Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo V/Libro II/Capo II

Capo II – Filosofia e Matematica

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Capo II.

Filosofia e Matematica.

i- I. Le traduzioni dell’opere di Aristotele e d’al“lowfi!..d tri antichi filosofi, fatte per ordine di Feder ’ir rigo n, di Manfredi e del pontefice Urbano IV nel secolo precedente, avevan fatto risorgere tra gl’italiani lo studio della filosofia, già da più secoli dimenticato. Era quella, a dir vero, una filosofia barbara e rozza che invece di penetrar più addentro a scoprire il vastissimo e troppo sconosciuto regno della natura, era paga di ricercare ciò che ne avessero scoperto gli altri* ee’essendo costretta a cercarlo o negli originali lor libri guasti miseramente da’ copiatori ignoranti, o nelle traduzioni non molto esatte e felici che se ne avevano, non solo adottava alla cieca tutti gli errori degli antichi, ma spesso ancora ne aggiugneva de’ nuovi. Le sottigliezze e le inutili speculazioni degli Arabi aveanla sempre più insalvatichita; e il filosofare non era quasi altro che un misterioso eo’oscuro parlare in gergo, che per lo più non intendevasi da quei medesimi che pur l’usavano. Così andaron le cose nel secolo precedente, e così ancor proseguirono in quello di cui ora scriviamo. Anzi, come se gli errori già ricevuti non fosser bastanti, altri nuovamente [p. 277 modifica]SECONDO 377 se ne introdussero, e una setta singolarmente si andò spargendo per le scuole d’Italia, che recò grave danno non solo alle scienze, ma al costume ancora, e condusse molti a quella funesta libertà di pensare che fin d1 allora eredevasi propria de’ begli spiriti, e che ha poi gittate sì ampie e sì ferme radici. II. Fin dal principio del secolo XIII eransi ~.n:. 1 l 1 in Opinioni sparse per 1 Europa le opere dell arabo Aver- «h a verme roe, morto circa l’anno 1206. Questi, fanatico r Europa * ammirator d’Aristotele, avevane interpretati i J”naatj,,pd« libri con quella felicità ch’era ad attendersi da n,oltiun uomo che non sapeva sillaba di greco, ed era perciò costretto a valersi delle infedeli versioni arabiche. E nondimeno aveva in ciò ottenuta tal fama, ch’egli chiamavasi per eccellenza il Comentatore (V. Bruck. Hist Philos. t. 3, p. 97, ec.). Le opere di lui tradotte in latino (eArmengando di Biagio francese (Fabr. Bibl. med. et inf. Latin, t. 1, p. 247) ne fu il primo interprete) si divulgarono presto per la Francia e per l’Italia. Gli uomini dotti vi scopersero tosto gravissimi errori non solo riguardo alla filosofia, ma, ciò che era peggio, riguardo alla Fede; nè poteva altrimenti aspettarsi da un Maomettano avuto anche da’ suoi in concetto d’uomo non molto religioso. Tra le opere di S. Tommaso e del B. Egidio Colonna ne abbiamo alcune indirizzate a confutarne gli errori. Con più zelo ancora contro di essi si volse il celebre Raimondo Lullo: perciocchè egli al principio del secolo xiv pubblicò in Parigi alcuni suoi libri contro di essi, e fece opera, benchè inutilmente, perchè nel Concilio generale di [p. 278 modifica]378 LIBRO Vienna si proscrivessero solennemente le opere di Averroe, e se ne vietasse la lettura nelle scuole cattoliche (V. Acta SS. jun, t. 5, p. 672, 673). L’ab. de Sade, facendo di ciò menzione, afferma (Mém, de Petr. t. 3, p. 762) che Raimondo a ciò s’indusse singolarmente perchè gli errori d’Averroe erano sparsi per tutta l’Italia, e pretende provarlo con ciò che ora diremo dell’opera di F. Urbano di Bologna, e colla testimonianza del Petrarca. Ma dovea pur egli riflettere che l’una e l’altra cosa furono posteriori di non pochi anni a’ tempi del Lullo, e che perciò nol poterono determinare a combatter le opere di Averroe. Anzi dall’aver il Lullo pubblicati in Francia i suoi libri, sembra raccogliersi che ivi più che altrove ne fossero sparsi gli errori, ni. III. Il primo, ch’io sappia, a commentare tra tuiie^operc gl’Italiani le opere di Averroe, e a farne uso scrif. cTlÌdo vcl,do, fu Pietro d* Abano, che nel suo ConciliaBologna /ore assai spesso lo vien citando or sotto il vero suo nome, or sotto quello per eccellenza adattatogli di Comentatore. Ei nondimeno non prese direttamente a illustrarne le opere; ed io penso che niuno a ciò si accingesse in Italia, prima del suddetto F. Urbano da Bologna dell’Ordine de’ Servi di Maria Vergine. Il conte Mazzuchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 3, p. 1480) ed alcuni altri moderni autori dicono ch’ei fu professore di teologia in Parigi, in Padova e in Bologna, e che fu priore del convento del suo Ordine in Padova. Di tutto ciò io non trovo vestigio nè in alcun antico scrittore, ne presso il P. Giani annalista di quest’Ordine, che rammenta solo [p. 279 modifica]SECONDO 279 la scuola (Ann. Serv. t 1, p. 271) di filosofia da lui tenuta in Bologna. Discordano ancora gli autori nell1 assegnarne l’età; e nella Biblioteca del Fabricio più felicemente si dice (Bibl. med’. et inf. Latin, t. 6, p 3o8) eli1 ei fu professore l’anno 1390, e morì l’anno 1503, se pur non è ivi corso, come è probabile, qualche errore di stampa. Or, checchè ne dicano altri, è certo ch’egli scrisse l’opera, di cui or parleremo, l’anno 1334, e che allora era già avanzato in età. Egli adunque pensò di recare gran giovamento alla filosofia col distendere un voluminoso comento sopra il comento di Averroe sugli otto libri d’Aristotele de Physico auditu; anzi, se il Cielo gli avesse accordata più lunga vita, aveva ancora determinato di scrivere sul comento dello stesso autore su’ libri de Mundo et Coelo; ma par che la morte non gli permettesse di farci dono di un sì pregevol tesoro. Nel prologo egli s’intitola: Ego Magister Urbanus Bononiensis Ordinis Fratrum Seriori un B. Mariae Virginis. E dopo aver parlato delle ragioni per cui erasi accinto a tal opera, cioè singolarmente perchè niuno innanzi a lui avevala intrapresa, dice: Hoc autem opus fuit inceptum per me aetate antiquum ab Incarnatione Domini anno 1334 in Kalendis Aprilis, et si Deus mihi prolungaverit vitam intendo post hoc simili modo exponere commentum libri Coeli et Mundi. Antonio Alabanti, generale dello stesso Ordine, la fece pubblicare colle stampe in Venezia l’anno 1492 con questo titolo: Urbanus Avverroista Philosophus summus ex Almifico Servorum Divae Mariae Verginis Ordine Comentorum omnium [p. 280 modifica]a8o LIBRO Jveroys super libnun Jristotelis de Physico Auditu expositor. Della quale assai bella e rara edizione conserva copia questa biblioteca Estense. Io mi lusingo che niuno de’ miei lettori vorrà dolersi di me, perchè non prenda qui a dargli più minuto conto di questa opera, poichè al presente, abbandonate omai del tutto le sentenze dello stesso Aristotele, assai poco ci dee premere il sapere come le spiegassero Averroe e il suo comentatore. z«iòdi*iPe- ^ Comento di F. Urbano sollevò a magt rari a.0.1 gior fama le opere di Averroe. Il religioso coir^’Inientatore non avea già, per quanto io ho povcrroitii. vedere, sostenuta alcuna delle ree opinioni del suo autore; nè l’opera da lui illustrata ne richiedeva l’esame. Ciò non ostante, come suole avvenire, il comento accese probabilmente in molti desiderio di vedere T opere stesse delT autor contentato; e i libri d1 Averroe si venner perciò spargendo vie maggiormente, e co’ libri se ne sparsero ancora le empietà e gli errori per modo, che a’ tempi del Petrarca pareva quasi che niuno potesse ottener nome di dotto e ingegnoso filosofo, se non volgeva la lingua e non impiegava la penna contro la Religione. Egli se ne duole spesso nelle sue opere, e, fra l’altre cose, racconta ciò che gli avvenne in Venezia (Senil. l. 5, ep. 3), quando venuto a trovarlo nella sua biblioteca un di coloro i quali, com’egli dice, secondo il costume de’ moderni filosofi, pensano di non averfatto nulla, se non abbaiano contro di Cristo e della sovrumana di lui dottrina, costui prese a deriderlo e ad insultarlo, perchè nel parlare avea usalo [p. 281 modifica]SECONDO 28l di qualche detto dell’apostolo Paolo; Tienti tu pure, disse egli al Petrarca, la tua Religione cristiana: nulla di tutto ciò io credo. IL tuo Paolo, il tuo Agostino e tutti coloro che tanto esalti, furono uomini loquacissimi. Così potessi tu sostenere la lettura di Averroe: tu ben vedresti quanto egli sia maggiore di cotesti tuoi giocolieri. Arse di sdegno il Petrarca a tai parole, e appena si tenne dal malmenare colui che malmenava cotanto le cose più sacrosante, e presolo pel mantello, sel mise fuori di casa, avvertendolo a più non rimettervi piede. Il fanatismo con cui il Petrarca vedeva tanti correr perduti dietro l’empietà di Averroe, l’indusse a scrivere il libro intitolato De sui ipsius et multorum ignorantia, a cui diedero appunto occasione le conferenze ch’egli ebbe in Venezia, con quattro de’ suoi amici fautori e sostenitori di sì ree opinioni. Essi, dic’egli (Op. t. 2, p. 1144), tanto più per esse son trasportati, quanto più sono amanti dello studio e della fatica, per tal modo però, che il primo di essi non ha alcuna letteratura, il secondo poca, il terzo non molta, il quarto ne ha veramente moltay ma sì disordinata e confusa, e congiunta, come dice Tullio, a leggerezza e ostentazione sì grande, che meglio sarebbe il non averne punto. L’ab. de Sade dice (Mém, de Petr. t. 3, p. 752) ch’ei non ha potuto scoprire chi fossero questi quattro Veneziani; ma che è probabile che un di essi fosse Guido da Bagnolo reggiano medico del re di Cipri; e cita l’opera del P. degli Agostini sugli Scrittori [p. 282 modifica]282 LIBRO veneti. Ma se l’ab. de Sade ha veduta quest’opera, come non vi ha egli veduti, nel luogo stesso ch’ei cita, chiaramente espressi i nomi di tutti quattro questi amici del Petrarca. tratti da un codice della libreria de’ SS. Giovanni e Paolo? Hii erarit DominusLeonardus Dandolo; Thomas Talentus; Dominus Zacharias Contarenoj omnes de Venetiis: quartus Magister Guido de Bagnalo de Regio. Primus miles, secundus simplex mercator, tertius simplex no* bilis, quartus Medicus Physicus (Scritt. venez. t. 1, p. 5). Or tornando al Petrarca, ei ci descrive nel mentovato libro il venire che a lui facevano or gli uni or gli altri per trarlo al loro partito, le contese che su ciò avea con loro, il dispiacer ch’essi aveano della costanza con cui egli teneasi fermo nella sua Religione, e finalmente il gran consglio ch’essi tenner tra loro, quando omai disperati di fargli cambiar parere, raccoltisi insieme , e agitate quinci e quindi le ragioni che vi erano di credere o no dotto il Petrarca, decisero finalmente, con irrevocabil sentenza, ch’egli era un buon uomo senza letteratura: brevem definitivam hanc tulere sententiam, scilicet me sine literis virum bonum (l. cit. p. 1165). Non si posson leggere senza un dolce sentimento di tenerezza i piissimi sentimenti con cui in tu Ito questo libro il Petrarca, nell’atto di mostrare la debolezza dell’umano intendimento e gli angusti limiti fra cui il nostro sapere è ristretto, si mostra attaccato alla sua Religione, di cui sola egli si gloria: Quante più cose, egli dice (ib. p. 1 i5i), [p. 283 modifica]secondo a83 odo contro la lode di Cristo, tanto più io amo Cristo, e tanto più mi confermo nella legge, di Cristo; e mi avviene appunto come ad un figlio in cui sia raffreddato l’amor verso il padre, il quale quando ode altri parlarne con biasimo, se è vero figlio, sente rinfiammarsi in cuor queir X amore che sembrava dapprima estinto. Che se il Petrarca ci scuopre in questo libro il suo animo veramente religioso e pio, la descrizione ch’ei fa de’ suddetti suoi amici, ci offre una sì bella immagine de’ costumi e de’ sentimenti di molti i quali contro ogni ragione si appellan filosofi, che sembra quasi di udire un che ragioni di tempi assai meno lontani. Essiy egli dice (ib. p. ii 56), ardirebbono d impugnare ancora la Storia di Mosè e la Fede cattolica e tutti i santissimi dogmi di Cristo, se non temessero più gli umani che i divini supplicii. Se un tal timore non li trattiene, e se trovansi soli, essi combattono direttamente la verità, e ne’ più segreti angoli si ridon di Cristo, adorando Aristotele cui non intendono.... Anzi tu avrai potuto osservare che quando essi vengono a disputare pubblicamente, non avendo coraggio di palesare i loro errori, si protestano di parlare prescindendo dalla Fede.... I nostri amici si ridon di noi che pur viviam fra la luce, e non brancoliam tra le tenebre, come essi; ci mirano con disprezzo come ignoranti, perchè non disputiam di ogni cosa nelle pubbliche piazze, e vanno gonfj degli oscuri loro sofismi, compiacendosi singolarmente che, non sapendo cosa alcuna, hanno appreso ciò non ostante a vantarsi di saper tutto, e a disputare di tutto. [p. 284 modifica]V. Egli esorta il!V1 arsigli ad impugnarle. 284 LIBRO Ei segue poscia anoverando le ingegnose difficoltà eli’essi moveano sulla creazione del mondo, sulla onnipotenza di Dio, sulla felicità dell’umano e su altri somiglianti punti, su’ quali fin d’allora filosofa vasi da’ begli spiriti. Dio immortale! prosiegue egli poscia (ib. p. 1163), niuno a giudizio di costoro è uomo letterato, se non è eretico e pazzo, e sopra tutto se non è importuno e ardito; e se ei non va per le piazze e per le pubbliche vie disputando delle bestie e degli animali, e mostrandosi bestia egli stesso.... Quanto più animoso uno si accinge ad impugnare la Religione cristiana, tanto più egli è ingegnoso e dotto: quanto più la difende, tanto più è creduto ignorante e rozzo; e dicesi che col velo della fede ei cuopre la sua ignoranza. Così egli continua in tutto il decorso di questo libro a dipingere vivamente costoro; e io potrei ancora arrecarne più altri passi più forte e più opportuni, se non temessi che questo tratto di storia potesse anzi sembrare un’amara critica de’ nostri tempi, che una fedele descrizion degli antichi. V. Nè fu pago il Petrarca di declamare in tal modo nelle sue opere contro l’empietà de’ seguaci di Averroe. Egli avea ancora intrapreso a confutarne gli errori; ma non potè condurre al suo fine l’opera incominciata. Perciò fece istanza con assai calde preghiere a Luigi Marsigli agostiniano, di cui si è parlato nel precedente capo, perchè si accingesse a tal lavoro. Così ricaviam da una lettera del Petrarca, posta tra quelle che diconsi sine titulo, perchè non si vede a chi sieno indirizzate, e che nondimeno si conosce [p. 285 modifica]SECONDO 285 essere scritta a quel dottissimo religioso. Io ti prego per ultimo, gli die’ egli (Op. t. 2, p. 812) , che quando abbi ottenuto ciò che desideri, il che io spero che sarà quanto prima, ti piaccia rivolgerti^ raccogliendone quinci e quindi le bestemmie, contro quel rabbioso cane di Averroe, il quale, trasportato da pazzo furore , abbaia continuamente contro Cristo e contro alla cattolica Religione, il che, come ben sai, io avea già cominciato, ma le mie sempre grandi ed ora sempre più gravi occupazioni, e la mancanza di tempo non meno che di sapere, me ne hanno distolto. Tu dunque con tutte le forze del tuo ingegno accingiti a questa impresa, che da tanti grand1 uomini e stata finora indegnamente trascurata. Non ci è però rimasta memoria alcuna da cui raccolgasi che il Marsigli secondasse in ciò il desiderio e le preghiere del Petrarca. VI. Benchè le inutili speculazioni e i perni- vr. , • i ni 1 » L’astrolociosi errori dell arabo Averroe avessero, come già siud«msi è detto, ingombrata sì gran parte d’Italia, 7JJÌ2 non fu però questa la parte della filosofia che *^nrrr ,naS“ venisse in questo secolo più illustrata colle fatiche e co’ libri degli uomini dotti. Bastava ai seguaci di quelle opinioni dichiararsi Averroisti, e seguire praticamente le massime o da lui insegnate, o per conseguenza dedotte da’ suoi principj; nè si curavano molto di tramandarle a’ posteri co’ loro scritti, anche perchè esse eran tali cui poteva essere pericoloso l’insegnare e il difendere pubblicamente. L1 astronomia e, quella che in questi tempi ne era [p. 286 modifica]386 LIBRO quasi indivisibil compagna , P astrologia giudici a ri a , fu il principale oggetto a cui si rivolsero i più egregi ingegni di questo secolo, miseramente ingannati dal volgar pregiudizio non meno che dall’esempio di tanti grand’uomini che gli aveano preceduti. Fin dal secolo xiii erasi introdotta, come a suo luogo si è osservato, nelle università di Bologna e di Padova la cattedra dell1 astrologia giudiciaria, e più altri esempj ne recheremo tra poco, appartenenti al secolo di cui scriviamo. Qui basti solo rammentar quel Guglielmo di Montorso, modenese di patria e professore di astrologia in Padova, di cui il Facciolati ha pubblicato la iscrizion sepolcrale: Quem Mutinae rupes genuit Montorsia Castri, Guglielmus jacet hic nunc veri cognitor astri. Facc. Fasti, pars i » p. 49» ec. In questo parimente , come nel secolo precedente , i più potenti sovrani non si credean felici abbastanza, se non avea 11 al fianco qualche famoso astrologo, come da varie pruove si farà manifesto, e già abbiamo osservato che il medesimo re Roberto, benchè fosse lui de’ più saggi e de’ più dotti monarchi che mai sedesser sul trono , non andò esente da cotal puerile superstizione. Non è dunque a stupire se molti eran coloro che in questo studio si applicavano, da cui poteano sperare e onore e vantaggio. E due tra