Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro V

Libro V

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LIBRO QUINTO.

REGNO DI FERDINANDO IV.

(anno 1799 a 1806.)


CAPO PRIMO.

Il re Ferdinando Borbone rifacendo il governo eccede in tirannide.

I. Caduta la repubblica, finita la guerra dei campi, cominciò altra guerra più crudele ed oscena dentro la città. I vincitori correvano sopra i vinti: chi non era guerriero della santa fede o plebeo, incontrato, era ucciso; quindi le piazze e le strade bruttate di cadaveri e di sangue, gli onesti fuggitivi o nascosti, i ribaldi armati ed audaci; risse tra questi per gara di vendette o di guadagni, grida, lamenti; chiuso il foro, vote le chiese, le vie deserte o popolate a tumulto, aspetto di città mesta e confusa come allora espugnata. E la fierezza, saziata di sangue, voltasi all’avarizia, fingendo che i giacobini stessero nascosti nelle case, non lasciò luogo chiuso; e, appena aperto, vi rubava a sacco: i lazzari, i servi, i nemici e i falsi amici denunziavano alla plebe le case che dicevano dei ribelli; ed ivi non altro che sforzare, involare, uccidere; tutto a genio di fortuna. Traendo i prigioni per le vie nudi è legati, li trafiggevano con le armi, gli avvilivano per colpi villani e lordure su la faccia; genti di ogni età, di ogni sesso, antichi magistrati, egregie donne già madri della patria, erano strascinati a quei supplizii; così che i pericoli della passata guerra, la insolenza delle bande regie, le ultime disperazioni dei repubblicani, tutti i timori degli scorsi giorni al paragone delle presenti calamità parevano tollerabili. Il cardinale Ruffo, gli altri capi della santa fede ed i potenti su la plebe, validi ad accendere gli sdegni, non bastavano a moderare la vittoria.

Se descrivendo queste supreme sventure di Napoli io m’incontro nei sensi e nelle parole di Cornelio Tacito là dove rappresenta lo stato e la faccia di Roma, dopo ucciso Vitellio, sappia il lettore che avvisatamente non ho voluto fuggire la simiglianza o repetizione di quello autore gravissimo, opportuna a dimostrare che, per variar [p. 264 modifica]di tempi o di luoghi o di civili costituzioni, non varia la natura della plebe, mostro, se lo scateni, orrendo, simile a sè, indomabile; e quanto abominevol peccato fecero i tristi che a lei tolsero i freni delle leggi e della paura. Quindi tristissimi il cardinal Ruffo (per le cose narrate nel precedente libro), e l’ammiraglio inglese lord Nelson per altri più vergognosi fatti che giustizia e verità d’istoria vuol palesati. Veniva d’Egitto. l’eroe d’Aboukir, e innamoravasi, come ho detto nel terzo libro, di lady Hamilton. Costei, nata Emma Liona, di madre povera, di padre incerto, in condizione tanto scaduta che se ne ignora la patria, se non fosse nel principato di Galles in Inghilterra; poi adulta e bellissima, sola, vagante, in povertà di stato, fra costumi corrotti, menò vita sciolta e abietta sino all’età di sedici anni. E allora, venuta in possesso di certo Graham, davasi a spettacolo nello inventato letto di Apollo, nuda e coperta di velo sottilissimo, con le sembianze della dea Igea. Cento artisti ritrassero, a scuola o per lascivia, le divine forme; ed il Romney, celebre pittore, la riprodusse nelle figure di Venere, di Cleopatra, di Frine; come altri di Baccante, di Sibilla, di Leda, di Talia e della pentita Maddalena. Sotto immagini celesti e favolose bellezza vera e presente innamorò Carlo Greville della nobile famiglia Warwick; e quando egli scese da grande altezza di carica e di fortuna, Emma venne in Napoli oratrice allo zio di lui, sir William Hamilton, per ottenere ajuto di danari e permesso al nipote di sposarla, negato innanzi. Il vecchio zio, maravigliato e poi preso di amore della non più vista bellezza, concedendo al giovine parte della dimanda per prezzo dell’altra, pagò i debiti suoi e ritenne la donna. Quindi l’anno 1791 la fece sua moglie col nome di miss Harte; e così Emma, divenuta milady e ambasciadrice, scordando i principii e ’l corso della vita, prese contegno nuovo, e ’l sosteneva come fosse antico e nativo.

E quando lord Nelson si mostrò di lei pazzamente preso, la scorta regina di Napoli (che sino a quel punto avea conversato con milady da superba, come regina con donna di ventura) dechinata l’alterigia, provvida del futuro, l’avvinse a lei coi nodi tenacissimi della vanità; nella reggia, nei teatri, al pubblico passeggio Emma sedeva al fianco della regina; e spesso, ne’ penetrali della casa; la mensa, il bagno, il letto si godevan comuni: Emma era bellezza per tutte le lascivie. Al fuggire da Napoli de’ Borboni, ella imbarcata su lo stesso vascello prese cura sollecita dell’infermo principe Alberto, e il tenne in braccio sino all’ultimo spiro, sicchè la fuga, le sventure, il medesimo asilo in Sicilia doppiarono gli affetti delle due donne.

Ed allorehè la regina Carolina lesse in Palermo le capitolazioni de’ castelli, e vide svanire le sue vendette, pregò Emma, non da regina, da amica, di raggiungere l’ammiraglio che navigava inverso [p. 265 modifica]Napoli, portargli lettere sue e del re, persuaderlo a rivocare l’infame trattato che svergognava tutti i principi della terra, facendoli da meno de’ sudditi ribelli. E poi che l’ebbe infiammata de suoi desiderii, le disse: «A voi, milady, noi dovremo la dignità della corona; andate sollecita; vi secondino i venti e la fortuna.» Quindi con abbracciamenti l’accommiatò. Ella, partita sopra legno corridore, giunse a Nelson quando entrava nel golfo di Napoli. Erano le regie lettere preghevoli e ragionatrici dell’offeso decoro de’ troni, e della ventura che le sorti della sovranità stessero nelle mani dell’ammiraglio; la regina soggiungeva: «Manca il tempo a più scrivere; milady oratrice ed amica vi esporrà le preghiere; e le quante grazie vi rende la vostra Carolina.» In seno al foglio del re stava decreto che diceva:

«Non essere sua intenzione capitolare co’ sudditi ribelli; perciò le capitolazioni de’ castelli rivocarsi. Esser rei di maestà tutti i seguaci della così detta repubblica, ma in vario grado; giudicarli una giunta di stato per punire i principali con la morte, i minori con la prigionia o con l’esilio, tutti con la confisca. Riserbare ad altra legge la piena esposizione delle sue volontà, e la maniera di eseguirle.»

La fatal donna giunta sul vascello di Nelson, destata la gioja e avute le carezze del non atteso arrivo, presentò i fogli a lui, che per istinto di giustizia e di fede senti raccapriccio dell’avuto carico, e rifiutava; ma vinto dalle moine dell’amata donna, l’uomo sino allora onoratissimo, chiaro in guerra, non vergognò di farsi vile ministro di voglie spergiure e tiranne. Tornò indietro il legno dì Milady, apportatore alla regina delle nuove felici; Emma, guiderdone della vergogna, restò con Nelson. E stavano assieme quando egli, arrivato in porto, pubblicando i decreti del re, consumò, come ho accennato nel iv libro, il tradimento.

