esso pure avesse alcun che di buono; e dicendo costui di non saperlo: Dunque non ti vergogni, soggiunse, di scegliere e rammentare ciò che Antistene avesse mal detto, e di non istudiarli di ritenere ciò che bene? — Ad uno cui parevano brevi i motti dei filosofi, disse: È vero; ciò nulla meno dovrebbero anche le sillabe di quelli essere più brevi, se fosse possibile. — Affermando alcuni di Polemone, ch’altro proponeva e d’altro parlava; fatto brutto viso, chiese, quanto gli si dava? — Asseriva, che chi disputa dee avere, a guisa degli istrioni, gran voce e forza, ma non deve per altro allargare la bocca; lo che fanno coloro i quali dicono molte cose, ma fiacche. — Quelli che parlano bene, affermava, non aver mestieri, come i buoni artisti, di cangiar sito per farsi ammirare; e per converso chi ascolta, dover essere tanto occupato di coloro che parlano, da non aver tempo alle considerazioni. — Ad un giovinetto assai loquace disse: Le orecchie ti sono andate nella lingua. — Ad un bello, il quale diceva, non parergli che il sapiente potesse amare: Nessuno, rispose, sarebbe più misero di voi altri belli! — Affermava che eziandio molti filosofi erano insipienti in molte cose, ignoranti le piccole e le fortuite. Ed allegava il fatto di Cafesia, il quale scorto un suo discepolo gonfiarsi troppo, gli disse, percotendolo, come non nel grande fosse posto il bene, ma nel bene il grande. — Un certo giovane disputava più che audacemente; dissegli: Non potrei raccontarti, [p. 81 modifica]o fanciullo, le cose che mi soccorrono! — Uno da Rodi, bello, ricco e nulla più, gli si pose vicino; non volendolo tollerare, prima lo fece sedere su’ panche polverose, perchè insudiciasse la clamide; poi nel posto dei poveri, onde lo sfregassero co’ loro stracci. Il giovine finì coll’andarsene. — Appellava l’orgoglio la più sconveniente di tutte le cose, massime ne’ giovani. E diceva non doversi tenere a memoria le voci e le frasi, ma sì occupare la mente nello stabilire ciò che è utile, onde non prenderle come qualche cosa di colto e preparato. Ed essere mestieri che i giovani praticassero la decenza in tutto, nell’incesso, nel portamento e nell’abito; e citava spesso i versi di Euripide sopra Capaneo: ch’egli

     Grandi sostante possedea, ma poco
     Alla ricchezza altero, più fastoso
     D’un mendico non era.


— Diceva nulla essere più contrario della poesia all’acquisto del sapere; e noi di nulla più bisognosi che del tempo. Interrogato, che cosa è un amico, rispose: Un altro me. — Batteva, narrano, uno schiavo per furto; dicendogli costui: era destino in me il rubare; E l’esser battuto, risposegli. — Diceva che la bellezza era il fiore della voce; altri, che la voce della bellezza. — Vedendo il fanciulletto di uno tra’ suoi famigliari coi segni delle battiture, disse a questo: Veggo le impronte della tua collera. — Ad un tale unto di unguento, Chi è, disse, che sa di donna? — Sendogli addimandato da [p. 82 modifica]Dionisio il Disertore, perchè lui solo non correggesse? rispose: Perchè non ti credo. — Ad un giovine cianciatore, Ecco, disse, abbiamo due orecchie ed una bocca sola, affinchè ascoltiamo di più e parliamo di meno. — Standosi senza parlare corcato in una cena, fu richiesto del perchè; rispose a chi ne lo biasimava, annunciasse al re, che eravi presente un tale che sapeva tacere. Quelli che interrogarono erano ambasciatori provenienti da Tolomeo, e desiderosi di sapere ciò che di lui dovessero dire al re. — Interrogato, come si sarebbe condotto in caso di maldicenza? A quel modo, rispose, che si rimanderebbe un ambasciatore senza risposta. — Racconta Apollonio tirio, ch’e’ disse a Crate, che via traevalo pel mantello da Stilpone: Oh Crate, la presa dei filosofi fossi destramente per gli orecchi: traimi dunque persuadendo questi. Forzandomi, il corpo sarà teco, ma presso Stilpone l’anima.

XX. Conversò, secondo afferma Ippoboto, eziandio con Diodoro, e da lui apprese le dialettiche; e sebbene già avesse fatto progressi, per modestia s’introduceva anche da Polemone, di modo che, narrano questi avergli detto, invano ti nascondi, o Zenone, col cacciarti furtivamente per le porte degli orti, e col travestire alla fenicia i dommi che rubi. — Ad un dialettico che, in un discorso mietitorio, dimostrava sette specie dialettiche, chiese quanto denaro ne esigesse; e sentendo che cento dramme, dugento gli ne diede. Tanto coltivava l’amore dello studio.

XXI. È fama ch’ei prima usasse il nome di dovere [p. 83 modifica]([testo greco]), e componesse intorno a quello un trattato; e mutasse i versi d’Esiodo così:

     Ottimo al tutto è colui che si affida
     A’ ben parlanti; ma pur buono è quello
     Che da sè stesso conosce ogni cosa.


Essere perciò migliore chi può ascoltare quello che ben si dice, ed usarne, di chi per sè ogni cosa medita. Poichè di costui è proprio solo il comprendere; ma in quello che si lascia ben persuadere va unita anche la pratica.

XXII. Interrogato, perchè essendo così austero, diveniva gaio ne’ simposj? rispose: Anche i lupini che sono amari indolciscono bagnandoli. Ecatone nel secondo delle Crie afferma del pari, ch’era troppo indulgente per simili compagnie. Era solito dire tornar meglio sdrucciolare co’ piedi che colla lingua. — Non essere certo poca cosa ciò che è quasi bene. Questo si attribuisce da altri a Socrate.

XXIII. Era pazientissimo e frugalissimo, usando cibi che non si cuocono, e mantello leggiero; di modo che si diceva sul conto suo:

     Non domano costui nè l’aspro verno,
     Nè la dirotta pioggia; non la fiamma
     Del sole, o il crudo morbo, o quanto in prezzo
     Tiene il volgar; ma infaticabil sempre
     Tende alla sapienza e notte e giorno.

XXIV. Per altro i comici non sapevano di farsi [p. 84 modifica]suoi lodatori coi sarcasmi; siccome Filemone, che nel dramma I filosofi, dice così:

     Costui filosofeggia una novella
     Filosofia; insegna la miseria
     E discepoli acquista: mangia un pane,
     Fichi in pietanza e sopravi dell’acqua.


— Altri intendono di Posidippo. — Già quasi era ito in proverbio il dire, parlando di lui, più temperante del filosofo Zenone. Ed anche Posidippo ne’ Traslati:

               — Perocchè in dieci giorni
     Parve più continente di Zenone.

XXV. E veramente sorpassava ognuno e in questa sua qualità, e nella gravità, e, per Giove, anche nella felicità; poichè di ott’anni sopra i novanta finì di vivere, essendo campato sano e senza malattia. Ma Perseo, nelle Ricreazioni morali, afferma che e’ finì di settanta due anni, e venne in Atene di ventidue; e Apollonio dice che fu a capo della sua scuola due anni meno di sessanta.

XXVI. Morì in questo modo. Nell’uscire di scuola inciampò e si ruppe un dito. Battendo quindi colla mano la terra disse le parole della Niobe:

     — Vengo; perchè mi chiami?


e morì di fatto soffocandosi da sè stesso. Gli Ateniesi [p. 85 modifica]lo seppellirono nel Ceramico e l’onorarono del surriferito decreto, attestando della virtù di lui; e Antipatro sidonio così poetò:

   Questo è Zenone di Cizio delizia,
      Che salì un giorno a cielo, e non impose
      Pelio ad Ossa, nè fece erculee prove:
      Virtù sola trovò sentiero agli astri.


E in altro modo Zenodoto lo stoico, scolaro di Diogene:

   Posto il bastare-a-sè, la vanitosa
      Sprezzi ricchezza, per canuto ciglio
      Venerando Zenone; chè un virile
      Discorso rinvenisti, combattendo
      Con previdenza una dottrina, madre
      Di libertade intrepida. — Qual male
      Se di patria fenicio? Eralo Cadmo,
      Da cui la Grecia ebbe sue scritte carte.


E in comune poi, anche su tutti gli Stoici, l’epigrammista Ateneo dice così:

   Oh dotti negli stoici discorsi,
      Oh voi, che nobilissime dottrine
      Ne’ vostri sacri libri riponete,
      È virtute dell’alma il solo bene:
      Poichè sola a mortali custodisce
      La vita e le città. Ma della carne,
      Dolce fine agli altri uomini, il piacere
      Perfezionò una figlia di Mnemosine.

[p. 86 modifica]Come morisse Zenone dicemmo anche noi nel Pammetro in questo modo:

   Dicono che il cizieo Zenon morisse
      Per gran travaglio di vecchiezza, alcuni;
      Altri perchè senta cibarsi stesse;
      Altri perchè ferito un dì cadendo
      Disse, percossa colla man la terra:
      Vengo da me; perchè mi chiami, o morte?


poichè taluno afferma ch’e’ morisse eziandio così. — E questo intorno alla sua morte.

XXVII. Racconta Demetrio magnesio, negli Omonimi, che spesse volte il padre di lui, Mnasio, veniva in Atene e molti libri socratici portava a Zenone, ancor fanciullo. Il perchè già io patria informato alla filosofia, e così recatosi in Atene, accostato si era a Crate. — E dice, credere ch’egli ponesse fine agli errori delle enunciazioni. — E giurava, dicono, pel cappero, come Socrate pel cane.

XXVIII. Sono per altro alcuni, tra quali Cassio lo scettico, che accusano Zenone in molte cose; primo, allorchè dimostra inutili le discipline encicliche, parlandone in principio Della Repubblica, secondo, allorchè afferma essere nemici fra loro e battaglieri, e schiavi e stranieri tutti gli uomini non virtuosi, i genitori ed i figli, i fratelli e i fratelli, i famigliari e i famigliari; e di nuovo, nella Repubblica, quando insegna, cittadini, e amici, e parenti, e liberi essere soltanto i virtuosi, di modo che per gli Stoici sono nemici i genitori ed i [p. 87 modifica]figli, perchè non sono sapienti; e quando stabilisce, nella Repubblica del pari e ne’ dugento versi, essere comuni le donne, e non doversi fabbricare nelle città nè sacrati, nè tribunali, nè ginnasi; e della moneta così scrive: Credere che nè in grazia de’ cambi, nè in grazia de’ viaggi, sia necessario preparare la moneta; e vuole che uomini e donne usino le stesse vesti; nè celino i genitali.

XXIX. Che questa Repubblica sia di Zenone, lo asserisce anche Crisippo nel primo della sua Repubblica. Trattò di cose amatorie nel principio del libro che s’intitola Dell’arte amatoria; e di tali argomenti scrisse anche nelle Diatribe. Alcune di sì fatte accuse stanno presso Cassio ed eziandio presso Isidoro retore da Pergamo, il quale affermò che da Atenodoro lo stoico, cui era affidata la biblioteca di Pergamo, furono espunte dai libri le male cose scritte dagli Stoici; dopo rimessevi, quando Atenodoro fu collo sul fatto e accusato. — E questo per le cose di che lo si accagionava.

XXX. Furono otto Zenoni: primo l’eleate, di cui diremo. — Secondo quest’esso. — Terzo un da Rodi, che scrisse una storia particolare del suo paese. — Quarto l’istorico, che scrisse la campagna di Pirro in Italia ed in Sicilia, e anche un ristretto delle cose operate dai Romani e dai Cartaginesi. — Quinto un discepolo di Crisippo, che compose pochi libri, ma lasciò molti scolari. — Sesto un medico erofileo, atto al concepire, fiacco nello scrivere. — Settimo un grammatico, del quale fra l’altre cose vanno attorno anche epigrammi. — [p. 88 modifica]Ottavo uno nativo di Sidone, filosofo epicureo, chiaro nel concetto e nell’esposizione.