essi furono celebri singolarmente anche per le sinistre loro vicende, e de’ quali perciò ci convien qui ragionare con [p. 287 modifica]SECONDO 287 maggior esattezza, Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli. Il primo di essi potrebbe forse a miglior ragione richieder luogo tra’ medici. Ma poiché r astrologia non meno che la medicina il rendette a’ suoi giorni famoso, non è alieno dalla materia di questo capo il qui ragionarne. VII. Di Pietro a Abano è avvenuto ciò che di altri uomini parimente famosi; cioè che poco di essi hanno scritto gli autori loro contemporanei e vicini; e perciò gli scrittori posteriori che hanno intrapreso di tramandarne la Vita a’ posteri, non trovando accertate notizie, e volendo pure , secondo il gusto de’ tempi, scriver cose maravigli ose, a’ monumenti han sostituito la lor fantasia, e alle verità le favole e i sogni. Se traggasene F. Tommaso d’Argentina agostiniano , scrittore contemporaneo , e Benvenuto da Imola vissuto nello stesso secolo, i quali ne han brevemente parlato , non troviam tra gli antichi chi di lui faccia menzione, e la più parte delle cose che di lui si raccontano, sono appoggiate all1 autorità de’ moderni, i quali comunemente o non recano pruova alcuna di ciò che affermano, o citano qualche altro scrittore poco più antico, a cui non deesi fede punto maggiore. Veggansi le notizie intorno a Pietro d1 Abano raccolte dal co. Mazzuchelli , e pubblicate prima a parte , poscia inserite nella sua grande opera degli Scrittori italiani (t. 1, par. 1, p. 1), e si vedrà che benchè egli colla consueta sua singolare esattezza abbia raccolto quanto intorno a questo medico astrologo è stato scritto, per lo più VII. Pietro d’Abalio: quanto sia incerto ciò che a lui apparile* ne. [p. 288 modifica]288 LIBRO nondimeno non ha potuto addurre altre testimonianze di ciò eli’ ei narra, che quelle dello Scardeone, del Portenari, del Naudè, del Tommasini e di altri somiglianti scrittori venuti troppo tardi al mondo, perchè la loro asserzione possa aver luogo di pruova (a). Un autore alquanto più antico è sfuggito alla diligenza del conte Mazzucchelli, cioè Michele Savonarola avolo del celebre F. Girolamo, di cui abbiamo due libri delle Lodi di Padova , da lui scritti f anno i44°, e per la prima volta pubblicati dal Muratori (Script. Rer. ital voi 24, p. 1 iS’], ec.). Or questi parla non brevemente di Pietro; e benché fosse da lui distante oltre ad un secolo , par nondimeno che avrebbe potuto agevolmente raccoglierne più certe e più esatte (tf) La Vita di Pietro d’Abano scritta dal co. Mazzucchelli è stata tradotta in francese e illustrata con alcune annotazioni ed aggiunte da M. Goulin (Mém, pour servir à l’Hist. de la Medec., an. 1755), p. 30, ec.; p. 413, ec.). Da un passo dell’opere di Pietro, questi accoglie che non solo ei viaggiò in Costantinopoli e trasportossi a Parigi, ma fu ancora in Inghilterra e in Iscozia. Osserva che le parole da me ancor riferite, colle quali sembra indicare una superstiziosa positura nell’atto di orare, si debbon piuttosto credere d’Albumazzar, che di Pietro; che quasi tanto fu lungi dal negare i miracoli del Redentore , che anzi nel suo Conciliatore riconosce per prodigioso il risorgimento di Lazzaro; e che in più altri passi delle sue opere ei ragiona da uom religioso. E ha ancora aggiunta qualche altra cosa al catalogo delle opere di Pietro datoci dallo stesso co. Mazzucchelli, e ha confutato egli pure l’errore di chi ha asserito che Pietro dedicò il suo trattato dei Veleni a Giovanni XXII, il quale non fu eletto pontefice che dopo la morte di Pietro. [p. 289 modifica]SECONDO 20J) notizie. Ciò non ostante anche la narrazione del Savonarola ci offre più cose che certamente son Favolose; e ci mostra con ciò quanto presto cominciarono ad ingombrarsi di errori le memorie della Vita di quest’astrologo. Con vie n dunque esaminarle con qualche particolar diligenza, per separare il vero dal falso, e il certo dall’incerto. Vili. Pietro, soprannomato d’Abano pel vii- SlVIlv,’1... laggio di questo nome nel territorio di Padova, « « . 00. 1 1 1 *uo sobilli cui venne a luce, e spesso ancora detto nuinParigi. Pietro da Padova, nacque F anno i25o, come chiaramente raccogliesi da due passi del suo Conciliatore , in un de’ quali ci dice (differ. 9) ch’egli scriveva quell’opera l’anno 1303, nell’altro che allor contava 53 anni di età (differ. 49)• Nella profession di Fede fatta poco innanzi alla sua morte, di cui parleremo fra poco, ei si dice figlio q. Domini Constantii de Abano; e quindi credesi eli’ ei fosse figlio di quel Costanzo d’Abano notaio, di cui lo Scardeone rapporta la lapide sepolcrale (De Patav. Antiq. l. 2, class. 9), se pure la somiglianza del nome è indicio bastante per affermarlo. Che giovinetto andasse in Grecia ad apprendervi quella lingua, si afferma da molti scrittori padovani, e, fra gli altri, dal citato Savonarola (l. cit. p. 1154) colle seguenti parole: Is enim quum lite ri s Latinis esset non mediocriter imbutus ad capessendas Graecas Constantinopolim profectus est, ubi Philosophorum et Medicorum copiosus numerus florente studio aderat. Quo tempore in eis tantum profecit, ut sedem matutinam etiam Tnuuoscui, Voi. V. 19 [p. 290 modifica]200 unno Unifica cum Graeca maxima cum fama occuparet. Ma più di tutti ne è autorevole pruova il detto del medesimo Pietro, che chiaramente lo afferma: Constantinopolim me transtuli (proem. Comm. in Probl. Aristot.). Il qual viaggio a Constantinopoli , e molto più la cattedra ivi ottenuta, è assai onorevole testimonianza del nome a cui Pietro vi giunse. Il Savonarola, dopo aver accennate più traduzioni di autori greci, a cui Pietro allora si accinse, soggiugne che qualche tempo appresso dal Comune di Padova ei fu con onorevoli lettere richiamato, e a Renna che egli stesso avea veduta la lettera che perciò gli fu scritta: Quumque sic morali atque naturali historiae se conferret, a populo Pat avo literis revocatus est, quarum copiam ex gymnasio suo habitam magna cum jucunditate perlegi. Se Pietro tornato a Padova cominciasse allora a tenervi scuola, non ne trovo indicio. Ciò che è certo, si è ch’egli andò poscia a Parigi, evi si trattenne più anni. Io non recherò in pruova nè il Naudè (De Antiq. Schol. Medic. Paris, p. 44) il tlu Boulay (Hi st. Univ. Paris, t 4, p.981), scrittori troppo moderni perchè bastino a farcene certa fede. Testimonio più autorevole ne abbiamo in un codice della biblioteca dei re di Francia, che contiene un trattato sulla Fisionomia ivi composto da Pietro, e intitolato: Liber compilationis phsionomicae a Petro de Padua in Civitate Parisiensi editus Bordeloni de Bonacossis Militi ac Manluanac Praefecio nuncupatus. Bordellone de’ Bonacossi ebbe l’onorevol titolo di capitano di Mantova nell’anno 1292, o nel seguente; e ne fu [p. 291 modifica]SECONDO 2()I poscia privato l’anno 1299 (Murat Ann. (d’Ital. ad an. 1292, 1299), e da ciò raccogliesi il tempo in cui Pietro stava in Parigi, cioè verso la fine del secolo xiii. Se è vero ciò che il Naudè afferma (l. cit.) che Pietro scrivesse in Parigi il suo Conciliatore, convien dire che in quella città egli si trattenesse fin dopo l’anno 1303, in cui, come si è detto, pubblicò quella sua opera. E sembra certo che così fosse, poichè ne’ suoi Comenti su’ Problemi d’Aristotele , opera, come al fin di essa si. dice;, cominciata in Parigi e finita in Padova, ei cita talvolta il suo Conciliatore (part. 10, probi, ulL). IX. Mentre egli era in Parigi, cominciò, se ix. crediamo al Savonarola, ad essere accusato d1 in- i«“ cantesimi e di magia. Ma il racconto che ce «*-•« ne fa questo autore, è così improbabile che strofa, appena meriterebbe d’essere qui riferito. Dice egli adunque che avendo Pietro in Parigi operate più cose tanto ammirabili, che da alcuni credevansi effetto di magia, l’inquisitore domenicano volle chiamarle ad esame j e parendogli che Pietro fosse veramente reo di arte magica, cominciò a parlarne in pubblico, a dargli il nome d’eretico, e a cercare d’imprigionarlo per dannarlo poscia alle fiamme. Ma tale era il favore di cui Pietro godeva presso la corte e presso tutta l’università, che l’inquisitore non poteva ottenere il suo intento. Pietro avendo di ciò avuta contezza, andossene al re, e radunata tutta l’università, accusò d’eresia l’Ordine domenicano , e fece che un giorno determinato si stabilisse a trattare e a giudicar di tal causa. Nel qual giorno, innanzi al re e a gran numero [p. 292 modifica]21)2 L1BKO di dottori, Pietro con quarantacinque argomenti provò ciò che aveva asserito che l’Ordine de’ Predicatori era infetto d’eresia; e le pruove da lui recate pai vero sì conchiudenti, che i Domenicani cacciati furono da Parigi, e per trcntadue anni non poteron farvi ritorno. La qual ultima circostanza però dal Savonarola si accenna sol come cosa di cui correa fama: si famae creditur. E in vero il sol vedere che di un fatto sì memorabile, qual sarebbe stato il bando da Parigi per trentadue anni di tutto l’Ordine domenicano, non trovasi cenno alcuno in tutte le storie di que’ tempi, basta, s’io non erro, a mostrarci ch’esso deesi riputar favoloso. Siegue egli poscia a narrare che Pietro fu dagl’inquisitori medesimi citato a Roma, che grandi cose e maravigliose diconsi da lui operate in quel viaggio, e che finalmente per decision del pontefice egli ottenne di viver tranquillo. Io non saprei accertare quanto vi abbia di vero in tutto questo racconto. Ma non si può certamente rivocare in dubbio che Pietro Ì)er cagione d’astrologia fosse più volte e per lungo tempo accusato, e che finalmente per autorità del pontefice fosse dichiarato innocente. Ne abbiamo una troppo sicura pruova nel suo stesso Conciliatore, ov’egli, dopo aver parlato dell’astrologia giudiciaria, così soggiunge: In hoc autem me aliqui protervi nolentes seu poti us impotentes audire, gratis longis ve jo ave re temporibus, e quorum manibus me meaque veritas laudabiliter eripuit praefata, demum mandato etiam superveniente Apostolico (differ. i o); e poiché* ò probabile, come abbiam detto, che [p. 293 modifica]SECONDO 293 Pietro scrivesse in Parigi il suo Conciliatore, è probabile ancora che ivi cominciasse egli a sostenere cotali accuse. X. E che Pietro fosse uno de’ più supersti- *• , ». • 1 in i-i 1 1 Quanto ziosi coltivatori dell astrologia, la sola sua opera <■* *<-* poc’anzi accennata basta a provarcelo aperta- coltivatore, mente, poiché in essa ei ne fa spesso menzione ed uso, e la difende contro coloro che la biasimavano, e si protesta più volte di esercitarla, sino a dire che avea provato, per esperienza, essere assai efficace ad acquistare scienza la preghiera fatta a Dio in una cotal situazion de’ pianeti, ch’io, che non son punto astrologo, confesso di non intendere: unde et invocationem ad Deum per me factam percepi ad scientiam conferre capite cum Jove medio ante Coeli, et Luna eunti ad ipsum (diffi 113). Ei volle ancora persuadere i suoi Padovani, come narra il Savonarola (l. cit. p. 1155), di fondare una nuova Padova sotto una congiunzione di stelle che a’ suoi tempi apparve, e ch’ei diceva felicissima. Ma essi ebbero più riguardo al certo danno della gravissima spesa, che alla incerta speranza di lieta sorte. Di questa pretesa sua scienza lasciò egli un celebre monumento a’ medesimi Padovani; perciocchè nel pubblico loro palagio fece dipinger gran numero di figure che rappresentavano i pianeti e le stelle, e le diverse azioni che dipendevano da’ loro influssi. Lo Scardeone avverte (Hist. Patav. l. 1, class. 9) che cotai pitture, essendo per un incendio perite, erano state rinnovate da Zotto o Giotto pittore insigne; e il co. Mazzuchelli, sull’autorità del Tommasini, dice che ciò avvenne [p. 294 modifica]XI. Quanta fama ni tenesse Urli1 1-tiTri: i«> della medicina. 2q4 T.IBTIO Tanno 1420. Ma il Savonavola, che scriveva più anni dopo il 1420 (V. Murat. prcicf. adejus. Comrncnt. I. cit.), parla delle pitture, di cui Pietro fé’ornar quel palagio, come di cosa che ancor vedeasi (l. cit p. 1173), e dell1 incendio e del ristoramento seguitone non fa parola. E certo il celebre Giotto (nè altro pittor famoso di questo nome vi è stato mai) non potè l’an 1420 rifar quelle pitture, essendo morto T anno 1336. Io crederei più probabile che Pietro d’Abano di Giotto appunto si valesse a cotali pitture; perciocchè questi , secondo il Vasari (Vite de’ Pitt. t. 1, p. 316, 324, C(l- di Liv.), due volte fu a Padova e vi lasciò più opere del suo pennello. Se crediamo in Giovanni Pico della Mirandola (in Astrol. l. 3, c. 17), Pietro al corso degli astri riferir soleva ancora i periodi della febbre-, e fu il primo a cui sì solenne pazzia venisse in capo. Abbiam però osservato altrove, col testimonio di Plinio (Hist l. 29, c. 1), che, fin da’ tempi de’ primi Cesari, Crina da Marsiglia medico in Roma avea cominciato a introdurre l’astrologia nella medicina. XI. Questa seconda scienza rendette allora celebre Pietro non meno che T astrologia; e ora che questa non ce lo renderebbe che oggetto degno di disprezzo e di riso, quella ce lo fa avere ancora in conto di uno de’ più dotti uomini che a que’ tempi vivessero. Le sue opere, e il suo Conciliatore singolarmente, ci mostrano ch’egli in questa materia aveva letti tutti que’ libri che allora si conoscevano; e la fama che egli ottenne in quest’arte, ci pruova che egli era forse il più valente medico della sua età. [p. 295 modifica]SECONDO 295 Credesi ch’ei fosse il primo a tenerne pubblica scuola nell’università di Padova, ove, comesi è nel precedente tomo osservato, non erasi ancor introdotta cotale scienza, per modo che ve ne fosse un distinto pubblico professore. Molti autori moderni, citati dal conte Mazzucchelli, narran di Pietro ciò che noi altrove abbiam osservato narrarsi da altri di Taddeo fiorentino, cioè dell’eccessivo prezzo a cui egli pose la cura che dovea intraprendere del pontefice Onorio IV. Ma se un tal fatto non è abbastanza provato riguardo a Taddeo, ugualmente e forse ancora più incerto è riguardo a Pietro. Più certa pruova nel nome che si acquistò Pietro d’Abano nella medicina, è ciò che narra il Savonarola (l. cit. p. 1155), cioè che Gentile da Foligno, celebre medico di questa età, essendo andato a Padova, ebbe gran premura di visitare la scuola di Pietro, e che giuntone alla porta, piegatele ginocchia, trattasi la berretta di capo e sollevando le mani, Salve, esclamò, o santo tempio. Entrovvi poscia piangendo per tenerezza; e veggendo appese alle pareti alcune carte scritte per man di Pietro, presele come cosa sacra, e se le ripose nel seno. In alcune professioni proporzionato alla stima suol essere comunemente il guadagno, e così par che avvenisse a Pietro; poichè nel suo testamento, come narra il Tommasini che sembra averlo veduto (Gymn. patav. p). 11), lasciò al Comune di Padova 1500 lire piccole, che ancora gli si doveano per l’ultimo trimestre scorso: somma grande a que1 tempi, e che mostra ch’egli avea lo stipendio di 6000 [p. 296 modifica]29O LIBRO lire piccole ogni anno; il qual però non sappiamo se forse solo per la scuola ch’egli teneva, o anche perla professione della sua arte. Abbiamo altrove veduto (l. 1, c. 3, ti. i4) ch’egli l’anno 1314 fu condotto a Trevigi, perchè per un anno vi esercitasse la medicina. Il conte Mazzucchelli cita alcuni scrittori che affermano averne Pietro tenuta scuola anche in Bologna. Ma essi son tutti troppo moderni, perchè bastino a persuadercene, e noi staremo aspettando la continuazione della Storia di questa celebre università, per vedere se ciò si comprovi da qualche autentico monumento, x»- XIL Un uomo che col suo ingegno si solleVicn a«vu- ili • auto di dui* vasse sopra del volgo, appena pareva a que’ tempi cosa mortale; e perciò spesso accadeva che si credesse effetto d’incantesimo e di magia ciò a che non giungeva il comune degli uomini. Così avvenne ancora a Pietro d’Abano. Già abbiam poc’anzi narrato ciò che delle persecuzioni da lui sofferte prima in Parigi, poscia in Italia, racconta il Savonarola , e ciò che ne accenna lo stesso Pietro. Lo Scardeone (l.cit.), e dopo lui moltissimi altri moderni autori più distintamente raccontano che due volte in Padova ei fu accusato di eresia non meno che di magia; la prima volta l’anno 1306 in cui la protezione di Jacopo Alvarotto, di Pietro Alticlino e del poeta Lovato il fe’ dichiarare innocente; la seconda l’anno 1315, ma allora non si potè compire il giudizio per la morte dell’accusato; e aggiugne il medesimo Scardeone, che il principale accusatore di Pietro fu un altro Pietro da Reggio medico di [p. 297 modifica]SECONDO ^97 professione, il quale vedendo da lui oscurato il suo merito, e forse ancora diminuito il suo guadagno, cercò in tal modo di opprimerlo. Io non so se tai circostanze si possan dire abbastanza accertate per l’autorità dello Scardeone autore del xvi secolo. Ma ce le rendon probabili le cose dette poc’anzi. Più difficile è a diffinire qual fosse precisamente il delitto apposto a Pietro. Tommaso d’Argentina agostiniano, che a questi tempi viveva, dice (Comm. in lib. Sentent. l. 4 > c. 4) eh1 egli si facea beffe de’ miracoli di Cristo e de1 Santi nella risuscitazione de’ morti, affermando che questi non eran morti che in apparenza per effetto di una cotal malattia, la quale per più giorni tien sopito l’infermo, non altrimente che se fosse morto; ma aggiunge insieme che non solo di questo, ma di altri errori ancora ei fu accusato. Gianfrancesco Pico afferma (De rerum praenotione c. 7) che Pietro fu accusato perchè negava che vi fosser demoni. La qual accusa, se veramente gli fu apposta, basta essa sola a smentire le tante fole che di lui si raccontano da molti scrittori moderni più amanti dell’ammirabile che del vero, e che non si posson leggere senza risa. Sette spiriti famigliari da lui racchiusi entro un cristallo e pronti ad ogni suo cenno; un pozzo dall’interno di una casa fatto trasportare in una pubblica via; il denaro già da lui speso fatto ritornare alla sua propria borsa; un asino sostituito a se stesso, mentre i Padovani eran sul punto di appenderlo per la gola; ed altre somiglianti sciocchezze; questi sono i leggiadri racconti di cui molti scrittori, [p. 298 modifica]XIII. Sua morte e circostanze della sua sepoltura. 