II. Duravano intanto nella città e crescevano le uccisioni e gli spogli. Dicendo a pretesto che le parti repubblicane avevano preparato la morte di trentamila della plebe con lacciuoli da strozza, i tristi andavano per le case ricercando gl’istromenti del non creduto eccidio, e dovunque per mala ventura trovassero canape o funi, vuotavano e bruciavano le case, uccidevano gli abitanti; e dicendo che i repubblicani portavano sul corpo indelebilmente disegnata la donna o l’albero della libertà, facevano spogliar nudi i giovani militari o cittadini, ed era la bellezza e grandezza della persona stimolo maggiore alla crudeltà. Nè capendo nelle carceri e nelle cave delle fortezze i prigionieri, li spartivano ne’ vasti ed insalubri cameroni de’ Granili, ed all’isola di Procida, per essere condannati da tribunale di maestà colà stabilito; dal quale, primi tra molti, perirono i generali Schipani e Spanò rammentati nel precedente libro. [p. 266 modifica]Quindi Pasquale Battistessa, gentiluomo e padre di molti figli, onesto e non caldissimo seguace di libertà, sospeso alla forva e creduto morto del capestro, si scoprì ancora vivente scendendo alla sepoltura; e fu dal boja, per comando dell’empio Speciale , scannato in chiesa di coltello, e gettato nella fossa.

L’ammiraglio Caracciolo, preso per tradimento di un servo da remoto asilo, fu chiesto da Nelson al cardinal Ruffo, e credevasi per salvare un prode tante volte compagno a’ pericoli della guerra e del mare; sì che rammentando il rancore che le arti marinesche del Caracciolo avevano talvolta concitato nell’altro, si laudava la magnanimità del vincitore. Ma questi, che sua mala fortuna e cieco amore avevano destinato alle vergogne, volle in mano il rivale per saziarsene di vendetta. E quindi al giorno stesso e sul proprio vascello adunò corte marziale di uffiziali napoletani, e ne fece capo il conte di Thurn, perchè primo in grado. La qual corte, udite le accuse, quindi l’accusato (in discorso, però che il processo scritto mancava), credè giusta la inchiesta di esaminare i documenti e i testimonii della innocenza; di che avvisato lord Nelson scrisse: «Non essere necessarie altre dimore.» E allora quel senato di schiavi condannò l’infelice Caracciolo a perpetua prigionia; ma Nelson, saputa dal presidente Thurn la sentenza, replicò «La morte.» E morte fu scritto dove leggevasi prigionia. Si sciolse l’infame concilio alle due ore dopo il mezzodi; e nel punto stesso Francesco Caracciolo, principe napoletano, ammiraglio di armata, dotto in arte, felice in guerra, chiaro per acquistate glorie, meritevole per servigi di sette lustri alla patria ed al re, cittadino egregio e modesto, tradito dal servo nelle domestiche pareti, tradito dal compagno d’armi lord Nelson, tradito dagli uffiziali, suoi giudici, che tante volle aveva in guerra onorati, cinto di catene, menato su la fregata napoletana la Minerva (rinomata ancor essa tra i navilii per le felici battaglie di lui), appiccato ad un’antenna come pubblico malfattore, spirò la vita; e restò esposto, per chi a ludibrio, per chi a pietà, sino alla notte; quando, legando al cadavere un peso a’ piedi, fu gettato nel mare.

Per il quale esempio di crudeltà infierendo i malvagi della plebe, apportarono altre morti e rovine: nulla restava di sicuro o di sacro; la vecchiezza, la tenera età, il debol sesso, i tempii, gli altari non riparavano dalla sete del sangue e delle prede. Sola speranza ponevasi nello arrivo del re, promesso da’ suoi ministri; e difatti nel giorno 30 di giugno, al comparire delle attese vele, si spiegò allegrezza nella città. Il vascello regale, però che il re volle restar su l’acque, vedevasi accerchiato di barche portanti i ministri, gli ambiziosi, i solleciti di mercedi e di cariche; e pure, fra tanti felici ed allegri, qualche famiglia onesta ed abbrunata, supplichevole per [p. 267 modifica]alcun prigioniero pericolante in causa di maestà. Ma tosto il re, infastidito, vietò l’appressamento di alcun legno, e diessi a riordinare lo stato; avendo per consiglieri il generale Acton condotto seco da Sicilia, l’ammiraglio Nelson, i suggerimenti della regina ed il proprio sdegno.

Prima legge riguardò l’annullamento delle capitolazioni. Seconda legge, la nomina di una giunta punitrice de’ ribelli, serbando ad altre ordinanze la dichiarazione de’ delitti di maestà, le pene, il procedimento. Una giunta di stato, sin dalla resa de’ castelli, era stata composta dal cardinal Ruffo; e già in breve tempo aveva condannato parecchi repubblicani. Ma per l’accresciuta ferocia dopo la vittoria, il re, confermando giudici Antonio la Rossa di mala fama nelle pratiche di polizia, ed Angelo Fiore, notato nel precedente libro tra’ seguaci del cardinale, surrogò a’ giudici antichi altri nuovi e più tristi, fra’ quali Giuseppe Guidobaldi, già noto nella giunta del 1796, fuggitivo, e tornato in patria con stuoli di scrivani e di spie; e tre magistrati di Sicilia, Felice Damiani, Gaetano Sambuti, Vincenzo Speciale, provetti nei giudizii di Procida., Terza legge rimetteva la colpa de’ lazzari nel sacco dato alla reggia, e soggiungeva che vorrebbero i sudditi, a quello esempio, rimettere la colpa e la memoria de’ danni sofferti nello spoglio della città. Altra legge scioglieva scelte conventi ricchissimi degli ordini di san Benedetto e della Certosa, incamerando i beni a pro del fisco. Que’ frati, che non avevano colpa ne’ fatti della rivoluzione, caddero per troppa ricchezza, e per avidità regia smisurata ne’ desiderii e nelle azioni.