XXXI. Discepoli di Zenone furono molti, ma celebri: Perseo di Demetrio cizieo; secondo alcuni suo famigliare, secondo altri servo, uno di quelli che gli spedì Antigono per copiar libri; e fu anche allevatore del figlio Alcinoo. Antigono un giorno volendo prendere costui ad una prova, fecegli simulatamente recare l’annunzio che i suoi poderi erano stati rubati da’ nemici; e mostrandosene Demetrio rammaricato, vedi, gli disse, che non è la ricchezza indifferente? Corrono per suoi questi libri: Del regnoLa repubblica lacedemoneDelle nozzeDell’empietàIl TiesteDegli amoriDiscorsi esortatoriiDi diatribeDi Crie, 4 — ComentariiSulle leggi di Platone, 7. — Aristone, precettore di Milziade, chio, introduttore dell’indifferenza. — Erillo, cartaginese, che disse esser fine la scienza. — Quel Dionisio che si trasferì alla voluttà da che per grave malattia d’occhi, non osò più chiamare indifferente il dolore. Era costui eracleote. — Sfero, bosforiano. — Cleante di Fanio, assio, che gli successe nella scuola, e fu da lui paragonato alle tavolette di cera dura, che difficilmente si scrivono, ma conservano le cose scritte. — Sfero dopo la morte di Zeno ne udì pure Cleante; e diremo di lui nella vita di Cleante. — Discepoli di Zenone furono, secondo Ippoboto, anche questi: Filonida, tebano. — Callippo, corinzio. — Posidonio, alessandrino. — Zenone, sidonio.

XXXII. Di tutti in comune i dommi stoici ho giudicato parlare nella vita di Zenone, perchè fu costui

[p. - modifica] [p. 89 modifica]il fondatore della setta, e sono suoi i molti libri sopra descritti, ne’ quali così ragioni, che nessuno degli Stoici. Universalmente adunque sono questi i dommi, toccandone, come usammo fare cogli altri, per capi.

XXXIII. Triplice affermano in filosofia il discorso; cioè fisico, morale e logico. Così il primo, lo divise Zenone cizieo nel libro Del discorso, e Crisippo nel primo Del discorso e nel primo delle Fisiche, e Apollodoro e Sillo nel primo delle Introduzioni a’ dommi, ed Eudromo ne’ suoi Elementi morali, e Diogene babilonese, e Posidonio. A queste parti Apollodoro dà il nome di Luoghi, Crisippo ed Eudromo di Specie, altri di Generi. Paragonano la filosofia ad un animale, assomigliandone il discorso logico all’ossa ed a’ nervi, il fisico alle carni, all’anima il morale; o in altro modo, ad un uovo, le cui parti esterne sono il logico, le successive il morale, le più interne il fisico; o ad un campo fertile, alla cui siepe circostante paragonano il logico, il morale al frutto, alla terra od alle piante il fisico; ovvero ad una città munita benissimo di muraglie e governata secondo ragione; nessuna parte, come affermano alcuni, è preferibile all’altra, ma sono miste; e mista ne trasmisero la dottrina. Altri stabiliscono primo il logico, secondo il fisico, e terzo il morale. Tra questi è Zenone, nel libro Del discorso, e Crisippo e Archedamo. Diogene tolemaico comincia dall’etiche; le etiche pone seconde Apollodoro; e Panezio e Posidonio principiano dalle fisiche, secondo narra Fania discepolo di Posidonio, nel primo libro delle Scuole di Posidonio. Cleante parla di sei parti: dialettica, retorica, [p. 90 modifica]etica, politica, fisica, teologica. Altri non del discorso chiama queste parti, ma della stessa filosofia, come Zenone traseo.

XXXIV. Tengono alcuni doversi dividere la parte logica in due scienze, in retorica e in dialettica; ed altri eziandio in un genere definitivo intorno le regole ed i giudizj. Alcuni tolgono via il definitivo; quello assumendo che riguarda le regole ed i giudizj al ritrovamento della verità, poichè in essa dirigono le diversità delle fantasie. Anche il definitivo usano parimente al riconoscimento del vero; da che per le nozioni si concepiscono le cose. Ed arte retorica chiamano il dir bene nello svolgimento dei discorsi: e dialettica il ragionare dirittamente ne’ discorsi che si fanno per dimanda e risposta. Così la definiscono eziandio scienza delle cose vere e false, o che non sono nè l’uno nè l’altro. Dicono poi essere tripartita la stessa retorica, cioè, una parte di essa deliberativa, una giudiciale, una dimostrativa; e dividersi in invenzione, in dizione, in disposizione e in azione; e il discorso oratorio, in esordio, in narrazione, confutazione ed epilogo.

XXXV. E dividersi la dialettica nel luogo delle cose significative ed in quello della voce; e il luogo delle cose significative nel luogo delle fantastiche e nel luogo di quelle che hanno sussistenza dalle loro enunciazioui e sono perfette da sè, e dai predicamenti, e simili, retti e obbliqui, e generi e specie; e del pari anche da discorsi, e luoghi, e sillogismi, e dai sofismi della voce e delle cose; dei quali sono i falsi ragionamenti e i veri, e i negativi, e i soriti, e i simili a’ questi, deficienti, ambigui, [p. 91 modifica]conchiudenti, nascosti, e cornuti, e nulli, e mietenti; ed essere un luogo particolare della dialettica anche ciò che prima si disse della voce stessa, nel quale si mostra la voce scritta e quante sieno le parti del discorso, e il solecismo e il barbarismo e i poemi e le ambiguità e le modulazioni della voce, e la musica, e i limiti, secondo alcuni, e le divisioni e le dizioni. — Affermano essere utilissima la teorica sui sillogismi, perchè offre la dimostrazione, che giova alla correzione dei dommi; e l’ordine e la memoria scientifica dimostrare la comprensione; e il discorso stesso essere un sistema formato di lemmi e d’illazione; e il ragionamento sillogistico trarre il sillogismo da questi; e la dimostrazione essere un discorso, per mezzo di ciò che meglio si comprende, di ciò che meno si comprende delle cose che si paragonano; ed essere la fantasia un’impronta dell’animo, derivatone convenevolmente il nome dalle impronte che fa l’anello nella cera; e della fantasia una essere comprensibile, l’altra incomprensibile: comprensibile quella che dicono criterio delle cose, e deriva da un oggetto esistente, secondo esso oggetto esistente improntata e modellata; incomprensibile quella che non da oggetto esistente, od anche da esistente deriva, ma non secondo esso oggetto esistente, e non ha chiara impronta. Tengono poi che la dialettica sia necessaria e una virtù contenente virtù in ispecie; e l’improviso ([testo greco]), scienza del quando debbasi assentire e no; e il circospetto ([testo greco]), valido ragionamento contro il verisimile, onde non abbandonarci ad esso; e il non redarguibile ([testo greco]), potenza nel discorso, per non essere da essa condotti [p. 92 modifica]all’opposto; e il non frivolo ([testo greco]), abito che le fantasie riconduce al retto discorso. La stessa scienza chiamano, o una certa comprensione, o un abito nel ricevere le fantasie non derivante dalla ragione. Nè senza dialettica speculazione dover essere il savio stabile nel discorso; poichè da quella si riconosce il vero ed il falso, e il probabile e l’ambiguamente asserito si discerne; nè essere senz’essa nella Via d’interrogare e rispondere; ma estendersi la temerità nelle risposte e nelle cose che si fanno, sino a travolgere nel disordine e nella frivolezza colui che non ha esercitate le fantasie; nè altrimenti acuto e sagace e al tutto abile ne’ discorsi il sapiente mostrarsi; poichè è da lui il parlare dirittamente e dialogizzare, da lui discutere le cose proposte, rispondere a chi interroga; lo che è da uom perito nella dialettica. — Questo adunque nelle logiche tiensi, in compendio, da essi.

XXXVI. Ma acciocchè diciamo eziandio partitamente delle cose che da loro si estendono all’arte introduttiva, riferiscansi, secondo la lettera, anche quelle che Diocle magnesio pone nelle Escursioni de’ filosofi, dicendo così: Piace agli Stoici mettere in primo luogo il discorso della fantasia e del senso, poichè il criterio, al quale si conosce la verità delle cose, deriva da un genere di fantasia, e perchè il discorso del consenso della comprensione e dell’intelligenza, che, va innanzi dell’altre cose, non sussiste senza fantasia: però precede la fantasia, succede l’intendimento esponitore, il quale ciò che prova la fantasia, riferisce col discorso. Differiscono poi fantasia e fantasmi; poichè il fantasma [p. 93 modifica]è un’opinione della mente, quale si genera nel sonno, e la fantasia è un’impronta nell’anima, cioè a dire una mutazione, siccome Crisippo, nel duodecimo Dell’anima, sostiene. Nè s’ha a tenere l’impronta come impronta di sigillo, dacchè è impossibile che molti tipi si facciano da uno stesso oggetto sopra uno stesso luogo. Intendesi per fantasia quella che da un oggetto esistente, secondo che esiste, è impressa, e dentro figurata e sigillata, come non si sarebbe potuto fare da cosa non esistente. Delle fantasie, secondo essi, alcune sono sensibili, alcune no. Sensibili quelle che per mezzo di uno, o più sensi si ricevono; non sensibili quelle che per mezzo del pensiero, come le incorporee e l’altre che pel discorso si comprendono. Quelle che sono sensibili nascono dagli oggetti esistenti per cessione e consenso. V’hanno fantasie anche di apparenza, le quali nascono come da cose esistenti. In oltre delle fantasie alcune sono razionali, alcune irrazionali. Razionali quelle degli animali ragionevoli; irrazionali quelle degli irragionevoli. Le razionali quindi sono della mente, le irrazionali non ebbero nome. Altre sono artificiali, altre non dell’arte; e però altrimenti si contempla l’immagine dall’artista, altrimenti dal non artista. Senso, secondo gli Stoici, dicesi e lo spirito, che dalla parte principale dell’anima a’ sensi proviene, e il comprendimento per mezzo di questi, e la fabbrica degli organi pe’ sensi, per la quale alcuni riescono manchi; e chiamasi senso l’azione. Il comprendimento delle cose bianche e nere, aspre e lisce si fa bensì, secondo loro, col senso; ma colla ragione quello delle cose che sono raccolte col mezzo della [p. 94 modifica]dimostrazione, come essere gli dei, e questi providenti. Poichè delle cose che si intendono, alcune s’intendono per incidenza, alcune per similitudine, queste per analogia, quelle per trasposizione, le une per composizione, le altre per opposizione. Per incidenza si conobbero le cose sensibili; per similitudine le cose da alcun che posto ad esse vicino, come Socrate dall’immagine; per analogia dall’aumentare, come Tizio e Ciclope; e col diminuire, come Pigmeo; e si conobbe il centro della terra per analogia di altre sfere più piccole; per trasposizione, come occhi sul petto; per composizione si concepì l’ippocentauro, e per opposizione la morte. Si pensa alcuna cosa anche per traslazione, come ciò che si è detto, ed il luogo; si conosce naturalmente il giusto ed il buono; e per privazione, soltanto il monco. — Qualche cosa di sì fatto dommatizzano sulla fantasia, sulla sensazione e sul comprendimento.

XXXVII. Criterio della verità affermano essere la fantasia che ha la facoltà di comprendere, quella cioè che deriva dalle cose esistenti, secondo Crisippo, nel dodicesimo delle Fisiche, e Antipatro e Apollodoro. Poichè anche Boeto tralascia parecchi criteri, mente, sensazione, appetito e scienza. Crisippo differendo da lui, nel primo Del discorso, dice essere criteri la sensazione e l’anticipazione. L’anticipazione è un’intelligenza naturale delle cose universali. Alcuni degli antichi Stoici ci lasciano a criterio la diritta ragione, siccome riferisce Posidonio nel primo Del criterio.