298 LIBRO citati dal co. Mazzucchelli, hanno imbrattati i loro libri. Nè è maraviglia che in que’ secoli tenebrosi e si divolgassero e si credesser tai cose. Anche il Savonarola, benchè non ci narri alcuna cosa in particolare, confessa nondimeno ch’ei fu avuto in conto di mago, e aggiugne ch’ei non ardisce negarlo. Ma se son degni di qualche scusa i nostri maggiori che crederono a cotai follie, niuna ne meriteremmo noi, se seriamente ci trattenessimo a confutarle. Xm. Qualunque fosse il fondamento delle accuse con cui Pietro fu molestato, egli a’ 24 di maggio del 1315, avendo letto il suo testamento, si protestò di esser buon cattolico e di credere ciò che insegna la Chiesa e ciò che contiensi nel Simbolo degli Apostoli e in quello attribuito a S. Atanasio (*). La qual protesta si può veder presso il co. Mazzucchelli (Script. ital. t. 1, p. 6, nota 32). Anzi, se crediamo a Benvenuto da Imola, egli conobbe allora anche la falsità dell’astrologia; perciocchè questi racconta (Murat Antiq. ital. t. 3, p. 946) ch’essendo Pietro venuto a morte, rivoltosi agli amici, a’ maestri, agli scolari e a’ medici che stavangli intorno al letto, disse loro che a tre scienze avea egli in sua vita volto lo studio, la prima delle quali avealo renduto sottile, cioè la filosofia; la seconda, cioè la medicina, (*) 11 testamento legale di Pietro d’Abano si conserva presso il più volte lodato patrizio veneto sig. Giovanni Roberto Pappafava, rogato dal notaio Glierardino del già Fineto di Abano, e segnato a’ %’) di maggio del i3i5; e a’ piedi di esso si legge la professione di Fede segnala il dì precedente. [p. 299 modifica]SECONDO 299 ricco; fallace la terza, cioè l’astrologia. Il Savonarola aggiugne che nel testamento medesimo (di cui egli dice che presso molti Padovani conservavansi tuttora copie con somma venerazione) Pietro, per mostrare quanto fosse lontano dall1 aver odio contro i Domenicani, comandò che il suo corpo avesse sepoltura nella lor chiesa; ma che l’inquisitore di notte tempo ne aprì il sepolcro, ne arse il cadavere e ne diè le ceneri al vento. Il che confermasi coll’autorità del sopraccitato F. Tommaso d1 Argentina che narra d1 esservi stato presente: namque ego fui praesens, quando in Civitate Paduana ossa sua pro his et aliis suis erroribus fuerunt combusta (l. cit.). Ciò non ostante, assai diversamente raccontan la cosa lo Scardeone ed altri recenti scrittori padovani, dicendo eli1 ei fu sepolto nel tempio di S. Antonio; che gl1 inquisitori, poiché egli fu morto’ , ne condannarno il corpo alle fiamme; che la Marietta, cui lo Scardeone chiama sua contubernale , avendolo presentito, il fe’ di notte tempo trasportare in S. Pietro, e chiudere in un sepolcro che a caso trovossi aperto presso la porta; che gl1 inquisitori vollero almeno cl^ei fosse pubblicamente arso in effigie, e che poscia il corpo di lui fu segretamente trasportato a S. Agostino, ove dicono che ancor si conserva. A me sembra però, che l1 autorità di uno scrittore contemporaneo e testimonio di veduta, qual è Tommaso d1 Argentina, e quella ancora del Savonarola, meriti fede troppo maggiore, che quella dello Scardeone e degli altri autori [p. 300 modifica]300 LIBRO che l’han seguito. Intorno a che e a più altre cose , che troppo lungo sarebbe il voler qui esaminare, veggasi il più volte lodato conte Mazzucchelli, e gli altri scrittori da lui citati. Io non mi tratterrò parimente a cercare se Pietro d’Abano fosse, o non fosse reo degli errori appostigli. A me non è avvenuto di trovar nell’opere che di lui ci sono rimaste, altri errori che le superstizioni astro logiche, le quali erano allora troppo universalmente adottate, perchè solo per esse potesse uno essere accusato d:eresia, o d’empietà. E troppo poco ci hanno di lui parlato gli scrittori contemporanei, perchè si possa accertare quai fossero i veri suoi sentimenti. Egli morì, secondo il più comune e il più probabile sentimento, o l’anno 1315, o nel seguente al più tardi; e i Padovani più d’un secolo appresso, cioè l’anno 1420, avendo rinnovato il magnifico loro palagio pubblico, sopra una delle porte di esso gli eressero una statua. XIV. La più celebre tra le opere di Pietro d’Abano è quella a cui egli diè il nome di Conciliatore, perchè in essa prese a conciliare insieme, quanto era possibile, le discordanti opinioni de’ medici e de’ filosofi su molte questioni appartenenti a medicina e a filosofia. Ad essa in più edizioni si aggiugne un opuscolo sui Veleni, che in alcune vedesi dedicato ad un papa che non si nomina, in altre a un papa Jacopo che non fu mai al mondo, in altre a un papa Sisto, del qual nome non vi ebbe pontefice alcuno per più secoli innanzi e dopo a [p. 301 modifica]SECONDO 301 que’ tempi, in altre a Giovanni XXII che non fu papa se non dopo la morte di Pietro (a). Celebre ancora è la sua interpretazione de’ Problemi d’Aristotele da lui cominciala in Parigi, e compita in Padova. Molte opere inoltre di Galeno ei recò di greco in latino, e molte di Àbramo Abenezra dall’arabo, e delle quali e di più altre operette da lui composte veggasi il diligentissimo co! Mazzucchelli. Egli però , non avendo veduto il passo da me più volte citato del Savonarola, ha ommesso di far menzione delle opere di Alessandro d’Afrodisia, eh’egli dice essere state tradotte da Pietro, mentre era in Costantinopoli: Transiulitque Alexandri Apliorismos, Probleniata, atque Ii/ietoricam; intorno alle quali opere di Alessandro veggasi il Fabricio (Bibl.gr. t. 6, p.62, ec.), a cui pure sono state ignote le versioni che falle aveanc Pietro. Questi ancora accenna di aver tradotti i Problemi del medico Alessandro: Alexander Medicus in problematibus a me translatis (Concil. di/fer. 6)j e di fatto i problemi che van sotto il nome del filosofo Alessandro (<x) Il sig. ab. Marini osserva (Degli Archiatri pontif, t. 2, p.29)) ec.) che nella edizione del trattatello de’ Veleni, fatta in Milano nel 1475 esso è dedicato Reverendissimo in Christo Patri et Domino Domino N. divina Provi denti a Summo Pontifici; col qual modo di scrivere s’indica che non sapeasi qual fosse il papa a cui esso era dedicato, forse perchè lo stesso autore non l’avea spiegato ed espresso nel suo originale, e che perciò i seguenti editori, volendo pure indovinare chi fosse quel papa, vi hanno sostituito quel nome che il capriccio loro ha dettato. [p. 302 modifica]302 libro d’Afrodisia, credesi da molti che debbano attribuirsi al medico Alessandro da Traile. «. XY*. XV. Meno incerti sono i racconti delle vi, llicerchi- in-.. ^ „.... tomo la viia cende di Cecco d Ascoli, le quali però ebbero e le vicende 1 /* , • ’ P. » di Ceccoper lui un fine troppo più innesto, che non

  • c°ii. pGI. pietro d’Abano. Il P. Paolo Antonio Appiani della Compagnia di Gesù ne ha scritta la

Vita insieme e T Apologia, che dal Bernini è stata data alla luce (Storia dell Eresie, t. 3 , p. 450), ed è stata poi compendiata dal conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 1, p. 1 i5i). Sarebbe a bramare che di molte cose, da essi asserite, recate avesser le pruove e i monumenti; e alcune inoltre di esse non possono in alcun modo adottarsi per vere. Cecco ossia Francesco, figliuolo di Simone Stabili, come appare dalla sentenza contro di lui proferita, nacque in Ascoli nella Marca d’Ancona. Il conte Mazzucchelli ne fissa la nascita circa l’anno 1257, perciocchè, ei dice, Cecco avea 70 anni di età, quando fu arso l’anno 1327. E quanto all’anno della morte, non se ne può dubitare; ma che Cecco avesse allor 70 anni, non si afferma che dall’Alidosi e da altri che l’han copiato, scrittori troppo recenti, perchè possano assicurarcene. Il P. Appiani, dopo aver detto che Cecco attese con felice successo ai serj non meno che ai piacevoli studj, soggiugne ch’egli dar volle a’ suoi concittadini un saggio del valor suo nelle matematiche, esibendosi di condurre il mare Adriatico fin sotto le mura di Ascoli; ma che il timore di perdere il vantaggio che ricevevano dalla valle del Tronto, distolse gli Ascolani dall’accettarne il [p. 303 modifica]SECONDO 3o3 progetto. Ed ecco uno de’ fatti di cui io vorrei che il suddetto scrittore avesse prodotto qualche probabile argomento. Ma ciò ch’ei siegue a narrare, è soggetto ad assai più gravi difficoltà. Sparsa, com’egli dice, la fama del sapere di Cecco, e giunta fino al pontefice Giovanni XXII in Avignone, questi chiamollo a sè, e dichiarollo suo primo medico. L’invidia che da ciò gliene venne, obbligollo a chiedere il suo congedo; e tornato in Italia, e invitato da molte città, a tutte antepose Firenze, ove conobbe e si strinse in amicizia con Dante. Questa però cambiossi poscia in inimicizia ed in odio, poichè Cecco nella sua Acerba parlò con disprezzo della Divina Commedia, ed egli incorse ancora lo sdegno di Guido Cavalcanti, di cui nell’opera stessa riprese la celebre canzone d’Amore. Quindi molestato da essi e da’ lor fautori ed amici, fu sottratto al lor furore da’ Bolognesi che con largo stipendio il chiamarono a professore nella loro università, benchè di essi ancora avesse parlato assai male nella suddetta sua opera. Tre anni in circa professò ivi Cecco l’astrologia e la filosofia, cioè dal 1322 fino al’1325, e vi pubblicò i suoi Comenti sulla Sfera di Giovanni da Sacrobosco. Questi furono impugnati da Dino del Garbo, medico a quei tempi famoso e uno de’ più potenti nimici di Cecco; e Tommaso di lui fratello di essi si valse ad accusarlo all’inquisitor di Bologna, perchè vi avesse insegnato che col mezzo di alcuni demoni, abitatori della prima sfera, si possono fare incantesimi e cose maravigliose. Ma il saggio inquisitore fu pago di [p. 304 modifica]004 libro una dichiarazione di Cecco intorno a quella opinione. Fin qui l’Appiani seguito dal conte Mazzucchelli. Ma a me sembra strano che questi due scrittori non abbiano posto mente alla inverisimiglianza di alcune ed alla falsità evidente di altre di cotai cose. La chiamata di Cecco alla corte d’Avignone, e l’onor conferitogli di primo medico di Giovanni XXII, a me sembra assai poco probabile. Egli non ci ha dato alcun saggio del suo valore in medicina; non sappiamo che mai o scrivesse su questa scienza, o ne tenesse scuola, o la esercitasse. L’autorità dell’Alidosi che lo dice sottilissimo dottore di filosofia e di medicina (Dott. Forest. p. 16), non basta a provarlo. Come dunque potè egli in essa ottenere tal fama, che ne giugnesse il nome fino alla corte d’Avignone? Che direm poi dell1 amicizia da Cecco stretta in Firenze con Dante Alighieri, dopo il suo ritorno in Italia? Giovanni XXII fu eletto f)ontefice l’anno i3i6. Dante fu mandato in esilio l’anno 1302, nè mai più rivide Firenze. Come dunque potè egli stringersi ivi in amicizia con Cecco? Vero è però, che tra Dante e Cecco passò amichevole corrispondenza di lettere , come raccogliesi da un passo dell1 slccrba di Cecco, in cui dice che questi gli scrisse: Ma qui mi scrisse dubitando Dante, ec. L. 2, c. 12. Ed è vero ancora che Cecco scrisse più volte, e singolarmente alla fine del suddetto poema, con grande disprezzo di Dante, talchè questi, se ancor viveva, quando esso fu pubblicato, [p. 305 modifica]’SECONDO 3o5 potè a ragione sdegnarsene. Ma certo se Cecco non fu in Firenze che dopo il 1316, non potè ivi conoscere, nè aver amico Dante. Per la stessa ragione non potè allora Cecco inimicarsi Guido Cavalcanti, poichè questi era morto poco dopo il principio del secolo , come nel precedente tomo si è dimostrato, benchè potesse incorrer lo sdegno di que’ che n’erano ammiratori , perchè di lui ancora parlò nella sua Acerba con poca stima (l. 3, c. 1). Che Cecco fosse in Bologna professore d’astrologia, è certissimo. Il P. Sarti rammenta (De Prof. Bon, vol 1, pars 1, p. 435) un codice Vaticano che contiene l’Astrologia di Cecco, così intitolato: Incipit scriptum de principiis Astro lo giae secundum Cicchum, dum juvenis erat electus per Universitatem Bononiae ad legendum. Ma queste stesse parole ci mostran chiaramente che o Cecco assai prima dell’anno 1322 cominciò a leggere in Bologna, o egli era nato assai dopo T anno 125^, perciocché un uomo nato nel detto anno, non poteva certo dirsi giovane l’an 1322. A me sembra ancora improbabile che i Bolognesi chiamasser Cecco alle loro scuole, dappoichè egli aveva sì mal parlato di essi, come fece nella sua Acerba, dicendo: O Bolognesi, o anime di foco , In picciol tempo vegnerete al punto , Che caderà Bologna a poco a poco. Or vi ricordi , come il divin arco Ogni peccato con la pena ha giunto , Ed aspettando più più si fa carco. L. 1, c. 15. Tir ab ose hi, Voi. V. 20 [p. 306 modifica]3o6 LIBRO E parmi più verisimile che Cecco così scrivesse all’occasione delle molestie e delle accuse ch’ebbe in Bologna. Egli vi fu accusato all’Inquisizione l’anno 1324, e ne abbiamo un certissimo testimonio nella sentenza medesima contro di lui proferita dall’inquisitore Lamberto domenicano, che è stala pubblicata dal dottor Lami (CatBibl. riccard. p. 235). Ma che in tali accuse avesse allor parte Dino del Garbo, non mi si può persuadere; perciocchè questi, come abbiamo già accennato (l. 1, c. 3), e direm di nuovo nel capo seguente, era partito da Bologna almen fin dall’anno 1313, ne più vi fece ritorno. Tommaso del Garbo non era fratello, come dicono il P. Appiani e il co. Mazzucchelli, ma figliuolo di Dino, e da ciò che diremo ragionando di lui, potremo raccogliere che difficilmente ei potè in tal affare avere alcuna parte. Che poi l’inquisitore, come affermano i due suddetti scrittori, si appagasse di una dichiarazione di Cecco, si mostra falso dalla sentenza medesima in cui si annoverano alcune salutari penitenze che da Lamberto imposte furono a Cecco, e quelle fra le altre di disfarsi di tutti i libri d’astrologia e di non insegnar più questa scienza. Ecco le parole della sentenza: Rev. P. Frater Lambertus de Cingulo Ord. Praed. Inquisitor haereticac pravi tati s Bononiae anno i J24 die XVI Decembris Magistrum Cechum filium quondam Magistri Simonis Stabilis de Esculo sententiavit, male et inordinate locutum fuisse de Fide Catholica, et propterea eidem poenitentiam imposuit, ut inde ad XV dies proximos suorum veram et [p. 307 modifica]SECONDO 3o~j generalem faceret peccatorum confessionem. Item quod omni die diceret xxx Pater noster et totidem Ave Maria, Item quod qualibet sexta feria jejunare debere t in reverenti am Crucis et Crucifixi hinc ad annum. Item in omni die Dominica audiret sermonem in domo Fratrum Praedicatorum vel Mino rum. ltem privavit ipsum omnibus libris Astrologiae magnis et parvis, quos deponeret apud Magistrum Albertum Bononiensem. Et voluit, quod unquam legere possit Astrologiam Bononiae, vel alibi, pub lice vel private. Item privavit eum omni Magisterio et honore cujuslibet doctoratus usque ad suae arbitri uni voumtads. Et condemnavit eum in LXX Libris Bononiensibus, quis inde ad Pascha Resurrectionis Domini proxime solverent pro poena dupli. Di tutto ciò adunque che da’ due mentovati scrittori abbiam udito narrarsi, altro non v’ha di certo, se non che Cecco in età giovanile fu scelto a leggere astrologia in Bologna; che ivi scrisse un libro su questa pretesa scienza; che l’an 1324 fu per esso accusato all’Inquisizione, e contro di lui fu pronunciata la riferita sentenza. Tutte le altre cose o sono false, o non sono abbastanza provate. XVI. Le molestie da Cecco avute in Bolo- xvi. gna, diedero probabilmente occasione «ili’ ab- 1Ì6fuI^lnt<*" bandonar ch’egli fece quella città venendo a Firenze. Ma qui nuove e troppo più fatali contrarietà lo attendevano. Udiamo ciò che ne narrano i due citati scrittori. Cecco in Firenze fu chiamato alla corte da Carlo duca di Calabria, figliuolo del re Roberto, che allora in nome di suo padre reggeva quella città, e fu da lui [p. 308 modifica]3o8 LIBRO nominato suo medico e suo astrologo. Maria di Valois, moglie di Carlo, bramosa di fare pruova del sapere astrologico di quest’uomo sì famoso, pregollo a formare l’oroscopo a sè non meno che a Giovanna sua figlia, e a predire quai esse sarebbero state. Cecco per alcun tempo ricusò di deciderne, ma all’ultimo, importunato, disse che ambedue si sarebbono abbandonate alla dissolutezza. Il dispiacere che di questa risposta provò Maria, diede ansa ai nimici di Cecco, cioè a Dante, al Cavalcanti, a Dino e a Tommaso del Garbo, a