darsi col suo volto. — Ad un tale che andava dicendo molte cose di Antistene non piacergli, chiese, recitando una sentenza di Sofocle, se non gli parea ch’esso pure avesse alcun che di buono; e dicendo costui di non saperlo: Dunque non ti vergogni, soggiunse, di scegliere e rammentare ciò che Antistene avesse mal detto, e di non istudiarli di ritenere ciò che bene? — Ad uno cui parevano brevi i motti dei filosofi, disse: È vero; ciò nulla meno dovrebbero anche le sillabe di quelli essere più brevi, se fosse possibile. — Affermando alcuni di Polemone, ch’altro proponeva e d’altro parlava; fatto brutto viso, chiese, quanto gli si dava? — Asseriva, che chi disputa dee avere, a guisa degli istrioni, gran voce e forza, ma non deve per altro allargare la bocca; lo che fanno coloro i quali dicono molte cose, ma fiacche. — Quelli che parlano bene, affermava, non aver mestieri, come i buoni artisti, di cangiar sito per farsi ammirare; e per converso chi ascolta, dover essere tanto occupato di coloro che parlano, da non aver tempo alle considerazioni. — Ad un giovinetto assai loquace disse: Le orecchie ti sono andate nella lingua. — Ad un bello, il quale diceva, non parergli che il sapiente potesse amare: Nessuno, rispose, sarebbe più misero di voi altri belli! — Affermava che eziandio molti filosofi erano insipienti in molte cose, ignoranti le piccole e le fortuite. Ed allegava il fatto di Cafesia, il quale scorto un suo discepolo gonfiarsi troppo, gli disse, percotendolo, come non nel grande fosse posto il bene, ma nel bene il grande. — Un certo giovane disputava più che audacemente; dissegli: Non potrei raccontarti,