XXXVIII. Pare concordemente ai più che la speculazione dialettica sia da incominciare dal luogo della [p. 95 modifica]voce. È la voce, conforme si dice da Diogene babilonese nell’Arte della voce, aria percossa, ovvero il sensibile proprio dell’udito. La voce dell’animale è aria percossa con impeto, ma nell’uomo è articolata e mossa dalla mente, secondo Diogene, e questa voce è perfezionata di dodici anni. E corpo è la voce secondo gli Stoici, al dire di Archedamo, nel trattato Della voce, di Diogene, di Antipatro e di Crisippo, nel secondo delle Fisiche, poichè tutto che opera è corpo, ed opera la voce che dai parlanti va agli uditori. Dizione, afferma Diogene, è voce scrivibile, come giorno. Discorso è voce significativa, derivata dalla mente, come è giorno. Dialetto è dizione caratterizzata alla maniera particolare di un popolo e grecamente, o dizione qual siasi, cioè che abbia qualità da un dialetto, come, all’attica Mare ([testo greco]), all’ionica Giorno ([testo greco]). Elementi della dizione sono le ventiquattro lettere. In tre maniere appellasi la lettera, elemento, figura dell’elemento e nome, come alfa; e degli elementi sette sono vocali, α, ε, η, ι, ο, υ, ω: muti sei, ζ, γ, δ, κ, ν, π. Differiscono poi voce e dizione, perchè voce è nel vero anche suono, ma dizione suono articolato soltanto. La dizione differisce dal discorso, perchè il discorso è sempre significativo, e la dizione eziandio non significativa, come la parola [testo greco] (Blitri), ma non mai il discorso. Differisce anche il dire dal proferire, poichè si proferiscono le voci, ma si dicono le cose che per avventura si possono dire.

XXXIX. Cinque sono le parti del discorso, secondo Diogene, nel libro Della voce, e secondo Crisippo: nome, appellazione, verbo, congiunzione, articolo. Antipatro, [p. 96 modifica]ne’ suoi libri Della dizione e Delle cose che si dicono, pone anche il mezzo. Appellazione, secondo Diogene, è una parte del discorso che significa una qualità comune, come uomo, cavallo; nome è una parte del discorso che esprime una qualità particolare, come Diogene, Socrate; verbo è una parte del discorso significante, secondo Diogene, un semplice attributo, e secondo taluni, un elemento del discorso, senza casi, il quale significa un che di composto in relazione ad una o più cose, come: io scrivo, io parlo; congiunzione è una parte del discorso, senza casi, che collega le parti del discorso; articolo è un elemento del discorso che ha casi, e che distingue i generi dei nomi, ed i numeri, come [testo greco].

XL. Cinque sono i pregi del discorso: grecismo, perspicuità, brevità, convenienza, grazia. Grecismo è la frase corretta, secondo arte, e non la imitazione della consuetudine; perspicuità è una dizione che da vicino s’accosta al pensiero; brevità è la stessa dizione non avente che ciò che è necessario alla chiarezza d’una cosa; convenienza è la dizione adatta alla cosa; grazia è la dizione sfuggente l’idiotismo. Barbarismo, tra modi viziosi, è una dizione fuor dell’uso de’ beati Greci; solecismo un discorso mal ordinato nelle parti.

XLI. Poema, secondo che dice Posidonio, nella Introduzione alla dizione, è una dizione misurata o ritmica, con ornato eccedente la forma prosastica. Ritmica affermano essere la frase massima terra, divo etere. Poesia è un poema significativo, che contiene un’imitazione delle cose divine ed umane. [p. 97 modifica]

XLII. La definizione è, come dice Antipatro nel primo Delle definizioni, un discorso perfettamente espresso per mezzo dell’analisi, o, come dice Crisippo, nel primo Delle definizioni, anche una reddizione. La descrizione è un discorso che conduce indigrosso alle cose, o una definizione che presenta in modo più semplice la forza della definizione. Il genere è un’unione di molti e inseparabili concetti, come animale; poichè in esso si contengono i singoli animali. Un concetto è un fantasma della mente; non qualche cosa che esista od operi, ma come una cosa che esista, e come una cosa che operi, al modo che ci raffiguriamo un cavallo eziandio non presente. La specie è compresa sotto il genere, come sotto l’animale si comprende l’uomo. Generalissimo è poi ciò, che essendo genere, non ha genere, come l’esistente; specialissimo ciò che, essendo specie, specie non ha, come Socrate.

XLIII. La divisione è la spartizione del genere nelle specie affini, come: Degli animali alcuni sono ragionevoli, alcuni irragionevoli. La contro divisione è la separazione del genere in ispecie in modo opposto, quasi fosse per negazione, come: Delle cose esistenti alcune sono buone e alcune non buone. La sotto divisione è la divisione della divisione, per esempio: Delle cose esistenti alcune sono buone, alcune non buone, e delle non buone queste sono cattive, quelle indifferenti. La partizione, secondo Crini, è la distribuzione del genere per luoghi, come: Dei beni alcuni sono dell’anima, alcuni del corpo.

XLIV. L’equivoco è una dizione significante due [p. 98 modifica]o più cose nel discorso e al senso proprio e secondo l’uso stesso, di modo che parecchie se ne possono accogliere in una medesima dizione, come: La suonatrice di flauto è caduta; poichè si esprime con questa, ora: Il palazzo tre volte ([testo greco]) è caduto: ora: La suonatrice di flauto ([testo greco]) è caduta.

XLV. La dialettica, al dire di Posidonio , è la scienza delle cose vere, delle cose false, e di quelle che non sono nè l’uno, nè l’altro. Secondo Crisippo ha per iscopo i segni significativi e le cose significate. Questo pertanto si dice degli Stoici circa la teorica della voce.

XLVI. Nel luogo spettante a’ fatti e alle cose che hanno significazione, collocano essi ciò che risguarda le espressioni, il perfetto in sè, gli assiomi, i sillogismi, e ciò che riguarda l’imperfetto, i predicamene, diritti e supini.

XLVII. Affermano esprimibile ciò che sussiste per razional fantasia, e delle cose esprimibili, alcune tengono essere perfette, altre imperfette. Imperfette sono quelle che non hanno compita l’espressione, come scrive; poichè chiediamo ancora chi? Perfette quelle che hanno compita l’espressione, come Socrate scrive. Quindi nelle imperfette si collocano i predicati, nelle perfette gli assiomi e i sillogismi e le interrogazioni e le quistioni. Il predicato è ciò che si enuncia di alcun che, od una cosa che consta di una o di più, come dice Apollodoro, ossia un’espressione imperfetta costruita in caso retto per la formazione di un assioma.

Dei predicati alcuni sono accidenti..... come il [p. 99 modifica]navigare tra gli scogli. Altri predicati sono retti, altri supini, altri neutri. Retti sono quelli che si costruiscono con un caso obbliquo per la formazione del predicato, come: Egli ode; vede; discorre; supini sono quelli che si costruiscono colla particella passiva, come: Io sono udito; sono veduto; neutri sono quelli che non hanno nè l’un modo nè l’altro, come: Sapere; passeggiare. Reciproci que’ che non sono supini tra supini; e sono azioni, come: Si tonde; poichè colui che tonde vi comprende sè stesso. I casi obliqui sono genitivo, dativo e accusativo.

XLVIII. Proposizione dicesi ciò ch’è vero o falso, o una cosa compiuta per sè, dichiararle per quanto è in essa, o non dichiarabile, siccome afferma Crisippo, nelle Definizioni dialettiche: per esempio, è giorno, Dione passeggia. La proposizione ([testo greco]) trae il suo nome dall’essere assentita ([testo greco]), o riprovata; da che nel dire è giorno, sembra che si assenta essere giorno. Ed essendo realmente giorno, il proposto assioma diventa vero; non essendo, falso. Differiscono poi proposizione, interrogazione, quistione, e ciò che ha modo di comando, giuramento, imprecazione, supposizione, appellazione, e la cosa che ha somiglianza nella proposizione. Poichè proposizione è ciò che parlando si afferma che sia vero o falso. Interrogazione è una cosa compiuta per sè veramente, come la proposizione, ma che richiede una risposta al pari di è egli giorno? Questo non è nè vero nè falso; di modo che la frase è giorno è una proposizione, la frase è egli giorno? un’interrogazioue. Quistione è una cosa alla quale non [p. 100 modifica]puossi rispondere distintamente il sì, come all’interrogazione, ma dire, egli abita in questo luogo. Comando è cosa che comandiamo dicendo, per esempio:

     Vanne d’Inaco al fiume.


...... appellazione è cosa che se da taluno si dicesse, si pronuncerebbe un nome, come

     Gloriosissimo Atride, Agamennone
     Re d’uomini.


Somiglianza nella proposizione è un prolungamento della proposizione, per l’abbondanza o passione di alcune particelle, cadente fuor del genere delle proposizioni come:

     Bello il soggiorno verginale. Quanto
     Ai Priamidi simile il bifolco.


V’ha anche una cosa dubbia differente dalla proposizione, la quale se alcuno dicesse, mostrerebbe dubbio:

     Forse alcun che d’affine
     Non son dolore e vita?


Nè vere nè false sono le interrogazioni e le quistioni, e le cose a queste simili, essendo vere o false le proposizioni. Delle proposizioni poi alcune sono semplici, alcune non semplici, siccome affermano Crisippo e Archedamo e Atenodoro e Antipatro e Crini. Semplici sono quelle che constano di una proposizione o di proposizioni non ambigue, come questa: È giorno; [p. 101 modifica]non semplici quelle che constano di una proposizione o di proposizioni ambigue. Di una proposizione ambigua, come: Se è giorno; di più proposizioni, come: Se è giorno, è chiaro. Nelle proposizioni semplici avvi e l’enunciativo e il negativo e il privativo e l’attributivo e il definitivo e l’indefinito; nelle non semplici il congiunto, l’aggiunto, il complicato, il diviso, il causale, e ciò che dichiara il più e ciò che dichiara il meno. E la proposizione enunciativa, come: Non è giorno. Specie di questa la sopraenunciativa. Sopraenunciativa è l’enunciativa dell’enunciativa, come: Non giorno non è, che stabilisce: Il giorno è. Negativo è ciò che consta di una particella negativa e di un attributo, come: Nessuno passeggia. Privativo ciò che consta di una particella privativa e di una proposizione, secondo la sua forza, come: Inumano è costui. Attributivo è ciò che consta di un caso retto e di un attributo, come: Dione passeggia. Definitivo è quello che consta di un caso retto dimostrativo e di un attributo, come: Costui passeggia. Indefinito è quello che consta di una particella indefinita, o di particelle indefinite, come: Qualcuno passeggia; uno si muove. Tra le proposizioni non semplici è compresa, al dire di Crisippo, nelle Dialettiche, e di Diogene, nell’Arte dialettica, quella che si compone della congiunzione copulativa se. Questa congiunzione dimostra seguitare un secondo ad un primo, come: Se è giorno, è chiaro. L’aggiunto è, secondo che afferma Crini, nell’Arte dialettica, una proposizione che dalla congiunzione poichè si connette, cominciando da una proposizione e finendo in una [p. 102 modifica]proposizione, come: Poichè è giorno, è chiaro. Questa congiunzione dimostra, e seguire un secondo ad un primo, ed un primo sussistere. La proposizione complicata è quella che da certe congiunzioni copulative si compone, come: Ed è giorno, ed è chiaro. Divisa è quella che la congiunzione disgiuntiva o divide, come: O è giorno, o è notte. Questa congiunzione dimostra che una delle proposizioni è falsa. La proposizione causale si compone a mezzo del perchè, come: Perchè è giorno, è chiaro, essendo il primo quasi cagione del secondo. Proposizione esprimente il piuttosto è quella che si compone della congiunzione che dichiara ciò che è più, e si pone tramezzo le proposizioni, come: È giorno piuttosto che notte. Proposizione esprimente il meno è quella ch’è il contrario dell’anteriore, come: È meno notte che giorno. Anco vi ha proposizioni, in quanto al vero ed al falso, contrapposte fra loro, delle quali l’una è negazione dell’altra, come: È giorno, e non è giorno. Dunque è vera una proposizione congiunta, della quale l’opposto dell’inferior termine combatte coll’anteriore, come: Se è giorno, è chiaro. Ciò è vero, poichè il non chiaro, opposto all’inferior termine combatte lo è giorno. Falsa è poi la congiunta, di cui l’opposto dell’inferior termine non combatte coll’anteriore, come: Se è giorno, Dione passeggia; poichè il Dione non passeggia, non combatte coll’è giorno. Vera l’aggiunta, che incominciando dal vero, nel conseguente finisce, come: Poichè è giorno, il sole è sulla terra. La falsa, o incomincia dal falso o non finisce nel conseguente, come: Poichè è notte, Dione passeggia, [p. 103 modifica]se dicasi essendo giorno. La causale è vera che incominciando dal vero, finisce nel conseguente, ma per altro non ha conseguente al fine il principio, come: Perchè è giorno, è chiaro; poichè allo è giorno consegue è chiaro, ed allo è chiaro non è seguace lo è giorno. La causale è falsa che, o incomincia dal falso, o non finisce nel conseguente, od ha al fine inconseguente il principio, come: Perchè è notte, Dione passeggia. Probabile è la proposizione che ci induce all’assenso, come: Se una cosa ne partorì un’altra, quella è madre di questa. Per altro ciò è falso; poichè l’uovo non è la madre dell’uccello. E ancora alcune proposizioni sono possibili, alcune impossibili; alcune necessarie, alcune non necessarie. Possibile e quello che si può ritenere per vero, nulla di estrinseco contrastando che sia vero, come: Diocle vive. Impossibile quello che non si può ritenere per vero, come: La terra vola. Necessario quello che essendo vero, non puossi ritenere per falso, o pur ritenere si può, ma quello ch’è ad esso estrinseco si oppone a che sia falso, come: La virtù è utile. Non necessario è ciò che e vero è, e falso può essere, nulla opponendosi di estrinseco, come: il Dione passeggia. Proposizione verisimile è quella che ha più argomenti per essere vera, come: Vivrò domani. Altre differenze vi ha nelle proposizioni e trapassamenti di esse da vere in false, e mutazioni, delle quali trattiamo ampiamente.