nuovamente accusarlo , e tratti nel lor partito il vescovo d’Aversa cancelliere del duca e l’inquisitore Accorso, amendue Francescani, il misero Cecco, processato di nuovo per gli errori da lui insegnati, fu dichiarato eretico e condannato al fuoco, nel qual supplicio miseramente morì l’anno 1327. Così essi. Vuolsi qui osservare dapprima il grave anacronismo in cui essi cadono, facendo vivere l’anno Dante e il Cavalcanti, morti, il primo già da sei, il secondo pure già da più anni. Potrebbesi per avventura dubitare ancora se Giovanna, che fu poi regina di Napoli, fosse aliornata; perciocché Giovanni Villani, secondo la lezione di un codice citato dal Muratori (Script. Rer. ital, vol. 13,p. 717, nota a), dice che l’anno 1333 ella contava soli cinque anni di età. Ma non è sì certa quest’epoca che possiam su di essa fondarci. Ciò che è più degno d’osservazione, si è che il Villani, scrittore contemporaneo e fiorentino, di questo fatto non fa parola, e altra cagion non arreca della condanna di Cecco, [p. 309 modifica]SECONDO 3ot) che gli errori da lui insegnati nella sua Astrologia. Ecco come questo scrittore ne racconta la morte (l. 10, c. 39)): Nel detto anno a dì 26 Settembre fu arso in Firenze per lo inquisitore de’ Paterini uno Maestro Checco d A scoli, il quale era Astrologo del Duca, e havea dette et rilevate per la scienza d’Astrologia overo di nigromanzia molte cose future, le quali si trovarono poi vere, delli andamenti del Bavaro, et. dei fatti di Castruccio, et di quelli del Duca. La cagione perchè fu arso si fuy perchè essendo in Bologna fece un trattato sopra la Spera, mettendo, che nelle Spere di sopra erano generazioni di spiriti maligni, quali si potevano costrignere per incatenamenti sotto certe costellazioni a potere fare molte mar avigliose cose, mettendo ancora in quello trattato necessità alle influenze del corso del Cielo, et dicendo, come Cristo venne in terra, accordandosi il volere di Dio con la necessità del corso di Astrologia, et dove a per la sua natività essere et vivere co’ suoi discepoli come poltrone , et morire della morte che egli morìo; et come Antichristo dovea venire per corso di piane te in abito ricco et potente, et più altre cose vane et contro la Fede. Il quale suo libello in Bologna riprovato, et ammonito per lo Inquisitore, che nollo usasse, li fu apposto, che V uso in Firenze, la qual cosa si dice, che mai non confessò, ma contradisse alla sua sententi a , che poi che ne fu ammonito in Bologna, mai non lo usò, ma che il Cancelliere del Duca, eli era Frate Minore Vescovo d A versa, parendogli abominevole a tenerlo il Duca in sua [p. 310 modifica]3 io LIBRO Corte, il fece prendere. Ma con tutto che fosse grande Astrologo, era uomo vano e di mondana vita, et erasi steso per audacia di quella sua scienza in cose proibite et non vere, però che la influenza delle stelle non costrigne a necessità, nè possono essere contro al libero arbitrio dello animo dell uomo , nè maggiormente alla prescienza di Dio, che tutto guida, e governa, et dispone alla sua volontà. E poscia nel capo seguente, ragionando della morte di Dino del Garbo, che avvenne quattro giorni appresso, dice ch’ei fu grande cagione della morte del sopraddetto Maestro Checco, riprovando per falso il detto suo libello, il quale haveva letto in Bologna, et molti dissono, che’ l fece per invidia. Della infelice morte di Cecco abbiamo un altro monumento che sembra tratto dagli atti della condanna, e che è stato pur pubblicato dal dottor Lami (L cit). Frater Accursius Florentinus Ordinis Fratrum Minorum, Inquisitor haereticae pravitatis , misso ad se processu die XVII Julii 1327 a Fratre Lamberto de Cingulo contra Magistrum Cechum de Esculo, citatoque Magistro Cecho ut praesente, in Choro Ecclesiae Fratrum Minorum de Fio* rentia anno 1327 Indictione x die XV mensis Decembris eum haereticum pronuntiavit; eumque reliquit saeculari judicio requirendum Domino Jacobo de Brescia Ducali Vicario praesenti et recipienti, animadversione debita puniendum; librum quoque ejus in Astrologia latine scriptum, et quemdam alium vulgarem libellum, Acerba nomine, reprobavit, et igni mandari decrevit, omnesque, qui tales aut similes [p. 311 modifica]SECONDO 3II cjus libros tenerent, excomunicavit. Eadem die supradictus Vicarius indilate transmittens per militem et familiam suam Magistrum Cechum coram populi multitudine congregata cremari fecit ad poenalem mortem ipsius et omnium aliorum. Ove però io credo che sia corso errore nel mese, e che in vece di decembris si debba legger septembris; ma di ciò non merita il disputare. XVII. Da tutto il detto fin qui raccogliesi q™ chiaramente che la vera ragione della morte &>»« i* di Cecco furon gli errori ch’egli nella sua opera ’ astrologica avea insegnati, benchè probabilmente l’invidia di Dino vi avesse non piccola parte. Il P. Appiani assai lungamente si è steso a far l’apologia di questo infelice astrologo, e con varj passi delle stesse opere da lui composte ha mostrato ch’egli ha scritto come a saggio e cristiano filosofo si conviene intorno alla libertà e all* arbitrio dell’uomo. Fra gli altri passi, ei produce quello in cui Cecco riprende Dante perchè sembrava introdurre una cotale necessità di fortuna. In ciò peccasti, o Fiorentin Poeta , Ponendo, che li ben della fortuna Necessitati siano con lor meta. Non è fortuna , cui ragion non vinca: Or pensa Dante, se pruova nessuna Si può più fare che questa convinca. Acerba, l. 1 , c. 1. E certo in tutto questo capo Cecco chiaramente asserisce la libertà dell’uomo , benchè poscia [p. 312 modifica]3 I 2 LIBRO alle stelle attribuisca P incliuazion naturale a’ vizj e alle virtù, e insegni più cose superstiziose, le quali però erano allora comuni a tutti gli astrologi. Io non ho potuto vedere i Comenti da lui scritti sulla Sfera di Giovanni da Sacrobosco, ne’ quali il Villani lo accusa di aver insegnati gli errori ch’egli gli attribuisce. Forse le espressioni da lui usate potevansi interpretare in senso più sano; e, se non altro, gli si dee a buon diritto la lode di docilità e di sommissione, poichè, come avverte il P. Appiani, ei conchiude il suo libro sottomettendo se stesso e tutte le sue opinioni alla correzion della Chiesa. Le predizioni che dal Villani gli si attribuiscono, fatte per forza di astrologia , o, com’egli dice, di negromanzia, che qui significa lo stesso, se non eran delitto per tanti altri che a que’ tempi si dilettavan di farne, come potean essere cagion di morte di Cecco? Io credo in somma che l’invidia avesse non poca parte nella condanna di questo infelice astrologo, e ch’egli non sarebbe sì miseramente perito, se non avesse avuti potenti nimici che congiurarono a’ suoi danni. Quanto alla magia, di cui alcuni scrittori moderni il fanno reo, non solo non abbiam alcun monumento onde ciò si comprovi, ma non troviam pure che di questo delitto ei fosse accusato, se non per quella espressione, che abbiamo accennata poc’anzi, da lui usata parlando degli spiriti ch’egli supponeva abitatori della prima sfera, la qual espressione però pruova bensì ch’ei credesse possibile la magia, non pruova [p. 313 modifica]SECONDO 3 I 3 eh* la esercitasse (*). Cristina da Pizzano, di cui parleremo in questo stesso volume, favellando di Cecco. dice che par la dessert de son criminel vice, il fut ars en un feu deshonettement (Cité des Dames, c. i o); colle quali parole sembra indicare ch’ei fosse arso per vizio infame, di che però non vi ha indicio nè pruova di sorte alcuna. Ma io non so come l’ab. de Sade abbia interpretate queste parole medesime , come se Cristina volesse dire ch’ei fu arso perchè non amava le donne (Mém. pour la vie de Petr. l. 1, p. 49)• XVIII. L’Acerba, da noi mentovata più volte, è un poema in sesta rima, qual è quella da i noi di sopra recata, a cui al fin d’ogni capo si aggiungon due versi rimati tra loro come nell’ottava rima; e perciò alcuni il fanno inventore di questo metro. Esso in alcune edizioni è diviso in quattro, in altre in cinque libri, ed ogni libro in più capi, ed in essi tratta di più argomenti di fisica e di filosofia morale e di religione ancora; e spesso ci fa vedere quanto ei fosse invaghito dell’astrologia giudiciaria. Esso non è molto pregevole nè per profondità di dottrina, nè per eleganza di poesia. E nondimeno diciannove edizioni ne abbiamo fino al 1546. dopo il qual anno non (*) Anche a Cecco d*Ascoli si attribuiscon dal credulo e sciocco volgo alcuni strani prodigi operati per negromanzia; e se ne può vedere un saggio ne’ la \ ita che ne accenna il eh. D. Jacopo Morelli , conservata nella libreria Nani in Venezia (Cod. mss. della Lib. Nani, p. 160). XVIII. Opere <U ni « otnpo[p. 314 modifica]3 1 4 LIBRO è più slato dato alla luce (*). Per qual motivo egli l’intitolasse l1 Acerba, si disputa lungamente da quelli a’ quali piace di disputare sulle cose ancora di niuna importanza. Le diverse loro opinioni si posson vedere annoverate dal ch. Mazzucchelli. Io non credo di dover gittare il tempo nè in esaminarle, nè in riferirle; anche perchè niuna di esse mi pare abbastanza provata. Abbiamo inoltre i suoi Comenti, che gli furono troppo funesti, sulla Sfera del Sacrobosco , scritti, come affermano que’ che gli hanno veduti, in uno stile assai barbaro, pieni di follie astrologiche, e ne’ quali vengono spesso citati come oracoli autori superstiziosi ed apocrifi. Il Crescimbeni ne ha inoltre pubblicato un sonetto (Comment della Poesia, t 3, p. 128) ch’egli scrisse in risposta al Petrarca, il quale uno glien avea indirizzato che cominciava: Tu se’ l grande Ascolan che il mondo allumi. Questo sonetto del Petrarca non è mai stato dato alla luce (a), ma il solo verso recatone ci (*) Il primo che si accingesse a comentarc il poema di Cecco d’AscoIi, fu Niccolò Masetti nobile modenese, il cui Comento fu la prima volta pubblicato in Venezia nel 1478. Di questo Niccolò trovasi talvolta menzione nc’ monumenti antichi di questa città e negli Atti del Consiglio pubblico egli c nominato conservatore all* anno 1462. (a) Io ho creduto che il solo primo verso di questo sonetto in lode di Cecco d’Ascoli, attribuito al Petrarca , avesse veduta la luce. Ma esso vedesi riferito interamente nel Catalogo della Ricciardiana del ch. dottor Lami (p. 291). Ivi però esso non dicesi del Petrarca, ma di un certo Muccio Ravennate, di cui due [p. 315 modifica]SECONDO 3I5 fa conoscere in quale stima fosse tenuto Cecco ancor dal Petrarca, il quale per altro era ben lungi dal credere agli astrologi, come più sotto vedremo; ed è probabile ch’ei conoscesse Cecco in Bologna, ove l’anno 1322 egli recossi per apprendervi il diritto civile. Di un altro sonetto di Cecco, e di qualche sua opera che è rimasta manoscritta, veggasi il più volte citato co. Mazzucchelli. XIX. Parlando, nel precedente libro, de’ viag- (li giatori, abbiamo accennati i lunghi viaggi in AudaW.ui questo secolo intrapresi da Andalone del Nero, genovese di patria. Più distinta menzione dobbiam qui farne , poichè ei fu uno di quelli che con più ardor coltivarono l’astronomia, e quindi ancora , come era ordinario costume di questi tempi, l’astrologia giudiciaria. Il Boccaccio lo nomina assai sovente nella sua opera della Genealogia degl’ lddii, e per lo più gli dà il nome di suo venerabil maestro. Poscia, verso la fine dell’opera stessa (l. 15), più ampiamente si stende in lodarlo; e l’elogio ch’egli ne fa , merita di essere qui riferito, tradotto nella volgar nostra lingua: Io ho spesso citato, die’ egli « il nobile e venerabil vecchio Andalone del Nero, genovese., mio venerabil maestro, di cui ben ti è nota, o ottimo re, la prudenza, la gravità de’ costumi e la cognizione eli egli avea delle altri sonetti diconsi esistere nel medesimo codice. Di fatto ne’ seguenti versi di quel sonetto. il poeta loda il saper astrologico di Cecco d’Ascoli; e il Petrarca troppo era nimico delle astrologiche imposture, perchè possa credersi au’ore di un tale elogio. [p. 316 modifica]3l 6 LIBRO stelle. Tu stesso hai potuto vedere dì egli non solo apprese a conoscerne i movimenti colle regole tramandateci da’ maggiori, come noi usiamo comunemente: ma che avendo viaggiato per quasi tutto il mon lo, ei giunse a conoscere colla sperienza de’ propri occhi ciò che noi sappiamo sol per udito. Quindi, benchè nelle altre cose ancora io il creda degno di fede, in ciò nondimeno che appartiene alle stelle, panni dì ei debba aver quella autorità medesima che ha Cicerone nell’eloquenza e Virgilio nella poesia. Abbiamo inoltre alcune opere da lui scritte intorno al movimento delle stelle e del cielo, le quali ben mostrano quanto ei fosse in questa scienza eccellente. E una di tali opere, intitolata de compositione Astrolabii !, è stata pubblicata in Ferrara l’anno i ^5 , e questa biblioteca Estense ne ha copia. Alcune altre se ne conservano manoscritte in un codice della biblioteca dei re di Francia (Cat. Bibl. reg. Paris, t. 4, p- 333, cod. 7272): Andaloni de Nigro Januensis Tractatus de Sphaera: Theorica Planetarum: Expositio in Canones Profacii Judaei de Aequationibus Planetarum: Introductio ad Judicia Astrologica; e nella riccardiana in Firenze (Cat. Bibl. riccard. p. 16; V. Bandin. Cat. Bibl. laur. t. 2, p. 9): De Compositione Astrolabii, et Theorica Planetarum. Il Giustiniani aggiugne (Ann. di Gen. ad an. 134 2) che Andalone non coltivò solamente i gravi e serj studi, ma gli ameni ancora, e che scrisse più cose in verso elegante. Nè egli però ci dice in qual lingua egli poetasse, e ove si conservino cotai poesie. Finalmente Giuseppe Betussi [p. 317 modifica]SECONDO 3 in (Descr. del Cataio, p. 46) accenna come esistente nella biblioteca Vaticana una traduzione da lui fatta di greco in latino di uno storico a me sconosciuto, cioè del secondo libro delle Guerre di Terra Santa scritto da Aniceto patriarca di Costantinopoli, nel che però l’eruditissimo monsignor Gradenigo sospetta, e parmi a ragione, di qualche errore (Della Letterat. greco-ital. p. i3$) (a). Queste sono le sole notizie che di questo celebre astronomo mi è avvenuto di poter rinvenire; e appena sapremmo chi egli fosse, se la gratitudine del Boccaccio non ce ne avesse conservata un’onorevol memoria. Egli ebbe a suo scolaro Corrado, che fu poi vescovo di Fiesole, e fu egli pure coltivatore degli studj astronomici; e ne fa fede un codice della Magliabecchiana, citato dal dottissimo abate Ximenes (Del Gnom. fiorent. introd. p. 41): Regulae inventae in Almanach bonae memoriae Domini C. R. Episcopi Fesulani periti in Astrologia sub doctrina et Magisterio Domini Andalo de Nigro de Janua Magistro in scientia Astrologiae, qui... Canones super Almanach praefatum compilavit, fecit, et composuit, et erat scriptus manu propria ipsius Episcopi (b). (a) La Storia del patriarca Aniceto è una delle imposture del celebre Cicearelli, che forse per accreditarla ne fìnse la traduzione di Andalon dal Nero. Di ciò verrà altrove occasione di ragionare. (b) Anche un Parmigiano, per nome Accorso, scrisse nel 1303 un trattato latino dell" Astrolabio, che ms. conservasi nella Laurenziana (Band. Cat. Codd. lai. Bibl. laur. t. 1. p. 62 , ec.). [p. 318 modifica]3 X 8 LIBRO Vv’;:... XX. Meno ancora conosciuto, almeno in ItaNoi me di , > Tonunaso da ha ^ e 1 orninaso eia rizzano , o j come altri scrivono , di Pisano, padre di Cristina da Pizzano, di cui parleremo in questo tomo medesimo. Questa celebre letterata ha lasciate più opere scritte in lingua francese, alcune delle quali conservansi manoscritte in alcune biblioteche 7 altre sono stampate, e una tra esse è stata data in luce dall’ab. Lebeuf, cioè la Vita di Carlo V re di Francia (Diss. sur l’Hist. de Paris, t. 3, p. 103). Or da esse e dalle notizie che vi si trovano sparse per entro, M. Boivin, il Cadetto , ha raccolta la Vita della stessa Cristina e di Tommaso suo padre (Mém, de l’Acad. des Inscr. t. 2, p. 704), di cui solo dobbiam qui ragionare. Noi ci varremo a ciò fare della Vita scrittane dal detto M. Boivin, lusingandoci che nulla egli abbia asserito che non trovasi veramente nelle opere di Cristina da lui vedute, e. aggiugnendo solo ciò che abbiam potuto osservare nella Vita di Carlo V scritta dalla medesima, e ciò che ci è avvenuto di raccogliere da altri scrittori. Tommaso da Pizzano era nato in Bologna, e, come espressamente ci avverte Cristina sua figlia, egli vi ebbe la laurea in medicina e in altre scienze: gradué et doctorifié a Boulogne la grace, avecques autres degrez de Science - (Hist. de Charl. Vj part. 3, c. 70). Anzi l’Alidosi, che il chiama Tommaso di Benvenuto di Pizzano (Dott. bologn. di Teol. ec. p. 172), dice ch’ei fu ivi professore d’astrologia dal 1345 fino al 1356. In Bologna ei conobbe un dottore natio di Forlì, di cui non dicesi il nome, ma che altrove [p. 319 modifica]secondo 3ig vedremo che fu Tommaso figliuol di Mondino} il quale passato poscia a Venezia, e salito alla carica di consigliere, trasse colà il suo amico Tommaso, e gli diè in moglie la sua figlia. Tommaso da Pizzano giunse in Venezia all’onor medesimo di cui godea il suo amico Forlivese. Dopo alcuni anni, costretto a fare un viaggio alla patria, mentre ivi si tratteneva, fu da due re al medesimo tempo invitato alle lor corti, cioè da’ re di Francia e di Ungheria. Egli prescelse la prima, ove allor regnava