Quinta legge ed ultima di quel giorno prescrisse l’annullamento de’ sedili e de’ loro antichi diritti, o privilegi; per lo che, a far conoscere la gravità di quelle perdite, io rammenterò per cenni rapidissimi l’origine e l’ingrandimento di quelle congreghe. Napoli, quando città greca, aveva i portici dove per allegro vivere si adunavano gli uomini sciolti di cure, i ricchi, i nobili, gli addetti alla milizia: portici, che in appresso chiamati anche seggi, sedili o piazze, erano luoghi aperti, e nessuna ordinanza impediva lo andarvi; ma i riservati costumi di quel tempo, differenti dagli arditi di oggidi, e la mancanza del terzo stato, lasciando immenso spazio tra ’l primo e l’infimo, nessun popolano aspirava al conversar di que’ seggi. Furono quattro, quanti erano i quartieri, e poscia sei; allargata la città, altri seggi minori dipendenti da’ primi sorgevano, sì che giunsero a’ 29, ma quindi aggregati e stretti a cinque, li chiamarono da’ nomi de’ luoghi, Capuano, Montagna, Nido, Porto e Portanova. Le altre città del regno, già greche, pure avevano portici o seggi, ma quando a’ soli di Napoli si diedero facoltà di stato e privilegi, quelli rimasero a documento di nobiltà e di onore. Perciocchè il primo Carlo di Angiò concesse a’ cinque seggi di [p. 268 modifica]rappresentar la capitale ed il regno, scegliere tra loro i ministri del municipio napoletano, amministrare le entrate della città, concedere cittadinanza agli stranieri che la meritassero, giudicare in alcune cause. In tal modo quelle brigate, piacevoli ed oziose, mutandosi in corpi dello stato, si congregavano in luoghi chiusi, e magnifici quanto volevano ricchezza e nobiltà delle famiglie. Le case di fresco nobili, o le altre di antica ma scordata grandezza dimandavano l’ammissione in qualcuno de’ cinque seggi, però che solo in essi stava il registro e ’l documento della signoria. I popolani, sospettosi della soverchia potenza de’ nobili, chiesero ed ottennero un seggio detto del Popolo, uguale ne’ privilegi, fuorchè di nobiltà, agli altri cinque. Ed allora un sindaco e sei eletti, uno per seggio, componevano la municipalità di Napoli; con un consiglio di ventinove, scelti nelle congreghe medesime; rammentando col numero i primi ventinove seggi della città.

Perciò Ferdinando IV, scordando i giuramenti de’ re che lo avevano preceduto al trono, e del padre, e suoi, annientò per la citata legge del 1799 il corpo municipale della città, la rappresentanza del regno, la nobiltà e signoria delle famiglie; dovendo d’allora innanzi essere una l’autorità nello stato, quella che viene dal trono; una la condizione de’ soggetti, la servitù; semplici le regole di governo, la tirannide. Pretesto a quegli eccessi fu il diritto di conquista; il re dicendo il regno riconquistato. Ma poichè da quel suo diritto discendeva la legittimità della conquista francese, ed uguale diritto nel conquistatore di ordinare a repubblica lo stato, e ’l debito e la innocenza de’ vinti all’obbedienza, e la ingiustizia e illegalità di castigare popolo innocente: il re medesimo, nel preambolo della legge di maestà, dichiarava non aver mai perduto il suo reame; essere stato, benchè in Sicilia, come sul trono di Napoli; dover quindi riguardare ogni atto de’ sudditi, se contrario a’ doveri antichi, tradimento, e se offensivo della regale autorità, ribellione. Egli era nel giorno istesso (però che le due leggi avevano la stessa data) conquistatore e vinto, fuggitivo e presente, privato del regno e possessore.

Da questi principi egli trasse le ordinanze per la giunta di stato, dichiarando rei di maestà, in primo grado, coloro che armati contro il popolo diedero ajuto a’ Francesi per entrare in città o nel regno; coloro che tolsero di mano a’ lazzari il castello Santelmo; coloro che ordirono col nemico secrete pratiche dopo l’armistizio del vicario generale Pignatelli. E rei di morte i magistrati primarii della repubblica, rappresentanti del governo, rappresentanti del popolo, ministri, generali, giudici dell’alta commissione militare, giudici del tribunale rivoluzionario. E rei di morte i combattenti contro le armi del re, guidate dal cardinal Ruffo. E reo di morte [p. 269 modifica]chi assist all’innalzamento dell’albero della libertà nella piazza dello Spiritosanto dove fu atterrata la statua di Carlo III; e chi nella piazza della reggia operò o vide il distruggimento delle immagini regali o delle bandiere borboniane ed inglesi. E reo di morte que’ che scrisse o parlò ad offesa delle persone sacre del re, della regina, della famiglia. E rei di morte coloro che avessero mostrata empietà in pro della repubblica, o a danno della monarchia.

Quarantamila cittadini, a dir poco, erano minacciati della pena suprema, e maggior numero dell’esilio; col quale si castigavano tutti gli ascritti a club, i membri delle municipalità, gl’impiegati nella milizia benchè non combattenti. E infine, chiamando colpevoli anche le guardie urbane coscritte, senza il concorso della volontà, per forza di magistrati e di legge, il re diceva giusto il loro imprigionamento, e necessario a liberarle il suo perdono. La giunta di stato nella città, i commissarii regii col nome di visitatori nelle province, punirebbero i rei tenendo in mira di purgare il regno da’ nemici del trono e dell’altare. Furono visitatori il cavaliere Ferrante, il marchese Valva, il vescovo Lodovici, i magistrati Crescenzo de Marco, Vincenzo Marrano, Vincenzo Jorio. Ad ogni visitatore fu dato un compagno ne’ giudizii; sì che tribunale di due giudici pronunziava della vita, della libertà, de’ beni di numerosi popoli.

III. Così prestabilite le scale dei delitti e delle pene, con legge detta in curia retroattiva, perciocchè le azioni la precedettero; e scelti a grado i magistrati bisognavano le regole del procedimento. Quelle de’ nostri codici non bastando al segreto ed alla brevità, furono imitate le antiche dei baroni ribelli della Sicilia, ed erano: il processo inquisitorio sopra le accuse o le denunzie; i denunziatori e le spie validi come testimonii; i testimonii ascoltati in privato, e sperimentati, a volontà dell’inquisitore, co’ martorii ; l’accusato solamente udito su le dimande del giudice, impeditegli le discolpe, soggettato a tortura. La difesa nulla; un magistrato scelto dal re farebbe le mostre più che le parti del difensore; il confronto tra l’accusato eè i testimonii, la ripulsa delle pruove, i documenti e i testimonii a discolpa, tutte le guarentige della innocenza, negate. Il giudizio nella coscienza dei giudici; la sentenza breve, nuda, sciolta dagl’impacci del ragionamento, libera come la volontà; e quella sentenza inappellabile, emanata, letta, eseguita nel giorno istesso. Ma per quanto le forme fossero brevi, essendo assai maggiore la voluta celerità delle pene, il re nominò altra giunta, detta dei generali; e ad occasione in città e nelle province tribunali temporanei e commissioni militari, le quali sul tamburo, ad horas et ad modum belli, spedissero i processi e le condanne.

Tali asprissime leggi dettava il re, quando al terzo giorno dopo [p. 270 modifica]l’arrivo scopri da lunge un viluppo che Le onde spingevano verso il vascello; e fissando in esso vide un cadavere, tutto il f’ianco fuori dell’acqua, ed a viso alzato, con chiome sparse e stillanti, andare a lui quasi minaccioso e veloce; quindi, meglio intendendo lo sguardo, conosciute le misere spoglie, il re disse, Caracciolo! E volgendosi inorridito, chiese in confuso: «Ma che vuole quel morto?» Al che nell’universale sbalordimento e silenzio de’ circostanti il cappellano pietosamente replicò: «Direi che viene a dimandare cristiana sepoltura.» «Se l’abbia», rispose il re, e candò solo e pensieroso alla sua stanza. Il cadavere fu raccolto e sotterrato nella piccola chiesa di Santa Maria la Catena in Santa Lucia; e volendo spiegare il maraviglioso fenomeno, fu visto che il corpo, enfiato nell’acqua, non più tenuto a fondo dal peso di cinquantadue libbre inglesi (misurate dal capitano Tommaso Hardy comandante del vascello dove con Nelson stava il re imbarcato, testimonio e narratore a me stesso di que’ fatti), si alzò nell’acqua e per meccanico equilibrio ne uscì dal fianco, mentre vento di terra lo sospingeva nel mare. Parve che la fortuna ordir volesse lo spavento e i rimorsi del re; ma quegli, benchè credulo e supertizioso, non mutò costume.