XLIX Ragionamento, secondo Crini, è quello che consta della proposizione, della minore e della conclusione, come il seguente: Se è giorno, è chiaro; ma è [p. 104 modifica]giorno; dunque è chiaro. Poichè è proposizione il se è giorno, è chiaro; minore il ma è giorno, e conclusione il dunque è chiaro. Il modo è come una figura del ragionamento; tale è questo: Se il primo, il secondo; ma il primo ; dunque il secondo. Il modo-ragionamento ([testo greco]) è un composto di entrambi, come: Se Platone vive, Platone respira; ma il primo; dunque il secondo. S’introdusse il modo-ragionamento, onde nelle prolisse costruzioni dei ragionamenti non pronunciare una minore ed una conclusione lunga, ma brevemente inferire: Il primo; dunque il secondo. Dei ragionamenti alcuni sono concludenti, alcuni no. I non conciadenti sono quelli ne’ quali l’opposto della conclusione non combatte colla connessione delle premesse; per esempio: Se è giorno, è chiaro; ma è giorno; dunque Dione passeggia. De’ ragionamenti concludenti alcuni chiamansi, a un modo col loro genere, conchiudenti, alcuni sillogistici. Sillogistici sono, i non dimostrativi, o i conducenti a cose non dimostrabili per mezzo di una tale o di una tale proposizione, come i sì fatti: Se Dione passeggia, dunque Dione si muove. Sono conchiudenti specialmente que’ che non conchiudono alla maniera sillogistica, come i sì fatti: Falso è che è giorno, e che è notte; ma è giorno; dunque non è notte. Non sillogistici sono que’ che per la probabilità s’accostano a’ sillogistici, ma non concludono, come: Se Dione è un cavallo, Dione è un animale; ora Dione non è un cavallo; dunque Dione non è un animale. Anche de’ ragionamenti alcuni sono veri, alcuni falsi. Veri sono que’ che conchiudono per via di cose vere, [p. 105 modifica]come: Se la virtù giova, il vizio nuoce. Falsi que’ che nelle premesse hanno alcun che di falso, o non sono conchiudenti, come: Se è giorno, è chiaro; ma è giorno; dunque Dione vive. E vi sono ragionamenti possibili e impossibili, e necessarj e non necessarj, e ve n’ha alcuni non dimostrabili a cui non è mestieri dimostrazione. Altri sono appo altri, ma cinque presso Crisippo, per mezzo de’ quali si tesse ogni ragionamento, e di cui si fa uso ne’ concludenti, ne’ sillogistici e ne’ tropici. Primo è il non dimostrabile, in cui ogni ragionamento componesi del congiunto e dell’antecedente, dal quale un congiunto incomincia, e quel che finisce conchiude, come: Se il primo, il secondo; ma il primo; dunque il secondo. Secondo è il non dimostrabile, il quale, per via del congiunto e dell’opposto all’ultimo termine, ha la conclusione opposta all’antecedente, come: Se è giorno, è chiaro; ma è notte; dunque non è giorno. Poichè la minore nasce dall’opposizione nell’ultimo termine, e la conclusione dall’opposizione nell’antecedente. Terzo è il non dimostrabile, che per mezzo di una negazione complessa, e di una parte di quella complicazione, inferisce l’opposto del resto, come: Non è morto Platone e vive Platone: ora è morto Platone; Platone dunque non vive. Quarto è il non dimostrabile, che per mezzo di separazione e di una parte esistente in quella separazione, conchiude l’opposto del resto, come: O il primo o il secondo; ma il primo; dunque non il secondo. Quinto è il non dimostrabile, nel quale ogni argomento si ordina per via di separazione e di una parte [p. 106 modifica]opposta di quelle che esistono nella separazione, ed inferisce il resto, come: O è giorno, o è notte; ma non è notte; dunque è giorno. — Ad un vero, secondo gli Stoici, segue un vero, siccome al giorno è, il chiaro è; ad un falso un falso, come al notte è, falso, il buio è; e ad un falso un vero, come al volare la terra, lo esistere la terra. Ad un vero per altro non tiene dietro un falso, poichè all’esistere la terra, non consegue il volare la terra. V’ha eziandio alcuni ragionamenti imbarazzanti, coperti, e nascosti, e ammucchiati, e cornuti, e impersonali. Il coperto è di sì fatta maniera: Due non è poco, e nè pur tre, nè manco questo certo, nè eziandio quattro, e così sino a’ dieci. Ora due è poco, dunque anche dieci. L’impersonale è un ragionamento che ha forza congiuntiva, e consta dell’indefinito e del definito, ed ha la minore e la conseguenza, come: Se uno è qui, costui non è in Rodi.

L. E tali sono gli Stoici nelle cose logiche da affermare con asseveranza che solo il sapiente è dialettico; tutto per via di speculazione discernersi ne’ ragionementi, e quante pertengono al tipo fisico, e quante eziandio al morale. Poichè che s’abbia a dire in logica, e circa la giusta applicazione de’ nomi, e come per le opere statuirono le leggi, nulla si afferma. Ma che due essendo le consuetudini subordinate alla virtù, l’una osserva che sia ciascuna cosa esistente, l’altra come si deggia appellare. — E per essi tale è la logica.

LI. La parte morale della filosofia dividono nel luogo dell’appetito e dei beni e dei mali, e in quello delle passioni e della virtù e del fine e della prima [p. 107 modifica]estimazione e delle azioni e dei doveri e delle esortazioni e dissuasioni. Così sottodividono Crisippo, Archedamo, Zenone traseo, Apollodoro, Diogene, Antipatro e Posidonio. Poichè Zenone, quel da Cizio, e Cleante, siccome più antichi, più semplicemente di queste cose trattarono. Costoro per altro divisero la parte logica e la fìsica.

LII. Primo istinto dicono essere nell’animale la conservazione di sè stesso, concigliatogli da natura in principio, siccome afferma Crisippo, nel primo Dei fini, dicendo: Primamente essere proprio di ogni animale la sua costituzione e l’averne coscienza: poichè non è verisimile che l’animale sia alieno a sè, nè che possa esser fatto o alieno o non attaccato. Quindi rimane a dirsi averlo quella costituito a sè stesso benevolo; così e le cose nocevoli respinge e le convenienti riceve. E ciò che alcuni affermano, essere la voluttà il primo appetito negli animali, dimostrano falso; poichè dicono aggiunta, se tant’è che esista, la voluttà, quando natura per sè cercando, trovò ciò ch’era adatto al temperamento; il che esilara gli animali e fa vegetare le piante. E la natura dicono di nulla differenziare le piante e gli animali, quando e quelle senza l’appetito ed il senso governa, e in noi alcune cose avvengono a modo pianta. Ma dal superfluo ingenerandosi negli animali l’appetizione, usando la quale s’accostano alle cose che loro sono proprie, ciò che in essi è secondo natura governa ciò che in essi è secondo appetito. Ed a’ ragionevoli essendo, con più perfetto reggimento, data la ragione, vivere [p. 108 modifica]secondo ragione può essere per chi vive secondo natura: addivenendo essa l’artefice dell’appetito.

LIII. Il perchè primo Zenone, nel libro Della natura dell’uomo, disse fine il vivere conformemente a natura, che è vivere secondo virtù; poichè a questa ci conduce la nostra natura: e la stessa cosa anche Cleante, nel libro Della voluttà, e Posidonio ed Ecatone, ne’ libri Dei fini. E di nuovo, stessa cosa è il vivere secondo virtù del vivere secondo la sperienza delle cose che accadono in natura, come dice Crisippo, nel primo Dei fini. Poichè parti della natura universale sono quelle della nostra. Quindi essere fine il viver conseguentemente a natura, cioè secondo la propria e secondo quella dell’universo, non facendo nulla di ciò cui la comun legge è solita proibire; la qual cosa è il retto discorso che arriva per tutto, lo stesso che è appo Giove, che con esso conduce il governo di quanto esiste. Quest’essa essere la virtù dell’uomo felice e la felicità della vita, allorquando cioè tutto si fa in consonanza del genio di ciascuno colla volontà del moderatore di ogni cosa. E però dice espressamente Diogene, esser fine il retto discorso nella scelta di ciò ch’è secondo natura; e Archedamo, il vivere adempiendo a tutti i doveri. Crisippo intende per natura quella, in che s’ha a vivere convenientemente, la comune cioè, ed in particolare l’umana. Ma Cleante ammette soltanto una natura comune, cui si dee seguire, non una che sia particolare; e confessa essere la virtù una disposizione, e da scegliersi essa per sè, non per certi timori o speranze, od alcun che di estraneo; ed essere in essa la felicità, atteso che l’anima [p. 109 modifica]vi sia conformata pel consenso di tutta la vita; e pervertirsi l’animale ragionevole talvolta per la verisimiglianza delle cose esteriori, talvolta pei primi insegnamenti di coloro coi quali pratica; poichè la natura non dà occasioni perverse.