Carlo V, soprannomato il Saggio (a), con intenzione però di non arrestarvisi che un anno. Ma il re volle ad ogni modo che ei vi fissasse sua stanza, e che facesse venir d’Italia la moglie e Cristina sua figlia, che non avea allora che circa cinque anni. Tommaso, col suo sapere in astrologia, giunse tant’oltre nella grazia di Carlo, che avea 100 franchi al mese di soldo, cioè, come computa M. Boivin, circa 700 lire della moneta presente di Francia, oltre più altri doni, e la speranza, che gli si dava, di un fondo (a) li sig. Landi fa a questo luogo una nota che punto non appartiene a quest’opera, ma pure non deesi trascurarsi (t. 2, p. 843). Ei non sa intendere come questo Carlo re di Francia si dica il quinto. Il primo, dic’egli, fu Carlo Magno: Carlo Calvo il secondo: Carlo Grosso il terzo: Carlo Semplice il quarto: Carlo Bello il quinto. Dunque questo , di cui parliamo e che si suol dire il quinto, fu veramente il sesto. Il Presidente Hainault nell’eccellente suo Compendio della Storia di Francia avea già sciolta questa obbiezione, perciocchè egli osserva che Carlo Grosso fu considerato solo come reggente del regno; e che perciò egli ancora non gli ha dato il nome di Carlo II. [p. 320 modifica]3jo libro (li 700 lire di rendita per lui e pe’ suoi eredi Ma poichè il re Carlo morì l’an 1380, l’astrologo cominciò a scemare di stima, e colla stima gli si scemaron le paghe, per modo che oppresso dalla vecchiezza, e probabilmente più ancora dalla tristezza, pochi anni dopo morì. XXI. Niuna opera ci ha egli lasciata onde J possiam raccogliere quanto fosse versalo nello* Gastrologia. Ma le lodi con cui l’esaltano non sol Cristina, ma anche altri scrittori, son tali che cel fanno credere il più famoso astrologo de’ suoi giorni. Cristina, in un passo citato da M. Boivin, dice che così avea predetta per l’astrologia l’ora di sua morte, e che nè a’ suoi giorni nè cent’anni prima non vi era stato uomo di sì alto intendimento nelle matematiche per ciò che appartiene all’astrologia, e ch’egli era inoltre ornato di tutte le più belle virtù, senza mescolanza di alcun diletto, se se ne tragga una soverchia liberalità verso i poveri, a’ quali non sapea negar cosa alcuna. Altrove ella dice che a tutta la cristianità egli era notissimo, e che in Bologna egli era creduto il più eccellente astrologo che vi avesse (Hist de Charl V, part. 1, c. 16), e che dal re Carlo oltre le accennate pensioni ebbe anche il titolo di suo consigliero (ib. c. 33). Filippo di Maizieres consigliero del re medesimo e dichiarato nemico degli astrologi, per mostrare quanto la loro arte sia soggetta ad inganni, reca l’esempio di Tommaso che spesso erasi ingannato nel predire le piogge e i venti: O quantesJois Thomas de Boulogne faillit en cettui petit jngement {Ap. Lcbeuf \ l. cit p. 400)! come se dir volesse [p. 321 modifica]secondo 3ai che se un sì valoroso astrologo avea preso errore, quanto più facilmente doveano ingannarsi gli altri! XXII. Il favore di cui Carlo V onorava l’astrologia giudiciaria, non solo eccitò tra’ Francesi non mediocre ardore nel coltivarla, ma inoltre trasse colà molti Italiani che con tal mezzo speravano di ottenere per loro medesimi quella buona ventura che promettevano altrui. Simon di Phares, che vivea nel secolo xv, ha raccolti i nomi e le notizie di quelli che in Francia ebbero in ciò maggior nome, e questo opuscolo è stato dato alla luce dal mentovato ab. Lebeuf (l. dtp. 44^). Tra essi veggiamo nominato prima d’ogni altro un Tommaso fiorentino, e il suddetto scrittore pensa ch’ei sia appunto il Pizzani che da Simone chiamasi per error fiorentino. Ma di lui non sappiamo che scrivesse opera alcuna; e del suo Tommaso dice Simone, che scrisse sulle elezioni della terza Casa. Potrebbesi sospettare ch’ei fosse Tommaso del Garbo figliuol di Dino, e molto più che Simone racconta ch’egli era figlio di un medico insieme e astrologo rinomato. Ma nè di Dino nè di Tommaso non abbiam monumento che ci comprovi ch’essi professassero l’astrologia, ed egli perciò è probabilmente un altro Tommaso diverso da amendue. Simone nomina poscia F. Niccolò di Paganica grande astrologo e medico, di cui dice che predisse esattamente la nascita del duca di Borgogna, che seguì a’ 26 di maggio del Ma più leggiadro è ciò che di lui poscia soggiugue, e Tirabosciii, Voi. V. 21 XXII. Altri micologi italiani in Francia. [p. 322 modifica]3a2 LIBRO die per non togliergli punto della natia sincerità, vuolsi qui riferire nella stessa antica lingua francese in cui è scritto: Cestuide Paganica estoit a merveilles expers és jugement particuliers; car de son temps il n’étoit ne meurtrier, ne larron, ne malfaitteur, qui se peust abscondre9 ne larcin, ne traictè, qui se peust devant ses jugments ne deffendre. Cestui descouvrit, et devoila plusieurs grans empoissoneurs en France, qui avole,nt intoxiquè plusieurs grans personnages , et calcullà de nouvel les estoiles fixes, ou il print moult grand labeur. Qual grave danno han recato al mondo que’ dotti che col deridere l1 astrologia giudiciaria hanno insieme con essa sbandito il sì gran vantaggio che ne veniva! F. Niccolò di Paganica era domenicano, e i PP. Quetif ed Echard, sulla fede del Tommasini, ne rammentano un1 opera ms. (Script. Ord. Praed. t. 1: p. 570) da lui composta l1 anno 133o, e intitolata Compendium Astrologiae, che è forse la stessa che nel Catalogo della Biblioteca di S. Marco in Venezia s’intitola: Tractatus Astrologiae Medicinalis# (t. 2, p. 214). Lo stesso Simon di Fares nomina ancora Marco da Genova; e dice che egli abitò parte in Parigi, parte in Anversa, che predisse al re Carlo VI la segnalata vittoria ch’egli avrebbe riportata sopra i Fiamminghi a Rosebecq l’an 1382, e la morte di Edoardo III, re d’Inghilterra, accaduta fanno A questi astrologi italiani che vennero in Francia a far pompa del loro profondo sapere, poteva Simon di Phares aggiugnere ancora Ugo di Città di Castello, dominicano, di cui dicono i suddetti [p. 323 modifica]secondo 3a3 PP. Quetif ed Echard (l. cit. p. 593) che nel lor convento di S. Onorato in Parigi conservasi manoscritto un comento sulla sfera di Giovanni da Sacrobosco, al fin di cui si legge: inchoatum Parisius ad postulationem studentiurn, sed perfectum Florentiae anno 133*j. XXIII. Sia P ultimo tra’ famosi astroloei di XXIIL Ti 1 *1 si Elogio e noqUCSta età, Paolo soprannomato il Geometra, <i»Paoa cui forse dovrebbesi un distinto luogo nella liei^Tw storia dell’astronomia, se potessimo avere qual- ra8lra’ che sua opera di tale argomento, e s’egli ancora, seguendo il comun pregiudizio, non si fosse lasciato acciecare dell1 astrologia giudiciaria. Filippo Villani gli ha dato luogo tra gl’illustri Fiorentini, de’ quali ha scritta la Vita, e questa leggesi in fatti nella traduzione italiana che ne ha pubblicata il co. Mazzucchelli (Vite d’ill. Fior. p. 77). Paolo, secondo il Villani, nacque in Prato dalla nobile stirpe de’ Dagomari, e si acquistò nelle matematiche grandissimo nome. Questi, egli dice,fu geometra grandissimo e peritissimo aritmetico, e però nelle adequazioni astronomiche tutti gli antichi e moderni passò. Questi fu diligentissimo osservator delle stelle e del movimento de’ cieli, e dimostrò che al moderno tempo le Tavole Toletane erano o di poca, o di niuna utilità, e quelle d’Alfonso in alcuna varietà sensibile essere varie; donde dimostrò che lo strumento dello strolabio, misurato secondo le Tavole Toletane, il quale noi usiamo frequentemente, devia dalle regole d astrologia, e quegli astronomi, che di quindi pigliavano argomento dall arte, essere [p. 324 modifica]324 LIBRO ingannati. Al qual luogo l’ab. Ximenes opportunamente riflette (Del Gnom.fior. Introd. p. (61) che nell’originale latino della medesima Vita non si leggon queste parole adequazioni astronomiche, ma solo in generale si nominano l’equazioni, ed egli perciò crede non improbabile che si debban qui intendere l’equazioni algebraiche, delle quali Paolo cominciasse in qualche modo a far uso. Nello stesso originale latino, che in parte è stato pubblicato dall’abate Mehus (Vita Ambros. camald, p. 194)? si dice che Paolo, per mezzo di certi suoi stromenti, corresse molti errori che intorno al movimento delle stelle fisse erano ricevuti comunemente, e giunse a determinare più precisamente le leggi del movimento medesimo. Ma converrebbe che noi avessimo sotto l’occhio ciò che Paolo scrisse su questa materia, per accertare s’egli cogliesse nel vero, o se almeno scoprisse veramente gli errori che nelle celebri tavole di Alfonso X re di Castiglia, pubblicate nel secolo precedente (V. Montucla Hist. des Mathém. t. 1, p. 418, ec.), erano corsi. Costui, siegue a dire il Villani, di tutti quegli del tempo nostro fu il primo che compose Taccuino, e di futuri avvenimenti compose molti Annali, i quali gli assecutori del suo testamento, quantunque non si sappia la cagione, occultarono. Dal che veggiamo che anche Paolo si lasciò persuadere di saper leggere nelle stelle le vicende del mondo. Ma sembra che in ciò non fosse troppo felice, poichè nell’originale latino si dice: si in judiciis aeque valuisset, sine dubio antiquorum omniutn [p. 325 modifica]secondo 3a5 famosa studia superasset E forse la sperienza già fatta del poco felice esito de’ vaticinj! di Paolo, fu la ragione che indusse gli esecutori del testamento ad occultar quelli ch’egli aveva lor consegnati. Con somme lodi di lui parla ancora il Boccaccio (De Geneal. Deor. l. 15, c. 6), affermando che niuno vi ebbe a que’ tempi, che tant’oltre andasse nell’aritmetica, nella geometria e nell’astrologia; e ch’egli cogli stromenti fatti di sue proprie mani rappresentava a maraviglia i movimenti tutti celesti, sicchè più ancor che tra’ suoi era in altissima stima presso i Francesi, gl’inglesi, gli Spagnuoli e gli Arabi. Finalmente aggiugne il Villani ch’ei mori l’anno i365, eju onorevolmente seppellito in un monumento rilevato di marmo in Santa Trinità in una Cappella, la quale morendo lasciò, che si facesse, e l’ab. Mehus aggiugne di averne veduto il testamento fatto l’anno 1366 (il che se è vero, convien dire che sia corso errore nel passo soprarrecato del Villani) in cui egli èchiamato: insignis et clarissimae famae vir mignificus Paulus quondam Ser Pieri populi Sane ti Fridiani vulgariter appellatus Maestro Paolo dell’Abbaco, Aritmeticae, Geometriae et Astrologiae Magister (l. cit.p. 195). Di questo testamento ci ha dato un estratto il sig. Manni (Sigilli, t. 14, p. 22, ec.), in cui fra le altre cose, è degno d’osservazione ch’egli comanda che i suoi libri d’Astrologia si conservino nel monastero di Santa Trinità sotto due chiavi, una delle quali sia presso i frati , l’altra presso i suoi eredi, e che ivi stieno finchè si trovi qualche valente astrologo fiorentino, [p. 326 modifica]3a6 libro approvato come tale da quattro maestri, e che allora a lui si consegnino. Il co. Mazzucchelli, e più altri riferiscono un’iscrizione in versi, onde ne fu ornato il sepolcro (in tiot. adVillan.); ma ella mi sembra cosa troppo recente , perchè possa addursi come autentico monumento, xxiv.^ ^ XXIV. Il P. Negri ha a questo luogo moltip. Negri nei plicati troppo i suoi scrittori fiorentini. Egli ragionarne. rammenta in primo luogo un Paolo dell’Abbaco (Scritt. fiorent p. 444) buon rimatore verso il 1328, a cui Jacopo figliuol di Dante diè il nome di suo maestro, e dice che se ne trovan poesie nella libreria Chisiana. Di lui infatti ha il Crescimbeni pubblicato un sonetto (Comm. della volg. Poes. l. 3, p. 80) indirizzato al detto Jacopo, il quale rispondendogli il chiama suo maestro. Questo sonetto non ci dà una grande idea del poetico valor di Paolo, di cui pure trovansi alcune altre rime (V. Mazzuc. Scrit. ital. t 1, art. deli Abbaco). Ma io non veggo per qual cagione questi debba distinguersi dal geometra Paolo che anche in aritmetica era versato assai, ed era perciò volgarmente chiamato Paolo dell’Abbaco. A lui soggiugne il P. Negri (l. cit) un altro Paolo dell’Abbaco vissuto, com’egli dice, nel secolo xv, poeta, matematico, medico e astrologo, e di cui molte opere di prospettiva e di geometria conservavansi nel monastero di Santa Trinità. Ma come egli non ci reca alcun monumento a provare che questo Paolo vivesse nel secolo xv, e per altra parte, le cose che di lui ci racconta, convengono ancora al primo Paolo, non veggo per qual ragione debba esser da lui [p. 327 modifica]SECONDO 3-2^ distintoe molto più che le opere di Ini diconsi dal P. Negri già conservate appunto in quel monastero a cui le aveva lasciate il Geometra, come si è detto. In terzo luogo egli parla (ib. p.446) del geometra Paolo, di cui noi pure abbiam favellato j e finalmente nomina Paolo Gherardi (ib. p. 447), e dice che circa il i3:i7 scrisse un libro sull’arte del calcolare, che conservasi nella libreria Gaddiana in Firenze. Se ei fu veramente della famiglia Gherardi, questi dee certamente distinguersi dal nostro Paolo geometra che fu de’ Dagomari. Ma converrebbe vedere il codice stesso per accertarsene. Io certo mi maraviglio che l’ab. Mehus, il quale tante ricerche ha fatte de’ codici fiorentini, nella sua Vita di Ambrogio camaldolese, che altro non è in somma che la storia della letteratura fiorentina de’ secoli bassi, non abbia nè di questo codice nè di questo scrittore fatta menzione alcuna. Egli ancora afferma che Paolo dell1 Abbaco è il medesimo che Paolo geometra; e il co. Mazzucchelli, che nelle note al Villani aveva distinto l’uno dall’altro, ne’ suoi Scrittori italiani ha corretto il suo errore, avvertendo insieme che verso il fine del secolo xv era veramente stato in Firenze un altro celebre matematico per nome Paolo , a cui però non troviamo che fosse dato il soprannome dell1 Abbaco. Finalmente un solo Paolo geometra e astronomo hanno riconosciuto e Giovanni Villani (l.12, c.40) e Giovanni Boccaccio (l.cit.) e Zenone Zenoni scrittore esso ancora contemporaneo , di cui il ch. dottor Lami ha pubblicato un sonetto in lode di Paolo (Novelle [p. 328 modifica]328 LIBRO letter. 1748: P• ^4?)? n°l quale lo uguaglia a En dosso, a Possidonio e a Tolommeo; e Mattia Palmieri, il quale, prolungandone sino all’anno 1372 la vita, dice: Paulus Geometra Florentiae habetur insignis (Lib. de Temporib. edit. t. 1 Script. rer. ital. Florent.). Il Manni e il co. Mazzucchelli aggiungono che alcune opere di Paolo sono state stampate in Basilea 1 anno i532. Ma a me non è riuscito di trovare alcun altro scrittore che di tale stampa faccia menzione. xxv. XXV. Quanto più comune e più ostinato era Dispreizo.. *. ^. T. vd o,i.o dei tra gli uomini ancora più dotti di questo tempo re,«trouj£a^ pregiudizio in favore dell’astrologia giudiciagiudiciuria. i*ia ì tanto più dobbiamo ammirare il sano intendimento e il retto giudizio di Francesco Petrarca , che non lasciandosi punto travolgere dalla corrente, non temette di farsene beffe e d’impugnarla. Ei ne ragiona sovente, e sempre con biasimo e con disprezzo, mostrando la vanità di questa pretesa scienza, e gl’inganni e i raggiri di cui sogliono valersi gli astrologi impostori, e combattendo colle ragioni non meno che coll’autorità de’ più saggi i fallaci fondamenti della lor arte (DeRcmed’. utr. Fortun. l. 1, dial. 112; Epist.famil, lib. 3, ep. 8,* Semi. I. 1, ep.6). Ma leggiadri singolarmente son due racconti ch’ei fa in una sua lettera al Boccaccio (Senil. l 3, ep. 1): Tu avrai forse udito , gli scrive, che nell’ultima spedizion di Pavia il signore che or la governa (Galeazzo Visconti), volendo assediarla: fremevan tutti gli astrologi, e questo nostro singolarmente. uomo di sì gran fama, che è creduto dal volgo preveder più [p. 329 modifica]SECONDO 3>9 tosto, che pronosticar V avvenire. Questi rattenne per più giorni la marcia dell’esercito già ordinato , dicendo che conveniva aspettare l ora dal Ciel prefissa. Quando finalmente gli parve eli essa fosse venuta, al comando di lui mosser tutte le schiere. Eran già molti mesi che il cielo era sereno; e inaridita la terra: quand’ecco in quel giorno medesimo, e poscia per molti giorni e molte notti di seguito, cader sì gran pioggia, che tutta la pianura e tutto il campo ne fu inondato7 non senza grande pericolo che rimanesser vinti dall9 acque que’ che dovean vincer coll armi. Questo astrologo stesso al principio del dominio dei tre fratelli (Matteo , Bernabò e Galeazzo Visconti) scelse con molta attenzione il punto in cui dovevansi solennemente lor conferire le insegne del principato; e mentre io 7 come mi era stato ingiunto 7 slava ragionando alla moltitudine in quell’augusta assemblea , ei ira1 interruppe , dicendo en era giunta r ora, e che era pericoloso il lasciarla fuggire. Io, benchè ben conoscessi la follia di colui; nondimeno per non incorrer V odio della troppo numerosa schiera de’ pazzi, non essendo ancor giunto alla metà del mio ragionamento, mi tacqui. Egli allora restossi , esitando a guisa di attonito , e mi disse che v era ancor qualche tempo prima che T ora giungesse, e che io poteva ancor proseguire. Risposigli, sorridendo, che, dopo aver perorato, io non avea che aggiugnere; e che non mi veniva in pensiero favola alcuna cui raccontare al popolo milanese. Egli agitandosi e fregandosi colle unghie la fronte, mentre alcuni frattanto se ne [p. 330 modifica]33o LIBRO sdegnavano