Tante leggi tiranniche e fatti atroci risuscitando le furie della plebe, videsi a’ dì 8 di luglio nella piazza medesima della reggia ardere un rogo, gettare in esso cinque uomini viventi, e poi che abbrustoliti (precipito il racconto) gustar le carni. E stava il re nel porto, seco Acton e Nelson, due armate nel golfo, il cardinale in città, le milizie russe ai quartieri, i capi della santa fede per le strade, o per fino presenti al sacrifizio. Quella enormità inorridì le genti, e fu l’ultima della plebe; ma peggiori se ne preparavano sotto il nome di leggi. Avvegnachè, ricevute in quei giorni medesimi da Palermo le liste di proscrizione, colà compilate dalla regina, consultando i registri antichi, le delazioni delle spie nella repubblica, le successive, gli odii proprii e del suo ministro principe di Castelcicala, il re prescrisse che i tribunali di maestà cominciassero i giudizii.

Penavano carcerati nella sola città trentamila cittadini, e poichè le antiche prigioni erano scarse, come ho detto, a tante genti, servirono al crudele offizio i sotterranei dei castelli ed altre cavi insalubri, alle quali per martirio maggiore s’interdissero le comodità più usate della vita, letto, seggia, lume arnese da bere o da nutrirsi; perciocchè supponendo nei prigionieri disperazione di vita, coraggio estremo, estremi partiti, vietavano i ferri, i vetri, i metalli, le funi; visitavano i cibi, ricercavano le persone. Preposti alle carceri furono uomini spietati, dei quali fierissimo un certo Duecce, uffiziale maggiore nell’esercito, già pieno d’anni, padre di molti [p. 271 modifica]figli; per ventura d’Italia straniero perchè nato Svizzero. Egli più che gli altri inaspriva i martorii delle catene, del digiuno, della sete, delle battiture; tornando in uso e a merito le costumanze orribili de’ tempi baronali o monastici. Seguiva per ferocità al Duecce il colonnello de Gambs preside alle prigioni di Capua, e pari ad esso Scipione Lamarra generale di esercito, non che altri parecchi, allora oscuri, e dei quali la istoria debbe scordare i nomi.

IV. Ma pure a sollievo de’ prigionieri, come a spavento del re e de’ suoi ministri, stavano le incertezze d’Italia; cioè squadre francesi ancora in Roma ed in Toscana; Genova guardata da presidio forte per numero di legioni, fortissimo del suo capo general Massena; il Piemonte corso da Lecourbe; Macdonald con oste numerosa presso ad unirsi al general Moreau; e in somma eserciti combattenti, e la fortuna, sebbene inchinasse ai troni, ancora sospesa, o, quanto ella suole, mutabile. Perciò a’ tribunali di stato furono date due liste di nomi: de condannabili a morte, e di quelli tra loro per i quali non sarebbe eseguita la sentenza prima del regio beneplacito; questi erano i capitolati. Ma per due soli, prevalendo l’odio alle prudenze dell’avvenire, la eccezione fu trasandata, e si videro pendere dalle forche il generale Massa autore delle capitolazioni, ed Eleonora Pimentel, donna egregia, poetessa tra i più belli ingegni d’Italia, libera di genio, autrice del Monitore Napoletano, ed oratrice facondissima nelle tribune de’ club e del popolo.

Avvisate le giunte de’ voleri della regina e del re, cominciarono l’iniquo uffizio; prima e sollecita quella detta di stato, la quale congregavasi nel monistero di Monte-Oliveto; e, sia per mostra d’infatigabile zelo, sia per più grande orrore o spavento, l’infame concilio giudicava nella notte. Stabilirono, per tener viva la tirannide, scrivere in ogni giovedì le sentenze, pubblicarle al dì appresso, eseguirle nel sabato; a’ soli delle capitolazioni condannati mutava il re la pena di morte in ergastolo perpetuo dentro la fossa di Santa Caterina, nell’isola della Favignana. Questa isola dei mari di Sicilia, Aegeusa de’ Latini, e fin di allora prigione infame per i decreti de’ tiranni di Roma, s’erge dal mare per grande altezza in forma di cono, del quale in cima sta fabbricato un castello. E dal castello per iscala tagliata nel sasso, lunga nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta da scarpello, incavata, che per giusto nome chiamano fossa. Ivi la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; e grave il freddo, l’umidità densa; vi albergano animali nocevoli; l’uomo, comunque sano e giovine, presto vi muore. Fu stanza di nove prigionieri, tra’ quali più noti il principe di Torella grave d’anni ed infermo, il marchese Corleto della casa de’ Riarii, l’avvocato Poerio, il cavaliere Abbamonti.

V. Comincio racconto più doloroso; avvegnachè dopo le [p. 272 modifica]battaglie della Trebbia e di Novi perdute da’ Francesi, vide il governo delle Sicilie il pieno trionfo dell’antico sul nuovo; e rompendo gli estremi ritegni della politica (perciocchè non ne aveva della coscienza) stabilì di non più attenuare alcuna pena; e da quel punto, confermando tutte le sentenze di morte, non altro restò a’ capitolati che allungar la vita di alcuni giorni come in agonia, nella spaventevole cappella de condannati. Erano morti Oronzo Massa ed Eleonora Pimentel; successe Gabriele Manthonè, che dimandato da Speciale quali cose avesse fatte per la repubblica: «Grandi, rispose; non bastevoli: ma finimmo capitolando...» «Che adducete, replicò il giudice, in vostra discolpa?» «Che ho capitolato....» «Non basta»; «Ed io non ho ragioni per chi dispregia la fedeltà de’ trattati.» Andò sereno alla morte.

Seguì a Manthonè Nicola Fiano, che, fortunato nel processo non era colpevole di morte; ed in quelle stesse barbare leggi mancava materia alla sentenza; ma per i comandi venuti di Sicilia dovendo egli morire, caso e malvagità diedero ajuto alla giunta. Il giudice lo chiamò dal carcere; e appena visto disse; «Sei tu?» E prescrivendo che fosse sciolto delle catene; rimasti soli: «Ah, Fiano, soggiunse, in quale stato io ti rivedo! quando insieme godevamo i diletti della gioventù non era sospetto che venisse tempo che io fossi giudice di te reo. Ma vollero i destini per mia ventura che stesse in mie mani la vita dell’amico. Scordiamo in questo istante io il mio ufficio, tu la tua miseria; come amico ad amico parlando, concertiamo i modi della tua salvezza. Io ti dirò che dovrai confermare e che tacere per aver merito e fede di veritiero.» Fiano di maraviglia e di amicizia piangeva; Speciale (egli era il giudice) lo abbracciava. E così come quei volle, l’altro disse; e lo scrivano, registrò le parole, ch’ebbero effetto contrario alle promesse; perciccchè il traditore fece negare le cose certe nel processo, confessare le ignote; e l’infelice andò a morte per i suoi detti. Egli era stato in giovinezza compagno a quel malvagio nelle lascivie della vita.