LIV. Talvolta la virtù è una perfezione di comune a tutto, per esempio, di una statua; talvolta non soggetta a speculazione, come la salute; talvolta speculativa, come la prudenza. Poichè dice Ecatone, nel primo Delle virtù, scientifiche e speculative essere quelle che sono costituite da speculazioni, come la prudenza e la giustizia; non ispeculative quelle che per estensione si contemplano nelle costituite dalle speculazioni, come la salute e la forza. Il perchè dalla temperanza, che consta dalla speculazione, accade che segua e si prolunghi la salute, al modo che dai volti nelle fabbriche proviene la forza. Chiamansi non speculative perchè non hanno un assentimento, ma sono addizioni, e si danno ne’ viziosi, come la salute e la forza. Testimonio che la virtù sia una cosa esistente, dice Posidonio, nel primo del suo Discorso morale, è l’essere stata in progresso appo Socrate, Diogene ed Antistene; ed esistere anche il vizio per essere opposto alla virtù. Ed essere questa insegnabile, dico la virtù, e da Crisippo si afferma, nel primo Dei fini, e da Cleante e da Posidonio, nelle Esortazioni, e da Ecatone. E che sia da apparare è manifesto dal farsi buoni e cattivi. Perciò Panezio distingue due virtù, una speculativa ed una pratica; una logica, una fisica ed una morale altri; quattro Posidonio, molte Cleante, Crisippo ed Antipatro. Apollofane ne nomina una, la [p. 110 modifica]prudenza. Delle virtù altre sono prime, altre subordinate ad esse. Prime queste: Prudenza, fortezza, giustizia, temperanza; e tra le specie di esse, la magnanimità, la continenza, la pazienza, la destrezza, l’avvedutezza. La prudenza dicono essere la scienza dei mali e dei beni e di ciò che non è nè bene nè male; la giustizia la scienza delle cose da scegliersi e da fuggirsi e delle indifferenti; la magnanimità la scienza che rende l’abito dell’animo superiore agli avvenimenti comuni e ai buoni ed ai cattivi; la continenza una disposizione che non lascia oltrepassare il retto discorso, od una abitudine invitta contro le voluttà; la pazienza una scienza od attitudine nelle cose in che s’ha a persistere e no, O che sono indifferenti; la destrezza una abitudine ritrovatrice issofatto di ciò che esige il dovere; l’avvedutezza la scienza di considerare il che e il come faremo per operare utilmente. E in pari modo dei vizj alcuni essere primi, altri a questi subordinati, come l’imprudenza, la timidezza, l’ingiustizia, l’intemperanza, tra primi; e l’incontinenza, la pigrezza, il mal volere, tra’ subordinati a questi; ed essere i vizj l’ignoranza di quelle cose, la conoscenza delle quali costituisce la virtù.

LV. Bene in generale affermano essere una cosa utile, ed in particolare o questo o ciò che non è diverso dall’utilità. Il perchè e la stessa virtù, e il bene partecipe di quella dicono tripartiti così, per esempio: bene per le cose da cui deriva, come un’azione secondo virtù; per quello da cui, come l’uom probo che partecipa della virtù. Ma in altro modo particolarmente defluiscono il bene così: ciò che, come ragionevole, è perfetto [p. 111 modifica]secondo la natura razionale: ed essere tale la virtù, poichè vi partecipano e le azioni virtuose e gli uomini probi; e il gaudio, la letizia e simili, accidenti. E in pari modo essere anche tra vizj l’imprudenza, la paura, l’ingiustizia e simili; e partecipanti a’ vizj le azioni viziose ed i vili. Accidenti poi l’afflizione, l’ambascia e simili.

LVI. Di più tra’ beni alcuni essere dell’animo, alcuni esterni, alcuni nè dell’animo nè esterni. Que’ dell’animo sono le virtù e le azioni ad esse conformi; gli esterni l’avere una patria degna e un degno amico, e la felicità, che è congiunta a sì fatte cose; non esterni nè dell’animo l’essere uno per sè stesso felice. Del pari anche tra mali, que’ dell’animo essere i vizj e le azioni ad essi conformi; gli esterni l’avere una patria stolta ed uno stolto amico, e l’infelicità che a queste cose è congiunta; i non esterni nè dell’animo l’essere uno per sè stesso cattivo e infelice.

LVII. Dei beni eziandio, dicono, alcuni essere finali, altri efficienti, altri finali ed efficienti. Quindi un amico, e gli utili che da esso provengono, sono beni efficienti; la fidanza, la prudenza, la libertà, il diletto, la letizia, la calma, e tutto che sia relativo alla pratica della virtù, finali; beni ed efficienti e finali gli altri, che in quanto producono la felicità, sono efficienti, in quanto la compiono, come parte di essa, finali. Parimente dei mali alcuni sono finali, alcuni efficienti, alcuni di un modo e dell’altro. Un nemico, e i danni che ne derivano, sono efficienti; la stupidezza, l’abbiezione , la servitù, la tristezza, l’affanno, il dolore ed ogni azione viziosa, finali; dell’un modo e dell’altro quelli che, in [p. 112 modifica]quanto producono la felicità, sono efficienti, in quanto la compiono, come sua parte, finali.

LVIII. Beni dell’animo ancora sono l’abito, la disposizione, e ciò che non è nè l’abito nè la disposizione. Disposizione, le virtù; abito, le istituzioni; nè abito nè disposizione, le azioni. Comunemente; tra i beni misti, avvi una felice paternità e una vecchiaja felice; un semplice bene per altro è la scienza; e beni sempre presenti sono le virtù, e non sempre, per esempio, la letizia e il diportarsi.

LIX. Dicono ogni bene essere profittevole, conveniente, vantaggioso, comodo, facile, bello, utile, desiderabile e giusto. Profittevole, perchè reca tali cose che tornano utili negli eventi; conveniente, perchè contiene ciò ch’è d’uopo; vantaggioso, perchè solve quello che in esso s’impiegò, cosi che l’utile del contratto sorpassa la spesa; comodo, perchè procura il comodo dell’utile; facile, perchè offre un comodo lodevole; bello, perchè nell’utile suo ha giusta proporzione; utile, perchè è tale da esser utile; desiderabile, perchè è tale da potersi ragionevolmente scegliere; giusto, perchè concorda colla legge e costituisce la società. — Onesto ([testo greco]) appellano il perfetto bene, perchè accoglie tutti i numeri richiesti dalla natura, o ciò che è perfettamente simmetrico; e dicono esservi quattro specie di onesto: giustizia, fortezza, moderazione, scienza; poichè da queste si compiono le belle azioni; ed esservi del pari anche quattro specie di turpe, l’ingiustizia, la paura, la rozzezza, la stoltezza; e chiamarsi l’onesto a una sola maniera, rendendo esso degni di lode coloro che possedono il bene [p. 113 modifica]lodevole; ed altra cosa essere ben naturato ad un’opera particolare, altra l’averne ornamento, come allorchè diciamo buono ed onesto il solo sapiente; ed affermano l’onesto solo esser buono, secondo che riferisce Ecatone, nel terzo Dei beni, e Crisippo, ne’ suoi libri Dell’onesto; e questo essere la virtù e ciò che alla virtù partecipa; alla qual cosa risponde il dire, tutto il bene essere onesto, ed all’onesto equivalere il bene che ad esso è eguale. In fatti: Da ch’è onesto è buono: ma è onesto, dunque è buono.

LX. Pare ad essi che tutti i beni sieno eguali, e che ogni bene sia ornamento da desiderarsi, e che non ammetta nè aumento nè diminuzione. Delle cose esistenti alcune affermano essere beni, alcune mali, alcune nè beni nè mali. Quindi beni le virtù, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, ec.; mali le cose contrarie, stoltezza, ingiustizia, ec. Quelli che non sono nè beni nè mali, nè giovano, nè nuocono, come vita, salute, voluttà, bellezza, forza, ricchezza, gloria, nobiltà; e le cose ad esse contrarie, morte, infermità, fatica, disonore, debolezza, povertà, oscurità, ignobiltà e le sì fatte, siccome dice Ecatone, nel settimo Dei fini, e Apollodoro, nell’Etica, e Crisippo; poichè queste non sono beni ma cose indifferenti, che in ispecialità conducono sino ad essi o non vi conducono. Imperciocchè siccome è proprio del calore il riscaldare, non il freddare, così anche del bene il giovare, non il nuocere; e non giovano più che non offendano la ricchezza e la salute; dunque non bene nè ricchezza nè salute. E dicono ancora, ciò di che si può usare bene e male non è un bene; ma la [p. 114 modifica]ricchezza e la salute è usabile bene e male; dunque non bene la ricchezza e la salute. Posidonio dice, per altro che anche queste cose sono beni. Ma che neppure la voluttà sia un bene, lo affermano ed Ecatone, nel decimonono libro Dei beni, e Crisippo, in quelli Della voluttà. Poichè v’hanno delle voluttà turpi, e nulla di turpe è un bene, ed è utile muoversi e condursi conforme a virtù, nuocevole muoversi e condursi secondo il vizio. In due maniere si chiamano le indifferenti. A un modo quelle che non contribuiscono nè alla felicità nè alla infelicità, come sono ricchezza, gloria, sanità, forza e simili; da che si può essere felice anche senza queste, contribuendo alla felicità ed alla infelicità secondo il modo di usarne. A un altro si dicono le indifferenti che non muovono nè desiderio nè avversione, com’è l’aver pari i capelli sul capo o dispari, o il distendere o il ripiegare il dito, così non avendosi a dire di quelle prime indifferenze, che sono abili a muovere desiderio ed avversione. Il perchè alcune di esse si eleggono per la scelta e la fuga dell’altre, essendo del pari.

LXI. Delle cose indifferenti ve n’ha alcune che e’ dicono preferite, alcune rejette; preferite quelle che hanno un merito, rejette quelle che non hanno un merito. Merito dicono essere in una cosa quando contribuisce alcun che ad un vivere convenevole, e sta in ogni maniera di bene; e merito essere certa forza media, od uso contribuente ad una vita secondo natura, al modo che si direbbe, se qualche cosa giovassero, nella vita secondo natura, le ricchezze e la salute; e merito la remunerazione di chi è apprezzato, la quale può essere [p. 115 modifica]stabilita da quello che si conosce delle cose, come a dire, mutar frumento con orzo, aggiuntovi un mulo. Essere adunque le cose preferibili quelle che hanno un merito, come, in riguardo all’anima, l’ingegno, l’arte, il progresso e simili; in riguardo al corpo, la vita, la salute, la forza, la dispostezza, l’uso di tutte le membra, la bellezza; in riguardo a’ beni esteriori, la ricchezza, la gloria, la nobiltà e simili. Da rigettarsi, circa quelle dell’anima, l’inettezza, la mancanza d’industria e simili; circa quelle del corpo, la morte, la malattia, la debolezza, la cachessia, la privazione di qualche membro, la bruttezza; circa le esterne, la povertà, l’oscurità, l’ignobiltà e le affini. Nè preferite nè rejette quelle che non sono nè nell’un modo nè nell’altro. Eziandio fra le cose preferibili alcune sono preferibili per sè stesse, altre per altre, altre e per sè stesse e per altre. Per sè stesse l’ingegno, il progresso e simili; per altre la ricchezza, la nobiltà e simili. Per sè stesse e per altre la forza, il vigore de’ sensi, l’uso di tutte le membra. Per sè stesse, perchè sono secondo natura; per altre, perchè procurano non poche utilità. Stessa cosa, per ragione contraria, di quelle che si rigettano.

LXII. Dovere chiamano gli Stoici una cosa della quale, essendo preferita, possiamo dare un conto ragionevole, siccome conseguenza nella vita, il che pertiene anche alle piante ed agli animali; potendosi in questi eziandio notare alcuni doveri. Da Zenone primo fu così nomato il dovere ([testo greco]) prendendo la denominazione dal venire ad alcune cose ([testo greco]). Essere desso l’azione propria alle istituzioni naturali. Poichè [p. 116 modifica]delle cose operate a seconda dell’appetito, alcune sono doveri, alcune contro il dovere, alcune nè doveri nè contra il dovere. E però essere doveri quante la ragione elegge di fare, siccome onorare i genitori, i fratelli, la patria, compiacere agli amici; contro il dovere, quante non elegge la ragione, come queste, trascurare i genitori, non darsi briga dei fratelli, non esser d’accordo cogli amici, negligere la patria, ed altre affini. Nè conforme nè contro al dovere, quanto la ragione non elegge di fare, nè vieta, come raccogliere una paglia, possedere uno stilo, una stregghia, e simili a queste. Alcuni doveri poi essere senza necessità di circostanze, alcuni con necessità di circostanze. Senza necessità di circostanze, questi, curare la salute ed i sensi, e simili; con necessità di circostanze, mutilare sè stesso, e dissipare gli averi.