e altri ridevanne, finalmente, Ecco l’ora, esclamò. Allora un soldato, di ciò incaricato , prendendo tre paletti belli, diritti e bianchi, pose fralle mani a ciascheduno de’ fratelli il suo con parole di lieto augurio; ma con tale intervallo di tempo tra V uno e V altro che, se è vero ciò che raccontasi della ruota di Nigidio Figulo, si dovea credere a ragione che ben diversa sorte lor soprastasse; nè fu altrimente, poichè il maggiore di essi, prima del volger di un anno, perdette la signoria di Bologna, e poscia in età ancora fresca la vita; gli altri due già da dieci anni vivono e regnano prosperamente. Quindi prosiegue egli ancor lungamente a mostrar la stoltezza e la vanità di quest’arte (*). Ma egli gettava le sue parole al vento. Troppo comune era allor l’ignoranza, e troppo radicato l’universal pregiudizio, perchè un uomo, benchè dottissimo, potesse felicemente combatterlo e dissiparlo. (*) Se il Petrarca avesse secondata una cotal vanità , che sembra propria della maggior parte degli nomini, non avrebbe forse derisa tanto 1’astrologia giudiciaria. Perciocché egli in una sua lettera inedita, che e la xix del codice Morelliano , racconta che un celebre astrologo a lui, ancora fanciullo, avea predetto che quanti principi e uomini illustri avea , o era per avere quel secolo, tutti r avrebbon ricolmato di grandi onori; Mihi adirne puero famosus quidam praedixit astrologus, futurum ut fere omnium principum alque illustri uni virorum, quos mea tulisset, aul latura esseC aetas, familiaritatcs eximias atque insignem benevolenti am habiturus essem. Ma egli era uom troppo saggio per non lasciarsi ingannare da tali impostori , e per non distinguere un fortuito indovinamonto da una accertata e fondata predizione. [p. 331 modifica]SECONDO 331 XXVI. Nè fu sola r astrologia dietro cui andassero gli uomini in questo secolo pazzamente perduti. Si videro molti ancora gettare le lor fatiche intorno all’alchimia; e per soverchia brama di ammassar oro, ridursi allo stremo di povertà. L’ab. Lenglet, che ci ha data la Storia della Filosofia ermetica, in cui, benchè nelle prefazioni dia il nome di sognatori agli alchimisti, nel decorso però si mostra abbastanza persuaso della verità de’ fatti che da essi raccontansi; l’ab. Lenglet, io dico, non dà l’ultimo luogo agl’italiani nel rivolgersi allo studio di quest’arte. E tra’ primi ei nomina S. Tommaso d’Aquino (t. 1, p. 132), le cui parole nondimeno altro non provano finalmente, se non ch’egli non ha creduto impossibile il cambiamento d’altri metalli in oro. Egli aggiugne, che Arnaldo di Villanuova, trovandosi in Napoli verso il 1294, operò innanzi al celebre Raimondo Lullo, che ivi pur ritrovavasi, la trasmutazione dei metalli (ib. p. 175), e che questi venuto poscia a Milano, vi si trattenne alcun tempo e vi esercitò l’alchimia, e si mostra, die1 egli, in quella città la casa ov’egli occupavasi in tal lavoro (ib. p. 158). Ma per ciò che appartiene a questo ultimo fatto, esso non è appoggiato che all1 autorità di uno scrittore troppo in questa materia pregiudicato, cioè di Olao Borrichio (De Orig. et Progr. Chem.). E generalmente tutto ciò che dell’alchimia di Raimondo Lullo raccontasi da alcuni scrittori, credesi inventato a capriccio dagli alchimisti, i quali hanno voluto accreditare le lor menzogne, col farci credere che uomini di sommo ingegno adottate xxvi. Amiir i filtro all’al «liinriu m«li vanno paszn melile jm-i «luti. [p. 332 modifica]332 LIBRO abbiano le lor pazzie. Intorno a che è (legna d’essere letta l’apologia che del Lullo han fatta il Wadingo (Ann. Ord. Min. t. 3) e i continuatori degli Atti de’ Santi (Acta. SS. jun. t. 5 ad d. 30); e io mi stupisco che l’ab. Lenglet o non abbia lette, o abbia sì leggermente scorse le lor ragioni, che appena siasi degnato di darne un cenno. Egli poi nomina due Italiani (l. cit. p. 220) che verso questo tempo scrisser dall’alchimia, cioè Pietro il Buono da Lombardia, di cui dice che lavorava a Pola nell’Istria, e che ha pubblicato un trattato compito della scienza Ermetica, di cui un monaco calabrese, detto Lacini, ci ha dato un compendio; e un altro monaco detto Ferrari o Efferari, di cui pur dice che abbiamo un assai oscuro trattato in questa materia. Ma io credo che questo poco esatto autore abbia qui diviso un solo scrittore in due. Abbiamo più edizioni di un’opera sopra l’alchimia, con diversi titoli impressa, di un Pietro Antonio Boni ferrarese (Mazzuc. Scritt. ital. t. 1 , par. 3 , p. 1637) che or chiamasi Buono da Ferrara, come in un codice che se ne conserva in questa biblioteca Estense, or Pietro Buono lombardo. Al fine del codice Estense si legger Quaestio... per Magistrum Bonum Ferrariensem Physicum sub MCCCXXIII anno... tunc temporis salariatum in civitate Traguriae de provincia Dalmatiae. Ma nelle edizioni il titolo è: Incipit tractatus Magistri Petri boni Lombardi de Ferraria introductorius ad artem Alchemiae compositus 1330 anno... in civitate Polae de Provincia Istriae. Le quali diversità però si possono, come ognun vede, conciliar [p. 333 modifica]secondo 333 facilmente (<z). Io penso perciò, che i due autori dal Lenglet nominati non sieno che questo solo, di cui dalle parole recate veggiamo il tempo a cui visse. E veramente molti erano, a questi tempi, perduti dietro a cotali follie. Matteo Griffoni, nella sua Cronaca di Bologna, nomina un cotal Francesco da Forlì che l’anno 1387 fu ivi appiccato, e di lui dice che faciebat Archimiam et multa mala (Script. rer. ital. vol. 18, p. 197); e in un’altra Cronaca si aggiunge ch’egli era falsario di moneta (ib.p. 330). Alchimisti pure erano e Griffolino d’Arezzo e Capoccio fiorentino, de’ quali parla lungamente Benvenuto da Imola narrando la funesta sorte ch’ebbero, arsi vivi amendue (Comm. in Dante, t. 1 Antiq. Ital. p. 1128, ec.). Di questa moltitudine di alchimisti abbiamo una pruova, fra le altre, in un passo del Petrarca, in cui ridesi di costoro, e mostra quanto male essi consumano il tempo, la fatica e il denaro. Noi non veggiamo mai alcun povero che per alchimia divenga ricco; ben veggiam molti ricchi per essa (✓7) Di un Pietro Buono mantovano conservasi nella biblioteca Guarneriana in S. Salvatore in Bologna Esso ha per titolo: Incipit Opusculuni de dottrina virtùtum et fuga vitiorum editimi a Magis tra Bono de Mantua; e comincia: Cum patria propulsus bonis omnibus ezutus , ec. Le quali parole potrebbon farci dubitare eh’ei fosse lo stesso di cui qui ragioniamo, che nato in Mantova, si dicesse perciò lombardo, e passato a Ferrara , si dicesse perciò talvolta ferrarese, e andasse poi a stabilirsi nell’Istria. Ma questa non è che una semplice confettura, e tanto più incerta, quanto meno ci è noto il tempo in cui questo Pietro Buono vivesse. [p. 334 modifica]334 LIBRO ridotti a povertà — Non vedi tu, come alcuni, in altre cose saggi e prudenti, son nondimeno compresi da tal pazzia; alcuni ricchissimi che per questa vanità si consumano, e che, mentre vogliono tesoreggiare e cercano un vergognoso guadagno, gittano inutilmente ciò che aveano giustamente acquistato, e ridotti finalmente a mancare ancora del necessario; alcuni pensierosi sempre e turbati, mentre non pensano ad altro che a mantici, a tanaglie, a carboni, nè vivon con altri che co’ complici de’ loro errori, per poco non divengon selvaggi; altri dopo aver perduto il lume dell’intelletto, perdono ancora gli occhi corporei (De Remed. utr. Fort. l. 1 , dial. 111)? Ma lasciamo omai (di ricercare più oltre le pazzie degli uomini, e passiamo a (quelle invenzioni che acquistarono nome e fama non ordinaria a’ loro autori. xxvii. XXVII. In questa parte però assai scarso fu Invciuione , 1 i • fi. in. ma.a- questo secolo, e una sola invenzione io trovo fcSiTVdS C^1C venSa dagli scrittori di quei tempi esaltata dd,i,usi. Con molta lode. Ne parlano ancora comunemente i moderni scrittori; ma è cosa strana a vedere come essi si siano per lo più avviluppati e confusi, per non aver distinto abbastanza ciò che pur dee distinguersi. Due medici della nobil famiglia de’ Dondi furono in questo secolo in Padova, Jacopo e Giovanni di lui figliuolo. Ad un di essi si attribuisce l’invenzione di un maraviglioso orologio a ruote, che oltre le ore segnasse ancora il giro del sole, della luna, de’ pianeti, i mesi e i giorni e le feste dell’anno; e da ciò a questa famiglia ne venne l’altro cognome, che ha ancora ai [p. 335 modifica]secondo 335 presente, dall’Orologio. Ma a chi di essi si dee sì ingegnoso ritrovamento? Lo Scardeone (De antiq. patav. l 2, d 9) e il Portenari (Felicità di Pad. l. 7, c. 7) lo attribuiscono a Jacopo, e dietro loro hanno affermato lo stesso gli altri scrittori non sol padovani, ma oltramontani ancora, fra’ quali M. Falconet ha pubblicata una dissertazione su questo argomento (Mém. de VAcad. deslnscr. t. 20, p. 44°)? di cui pure allo stesso modo ragionano l’ab. de Sade (Mém. de Petr. t. 3, p. 776) e il Montucla (Hist des Mathém t. 1, p. 438). Il ch. ab. Lazzeri, al contrario, prima d’ogni altro tra’ moderni, ha affermato e ha provato col testimonio di un autore contemporaneo, che questa invenzione deesi a Giovanni (Miscell Coll. Rom. t. 1, p. 124). A chi dunque dobbiamo noi concedere una tal lode? Io penso ch’ella forse debbasi in parte al padre Jacopo, e in parte, ma assai maggiore e con assai maggiore certezza al figlio Giovanni. Esaminiamo attentamente le cose, valendoci a tal fine degli autori o contemporanei, o almen vicini di tempo a’ fatti di cui scriveano. XXVIII. Nella Cronaca di Padova, scritta da’ Xq’)|J,’ìo Cortusii, abbiamo che l’anno 1344 Per comando po»io *./Ìi» di Ubertino da Carrara, signor di quella città, i®"* r’vr 1‘. fu posto sulla sommità della torre di quel pubblico palazzo un orologio; Eodem Mense (mar-diti 0) Horoio giù m xxiv horarum iussu Domini ponitur in summo Turris Palatii (Script. Rer. ital vol 12, p. 912). Lo stesso confermasi da Pier Paolo Vergerio il vecchio scrittor vicino a que’ tempi, che, parlando dello stesso Ubertino, dice: Horologium} quo per diem et noctcm [p. 336 modifica]336 LIBRO quatuor et vi gin ti Iioraruin spatia sponte sua designarentur, in summa Turri constituendum curavit (ib. vol. 16,p. 171)• Or che questo orologio fosse opera di Jacopo Dondi che allor vivea, ricavasi dall1 iscrizione che ne fu posta al sepolcro, e che, dopo altri, è riferito dal Papadopoli (Hist. Gymm. patav. t. 2, l. 2, c. 2). Ortus eram Patavi Jacobus , terraeque rependo Quod dedit, et calidos cineres brevis occulit urna. Utilis officio patriae , sat cognitus Orbi. Ara Medica (l. medicina) mi hi Caelumque et sidera nosse, Quo nunc corporeo resolutus carcere pergo: Utraque namque meis manet ars ornata libellis. Quin procul excelsae monitus de vertice turris Tempus, et instabiles numero quod colligit horas. Inventum cognosce meum, gratissime lector, Et pacem mihi, vel veniam tacitusque precare. E qui si rifletta che i due storici sopraccitati e la riferita iscrizione parlan bensì di un orologio di 24 ore, ma non vi aggiungono ciò che pur dovea più d’ogni altra cosa osservarsi, cioè la maravigliosa combinazione del movimento de’ pianeti. È egli possibile che un sì bel ritrovato fosse si poco in pregio presso de’ Padovani, che niuno ce ne lasciasse memoria? Per altra parte, noi vedremo tra poco che altri autori contemporanei danno espressamente il vanto dell1 invenzione di una macchina si ingegnosa a Giovanni e non a Jacopo. E a me sembra perciò incontrastabile che a Jacopo si debba al più la lode di aver lavorato un orologio a ruote; che tale certo dovea essere un orologio (di 24 ore posto sulla sommità della torre. Benchè anche questa lode medesima potrebbe [p. 337 modifica]SECONDO JO*] forse essergli contrastata. L’ab. Lazzeri dubita che l’iscrizione da noi riferita non sia molto antica, e perciò non molto autorevole) e può nascerne sospetto al vedere che niuno degli storici antichi riconosce Jacopo per autore di detto orologio. Come nondimeno non è questo argomento bastevole a rigettar l’iscrizione, così può concedersi a Jacopo una tal lode, finchè più chiaramente non provisi il contrario. XXIX. Ma o fosse Jacopo, o qualunque altro, l’autore di questo stromento, deesi egli riconoscere come il primo inventore di cotali orologi? Che agli antichi fossero noti orologi di tal natura, che si movessero con qualche ruota, pare che cel persuada un passo di Vitruvio (l. 9, c. 9), ove però l’orologio di cui si parla, è di tutt’altro genere di quelli che noi usiamo. M. Falconet crede ancora (l. cit. p. 451) che orologi a ruota fossero quelli de’ quali parlano Boezio e Cassiodoro, de’ quali noi pure abbiam ragionato, e lo stesso si può dire di quello dell’arcidiacono Pacifico 3 ma troppo poco sappiam di essi, per accertar cosa alcuna: come pure di altri orologi de’ quali altrove si è fatta menzione. Niuno di essi ci è stato descritto dagli autori contemporanei per tal maniera che ci indichi precisamente come fosse formato. E ancorchè si voglia concedere che alcun di essi si movesse per ruote , certamente quest’arte fu poscia dimenticata, nè io ho trovata sicura memoria di orologio a ruote prima del secolo xiv. È certo però, che sul principio di esso un tale stromento già era Tihauosciii, Voi. V. 22 XXIX. Allri *0mi^lianti 11rologipiù antichi di questo. [p. 338 modifica]338 LIBRO noto, poiché Dante ne fa sì chiara menzione, che non può rimanerne alcun dubbio: Et come cerchi in tempra (V ho ri un li Si giran sì, che ’l primo a chi pon mente Quieto pare , e V ultimo che voli. Parad, c. 4Quindi è evidente che l’orologio di Padova, posteriore di oltre a vent’anni alla morte di Dante, non potè essere il più antico. Il primo di cui io vegga farsi menzione ne’ secoli bassi, è quello del campanile della chiesa di S. Eustorgio de’ Predicatori in Milano, di cui il Fiamma, nella sua Cronaca manoscritta di quel convento, citata dal diligentiss. co. Giulini (Mem. di Mil. t. 10, p. 109), parla all’anno 1306. Stella aurea super campanile ponitur: Idrologi uni ferreum multi plica tur. Il Fiamma non ce ne parla come di cosa maravigliosa e nuova, e quindi per certo che non fosse questo il primo orologio a ruote che si vedesse; e benchè non si sappia ove e per cui opera avesse origine questa invenzione, come però non ne troviamo fuori d’Italia alcun indicio più antico, è assai probabile che nascesse tra noi. Il medesimo Fiamma, nella sua operetta delle Gesta di Azzo Visconti pubblicata dal Muratori (Script Rer. ital. voi. c 2), parlando delle magnifiche fabbriche da lui intraprese nel tempo del suo dominio dal i3iì8 al 1339, e singolarmente della chiesa di S. Gottardo e del campanile di essa, dice: Est ibi unum horologium amirabile, quia est unum tintinnabulum grossum valde. quod per cutit unam campanam XXIV vicibus, secundum numerum xxiv horarum diei et noctis; [p. 339 modifica]SECONDO 339 ita cjuod in prima hora noctis dat unum tonum in secunda duos ictus, in tertia tres, et in quarta quatuor, et sic distinguit horas ab horis, quod est summe necessarium pro omni statu hominum (ib. p. 1011). Il ch. Sassi avea congetturato (in not ad h. l.) che quest’orologio, così minutamente descritto, fosse il primo veduto in Milano. Ma il passo soprarrecato mostra il contrario. A questi orologi altri ne succederono in questo secolo stesso \ perciocché , oltre quello di Padova, troviam memoria di quello che Giovanni Visconti, arcivescovo e signor di Milano, fece lavorare in Genova, di cui così dice Giorgio Stella ne’ suoi Annali all’anno 1353 (Script rer. ital. vol. 17,p. 1092): Circa hoc tempus non erat Januae pulcra et subtilis fabrica, qua ad singulam diei noctisque horam pulsatur. Eam ergo Mediolanensis Dominus fecit in ipsa urbe Januensi componi. Quindi a tre anni, cioè nel 1356 i Bolognesi seguiron l’esempio de’ Milanesi, de’ Padovani e de’ Genovesi. Adì 8 di aprile, si narra nell’antica Cronaca di quella città, pubblicata dal Muratori (ib. vol. 18, p. 444)> fu tolta via la campana grossa della torre, che era nel Palazzo di messer Giovanni (Pepoli) signor di Bologna... e fu menata nella corte del capitano, e tirata e posta sulla torre del capitano nel mercoledì santo; e questo fu F orologio il quale fu il primo che avesse mai il Comune di Bologna , e si cominciò a sonare a dì 19 di maggio, il quale lo fece fare messer Giovanni. Lo stesso raccontasi nella Cronaca di Matteo Griffoni, ove si aggiugne (ib. p. 172) che per [p. 340 modifica]340 LIBRO questo orologio tutti i Bolognesi che aveano sopra venti anni, pagarono un soldo e sei denari. Ma torniamo a JacOpo. (Vro h.i L’orologio che da lui credesi lavorato siifiiictu> j«- in Padova, non è il solo monumento che noi c°l’°’abbiamo dell1 ingegno e dei sapere di questo celebre Padovano. Egli, come abbiam veduto asserirsi nella riferita iscrizione, era astronomo e medico ancora, e nell1 una e nell1 altra arte avea scritti de’ libri. Io non trovo chi faccia menzione de’ libri astronomici composti da Jacopo-, e 81 ei ne compose, convien dire che sian periti. Abbiam bensì alle stampe un’opera medica in cui egli ha raccolti rimedj di ogni maniera , tratti dagli autori greci, arabi e latini, e detta perciò da lui Aggregator, e con altro titolo Promptuarium Medicinae, di cui il Fabricio cita due edizioni (Bibl. med. et inf. Latin, t. 2, p. 60). Questi indica ancora un’altra operetta di Jacopo, intitolata: De modo conficiendi salis ex aquis calidis Aponensibus, et deftuxu et refluxu marisy stampata in Venezia nel i5yi (<i). M. Falconet inoltre aggiugne (l. cit. p. 441) che Jacopo fece un compendio assai stimato delr opera gramaticale ossia del Lessico di Uguccione vescovo di Ferrara. Io non so onde abbia M. Falconet tratta questa notizia j nè trovo alcuno che di questo libro di Jacopo faccia (n) M. Portai (Hist. de VAnat. ec. /. 