Francesco Conforti, uomo dottissimo, scrittore ardito contro le pretensioni di Roma, legislatore nella repubblica, pericolava della vita. Gli scritti suoi eran perduti, ma pregato da Speciale a ricomporli, gli fu detto che in gran conto si terrebbero i presenti servigi ed i passati. Ebbe miglior carcere e solitario; si affaticò dì e notte a vendicare dal sacerdozio le ragioni dell’impero; e compiuto lo scritto, lo diè al suo giudice. Il quale aprì allora il processo; e pochi giorni dopo il servigio gli diede in mercede la morte.

Tali fatti e la disperazione del vivere spinsero i prigionieri a partiti estremi. Un tal Velasco, di forza e di persona gigante, schermendosi nelle risposte al giudice Speciale, sentì da quel barbaro la minaccia che al dì seguente, in pena del mentire, lo farebbe [p. 273 modifica]strozzare su le forche. E Velasco: «Nol farai», replicò; nè compiuta la parola, sì avventò al nemico, e strascinandolo alla finestra sperava che precipitassero insieme. Lo scrivano presente lo impedì; ed accorrendo alle grida gli sgherri della giunta, Velasco andò solo al precipizio.

ll conte di Ruvo svillaneggiato dal giudice Sambuli, ruppe le ingiurie, dicendogli: «Se fossimo entrambo liberi, parleresti più cauto; ti fanno audace, queste catene», e gli scosse i polsi sul viso. Quel vile impallidito comandò che il prigioniero partisse; e non appena uscito, scrisse la sentenza che al dì vegnente mandò quel forte al supplizio. Egli, nobile, dovendo morir di mannaja, volle giacere supino per vedere a dispregio scender dall’alto la macchina che i vili temono.

Altri prigionieri nella fossa profonda del Castelnuovo tentarono il fuggire; ajutati da egregia donna, libera in città, perciocchè nel tempo tristissimo che descrivo, impediti gli uomini dal pericolo e dalla paura, le donne presero il carico di assistere gli afflitti. Elle, spregiate nelle sale de’ ministri, scacciate dalle porte delle prigioni, oltraggiate nella sventura dalle lascivie degli scrivani e de’ giudici, tolleravano pazientemente le offese; e senz’ardire o viltà, tornavano il dì seguente alle medesime sale, alle medesime porte, a dissimulare le patite ingiurie colla modestia e col pianto. Se alcuno sfuggì dalla prefissa morte, o se di altri scemò la pena, fu in mercè delle cure e della pietà delle donne. Delle quali una, per fatica e per cimenti, fece penetrare nella fossa lime, ferri, funi, altri stromenti; architetto della impresa il matematico Annibale Giordano, rammentato nel III libro; gli altri, addetti a segare i cancelli ed a comporre gli ordegni per discendere al sottoposto mare della darsena, dove piccola preparata nave li accoglieva. E già stando sul termine il lavoro, si allegravano della speranza di libertà que’ prigionieri, diciannove di numero, ma di virtù smisurata; però che tra loro vedevi Cirillo, Pagano, Albanese, Logoteta, Baffi, Rotondo; quando nel pieno della notte, schiuse le porte, videro entrare nella fossa Duecce, un giudice di polizia, birri, sgherri, altre genti; e i due primi andar dirittamente dove stavano sotterrati. gl’istromenti, e poi ad una cava ed a’ cancelli, cammino disposto al fuggire; non come uomini che van dubbiosi, ma spediti e certi. Avvegnachè due de’ prigioni, lo stesso Annibale Giordano, provetto ne’ tradimenti, e Francesco Bassetti generale della repubblica, palesarono al comandante del forte le avanzate pratiche in premio di salvezza. E difatti diciassette subirono infima sorte; i due vissero vita infame, corta il Bassetti, lunga e non misera il Giordano.

Continuavano i giudizii. Il giudice Guidobaldi, tenendo ad esame il suo amico Niccolò Fiorentino, uomo dotto in matematiche, in [p. 274 modifica]giurisprudenza, in altre scienze, caldo ma cauto seguace di libertà, schivo di offici pubblici, e solamente inteso per discorsi e virtuosi esempii ad istruire il popolo, Guidobaldi gli disse: «Breve discorso tra noi; di’ che facesti nella repubblica? — Nulla, rispose l’altro, mi governai con le leggi o con la necessità, legge suprema.» E poichè il primo replicava che i tribunali non gli accusati dovessero giudicare della colpa o della innocenza delle azioni, e mescolava nel discorso alle mal concette teoriche legali, ora le ingiurie, ora le proteste di amicizia antica, e sempre la giustizia, la fede, la bontà del monarca, il prigioniero, caldo di animo ed oratore spedito, perduta pazienza, gli disse: «Il re, non già noi, mosse guerra ai Francesi: il re ed il suo Mack furono cagioni alle disfatte; il re fuggì lasciando il regno povero e scompigliato; per lui venne conquistatore il nemico, e impose a’ popoli vinti le sue volontà, Noi le obbedimmo, come i padri nostri obbedirono alle volontà del re Carlo Borbone; che la obbedienza de’ vinti è legittima perchè necessaria. Ed ora voi, ministro di quel re, parlate a noi di leggi, di giustizia, di fede? Quali leggi? quelle emanate dopo le azioni! Quale giustizia? il processo secreto, la nessuna difesa, le sentenze arbitrarie! E qual fede? la mancata nelle capitolazioni dei castelli! Vergognate di profanare i nomi sacri della civiltà al servizio più infame della tirannide. Dite che i principi vogliono sangue, e che voi di sangue li saziate; non vi date il fastidio dei processi e delle condanne, ma leggete su le liste i nomi dei proscritti e uccideteli; vendetta più celere e più conforme alla dignità della tirannide. E infine, poichè amicizia mi protestate, io vi esorto ad abbandonare il presente uffizio di carnefice non di giudice, ed a riflettere che se giustizia universale, che pure circola su la terra, non punirà in vita i delitti vostri, voi, nome abborrito, svergognerete i figli, e sarà per i secoli a venire la memoria vostra maledetta.» L’impeto del discorso consegui che finisse; e, finito, fu l’oratore dato ai birri, che stringendo spietatamente le funi e i ceppi tante piaghe lasciarono sul corpo quanti erano i nodi; ed egli, tornato in carcere, narrando a noi que’ fatti, soggiunse (misero o veritiero indovino) che ripeterebbe tra poco quel racconto a’ compagni morti.

Mario Pagano solamente disse ch’egli credeva inutile ogni difesa; che per continua malvagità di uomini e tirannia di governo gli era odiosa la vita, che sperava pace dopo la morte.