Lo stesso delle cose non conformi al dovere. Tra’ doveri anche ve n’ha taluno debito sempre, taluno non sempre; sempre, certo, è conveniente vivere secondo natura, non sempre interrogare e rispondere e passeggiare e simili. Pari discorso anche di ciò che è fuor del dovere. Ed avvi non so qual dovere eziandio nelle cose di mezzo, come l’obbedire i fanciulli ai pedagoghi.

LXIII. Dicono gli Stoici essere l’anima di otto parti; poichè sono parti di essa e i cinque sensi, e l’organo per la voce, e la facoltà del pensiero, ch’è l’intelligenza, e quella della generazione. E dalle cose false prodursi il pervertimento del pensiero, donde pullulare molte passioni e cause di disordine. La stessa passione è, secondo Zenone, od un movimento dell’anima irragionevole e contro natura, od un appetito sovrabbondante. [p. 117 modifica]Delle passioni più principali sono, secondo che afferma Ecatone, nel secondo libro Delle passioni, e Zenone in quello Delle passioni, quattro generi: tristezza, timore, desiderio, voluttà. Secondo Crisippo, nel libro Delle passioni, tengono gli Stoici che le passioni sieno giudizj. Poichè è l’amor del danaro è una opinione che il danaro sia cosa onesta, ed è lo stesso dell’ebrietà, dell’incontinenza e di altre. Dicono essere il dolore uno stringimento di spirito irragionevole, ed una specie di esso la pietà, l’invidia, l’emulazione, la gelosia, l’angoscia, la noja, il languore, la tristezza, la costernazione. La pietà dunque essere un dolore per chi ingiustamente patisce un male; l’invidia un dolore per gli altrui beni; l’emulazione un dolore perchè si trovi in altrui ciò che si desidera per sè; la gelosia un dolore perchè si trovi anche in altri quello che abbiamo pur noi; l’angoscia un dolore che opprime; il languore un dolore permanente per raziocinii, o crescente; la tristezza un dolore penoso; la costernazione un dolore irragionevole, che consuma e toglie di vedere le cose presenti. La paura è la preveggenza di un male. Alla paura si riferiscono eziandio lo spavento, il timor del lavoro, la vergogna, lo stupore, la confusione, l’ansia. Lo spavento quindi è una paura che incute terrore; il timor del lavoro la tema di futuri lavori; la vergogna il timore dell’ignominia; lo stupore un timore per l’immaginazione di cose insolite; la confusione un timore con cessazione di voce; l’ansia un timore di cosa sconosciuta. — La concupiscenza è un desiderio irragionevole a cui sono subordinate anche queste cose, il bisogno, l’odio, la discordia, l’ira, l’amore, [p. 118 modifica]l’animosità, l’escandescenza. Il bisogno è una certa concupiscenza per cosa che ci sia rifiutata, e come separata da essa, cui invano tendiamo e seguiamo; l’odio è un desiderio del male di alcuno, con qualche aumento e prolungazione; la discordia una certa passione per l’opinion propria; l’ira un desiderio di punizione di chi crediamo averci offeso sconvenevolmente; l’amore è un desiderio che non è proprio degli uomini gravi, poichè è lo sforzo per farsi amica un’appariscente bellezza; l’animosità è una collera inveterata, ed un rancore che sta in agguato, come è dimostralo per questi versi:

     Poichè sebbene per un dì la bile
     E’ digerisca, di vendetta pure
     Serba poscia il desio finchè si compia.


L’escandescenza è uno sdegno irrompente. La voluttà è una brama irragionevole verso ciò che sembra da desiderarsi, alla quale sono subordinati il diletto, la gioja maliziosa, il piacere, la dissolutezza. Il diletto è una voluttà che blandisce per mezzo delle orecchie; la gioja maliziosa una voluttà che si prova pel male degli altri; il piacere, come piacere, un certo eccitamento dell’animo al rilassamento; la dissolutezza il rilassamento della virtù. E in quel modo che diciamo alcune malattie del corpo, come podagra e artritide, così parimente diciamo dell’anima l’ambizione, l’amore alla voluttà, e simili. Poichè la malattia è un male con debolezza, ed è un male la forte preoccupazione che si ha per cosa che ci sembra desiderabile. E al modo che si dicono del corpo alcuni [p. 119 modifica]accidenti, come catarri e diarree, così anche dell’animo sono le inclinazioni, come invidia, compassione, querele e simili. Dicono esservi auche tre passioni buone, gioja, circospezione, volontà. La gioja affermano essere contraria alla voluttà, essendo un’espansione ragionevole; la circospezione al timore, la quale è un ritrarsi ragionevolmente; e il sapiente non può mai essere pauroso, ma circospetto. Contraria al desiderio dicono la volontà, essendo un appetito ragionevole. In quel modo adunque che sotto le prime passioni ne cadono altre, così anche sotto le prime affezioni. Sotto la volontà la benevolenza, la dolcezza, la civiltà, l’amabilità; sotto la circospezione la verecondia, la castità; sotto la gioja la letizia, la giocondità, la tranquillità dell’animo.

LXIV. Gli Stoici affermano eziandio che il sapiente è senza passioni, perchè non vi precipita; ma che avvi anche un altro senza passioni; il cattivo, dicendosi lo stesso di chi è duro e non si lascia ammollire. Che il sapiente è senza vanità, perchè non tiene più alla gloria che al disonore. Esservi non per tanto un altro senza vanità il quale va annoverato col cattivo, ed è lo spregevole. Affermano che austeri sono tutti gli uomini probi, i quali, nè parlano essi stessi per voluttà, nè accolgono ciò che gli altri dicono per essa. E che v’ha anche un’altra maniera di austero che diciamo a somiglianza del vino austero, che si usa per la fabbrica delle medicine, ma per bevanda non molto. Sinceri i sapienti e guardinghi di non apparire migliori di quel che sono, onde, ascondendo a disegno le cose cattive, far mostra di quelle che sono buone. Nè simulati, perchè e dalla voce e dal [p. 120 modifica]volto tolgono ogni finzione. Alieni sono i sapienti dagli affari, perchè schivano di fare alcuna cosa oltre il dovere. Bevono bensì vino, ma non s’ubbriacano; e neppure sono presi da pazzia, quantunque accaggia ad essi talvolta di aver fantasie stravaganti, cagionate da atrabile, o delirio, non mai per ragionamento sulle cose da preferirsi, ma per natura. I sapienti neppure si attristano, per essere la tristezza una contrazione irragionevole dell’anima, siccome dice Apollodoro nell’Etica; e sono cosa divina, perchè hanno in sè stessi come un dio, e il malvagio è senza dio. Di due maniere per altro può essere chi è senza dio, di una quegli che dicesi avverso a dio, e di un’altra quegli che tiene dio per nulla, la qual cosa non è di tutti i cattivi. I sapienti, dicono essi, sono religiosi, perchè versati nelle leggi divine; e la scienza religiosa è il culto dei numi. I sapienti sagrificano anche agli dei, e sono puri, perchè detestano i peccati contro gli dei; e gli dei gli ammirano perchè santi e giusti sono verso di loro. Soli sacerdoti sono i sapienti, perchè esaminano ciò che spetta a’ sagrificj, alle fabbriche de’ templi, alle vittime espiatorie e all’altre cose particolari dei numi. Tengono dovere i sapienti venerare i genitori ed i fratelli in secondo luogo dopo gli dei; e dicono eziandio essere in essi la tenerezza verso i figli naturali, e non esistere ne’ cattivi. — Gli Stoici, al dire di Crisippo, nel quarto Delle quistioni morali, e di Perseo e di Zenone, affermano essere eguali i peccati, poichè se una verità non è più che una verità, nè una menzogna più che una menzogna, così nè una frode è più che una frode, nè un peccato più che un peccato; e poichè chi essendo [p. 121 modifica]lontano da Canopo cento stadj e chi uno, del pari non è in Canopo, così anche colui che pecca più o meno, non è egualmente in sul retto operare. Per altro Eraclide di Tarso, famigliare di Antipatro di Tarso, e Atenodoro, credono ineguali i peccati. Dicono gli Stoici, secondo l’asserzione di Crisippo, nel primo Delle vite, potere il sapiente, se qualche cosa non lo impedisca, amministrare la repubblica, per allontanarne il male ed eccitare alla virtù; e secondo l’asserzione di Zenone nella Repubblica, anche ammogliarsi e fare dei figli. Il sapiente, dicono ancora, non emetterà alcuna opinione, e con ciò non assentirà ad alcuna cosa falsa. E seguiterà i Cinici, poichè il cinismo, secondo Apollodoro nell’Etica, è una scorciatoja alla virtù. E potrà mangiare per necessità eziandio carni umane. Solo esso libero, e schiavi i cattivi, poichè la libertà è il potere di operare da sè, la schiavitù la privazione del potere di oprar da sè. Dicono esservi anche un’altra maniera di schiavitù, che consiste nella suggezione, ed una terza che nell’acquisto e nella suggezione a cui è contrapposta la padronanza, che anch’essa è un male. E non solo liberi i sapienti, ma anche re, essendo la regia autorità un potere assoluto da non costituirsi che ne’ soli filosofi, secondo che dice Crisippo nel libro Dello aver Zenone usato in senso proprio i nomi. Poichè chi impera dee conoscersi circa il bene ed il male, e nessuna di queste cose sanno i cattivi. E soli parimente abili al governo, al foro, all’eloquenza, ed a nulla i cattivi. Anco impeccabili, perchè non cadono in peccato; e innocui perchè non nuocono nè agli altri nè a sè. Non per altro compassionevoli, [p. 122 modifica]nè con alcuno indulgenti; non rimettendo le pene applicate dalla legger da che il cedere e la compassione e la clemenza stessa, non esistono in alcuna anima per accrescere dolcezza ad una pena: nè per questo essere stimati più duri. Dicono il sapiente non meravigliare delle cose che pajono straordinarie, come caverne esalanti vapori solforosi, riflusso, fonti d’acque termali e soffj di fuoco. E nemmeno dover vivere, dicono, in solitudine, essendo il savio per natura socievole e capace d’agire; e dedicarsi egli all’esercizio per indurare il corpo. E come afferma Posidonio, nel primo Dei doveri, ed Ecatone, nel decimo terzo Dei paradossi, dicono che il sapiente innalzerà preci per chiedere i beni dagli dei. Dicono del pari essere amicizia tra soli sapienti, per conformità; e aggiungono essere dessa una certa comunanza delle cose della vita, usando cogli amici come con noi medesimi. E dimostrano essere l’amico da eleggersi per sè; e un bene la pluralità degli amici; e ne’ cattivi non essere amicizia; e nessuno dei cattivi avere un amico. Tutti gli stolti essere pazzi, perchè non sono prudenti, ma fare nella stoltezza ogni cosa con eguale pazzia. E tutto far bene il sapiente, come dicemmo Ismenia suonar bene tutte le arie del flauto. E ogni cosa essere dei sapienti, dando piena facoltà ad essi la legge. Alcuna per altro essere degli stolti, alla maniera che dei malvagi; tuttavia altrimenti intendiamo del governo, altrimenti dell’uso.