1 , p. 235) e il sig. cavalier Brambilla (Star, delle Scoperte fisicomediche } ec. t. 1 , p. 9(1) hanno osservato che Jacopo Donili fu il primo a trovare il modo di estrarre d sale dalle acque di alcune lontane , e ad insegnarlo nella sua operetta da ine qui citata. [p. 341 modifica]SECONDO 34l menzione. Ma tre errori certamente ha egli a questo luogo commessi; in primo luogo dando a Uguccione il prenome di Agno, che niuno mai gli ha dato; in secondo luogo dicendolo morto nel 1312, mentre è certo, come altrove parlando di lui abbiamo osservato, ch’ei morì nel 1310, e finalmente affermando, con grave anacronismo, che Giovanni Balbi vissuto nel secolo precedente, si è forse giovato di questo compendio di Jacopo nel compilare il suo Catholicon. E Papadopoli fissa la morte di Jacopo circa il i’ 35o. Ma, se non è corso errore nell’edizione del Proemio dell’Aggregatore, da esso ricavasi ch’ei visse almeno fino all’anno 1355, perciocchè in esso Jacopo scrive: completum per me anno i355 f). XXXI. Nome ancora maggiore ottenne Giovanni di lui figliuolo per l’ingegnosissima macchina da lui ideata, e colle proprie mani eseguita. Rechiamone, tradotta nel volgar nostro italiano, la descrizione fattane da Filippo de Mazieres, scrittore contemporaneo e amico di (*) 11 eh. sig. canonico Francesco Scipione Dondi dall’Orologio , di cui più sotto farem di nuovo menzione, mi ha avvertito che da’ monumenti della sua famiglia raccogliesi che Jacopo nacque d’Isacco Dondi nel 1298, che nel i3i8 passò a Ghioggia chiamato ad esercitarvi la medicina, che nel 1333 lu ascritto alla veneta cittadinanza, che nel i352 ritrovò il sale da lui descritto nell’opera accennata, e che filò di vivere nel i35q. Debbo qui ancora aggiugnere che Jacopo compendiò veramente il Lessico di Uguccione; perciocché lo Scardeone ci assicura eh1 ci possedevanc una copia (Antiq. paiaw 265). XXXI. Giovanni «li lui figliuolo autore «Irl sopraddetto o* rolof>io mura* viglioso: ilrn scrizione ili CSSu. [p. 342 modifica]34^ LIBRO Giovanni, che ci dà anche altre belle notizie intorno il medesimo. Essa è tratta da un’opera ms. di Filippo intitolata le vieux Pelerin, ed è stata pubblicata prima dall1 ab. Lebcuf {Mém. de l’Ac ad. des Inscr. t. 16, p. 227, ec.)? poscia da’ compilatori dell1 Enciclopedia (art. Horoio gì1). Egli è a sapere che in Italia ha. oggi un uomo celebre e singolare in filosofia, in medicina e in astronomia, che in queste scienze per comun sentimento sorpassa tutti; ed è natio di Padova. Il suo cognome è stato dimenticato, ed ora ei chiamasi maestro Giovanni degli Orologi, e sta al presente col Conte di Virtù (Gian Galeazzo Visconti), da cui per questa triplice scienza riceve ogni anno duemila fiorini, o a un di presso. Questo maestro Giovanni degli Orologi ha fatte in sua vita grandi e celebri opere in queste tre scienze, che presso i più dotti (f Italia, iTAlemagna e d’Ungheria sono accreditate e in molta stima. Tra essi ha fatto un grande strumento da alcuni chiamato sfera, o orologio del moto del sole, in cui sono tutti i movimenti delle costellazioni e de’ pianeti coi loro cerchi, epicicli e distanze, con moltiplicazione di ruote senza numero, con tutte le loro parti? e ciascun pianeta nella detta sfera ha il suo particolar movimento. In questo modo si può veder chiaramente in qual segno e in qual grado sono i pianeti e le stelle più nominate. E questa sfera è fatta sì ingegnosamente■, che non ostante la moltitudine delle ruote che non si potrebbono ben numerare senza scompaginar lo stromento, tutto il moto di essa è regolato da un sol contrappeso; cosa tanto [p. 343 modifica]SECONDO 343 maravigliosa, che i più celebri astronomi vengono da lontani paesi a visitare con gran rispetto il detto maestro Giovanni e T opera delle sue mani; e i più intendenti d astronomia, di filosofia, di medicina dicono che non v’è memoria nè per iscritto nè per tradizione, che siasi mai fatto sì celebre e sì ingegnoso stromento del moto de’ cieli, come questo orologio. Maestro Giovanni lo ha fatto colle sue proprie mani, tutto di ottone e di rame, senza aiuto di alcun altra persona; e non ha fatto altro per 16 anni intieri , come ha saputo V autore di questo libro, grande amico del detto Maestro Giovanni. XXX11. Io mi stupisco che M. F&lconet, che avea pur veduto il passo da me ora recato, in cui tante volte l1 autore di questa macchina è chiamato Giovanni da uno che dice essergli amico, abbia potuto sol dubitare che l’invenzion di essa si dovesse a Jacopo. Nè è solo Filippo di Mazieres che così afferma. Il suddetto ab. Lazzeri ha pubblicata (l. cit. p. 195) una lettera scritta da Giovanni Manzini al nostro Giovanni, in cui assai lungamente descrive questa macchina stessa, e a lui ne dà tutta la lode e nell’invenzione e nell’esecuzione. Possiam noi bramare testimonj più indubitati? Nè in ciò unicamente consiste l’error di quelli che attribuiscono a Jacopo un sì bel ritrovato. Essi, confondendo il semplice orologio che questi forse innalzò sulla torre di Padova, colla grande sfera di Giovanni, affermano che questa appunto fu posta sulla detta torre. Or egli è certo che essa era in Pavia. Michele Savonarola, di XXXII. Noluic J>iù miuut* ilrl moli’ simo. [p. 344 modifica]344 LIBRO cui abbiam parlato poc’anzi trattando di Pietro di Abano, e che scrivea verso la metà del secolo XV afferma chiaramente ch’essa tuttora vi si conservava , e narra ciò che poco innanzi era intorno ad essa avvenuto. Questo passo ancora è troppo bello? perchè non debba qui riportarsi distesamente nel nostro linguaggio. Giovanni dall Orologio, die’ egli (De Laud. Pad. Script. Rer. ital. vol. 24, p- 1164)fu uomo veramente divino e d incomparabil valore nella lettura di medicina. Egli grande oratore; egli medico pratico; egli sommo matematico; egli grande artefice di sue mani Questi col suo ingegno e colle sue mani fabbricò in Pavia un orologio di maravigliosa bellezza, in cui vedesi il firmamento colle sfere di tutti i pianeti , per tal maniera che si distinguono come nel cielo i movimenti di tutte le stelle; segna i giorni festivi e più altre cose ammirabili a vedersi. E fu sì ingegnosa la struttura di questo orologio, che, dopo la morte di lui, niuno ha potuto correggerlo e fissarvi i pesi convenienti. Ma un astrologo e grande artefice venne non ha molto di Francia a Pavia, e moltissimi giorni si affaticò nell unirne le ruote, e ottenne finalmente di combinarle a dovere, e di dar loro moto opportuno... (a). Da questo orologio la famiglia (a) Crede il sig. Landi che il Francese chiamato a racconciare la macchina del I)ondi, sia un argomento a provare che in Francia al par che in Italia erano al tempo stesso eccellenti artefici di tai lavori (t. 2.p. 343). Ma egli dovea avvertire che il Dondi formò la sua macchina certamente prima del 1 38q in cui morì, e che il Francese venne a Pavia a’ tempi del Savonarola che scrivea circa la metà del secolo xv. [p. 345 modifica]SECONDO 34f> illustre de Dondi ha preso il cognome. Pier Candido Decembrio ancora, scrittore egli pure contemporaneo al Savonarola , nella Vita del duca Filippo Maria Visconti conferma tutto ciò che da noi si è affermato: Egli ebbe, dice (ib. vol. 20, p. 1017), nella sua biblioteca in Pavia un insigne orologio sopra tutti quelli della nostra età memorabile e quasi divino fatto da Giovanni da Padova insigne astronomo, in cui vedevansi i movimenti de’ sette pianeti. Se M. Falconet avesse veduto questi passi, non avrebbe sì francamente tacciato di errore Giovanni Muller, detto comunemente Regiomontano, astronomo dello stesso secolo xv, per avere scritto in una sua Orazione (Orat. Introd. in Scient. mathem.): Astrarium ejus (di Giovanni Dondi) quod in arce Papiensi Dux Mediolani ho die depositimi tenet. M. Falconet crede che il Regiomontano abbia confusa la macchina del Dondi con un’altra ch’ei dice che Gian Galeazzo Visconti fece lavorare in Pavia l’anno 1402, e ne reca in pruova il testimonio di Bernardo Sacco nella sua Storia di Pavia, stampata l’anno i5(>5. Ma qui ancora s’egli avesse esaminato meglio un tal passo, avrebbe veduto che la sfera, o l’orologio, di cui il Sacco ragiona, è appunto quello del Dondi. Dice egli adunque (Hist. Ticin. l. 7, c. 17) che mentre regnava Gian Galeazzo Visconti (ma non segna l’anno 1402, come M. Falconet afferma) fu lavorato un orologio che non solo segnava le ore, ma i movimenti ancora delle stelle, della luna, del sole; della qual opera, ei dice, non si sa l’autore. Il Sacco dunque non afferma che questo orologio fosse [p. 346 modifica]346 LIBRO fatto a somiglianza d’un altro, ma ne parla come di cosa nuovamente trovata; ed è perciò evidente che è quello appunto del Dondi, benchè a’ tempi del Sacco non se ne sapesse l’artefice. Convien ben dire che il ricomporlo che fece quel Francese, nominato dal Savonarola, non producesse che breve e passeggero effetto, poichè il Sacco soggiugne che, morto Gian Galeazzo (cioè più anni dopo), l’orologio si giacque per lungo tempo abbandonato e scomposto; che poscia l’anno 1529 (che così dice il Sacco, e non il 1550, come M. Falconet gli fa dire) esso, così rugginoso e scompaginato com’era, fu recato innanzi a Carlo V, il quale ammiratone il lavoro, cercò per ogni parte artefici che il ricomponessero; ma che riuscendo inutile ogni tentativo, si fece innanzi un cotal Giovanni da Cremona soprannomato Giannello, uomo deforme di aspetto, ma di acuto ingegno, il quale, osservata attentamente la macchina, disse ch’ella potevasi ricomporre; ma che ciò non sarebbe giovato a nulla, essendo i ferri dalla rugine consumati e rosi; e che era meglio il formarne una nuova a somiglianza di essa, e ch’egli di fatto, accintosi al lavoro, il condusse felicemente a fine; e l’impera dorè volle ch’esso insieme coll’artefice fosse condotto in Ispagna. Il Cardano accenna una, com’egli dice, macchina del mondo fatta già da un certo Guglielmo Zelandino (De Subtil. l. 17), poi guasta e sciolta, e finalmente ricomposta da uno ch’egli non nomina, a cui somiglianza aggiunge che un’altra ne fece formar Carlo V. Io non so se egli intenda di [p. 347 modifica]I SECONDO 347 ragionare del nostro orologio. Ma s’ei ragiona di esso, ha certamente preso errore facendone autore Zelandino, mentre gli scrittori contemporanei tutti l1 attribuiscono al Dondi. XXXDI. Egli è dunque certissimo che que- J^rl*I’ di sto maraviglioso orologio fu opera di Giovanni Giovanni Dondi; ch’egli, e quindi la sua famiglia, n’ebbe il nuovo cognome, e che questo sì bel lavoro fu fatto in Pavia, ed ivi per lungo tempo si conservò. In fatti abbiam veduto affermarsi dal Savonarola che Giovanni stava in corte di Gian Galeazzo Visconti, e che da lui aveva un lauto annuale stipendio. Anzi nel Catalogo della Biblioteca Riccardiana trovasi nominato un codice di un’operetta inedita di Giovanni; da cui ricaviamo ch’egli era medico di questo principe: Modus vivendi tempore pestilentiali compositus per R. Magi stri un Johannem de Dondis de Orologio illustris D. Ducis Mediolanensis venerabilem medicum ad instantiam et requisitionem Episcopi Papiensis (Cat. Bibl. Ricc. p. 167). Egli scrisse inoltre, come affermano gli scrittori padovani, un’opera in tre volumi intitolata Planetarium nella quale rendeva ragione dell’ammirabile suo lavoro (*). Alle stampe altro (*) Della pronti* opera di Giovanni Dondi, intitolata Planetarium due esemplari conservasi in Padova presso il no Ime sig. canonico Francesco Scipione Dondi dalV Orologio; uno che è l’originale stesso del Dondi, assai bene scritto, e con le figure esattamente disegnate; l’altro che è una copia fatta nel secolo xvi. Essa è divisa in tre parti. Nella prima insegna il modo onde formare le parti che componevano quella gran macchina, che passavano il numero di 200 f ed eran tutte [p. 348 modifica]348 LIBRO di lui non abbiamo che tre trattati intorno a’ bagni di Padova e di Abano (V. Fabr. Bibl. med. et inf. Latin, t. 2, p. 60). Giovanni Manzini nella lettera a lui scritta l’anno i388, da di ottone, o di rame; e dà insieme tutta la teoria de’ movimenti celesti. Nella seconda prescrive il modo con cui le parti debbono insieme congiungersi, e nella terza insegna per qual maniera, accadendo qualche alterazione nel moto della macchina, si debba ad essa porre opportuno rimedio. Egli afferma di aver trovato da se medesimo l’ingegno di quella macchina , benchè confessi di averne ricavata l’idea da un’opera del novarese Campano: Idcirco imaginatus sum opus materiale componere... et ille nobis adjutor sit, qui hanc immaginationem pulchram primo duxit ad mentem.... Sumpsi hujus autem propositi et imaginationis exordium ex subtili et artificiosa imaginatione Campani, quam docuit in sua Theorica planetarum. In essa ancora ei ci indica il tempo in cui scrisse questa opera, cioè nel 1364 Investigavi igitur gradum 12 Sagittarii, ibi namque tempore compositionis hujus erant auges Saturni, quod fuit anno Christi perfecto 1364 Il soprallodato cavaliere mi ha ancora avvertito che da’ monumenti della famiglia raccogliesi che Giovanni, nato in Chioggia nel 1318, fu professore di astronomia in Padova nel 1352; che nel 1368 andò lettore di medicina a Firenze, donde tornò a Padova verso il 1370, nel qual anno il Petrarca gli scrisse la lettera prima del libro XII delle Senili, che originale conservasi ancora presso il lodato cavaliere; che nel 1371 fu invitato da’ Carraresi alla Repubblica Veneta, che nel 1374 diede in Padova la laurea a un figlio del celebre medico Dino fiorentino; che nel 1378 fu chiamato a Pavia alla cura di Azzo figlio del Conte di Virtù Giangaleazzo Visconti; che da questo gran principe ottenne diversi privilegi, un palazzo in Pavia e 2000 fiorini di stipendio e, che egli morì, nel febbraio del 1389, in Genova, ov’era andato a visitare Antonio Adorno suo amico. Ciò potrebbe renderci dubbiosi che falsamente gli fosse attribuita [p. 349 modifica]SECONDO 349 noi poc’anzi accennata, ne loda ancor l’eloquenza e il coltivare, che anche in età avanzata faceva, la poesia, a cui dice che s’egli si fosse seriamente rivolto, sarebbe stato uguale

  1. a’ più illustri poeti. Ma ninna cosa è tanto onorevole alla memoria di Giovanni, quanto l’amicizia che con lui ebbe il Petrarca. Questo

grand’uomo, di cui non v’ebbe mai forse il più implacabil nemico de’ medici e della medicina, avea nondimeno in grande stima Giovanni, e ne abbiamo in testimonio quattro lettere a lui scritte (Senil. I. 12, ep. i, 2; /. i3, ep. i4? i5), in due delle quali scherza assai a lungo intorno all’arte da Giovanni professata, l’opera intitolata Modus vivendi tempore pestilentiali, in cui egli è detto medico del duca di Milano, titolo da Giangaleazzo ottenuto solo nel i3i)5. Ma forse il codice della Ricciardiana, in cui esso contiensi, fu scritto più anni dopo, e il copiatore vi aggiunse il titolo che allora a quel principe conveniva. Del Planetario di Giovanni vedonsi ancora indicate due copie nel Catalogo de’ MSS. delle Biblioteche dell’Inghilterra e dell’Irlanda (t. 1 , p. 70; t. 1 y 4$)• « Oltre alcune altre opere di Giovanni, conservansene presso i discendenti da esso 37 Orationi da lui in diversi luoghi e in diverse occasioni recitate , e per più o nell’ingresso alle cattedre, o nelle collazioni delle lauree dall’anno 1362 fino al 1384- Conservasi anche l’inventario de’ denari e de’ mobili da lui lasciati , presentato in giudizio da Caterina di Gherardo dalla Pergola, seconda sua moglie rimasta vedova (la prima era stata Giovanna di Riprandino dalle Calze); e in esso si vede quante ricchezze avesse Giovanni raccolte col suo sapere -9 perciocché , oltre un copiosissimo vasellame d’argento e molti libri, vi si vede segnata una gran somma di denari di diverse specie, e undicimila seicento quarantatrè ducati d’oro effettivi ». [p. 350 modifica]350 LIBRO e intorno ad alcuni rimedj ch’ei gli aveva prescritti, e risponde a ciò che quegli avevagli scritto per difendere la sua opinione. Ma nel tempo medesimo ben dà a vedere il Petrarca qual conto facesse dell’ingegno e del saper di Giovanni, dicendo che.la medicina è in lui come una piccola aggiunta alle altre scienze di cui è ornato, e che senza di essa ei sarebbe migliore ancora e più dotto. E scrivendo a Francesco da Siena, medico esso pure famoso (ib. l. 15, ep. 3)? e narrandogli la suddetta contesa con Giovanni avuta, dice ch’egli era uomo di sì alto e di sì penetrante ingegno, che sarebbe salito fino alle stelle, se trattenuto non l’avesse la medicina, e che eragli tanto amico, quanto appena egli a se stesso. L’ab. de Sade aggiugne (Mém. de Petr. t. 3, p. 767) che il Petrarca afferma aver lui avuto il cognome dall’Orologio dal libro che scritto aveva, intitolato il Planetario) ma nè egli cita, nè io ho potuto trovare ove il Petrarca abbia detta tal cosa (*). Questi diede l’ultimo contrassegno (*) Io avea alle mani l’edizione del Petrarca fatta in Basilea coll’altre opere di esso , quando ho affermato che non se ne raccoglieva che Giovanni Dondi avesse dalla sua macchina avuto il nome di Orologio Ma avendo poi osservata la più esatta edizione che ne è stata fatta dal Comino nel 1722, insiem colle Rime di esso , ho veduto che il Petrarca nel suo testamento così si esprime: Magistrum Joannem de Dundis phfsirum 9 astranomoruni facile principem , dictum ab Horologio, propter illud admirandum Planetarii opus ab eo confectum, quod vulgus ignarum Horologium esse arbitratur. E inoltre nelle pergamene conservatesi in quella nobil famiglia , come non vedesi mai dato il soprannome dall’Orologio a Jacopo, così con esso vedesi sempre distinto il figlio Giovanni. [p. 351 modifica]SECONDO 351 dell’amor che avea per Giovanni, lasciandogli cinquanta ducati d’oro nel suo testamento, in cui dopo aver fatta scusa agli altri suoi amici, se lasciava loro legati tenui, attesa la tenuità delle sue sostanze, dice: Propter hunc respectum distuli ad ultimum, quem primum esse decuit magistrum Johannem de Horologio physicum, cui lego quinquaginta ducatos auri pro emendo sibi unum parvum annulum digito gestandum in memoriam mei. Il Papadopoli dice che Giovanni morì l’anno 1380 (l.cit p. 158), e ne cita in pruova l’iscrizione sepolcrale. Ma se in essa si legge veramente quest’anno, pare ch’ella si debba creder recente, e perciò poco autorevole, perciocchè abbiam veduto che Giovanni Manzini gli scrisse l’anno 1388. Anzi il codice da noi rammentato poc’anzi, in cui Giovanni si dice medico del duca di Milano, potrebbe indurci a credere che ei vivesse fino al 1395, nel qual anno soltanto Gian Galezzzo Visconti ebbe prima di ogni altro il titol di duca. XXXIV. A Jacopo e a Giovanni Dondi ag- xxxiv. giugniam per ultimo Gabriele fratel del secon- iuìa,’flaic»à do, come affermano il Papadopoli (ib.) e gli ™r^c0°m0e altri scrittori padovani, i quali narrano ch’egli esercitò la medicina in Venezia, e che per essa ammassò ricchezze sì grandi, che niun medico aveane finallora raccolte altrettanto. Il Savonarola , scrittor di essi più antico, benchè gli dia luogo tra’ medici pratici (l. cit. p. 1166), ne celebra nondimeno singolarmente il sapere in astronomia, e dice ch’egli veggendo difettose e inesatte le famose tavole del re Alfonso, [p. 352 modifica]35a libro ne fece altre nuove migliori di assai, delle quali perciò si valevano anche allora gli astronomi. E perciò ei dovea singolarmente a questo luogo essere rammentato. Di queste tavole astronomiche nondimeno, formate da Gabriele, non trovo alcun altro scrittore che faccia cenno. Egli morì, secondo i medesimi scrittori padovani, l’anno 1388. M. Falconet sospetta ch’ei fosse figliuolo e non fratel di Giovanni, perchè nell’iscrizion sepolcrale di lui si dice che par patribus fuit. Ma non è questa una sì importante quistione che vaglia la pena di farsi a esaminarla (*). \xxv. XXXV. La musica, che dopo i tempi di Guido O^erc in- 1 • i 1- 1 • 1 tomo aiia d Arezzo non avea avuto in Italia chi prendesse ‘ZrZuÒ ad illustrarla scrivendo, ebbe di questi tempi lisi Pado- UIÌ cotai Marchetto da Padova, che di essa scrisse alcuni trattati. Il Muratori rammenta (Antiq. Ital. t. 3, p. 876) un codice che se ne conserva nella biblioteca Ambrosiana in Milano , in cui trovasi primieramente un’opera intitolata: Lucidarium Marchetti de Padua in Arte Musicae Planae, al cui fine si legge: inchoatum Cesenae, perfectumquc Vcronae anno MCCLXXir (a). Ma il Muratori riflettendo (*) Due professori di aritmetica del secolo xiv ci indica un codice della libreria di S. Salvatore in Bologna. Esso ha per titolo: Qui commenza un’opera de raso ne, secondo le regole che usa Maistro Zanantonio da Como scritta per Bernardino dal Falliva scolaro del sopraccitato Zohanne. E al fine: A voler trovare radice quadrata secondo lo Filosofo Maistro Leonardo de Cremona. (a) 11 eh. sig. abate Gaetano Bugatti, dottor del Collegio Ambrosiano, mi ha avvertito che la nota dell’anno 1274, aggiunta all’opera di Marchetto da Padova [p. 353 modifica]SECONDO 353 clic essa da Marchetto si dedica a Rainero da Orvieto y vicario generale in Romagna di Giovanni conte di Gravina, figliuolo del re di Napoli Carlo II, e che questo re nella lettera dedicatoria è detto clarae et excelsae memoriae, ne congettura che la detta opera fosse bensì terminata nel 1274? ma pubblicata solo dopo il 1309 in cui morì il re Carlo II. Ma forse è corso errore o nel codice stesso , o nella copia fatta del passo da noi riferito, e in vece di mcclxxiv , dee leggersi mcccxxiv. Al detto trattato un altro se ne aggiugne, dello stesso scrittore, intitolato Pomerium Marchetti de Padua in arte Musicae Mensuratae, diviso in tre libri , e dedicato al re Roberto. Ma non avendo noi tra le mani questi due trattati, non possiam giudicare se in essi la musica sia con nuove osservazioni illustrata, o se altro non sieno che un compendio, o una ripetizione di ciò che altri aveano già scritto. Di questo scrittore non fa menzione alcuna il Fabricio. • nel codice di quella biblioteca, è assai più recente* del codice stesso. Ecco come essa c posta: Ethecdc Musica piana sufficiaiU tibi dieta 1274 Explicit Lucernari uni Marcheti de Padua in arte Musice piane inchoaturn Cesene perfectumque Perone. Or que* numeri arabici, oltre di esser posti fuor di luogo, sono anche espressi in ligure modernissime , e allatto diverse da quelle che veggonsi nel rimanente drl codice. E non deesi perciò fare alcun conto di quella data, ma si delle lettere dedicatorie dell’autore, che cel mostran vissuto a* tempi del re Roberto. Tiraboschi, Voi. V. [p. 354 modifica]XXX VI. Per qual ragione J.i filosofia non fossi! I rn|<po accreditala. 354 UURO XXXVI. Noi dovremmo qui far parola di quelli che se non pubblicarono libri a illustrazione della filosofia, ne tennero almeno scuola nelle pubbliche università. Alcuni ne annoverano il Ghirardacci, tessendo il catalogo de’ professori dell’università di Bologna (t. 2,p. 250, 450, ec.), il Facciola ti, parlando di que’ di Padova (Fanti Gj rnn. patav. pars 1, p. 44)? e alcuni altri scrittori. Ma, a parlare sinceramente, appena vi ha tra essi chi meriti special menzione, se se ne tragga Paolo Vergerio il vecchio, che, essendo ancor giovane, fu professor di logica in Padova. Ma poichè questi più per altro genere di studj e non pe’ filosofici divenne illustre, e toccò ancora non piccola parte del secolo seguente, ad altro tempo e ad altro luogo riserveremo il parlarne. I professori di filosofia facevano in questo secolo comunemente un corpo solo con quelli di medicina, anzi sovente un medesimo professore dovea insegnare l’una e l’altra scienza, ed era detto perciò professore di medicina e delle arti. La giurisprudenza continuava ancora a rivolgere a sè l’ammirazione e la stima, e quindi il più numeroso concorso degli scolari. La medicina venivale appresso, e per poco non le contrastava il primato. Le altre scienze non aveano alzato gran nome, e la filosofia singolarmente che non credevasi punto necessaria, e, quale a que’ tempi insegnavasi, era veramente del tutto inutile, avea assai minor numero di coltivatori; e forse ella sarebbe stata anche maggiormente dimenticata, se l’universale infatuamento per l’astrologia giudiciaria non avesse indotti molti a coltivarne quella parte che [p. 355 modifica]SECONDO ’ 355 ad essa era opportuna. Lasciando dunque tutti gli altri in disparte, io nominerò solamente Domenico di Civasso, perchè egli accrebbe ne’ paesi stranieri onore all’Italia. Il du Boulay dai Registri dell’università di Parigi raccoglie (Hist Univ. Paris, t 4> />•1)954) ch’egli dopo essere stato membro del collegio detto di Costantinopoli , fu poi in quella università professore di filosofia, e che l’anno 1349 tenevane ancora scuola con somma stima e con frequenza non ordinaria di uditori. XXXVII. La filosofia morale ebbe un illustre scrittore nel gran Petrarca. Questo grand’uomo, mi.1 ad iv che se avesse avuti molti altri a sè somigliali- ,rart** ti, avrebbe renduto anche assai più rinomato il secolo a cui visse, a questa parte ancora di studio si volse, e ne trattò più argomenti con felicità maggiore di quella che in tempi sì tenebrosi potea aspettarsi. Abbiamo i due assai lunghi libri da lui intitolati de Remediis utriusque fortunae, e dedicati al suo amicissimo Azzo di Correggio, i quali se non sono un troppo esatto modello della maniera di scrivere in dialogo, contengono però i migliori e i più opportuni avvertimenti che in tal materia si possan dare. I libri della Vita solitaria (*), della (*) La vi lettera del Petrarca del codice Morelliano ci fa conoscere eh* ei non voleva che i due libri De vita solitaria si divolgassero , finchè ei viveva. Perciocchè egli scrive al suo Socrate, che non avendo potuto negarne copia a Filippo vescovo di Cavaillon, una ne mandava a lui parimente , a patto che niun altro , vivente lui, la vedesse; e ne reca per ragione, che in essi avea censurati i vizj de’ più potenti: Summos hic hominuin siilo aiiigi. [p. 356 modifica]356 libro vera Sapienza, del Disprezzo del Mondo, benchè abbiano molte riflessioni ascetiche, e negli ultimi singolarmente sembri ch’egli abbia preso ad imitare le sincere ed umili Confessioni di S. Agostino, con cui in essi ragiona, hanno nondimeno più cose tratte da’ fonti della filosofia morale, e mostran lo studio che il Petrarca avea fatto non solo su gli antichi scrittori di tale argomento, ma, ciò che giova assai più, sull1 indole del cuore umano. Al principio di questo capo abbiam parlato del libro intitolato De sui ipsius et multorum ignorantia, che anche a questo luogo può riferirsi. Egli ci ha finalmente lasciati due, per que’ tempi, eccellenti libri, uno sul governo della Repubblica indirizzato a Francesco da Carrara signor di Padova, l1 altro su’ doveri di un Generale d1 armata, eh1 egli inviò a Luchino del Verme general comandante dell1 esercito veneto. Il Petrarca però fu presso che il solo che in tali argomenti si esercitasse scrivendo. Perciocchè io non penso che alcun pretenda eli1 io mi faccia qui a ricercare e ritessere una steril serie di alcuni piccoli trattatelli morali in questo secolo scritti in lingua italiana, i quali han bensì qualche pregio per la purezza di lingua con cui furono scritti, ma non accrescon punto le glorie dell1 italiana letteratura (*). Basti accennare per (*) Fra gli scrittori di filosofia morale non debb’essere dimenticato Sebastiano da Gubbio, di cui conservasi ms. nella Laurenziana un’opera di tale argomento, intitolata Liber de Teleutologio , nella quale, a somiglianza di Boezio, va frammischiando la poesia alla prosa. Il canonico Bandini ce ne ha dato qualche saggio , [p. 357 modifica]saggio gli Ammaestramenti degli Antichi, volgarizzati da F. Bartolommeo da Pisa, ossia da S. Concordio castello vicino a Pisa, della nobil famiglia de’ Granchi, religioso domenicano, di cui pure, oltre la Somma di Teologia morale già da noi mentovata, abbiamo un trattatello sulla Memoria artifìziale. Di lui veggansi i PP. Quetif ed Echard (Script. Ord. Praed. t. 1, p. 623), l'eruditissimo Zeno (Note al Fontan. t. 2, p. 336, ec.) e il sig. Domenico Maria Manni che alla nuova e bella edizione da lui fattane in Firenze l’anno 1734, ha permesse copiose notizie intorno alla vita e alle opere di questo colto scrittore. Così pure io lascio di ragionare di alcuni opuscoli di somigliante argomento, come della Sposizione delle Epistole di Seneca, e del Compendio di Filosofia morale di F. Luca Mannelli religioso pure domenicano, e poscia vescovo di Osimo e poi di Fano (Quet. et Ech.


ed egli crede , con buon fondamento, che l'autore vivesse nei primi anni del secolo XIV (Cat. Codd. lat. Bibl. laur. t. 1. p. 62). «Della detta opera, intitolata Teleutologio, un altro codice del secolo XIV conservasi in Venezia nella libreria de’ PP. Domenicani dei Santi Giovanni e Paolo, da cui raccogliesi che l'autor di esso diceasi veramente Uboldo di Bastiano da Gubbio, perciocchè vi precede una lettera dell’autore, che così comincia: Rev. in Christo patri et Domino speciali Domino Francisco Dei et apostolicae Sedis gratia dignissimo Episcopo Florentino, Ubaldus Bastiani de Eugubio juris utriusque fluentis paululum madidus cum sui recomendatione se totum, ec. E nel III libro , ove nel codice fiorentino, citato dal sig. canonico Bandini, si legge: o genite Bastiane, nel veneto si legge: o genite Bastiano. Di questa osservazione son debitore al più volte lodato sig. D. Jacopo Morelli» [p. 358 modifica]358 libro Script. Ord. Praed. t. i, p. 602), e di altri somiglianti libri che non recarono grande vantaggio a’ filosofici studi, xxxviii. XXXVIII. Ebbe finalmente F Italia a questi decrescenti tempi uno scrittore d’agricoltura , che racco^OTiulra!11 gli en do i precetti degli scrittori che l’aveano preceduto, e aggiungendovi le sue riflessioni, ci diede su questa materia un’opera che allora si potè dire perfetta, ed anche al presente può recare qualche vantaggio. Ei fu Pietro de’ Crescenzi, di patria Bolognese, di cui abbiam dodici libri d Agricoltura. Ei gli scrisse in latino, come contro il sentimento del Bembo, del Redi, del Fontanini e di altri ha provato l’esattissimo Apostolo Zeno (Note alla Bibl. del Font. t. 7, p. 333), e li scrisse in età avanzata, come si raccoglie dalla lettera dedicatoria ch’ei vi premise a Carlo II re di Sicilia, che così comincia, secondo la traduzione italiana che in questo medesimo secolo ne fu fatta da incerto autore: Conciosiacosa che io considerassi l’età mia provetta, ec. Quindi nella stessa lettera aggiugne che questo suo libro fu veduto, letto, e approvato e per lo sapientissimo huomo frate Amerigo Ministro dell Ordine de Predicatori e per li prudentissimi Frati suoi, e ancora per li savi in iscienza naturale dell’Uni’ versità degli Scolari della città di Bologna. Altre notizie di se medesimo ei ci dà nel proemio, ove così ragiona: Adunque io Pietro de’ Crescenzi nato cittadino di Bologna... il quale il tempo della mia gioventù in loica, in medicina, e in naturale scienza spesi tutto, e alla fine allo studio della nobile scienza legale mi rivolsi} [p. 359 modifica]SECONDO 35() e diedi, desideroso del pacifico e tranquillo stato, dopo la divisione e scisma di quella nobil cittade, onde piangere si dovrebbe, la qual da se per proprio nome era detta Bononia cioè Bona per omnia, cioè a dire per tutto buona, e per tutte le parti del mondo non altrimenti s appellava; conobbi che, mutata e rivolta F umiltade e il pacifico stalo in dissensione , cioè in discordia, odio e invidia:, non era convenevole mescolarsi negli esercizj e operazioni della sopraddetta division perversa; ed imperciò per diverse provincie m aggirai per lo spazio di trenta anni: e con rettori d’una in altra mi distesi, a’ suggetti volentier facendo giustizia, a’ rettori fedele e leal consiglio donando , e le cittadi in loro quieto e pacifico stato a mio poter conservando, e molti libri’ d antichi e de novelli savi lessi e studiai, e diverse e varie operazioni de’ coltivatori delle terre vidi e conobbi. Finalmente la predetta città per divina grazia riformata, per increscimento di lungo circuito e di danneggiata libertade tormentato e commosso , di ritornar mi parve alla propria magione. Era dunque il Crescenzi cittadin bolognese , e figliuolo forse (a) o nipote di quel Crescenzio de’ Crescenzi che inviato l’an 1268 ambasciadore a Venezia, ivi morì (Script Rer. ital. vol. 13. p. 122). L’allontanarsi che ei fece dalla sua patria, è probabile (a) Pietro Crescenzi fu figlio di Zambonino, come ha osservato il eh. sig. conte Fantuzzi, il quale «li questo scrittore ci ha date più esatte e più minute notizie; cd ei crede che fin dal i3oo fosse Pietro ritornalo a Bologna (Scritt. bologn. t. 3; p. 224). [p. 360 modifica]36o LIBRO che avvenisse l’anno 1274, anno famoso nelle storie bolognesi per l’espulsione del partito de’ Lambertacci. Quindi facilmente prese occasione il Crescenzi di uscir da Bologna e di aggirarsi per varie città d’Italia, nelle quali sembra, per quanto egli ne dice, eh’esercitasse con lode l’ufficio di assessore de’ podestà. Ma al medesimo tempo egli osservò esattamente le regole d’agricoltura che in ciaschedun paese si praticavano; e a ciò deesi attribuire il frequente rammentar ch’egli fa le diverse maniere di col* tivare usate in tale e in tale altra provincia d’Italia (V. l. 1, c. 3, 20; l. 4? c* 12, 18, 19, ec.)• S’ei partì da Bologna l’anno 1274? convien dire che l’anno 1304 ei vi facesse ritorno) e certo sol circa questo tempo medesimo ei pubblicò la sua opera, poichè ella fu riveduta , come abbiam detto, da F. Amerigo ministro dell’Ordine dei Predicatori, il quale fu a quella dignità sollevato l’anno 1304 (Quet. et Ech. Script. Ord. Praed. t. 1, p. 494), ed ella fu dedicata a Carlo II re di Sicilia, morto l’anno 1309, e perciò la pubblicazion di quest’opera si dee fissar nello spazio di tempo compreso tra’ due detti anni. Di Pietro non ci è rimasta alcun’altra notizia. Le edizioni fatte dei suoi libri d’Agricoltura così nell’originale latino, come nella traduzione italiana , si rammentano dal Fabricio (Bibl. med. et inf. Latin, t. 1 , p. 433 5 t. 5, p. 257) e dal citato Apostolo Zeno.