Domenico Cirillo, dimandato della età, rispose sessant’anni; della condizione, medico sotto il principato, rappresentante del popolo nella repubblica. Del qual vanto sdegnato il giudice Speciale, dileggiandolo disse: «E che sei in mia presenza?... — In tua presenza, codardo, sono un eroe!» Fu condannato a morire. La sua fama e l’aver tante volte medicato il re, e i reali trattenevano l’iniquo [p. 275 modifica]adempimento della sentenza; pel qual tempo Hamilton e Nelson facendoli dire nelle carceri che s’egli invocasse le grazie del re le otterrebbe, quel magnanimo rispose aver perduto nello spoglio della casa tutti i lavori dell’ingegno, e nel ratto della sua nipote, donzella castissima, le dolcezze della famiglia e la durata del nome; che nessun bene lo invitava alla vita, e che aspettando quiete dopo la morte, nulla farebbe per fuggirla, E l’ebbe sulle forche insieme a Mario Pagano, Ignazio Ciaja e Vincenzo Russo: tanta sapienza, c tanti studii, e tanto onore d’Italia distruggeva un giorno. La plebe spettalrice fu muta e rispettosa, poi dicevano che il re, se non fosse stato sollecito il morir di Cirillo, gli avrebbe fatta grazia; ma quella voce menzognera e servile non ebbe durata nè credito.

VI. Sarebbe lungo e doloroso uffizio discorrere a parte a parte le opere malvage dei tiranni, le commiserevoli degli oppressi; e però a gruppi narrerò molti casi spietati e ricordevoli. Morirono de’ più noti del regno intorno a trecento, senza contare le morti nei combattimenti o pei tumulti; e furono dell’infelice numero Caraffa, Riario Colonna Caracciolo, cinque Pignatelli (di Vaglio, di Strongoli, di Marsico). ed altri venti almeno di illustre casato; a fianco ai quali si vedevano uomini chiarissimi per lettere o scienze, Cirillo, Pagano, Conforti, Russo, Ciaja, Fiorentino, Baffi, Falconieri, Logoteta, de Filippis, Albanese, Bagni, Neri ed altri assai; poscia uomini notabili per sociali qualità, i generali Federici, Massa, Manthonè, il vescovo Sarno, il vescovo Natale, il prelato Troise; e donna rispettabile la Pimentel, e donna misera la Sanfelice, Non vi ha città o regno tanto ricco d’ingegni che non avesse dovuto impoverirne per morti tante e tali. Ed a maggior pietà degli animi gentili rammenterò che si vide troncato il capo ai nobili giovanetti Serra e Riario che non compivano il quarto lustro, ed a Genzano che appena toccava il sedicesimo anno; per il quale si avverò fatto incredibile. Solo, di casa ricchissima e patrizia, bello di viso e di persona, speranza di posterità, morì dal carnefice; ed il padre di lui, marchese Genzano, troppo misero, o schiavo, o ambizioso, o mostro, dopo alcune settimane della morte del figlio convitò a lauto pranzo i giudici della giunta.

Altro spettacolo miserabile era la povertà delle famiglie; i beni stavano incamerati o sequestrati dal fisco, le case vote perchè spogliate nel sacco, il credito spento nella nudità di ogni cosa, ed i soccorsi dei parenti e degli amici consumati nella prigionia e nei maneggi del processo dall’avidità degli scrivani e dei giudici, Era vietato per legge parlare ai prigionieri, o saper delle accuse, o accedere ai magistrati; ma tutto diventò venale; la pietà, la giustizia stavano a prezzo. E però famiglie agiate sino a quel giorno stentavano la vita, e spesso accattavano ii nutrimento. [p. 276 modifica]zione dei beni de’ ribelli furono preposti Uomini spietati, che in quei bisogni dell’erario incassavano le entrate, vendevano i beni, trasandavano il sostenimento delle famiglie. La vecchia principessa della.... (mi sia concesso in questa età velarne il nome) viveva poveramente per la carità di un servo.

VII. Cominciò il processo della Sanfelice, di quella donna che fu cagione dello scoprimento della congiura di Baker. Il giovine Ferri era morto in guerra, o fuggito in Francia, ed i congiunti degli uccisi Baker dimandavano vendetta a’ tribunali di stato e nella reggia; che non baslando a consolarli tutto il sangue che si versava per la monarchia, ne chiedevano per la famiglia. La misera donna, vergognosa dell’offesa pudicizia (che pure il corrotto secolo perdona), fu menata in orrendo carcere, e per la legge che diceva reo di morte chi avesse mostrata empietà in pro della repubblica, fu ella condannata a morire; e subito moriva se non diceva di esser gravida. Osservata e creduta, fu sospeso il supplizio. ed allora il re da Palermo ne rimprocciò per lettere la giunta, dicendo inventata la scusa e sedotti gli esperti; e quando per secondo esame si confermò il primo avviso, comandò che la donna fosse menata in Sicilia per essere osservata dai medici della casa; ma in Palermo, accertata la gravidanza, fu chiusa in carcere aspettando il primo giorno di vita per la prole, ultimo per la madre.

Altro processo di’grido riguardava gli uffiziali della marina: l’ammiraglio Caracciolo era spento; ma una morte non consolando i molti sdtegni prodotti dalle guerre di Procida, di Castellamare, del Ponte della Maddalena, la regina comandò da Palermo che la giunta scegliesse quattro de’ più felloni per farli morire; mandasse gli altri a pene minori, compiesse ormai quel processo, troppo lungamente trattenuto, con grave danno dell’esempio, e lamentanze de’ fedeli servi del re. L’infame congresso, consultando, disegnò le vittime, tra le quali il capitano Sancaprè tenuto nelle prigioni di Santo Stefano, isola presso Gaeta. Prefisse il giorno per il giudizio, i venti tardavano arrivo all’isola della nave ed il ritorno col prigioniero; ma non però fu contraddetta la volontà della regina o differita la sentenza, imperciocchè gl’iniqui giudici surrogarono al fortunato Sancaprè il capitano Luigi Lagranalais che per le prime condanne andava in bando. Nè fu quello il solo esempio di servile obbedienza. Flavio Pirelli egregio magistrato, imprigionato, e per dimostrata innocenza fatto libero dalla giunta, andò per lettere del re a perpetuo confino in Ariano; Michelangelo Novi condannato al bando dalla giunta, fu chiuso, per comando venuto da Palermo, in ergastolo a vita; Gregorio Mancini sbandito per quindici anni, già preso commiato dalla moglie e da’ figli, e in nave per partire, trattenuto per nuovi ordini del re, morì al seguente giorno su le forche. [p. 277 modifica]

Non appena finita la causa detta della marina, si aprì quella della città. Carichi gravi sì addossavano a que’ nobili: disobbedienza al vicario del re; usurpato impero; nuovo governo sul decadimento della monarchia e della casa de’ Borboni; impedimenti al popolo nel difendere la città; ajuti alle armi nemiche; molte fellonie in un fatto, Era tribunale in quel giudizio la stessa giunta di stato, aggrandita di alcuni giudici straordinarii, scelti dal re tra magistrati di alto grado e suoi ministri; lo stesso il procedimento, nè variavano le pene. La intera nobiltà tremava; che sebben fossero intorno a venti gli accusati, erano timorosi per legami di sangue innumerevoli. Avevano in difesa i privilegi antichi; gli assalivano i fatti presenti ed i tempi. In cinque giorni fu spedito il giudizio; dal quale pochi andarono liberi, molti puniti di prigionia o di confino su l’isole della Sicilia, un solo condannato a morte, il duca di Monteleone, personaggio illustre in Europa, in America, ricco oltre i termini di privata fortuna, marito, padre, venerato per qualità di animo e di mente. E tal uomo dal carnefice moriva se lettere del papa Pio VI, preghevoli al re, non avessero impetrata grazia ed ottenuto che mutasse la morte in prigionia perpetua nell’isola di Favignana. Andarono alla pena i condannati, e tra loro il giovine principe di Canosa, dichiarato fellone perchè propose, come altrove ho riferito, il mutamento del principato in aristocrazia; tre degli otto giudici, più severi lo punivano di morte; gli altri benigni, perdonando la inezia del voto, lo castigarono di soli cinque anni di carcere.