LXV. Le virtù, dicono, seguirsi a vicenda le une l’altre, e chi ne ha una averle tutte, perchè sono comuni le loro regole, siccome afferma Crisippo nel primo Delle [p. 123 modifica]virtù, Apollodoro, nella Fisica secondo l’antica scuola, ed Ecatone, nel terzo Delle virtù. Poichè l’uom virtuoso è speculativo e pratico nelle cose da farsi; e le cose da farsi sono quelle che si debbono e scerre e tollerare e distribuire e mantenere con perseveranza; a tal che se alcuna ne operi con scelta, alcuna con tolleranza, alcuna distributivamente, alcuna perseverantemente, egli e prudente è, e forte, e giusto, e temperante. Ogni virtù, secondo essi, versa sommariamente in qualche particolar capo, come la fortezza nelle cose da tollerarsi, la prudenza nelle cose da farsi e no e nelle neutre; e parimente le altre s’aggirano sui proprj. Alla prudenza tengono dietro la saggia riflessione e l’avvedutezza; alla temperanza l’ordine e la moderazione; alla giustizia l’equità e la lealtà; alla forza la costanza e l’efficacia. Credono gli Stoici non esservi mezzo tra la virtù ed il vizio, affermando i Peripatetici essere tra la virtù ed il vizio una progressione. Poichè dicono, come un legno deve essere o diritto o curvo, così o giusto od ingiusto un uomo, e non più giusto, nè più ingiusto; e lo stesso in riguardo al resto; e Crisippo, che si può perdere la virtù, e Cleante, non perdere; il primo, che si può perdere per ubbriachezza e melancolia, questi, che non si può perdere per le ferme comprensioni; e però essere da scegliersi. Noi quindi vergognare del male che facciamo, quasi sapessimo solo bene essere l’onesto. E la virtù bastare per sè sola alla felicità, secondo che dicono Zenone e Crisippo, nel primo Delle virtù, ed Ecatone, nel secondo Dei beni. Poichè, dice, se la magnanimità è bastevole per sè a farci eminenti sopra tutti, ed è una parte [p. 124 modifica]di virtù, bastevole per sè alla felicità è anche la virtù, disprezzando essa pure quelle cose che ci pajono moleste. Panezio, per altro, e Positronio tengono la virtù non bastevole per sè, ma affermano essere necessaria anche la salute e l’agiatezza e la robustezza. Sono essi di parere eziandio che, siccome afferma Cleante, della virtù abbiasi sempre ad usare, poichè non si può perdere, e il saggio ne usa in ogni occasione, avendo l’animo perfetto.

LXVI. Al dire di Crisippo tengono il giusto essere per natura, non una instituzione, come la legge e il retto discorso; e pare ad essi che per disparità di opinione non si abbia a desistere dalla filosofia, poichè, dice Posidonio negli Esortatorii, per questa ragione si abbandonerebbe l’intiera vita. Crisippo crede utili anche gli studi enciclici. Secondo Crisippo, nel primo Della giustizia,e secondo Posidonio, nel primo Degli uffici, dicono pure nessuna giustizia esistere tra noi e gli altri animali, per dissomiglianza; e dicono, secondo Zenone, nel libro Della repubblica, secondo Crisippo, nel primo Delle vite, e secondo Apollodoro nell’Etica, potere il sapiente innamorarsi di que’ giovani che all’apparenza mostrano buona disposizione alla virtù. Ed essere l’amore un conato di far del bene a cagione di una bellezza apparente; e non provenire da concupiscenza, ma da amicizia. E di vero Trasonide, sebbene avesse in podestà l’amata, perchè essa lo odiava, se n’era astenuto. E però, come dice Crisippo, nel libro Dell’amore, essere l’amore dall’amicizia; nè reprensibile questo, e la bellezza fiore di virtù. — Dei tre modi di vita che [p. 125 modifica]sono teorico, pratico e razionale, tengono preferibile il terzo; poichè l’animal ragionevole è di natura proprio alla speculazione ed alla pratica. Affermano potere il saggio torsi ragionevolmente la vita di per sè stesso e a pro della patria e degli amici, ed anche se trovisi ne’ più duri spasimi, o privo di alcun membro, o preso da mali incurabili. Vogliono che le donne, presso i filosofi, debbano essere in comune, di modo che il primo arrivato usi di quella in che s’abbatte, siccome dice Zenone, nella Repubblica, e Crisippo, nel libro Sulla Repubblica, ed eziandio Diogene il cinico e Platone. E noi ameremo egualmente tutti i fanciulli al modo dei genitori, e sarà tolta di mezzo la gelosia per l’adulterio. Ottima la repubblica mista di democrazia, monarchia e aristocrazia. — Tali cose pertanto asseverano ne’ loro dommi morali, e molte di esse con dimostrazioni convenienti. Queste furono da noi, quasi per capi, prese spartitamente e a maniera elementare.

LXVII. Dividono il discorso fisico nel luogo dei corpi, dei principi, degli elementi, degli dei, dei fini, del luogo, del vuoto. Così per ispecie. Per generi poi in tre luoghi, quello del mondo, quello degli elementi e terzo quello delle cagioni. Il luogo del mondo dicono essere diviso in due parti. Una considerazione di esso farsi in comune co’ matematici, colla quale si disputa sulle stelle fisse ed erranti, per esempio, se il sole è così grande come appare, e del pari se la luna, e intorno a loro giri, ed a ricerche simili a queste. L’altra considerazione di esso quella essere che spetta a’ soli fisici, colla quale s’indaga e la sostanza sua, se generato o [p. 126 modifica]non generato, se animato o inanimato, se corruttibile o incorruttibile, e se una providenza lo governa, e l’altre cose. Anche quello che tratta delle cagioni dicono essere doppio. Una considerazione di esso ha comuni le indagini de’ medici, per mezzo delle quali si va in traccia della parte principale dell’anima, di ciò che nasce nell’anima, dei semi e di cose simili a queste. L’altra la si arrogano pure i matematici, per esempio, del come reggiamo, della causa della visione nello specchio, del modo col quale si formano le nubi, i tuoni, l’iride, l’alone, le comete e simili.

LXVIII. Stimano essi due essere i principj di tutte le cose, l’agente e il paziente. Il paziente essere la sostanza senza qualità, la materia; l’agente la ragione ch’è in essa, dio. Poichè questo essendo immortale per essa tutta crea ciascuna cosa. Stabilisce un tal domnia Zenone cizieo, nei primo Della sostanza, Cleante, in quello Degli atomi, Crisippo nel primo Delle fisiche, verso il fine, Archedamo, in quello Degli elementi, e Posidonio, nel secondo del suo Trattato di fisica. Differire, dicono, principj ed elementi: quelli non generati essere ed incorruttibili, questi, gli elementi, potersi corrompere per infuocamento, e anche corpi essere, e i principj incorporei e senza forma, e con formagli elementi. Corpo dice Apollodoro, nella Fisica, è quello che ha triplice dimensione, in lunghezza, in larghezza, in profondità, e chiamasi anche corpo solido. Superficie è l’estremità del corpo, e ciò che ha soltanto lunghezza e larghezza, ma non profondità. — Questo ci lasciò Posidonio, nel terzo Delle meteore, e circa l’intelligenza e circa la [p. 127 modifica]sostanza. — La linea è l’estremità della superficie, o lunghezza senza larghezza, o ciò che ha soltanto lunghezza. Il punto è l’estremità della linea, ed è il segno il più piccolo. — Dicono essere un solo dio e mente e fato e Giove, e con diversi altri nomi appellarsi. Da principio dunque essendo stato esso per sè, tutta la essenza aver tramutata d’aria in acqua; e che siccome nel frutto si contiene il seme, così anch’esso essendo la ragione seminale del mondo, questa aver lasciato indietro nell’umido, rendendovi efficace la materia per la generazione delle cose con successione ordinata; in seguito aver generato da prima i quattro elementi, fuoco, acqua, aria, terra. Trattano di essi e Zenone, nel libro Dell’universo, e Crisippo, nel primo Delle fìsiche, e Archedamo in alcuno de’ suoi libri Degli elementi.

LXIX. Elemento è ciò da cui primamente si forma quello che esiste, ed in cui da ultimo si risolve. Ora i quattro elementi insieme dicono essere la sostanza senza qualità, la materia; e il fuoco il caldo, l’acqua l’umido, l’aria il freddo, la terra il secco; e non pertanto anche nell’aria esservi una parte di questo. Però stare nel luogo piu alto il fuoco, che ancora è chiamato etere, in cui si formò da prima la sfera delle stelle fisse, poscia quella delle erranti; e dopo di essa l’aria, quindi l’acqua e fondamento di tutto la terra, essendo nel mezzo di ogni cosa.

LXX. In tre maniere chiamano il mondo e dio stesso, che da tutta la sostanza particolarmente ha qualità, che è incorruttibile e non generato, artefice di tutto l’ordinamento, che a certi periodi di tempo risolve in sè [p. 128 modifica]stesso ogni sostanza e di nuovo fuor di sè stesso la genera. E chiamano moudo lo stesso ordinamento degli astri, e in terzo luogo ciò che da entrambi è composto. Ed è mondo particolarmente la qualità dell’essenza di tutte le cose, o, come dice Posidonio ne’ suoi Elementi meteorologici, l’unione del cielo, della terra e delle nature che sono in esso, o l’unione degli iddii, degli uomini e delle cose che per essi furono generate. Il Cielo è l’estrema circonferenza in cui è stabilmente locato tutto il divino. Il mondo è governato secondo una mente ed una providenza, come dice Crisippo, ne’ libri Della providenza, e Posidouio, nel decimoterzo Degli dei; coll’espandersi cioè della mente in tutte le sue parti, come dell’anima in noi; ma per le une più, per le altre meno. Imperciocchè per le une s’infuse a guisa di facoltà, come per le ossa e pe’ nervi; per le altre a guisa di mente, come per la parte signoreggiante. Così dunque tutto intero il mondo, ch’è un animale, e animato e ragionevole, secondo che afferma Antipatro tirio, nell’ottavo Del mondo, ha per signoreggiante l’etere. Crisippo, nel primo Della providenza, e Posidonio, nel libro Degli dei, chiamano il cielo il signoreggiante del mondo, Cleante il sole; non pertanto Crisippo, nello stesso libro di nuovo, con più diverso parere, chiama tale la parte più pura dell’etere, la quale anche appellano primo dio, quasi penetrante sensibilmente per le cose che sono nell’aria, per tutti gli animali e le piante, ma per la stessa terra come una facoltà. — Credono essere uno il mondo, e finito, e di forma sferica, essendo questa forma, la più conveniente pel moto, secondo che afferma [p. 129 modifica]Posidonio, nel decimoquinto del suo Trattato di fisica, e Antipatro ne’ suoi libri Del mondo. E esternamente ad esso circonfuso il vuoto infinito, il quale è incorporeo; e incorporeo ciò che, per esempio, può essere contenuto da corpi non ne contenendo. Nel mondo poi nulla essere vuoto, ma unizzato il vuoto, a questo necessitando l’accordo e la continua tendenza delle celesti verso le terrene cose. Trattano del vuoto e Crisippo, nel libro Del vuoto e nel primo Delle arti fisiche, e Apollodoro, nelle Fisiche, e Apollodoro e Posidonio, nel secondo del Trattato di fisica. Dicono essere simili anche coteste cose incorporee; e di più incorporeo anche il tempo, essendo, un intervallo del movimento del mondo, e il suo passato e il suo futuro infinito, finito il presente. Tengono che il mondo sia corruttibile, siccome generato per ragione di quelle cose che si comprendono col mezzo del sesso, e delle quali sono corruttibili le parti ed il lutto. Ora le parti del mondo sono corruttibili, perchè si tramutano fra loro; dunque corruttibile il mondo. Che se una cosa, dimostrabile alta a mutare in peggio, è corruttibile, per certo è anche il mondo; poichè si dissecca e inumidisce. Dicono fatto il mondo, quando la sostanza, di fuoco, per mezzo dell’aria, fu volta in umore; dopo la parte sua grossolana unitasi produsse la terra, e la parte leggiera si convertì in aria, e questa assottigliata di più produsse il fuoco, quindi da cotesti, per mistione, e le piante e gli animali e gli altri generi. Della generazione dunque e della corruzione del mondo tratta Zenone, nel libro Dell’universo, e Crisippo, nel primo Delle fisiche, e Posidonio nel [p. 130 modifica]primo Del mondo, e Cleante ed Antipatro, nel decimo Del mondo. Panezio per altro dimostra incorruttibile il mondo. Che poi il mondo sia e animale e ragionevole e animato e intelligente, lo dice Crisippo, nel primo Della providenza, e Apollodoro lo afferma, nelle Fisiche, e Posidonio. Animale per modo da essere sostanza animata sensibile; poichè ciò che è animale è migliore di ciò che non è animale. Ora nessuna cosa è migliore del mondo, dunque il mondo animale. Animato poi come appare dall’anima nostro ch’è una parte staccata di là. Boeto per altro asseriva che il mondo non è un animale. Che sia uno, lo affermano Zenone, nel libro Dell’universo, e Crisippo e Apollodoro, nelle Fisiche, e Posidonio, nel primo del suo Trattato di fisica. Appellano tutto, al dire di Apollodoro, e il mondo e, in altra maniera, il sistema che proviene dal mondo esteriormente dal vuoto. Quello, il mondo, è finito, queto, il vuoto, infinito.