La giunta de’ generali preseduta dal luogotenente generale de Gambs, e i consigli detti subitanei, e i visitatori nelle province, gareggiavano a rigor di condanne con la giunta di stato, e ne erano vinti; non che avessero sensi più miti di giustizia, ma perchè i principali tra colpevoli erano affidati alla certa perfidia della prima giunta. Coi processi di sangue processi minori si espedivano, condannando alle prigioni, al confino, ed in grande numero all’esilio; vedevi fra gli esiliati vecchi infermi e cadenti, giovanetti o fanciulli che non passavano l’età di dodici anni, donne matrone e donzelle; e tutta questa innocenza castigata, chi per aver tagliata la coda dei capelli o cresciuti i peli del mento, chi per avere assistito a repubblicana cerimonia, le donne per avere accattato limosine ai feriti ed agli infermi. Nè mancò in tanta licenza di pene la spinta degli odii o delle avarizie private, mandando in esilio, sotto pretesto di ragione di stato, il nemico, il creditore, l’emulo, il rivale; per lo che si tollerarono traditori o spie i servi, le domestiche persone, gli amici, i congiunti, il fratello, la moglie. I costumi già fiaccati dalle condizioni antiche del regno e dalle più recenti narrate nei primi libri di queste istorie, caddero affatto in quell’anno 1799 [p. 278 modifica]sotto innumerabili esempii di virtù punita e di perversità rimunerale.

VIII. Imperciocchè mentre la tirannide abbatteva i migliori, innalzava gli empii e li arricchiva di doni e di fregi chiamati onori, comunque a vergogna si volgessero. Al cardinal Ruffo il re diede in benefizio la badia di Santa Sofia con l’entrata di nove mila ducati, perpetua nella famiglia, ed altre terre che fruttavano quindici mila ducati, a pieno e libero possesso, e l’uffizio di luogotenente del regno con lo stipendio di ventiquattro mila ducati all’anno; largità nuove, solamente possibili dove gli affetti del re sono leggi allo stato. Lettere che accompagnavano i doni esprimevano la regia benevolenza e la gratitudine per il ricuperato regno. Altre lettere dell’imperatore delle Russie Paolo I dicevano al cardinale che per la brillante impresa delle Calabrie egli nel mondo era segno di ammirazione ai virtuosi, perciò lo nominava cavaliere degli ordini di Santo Andrea e Santo Alessandro; ad un fratello del cardinale, capitano in ritiro, fu dato il grado di colonnello e pensione di tre mila ducati all’anno; i vescovi di Capaccio e di Policastro ebbero benefizii ecclesiastici e doni, terre, pubblici offizii; il cavaliere Micheroux ottenne grado di maresciallo e splendido impiego in diplomazia, e ricchi stipendii; il de Cesare, servitor di livrea in Corsica, falso duca di Sassonia in Puglia, fu generale; Pronio, frà Diavolo, Mammone, Sciarpa e tutti capi delle bande regie, nominati colonnelli, baroni la più parte; e insigniti dell’ordine costantiniano, arricchirono di pensioni e di terre.

Si diffuse la gratitudine ai primi delle milizie turche e russe per doppii stipendii e larghi doni. N’ebbe più grandi il cavaliere Hamilton; e in quanto ad Emma prese la regina cura diligentissima di mostrare la riconoscenza dei Borboni. Per onorare lord Nelson fu ordinata in Palermo festa magnifica in una sala della reggia, rappresentante il tempio della Gloria; dove entrando l’ammiraglio, incontrato dei reali, era dalla mano del principe di Salerno coronato di alloro. E al punto istesso gli dava il re spada ricchissima e foglio che lo nominava duca di Bronte, con la entrata annuale di sei mila once (lire francesi settantocinque mila). Bronte è piccolo villaggio ai piedi dell’Etna presso Catania, scelto per la favola del nome. In Roma gli artisti di scoltlura volevano ergere a proprie spese una colonna rostrata per il duca di Bronte. I quali premii ed onori, debiti o forse pochi al vincitore di Aboukir, erano indegni al Nelson di Napoli; e frattanto i regi ed i popoli che solamente di alcune lodi furono larghi all’eroe di Egitto, ora dedicavano monumenti eterni all’uccisore del Caracciolo, all’invilito amante di un’adultera, al mancatore della pubblica fede, al braccio potente della [p. 279 modifica]tirannide. Qui, cioè in queste vilezze della Italia, risiede la principal cagione delle sue miserie.

IX. Ricompense maggiori furono date col formare del nuove esercito: erano le milizie antiche disciolte, le repubblicane proscritte e abborrite, le bande regie disordinate da innumerevoli uffiziali, nessuni o pochi soldati. Il cardinale, nel principio della guerra, per non iscontentare i seguaci suoi aveva tollerato che ciascuno ponesse il più gradito segno della milizia; e perciò i capi presero il grado di colonnello, o non più alto perchè mancava nelle province dove il tempo e dove l’arte a’ ricami di generale; ma parecchi tra loro, Pronio, Mammone, Rodio, se ne davano il nome. Un tal Carbone, solamente soldato del vecchio esercito, ed un tal Nunziante foriero, carpirono il grado di colonnello; altro soldato, di nome Pastore, si disse, con più modestia, maggiore; tutti i fratelli di frà Diavolo, uomini di marra o di arti abbiette, comparvero capitani; ed oltre a’ su detti, altri colonnelli, maggiori ed uffiziali di tutte le armi, come volle vaghezza o caso, andavano a folla. Poi succedendo agli abiti esterni le ambizioni, quegl’idioti, per bassezza di natali e di costume disadatti al nobile mestiero delle armi, pretendevano serbare nel nuovo esercito gli assunti gradi. Tra le quali sregolatezze d’interessi e di voglie, bisognando arti sottili a ricomporre l’esercito, tenuto consiglio dove il cardinale Ruffo espose veracemente la mala indole dei predoni che lo avean seguito, il re dettò parecchie ordinanze o dispacci, che in complesso dicevano:

«Poichè la guerra del 1798 fu perduta per tradimento di molti uffiziali dell’esercito, noi vogliamo che que’ ribelli (sia che malamente servissero, sia che pigliassero impiego militare o civile nella repubblica) restino esclusi dalla milizia.

Sarà riputato reo di maestà chiunque servì quello illegittimo reggimento; e più reo, se nelle armi; e peggio, se guerreggiando contro le nostre insegne; e reo di morte, se, spinto da perfidia e ostinatezza, ne tornò ferito.