LXXI. Tra gli astri, dicono, essere le stelle fisse portate in giro con tutto il cielo, te erranti muoversi con moto particolare. Il sole fare il suo viaggio pel circolo zodiaco, e parimente la luna a modo di elice. Essere il sole un fuoco purissimo, secondo che scrive Posidonio, nel settimo Delle meteore, e più grande della luna, secondo lo stesso, nel sedicesimo del suo Trattato di fisica. Ed eziandio sferoidale, come afferma egli medesimo, a somiglianza col mondo. E però essere fuoco; perchè fa tutti gli uffici del fuoco; maggiore della terra per essere questa tutta illuminata da lui, ed anche il cielo: e che il produrre che fa la terra l’ombra [p. 131 modifica]a forma di cono indichi essere desso più grande, e per la sua grandezza dovunque visibile; aver più del terrestre la luna, per essere più vicina alla terra. Nutrirsi poi questi corpi ignei e le altre stelle: il sole, dal gran mare, che è un fuoco intellettuale, la luna, secondo Posidonio, nel sesto del suo Trattato di fisica, dall’acque potabili, essendo mista all’aria e vicina alla terra; gli altri, dalla terra. Tengono costoro che gli astri sieno sferici, e la terra immobile. Che la luna non abbia luce propria, ma risplenda prendendola dal sole. Che il sole si eclissi ponendosela luna avanti di esso dalla parte che è verso noi, come scrive Zenone nel libro Dell’universo. Poichè e’ si vede quando, accostandosi alle congiunzioni, e si occulta e passa oltre di nuovo. E questo si può riconoscere mediante una catinella che contenga dell’acqua. La luna poi cadendo nell’ombra della terra. Il perchè si eclissa ne’ soli plenilunii, sebbene situata, per tutto il mese, diametralmente contro al sole: poichè movendosi per obliquo contro il sole, varia alternativamente in latitudine, essendo o più boreale o più meridionale. Allorquando per altro la sua latitudine è giunta verso quella del sole e quella di mezzo, trovandosi dopo diametralmente contro il sole, allora si eclissa. Muovesi poi la sua latitudine, secondo Posidonio, per le medie nel Cancro, nello Scorpione, nell’Ariete e nel Toro.

LXXII. Dio, credono gli stoici, essere un animale immortale, ragionevole, perfetto o intellettuale nella beatitudine, non suscettivo affatto di male, providente e al mondo e alle cose del mondo; non per altro avere umana forma. Essere artefice dell’universo e come padre [p. 132 modifica]di tutte le cose, e in generale anche parte sua quella che espandesi per tutte le cose, la quale appellano con diversi nomi secondo le facoltà. Imperciocchè [testo greco] la chiamano, tutto essendo per essa; [testo greco], in quanto è cagione del vivere o nella vita contiensi; la dicono [testo greco] perchè coll’estendersi per l’etere ne è la reggitrice; [testo greco] perchè lo è nell’aria; ed [testo greco], come quella ch’è nel fuoco artificioso; e [testo greco], come quella che è nell’umido; e [testo greco], come quella ch’è nella terra. Parimènte anche con altre denominazioni la designarono in relazione ad alcuna proprietà. Sostanza di dio chiama Zenone il mondo intero e il cielo. Stessa cosa anche Crisippo, nell’undecimo Degli dei, e Posidonio nel primo Degli dei. Antipatro, nel settimo Del mondo, chiama la sostanza di lui aerea; Boeto, nel libro Della natura, sostanza di dio la sfera delle stelle fisse.

LXXIII. Indicano per natura ora ciò che tiene insieme il mondo, ora ciò che fa germogliare le cose sulla terra. Natura è una facoltà che per se stessa ha movimento secondo la ragione seminale, e compie ed unisce ciò ch’essa produce in tempi determinati, oprando tali cose alla maniera di quelle da cui si separò. Ciò, dicono, tendere e all’utile e al piacere, siccome è palese dalla fabbrica dell’uomo.

LXXIV. Ogni cosa essere soggetta al destino, afferma Crisippo, ne’ libri Del destino, e Posidonio, nel secondo Del destino, e Zenone e Boeto, nell’undecimo Del destino. Il destino è da causa della connessione degli enti, o la ragione per la quale il mondo si governa. [p. 133 modifica]

LXXV. Anche affermano sussistere ogni maniera di divinazione; conciossiachè siavi una providenza, e dimostrano esser quella un’arte per certi eventi, come dicono e Zenone e Crisippo, nel secondo Della divinazione, e Atenodoro e Posidonio, nel dodicesimo del Trattato di fisica, e nel quinto Della divinazione. Panezio per altro afferma ch’essa non esiste.

LXXVI. Sostanza di ogni ente dicono la materia prima, siccome Crisippo, nel primo Delle fisiche, e Zenone. Materia è ciò di che qualunque cosa si fa. Chiamasi in due maniere e sostanza e materia, e sia di tutte le cose, sia delle particolari, e però quella della totalità non diviene nè maggiore nè minore; maggiore e minore quella delle parti.

LXXVII. Corpo, secondo costoro, è la sostanza finita, come afferma Antipatro, nel secondo Della sostanza, e Apollodoro nella Fisica; e, al dire dello stesso, anche passibile: poichè, se fosse immutabile, le cose che si fanno da lei non si potrebbero fare; quindi crede pure lo stesso che la sua divisione sia all’infinito. Non infinita la dice Crisippo, poichè ove accade la divisione nulla è infinito, ma incessante.

LXXVIII. £ le mistioni farsi nel totale, come dice Crisippo, nel terzo Delle fisiche, e non per circonferenza e apposizione. Poichè se in mare gettisi un po’ di vino, sino ad un certo punto lotterà contro di quello estendendosi, dopo vi si disperderà.

LXXIX. Affermano anche esservi alcuni demoni aventi simpatia cogli uomini, ispettori delle umane cose; ed eroi, che sono le anime dei buoni rimaste indietro. [p. 134 modifica]

LXXX. Circa le cose che nascono in aria, l’inverno dicono essere l’aere raffreddantesi sulla terra pel lontano ritrarsi del sole; la primavera la buona temperatura dell’aria al ritorno del sole verso noi; l’estate l’aria che si riscalda sulla terra alla partenza del sole pel norte; l’autunno il ricorso del sole che si fa allontanandosi da noi..... verso donde soffiano.

LXXXI. Il sole evaporante le nubi tengono per causa della formazione di quelle. Dicono l’iride essere raggi riflessi da umide nubi o, come crede Posidonio, nella sua Meteorologia, immagine di un ritaglio di sole o di luna in una nube rugiadosa, concava e continua in apparenza, rappresentata come in ispecchio pel giro del cerchio. Le stelle chiomate, barbate e somiglianti a lampadi, essere fuochi che esistono quando l’aere crasso è ricondotto in luogo etereo. Le stelle cadenti accensione di fuochi raccolti, portati velocemente per l’aria e mostranti un’apparenza di lunghezza. La pioggia cangiamento di nube in acqua, dopo che o dalla terra o dal mare innalzata l’umidità non giugne ad essere elaborata dal sole. Questa raffreddata chiamano brina. La grandine nube congelata, spezzata dal vento. La neve umore uscente da nube congelata, come dice Posidonio, nell’ottavo del suo Trattato di fisica. Il baleno accendimelo di nubi sfregate insieme e rotte dai venti, come dice Zenone, nel libro Dell’universo. Il tuono lo strepito di queste per isfregamento o rottura. Il fulmine violenta infiammazione delle nubi che si sfregano insieme o si rompono, cadente con molta forza sulla terra; ovvero, secondo altri, aggiramento d’aria [p. 135 modifica]affocata violentemente cacciata in basso. Il turbine fulmine grande, violento e soffiante, o vento fumoso di nube spezzata. Prestère nube scissa intorno dal fuoco con vento..... nelle cavità della terra, o vento imprigionato nella terra, come dice Posidonio nell’ottavo; da alcuno dei quali provenire i tremuoti, da alcuni le sfenditure, da alcuni le arsioni, da altri i bollimenti.

LXXXII. Credono gli Stoici che l’ordinamento sia di tal fatta: media la terra tenere la ragione del centro, dopo della quale l’acqua globosa, avente un medesimo centro colla terra, talchè la terra stiasi nell’acqua; e dopo l’acqua l’aria arrotondata a guisa di sfera.

LXXXI1I. Esservi cinque circoli nel cielo, dei quali, primo l’artico, sempre apparente; secondo il tropico estivo; terzo l’equinoziale; quarto il tropico vernale; quinto l’antartico, che non appare. Diconsi paralleli, perchè non convengono fra loro; nondimeno si descrivono intorno allo stesso centro. Obliquo è il zodiaco percorrendo i paralleli. Le zone sulla terra sono cinque: prima boreale, oltre il circolo artico, inabitabile per freddo; seconda temperata; terza inabitabile per gran calore, che appellasi torrida; quarta temperata, rispondente all’altra: quinta australe, non abitabile pel freddo.

LXXX1V. Pare a costoro essere la natura un fuoco artificiale, che tende in suo corso alla generazione, cioè uno spirito a maniera di fuoco e d’arte; e l’anima sensibile. Essere questa lo spirito nato insieme con noi, quindi e corpo essere e dopo morte perdurare, ma essere corruttibile. Incorruttibile per altro essere quella dell’universo, di cui sono parte le anime degli animali. [p. 136 modifica]Zenone cizieo e Antipatro, ne’ libri Dell’anima, e Posidonio, dicono essere l’anima uno spirito riscaldante, poichè con questo noi respiriamo, e ci muoviamo per questo. Cleante crede che tutte l’anime durino in fin che duri il riscaldamento, Crisippo quelle dei soli sapienti. Otto dicono essere le parti dell’anima: i cinque sensi e le ragioni seminali che sono in noi, e la facoltà di parlare, e quella di ragionare. Vedere, come afferma Crisippo, nel secondo Delle fisiche, e Apollodoro, chiamano la tensione della luce in forma di cono fra la vista e l’obbietto, ma colla parte conica verso la vista, la base verso ciò che si vede; come allorquando pel disteso aere s’indica con un bastone quello che si osserva. Udire, l’aria tra chi parla e chi ascolta, percossalo giro, poscia ondante e cadente sulle orecchie, come è agitata l’acqua in uno stagno per circoli al cadervi dentro di un sasso. Il sonno credono farsi pel rilassamento del vigore dei sensi intorno alla facoltà signoreggiante. Insegnano essere causa delle passioni i rivolgimenti dello spirito.

LXXXV. Seme dicono essere ciò che può generare una cosa pari a quella da cui fu esso pure staccato. Il seme d’uomo, l’emesso dall’uomo, mescolarsi per mezzo dell’umido alle parti dell’anima, secondo la mistione proporzionata dei genitori. Crisippo, nel secondo Delle fisiche, dice essere uno spirito secondo sostanza, siccome è manifesto dai semi che si gettano in terra, i quali, invecchiati, non mettono per lo svanimento del proprio vigore. Ch’esso discenda dal totale dei corpi è opinione di Sfero; quindi essere generative tutte le parti [p. 137 modifica]del corpo. Dimostrano non atto alla generazione il seme delle femine, per essere, come dice Sfero, fiacco, poco e acquoso.

LXXXVI. Essere signoreggiante, affermano, la parte principalissima dell’anima, in cui le fantasie egli appetiti si creano, e donde proviene il discorso; ed essa stare nel cuore. — Anche queste fisiche dottrine ci parvero bastevoli, considerate le proporzioni del libro. — Le cose in che alcuni di essi differiscono sono queste.

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