Ma volendo dare alcuno sfogo alla nostra natural clemenza, e qualche perdono alle giovanili sconsideratezze, ed alcuna mercede al ravvedimento, vogliamo che sieno raccomandati alla nostra grazia quegli uffiziali che, obbligati da povertà, per bisogno di vita, servirono i ribelli, rifiutando bensì di combattere contro le nostre insègne; o che all’aspetto di esse disertarono o che per maggior fede e ravvedimento, uniti alle truppe regie, si volsero contro i nostri nemici. E vogliamo che sieno riammessi al regal servizio quegli altri, che stando al comando di alcun forte per la repubblica, lo deposero in mano delle milizie nostre o de’ nostri alleati.

«E dopo di aver così provveduto agli uffiziali del passato [p. 280 modifica]esercito, comandiamo che nel nuovo figurino da primi coloro tra nostri sudditi che militarono per la causa del trono; rimettendo le colpe della lor vita precedente, o le azioni forse biasimevoli nella riconquista del regno; imperciocchè solamente in essi risguardiamo e rimeritiamo i servigi resi alla nostra causa. Saranno perciò colonnelli i capi delle bande regie, e uffiziali (sino ad alfiere) coloro che in quelle bande combatterono distintamente. E acciò sieno i premii quanto i meriti, dichiariamo casi meritevoli, essere stato primo in un comune a prender l’armi, aver concitato alla guerra i cittadini, aver guidato numerosa banda o fatte imprese notabili, e dichiariamo casi più meritevoli l’aver congiurato contro il nemico, ed arrecatogli maggior danno per mezzi manifesti o secreti.»

Alle quali ordinanze succedevano i provvedimenti per ascriver soldati; e fu necessità comporre molti battaglioni sciolti o volontarii, perchè i guerrieri della santa fede negavano di tornare al faticoso esercizio della marra, o piegarsi alle discipline della milizia.

X. A molte giunte borboniane, con le rapportate ordinanze del re, fu data incombenza di scrutare le opere degli uffiziali del vecchio esercito; e poichè a’ rigori de’ provvedimenti si univa l’animo avverso di que’ giudici, ne derivò che a pochi fosse dato scampar la morte, o la prigionia, o l’esilio. E quando per un consiglio di guerra subitaneo mori il general Federici che aveva combattuto per la repubblica, e da un altro consiglio fu morto il maggiore Eleuterio Ruggieri in pena di aver sul corpo due margini freschi e sanguigni, sorsero per salvezza di vita menzogne infinite e vergognose. Altri diceva esser fuggitivo dalla battaglia, altri comprava da’ capibanda della santa fede falso accertamento di aver disertate le bandiere della repubblica, altri otteneva scrivere il nome ne’ registri di Baker, o di Tanfani, o del Cristallaro, comprando a ricco prezzo la infamia del non vero tradimento; ed altri nascondeva i segni di onorate ferite, o le copriva del disonore, dicendole prodotte da sventurata lascivia. Lettere false, falsi documenti, testimonii bugiardi, seduzioni, pervertimenti, eran continui; tutte le idee dell’onore volsero indietro; il più saldo legame degli eserciti fu rotto. Non avevano le giunte guida miglior a’ giudizii che i fatti della repubblica, supponendo traditori al re gl’impiegati da lei, e fedeli i negletti; e poichè quel governo aveva impiegato i valorosi, trascurato i codardi, le virtù militari ebbero castigo, la viltà ebbe premio.

E poco appresso a questi fatti, messe ad esame le azioni de’ generali dello esercito di Mack, e dei comandanti delle rese fortezze di Gaeta, Pescara, e Civitella, il generale Micheronx, battuto a Fermo e tornato indietro lasciando vuota la frontiera, fu assoluto e [p. 281 modifica]laudato; i generali Mech e Sassonia partirono da Sicilia pieni di doni; Bourcard, de Gambs, Naselli, riassunsero i passati offizii; il tenente-colonnello Lacombe, timido comandante di Civitella, fu libero di pena e poco appresso alzato a colonnello; il colonnello Prichard ebbe la sorte istessa, ed avanzò a brigadiere; il maresciallo Tschiudy godevasi nell’ozio gli stipendii e l’autorità del grado. Eppure cotesti comandanti di fortezze, cagion prima e sola della invasione francese, avevano mancato, oltracchè all’arti ed al valore di guerra, al giuramento di guardar quelle mura; e però la codardia come che vera non iscusava le colpe. Se fossero stati Napoletani prodi, nobili, pieni di merito e di servigi, sariano morti sul palco; ma stranieri, carichi d’anni di servitù, inviliti nella reggia, non davano sospetto di tradimento; esizial nome, creduto o trovato per coprire tutti gli errori, tutte le sfrenatezze della tirannide.

Si ricomponevano con l’esercito le altre parti dello stato, e tutte le opere del governo consigliava il genio maligno di vendetta. Erano gli antichi uffiziali timorosi, gli aspiranti audaci, nè tutti i commilitoni del cardinale volevano posto nella milizia; molti bramando cariche civili e riposate. Quel Dechiara, già capo dei repubblicani, che diessi, come ho riferito nel IV libro, con la città di Cosenza e le sue schiere alle armi di Ruffo, andò preside della provincia nella stessa città spettatrice del tradimento; i congiurati con Baker, con Tanfani, col Cristallaro scacciarono da ogni uffizio numero grande d’impiegati antichi. Fu rifatto lo stato e benchè sopra basi non giuste, meglio addicendosi alla natura del popolo e dei reggitori, uscì più forte il governo dalle sue rovine; ma forte della sovversione degli statuti antichi, e dell’innalzamento di uomini ed ordini moderni; da che derivava stato, come di conquista, commosso ed incerto sino a quando quel nuovo non diventasse antico: successo possibile, ma che abbisogna o di gran tempo, o di gran senno e virtù di governo.

CAPO SECONDO.

Imprese guerriere del governo di Napoli.

XI. Il re nel ristabilire il governo eccedè nella tirannide, parola che profferisco con fastidio, imperciocchè i leggitori (o più i posteri che i contemporanei, testimonii ancora essi delle cose descritte) potrebbero sospettare che io scrivessi con odio; trovandone le ragioni nel mesto esilio dalla mia patria, e nelle presenti miserie della vita. Ma non potendo con altra voce rappresentare al giusto quelle leggi, quelle opere, que’ giudizii, quelle morti del 1799, aspetterò tempi più miti, e ’l ritorno a reggimento schivo, almeno, dalle ultime [p. 282 modifica]acerbità del comando e della estrema pazienza nel soffrire, per dismettere gli odiosi nomi di tirannide, di tiranni, di schiavitù, di servi. Le cose riferite nel precedente capo avvennero in presenza del re, che stava sopra vascello inglese nel golfo di Napoli, donde sciolse il dì 4 di agosto per Palermo, dicendo con editto: aver egli vinto, per gli ajuti di Dio, de’ suoi alleati e de’ suoi popoli, nemico fortissimo di armi e di tradimenti; esser quindi venuto a premiare i meritevoli, a punire i ribelli, non essendo mai stata sua intenzione capitolare con essi; ma la giustizia non comportando la cessazione de’ castighi, nè il suo regal animo, dalle ricompense, aver egli ordinato il proseguimento de’ giudizii di stato, e ’l più ampio esame de’ servigi resi dalle comunità o dalle persone. Quindi nel tenersi lontano poco tempo dalla fedelissima città di Napoli, confidare la sicurezza e la quiete del regno agli ordini ristabiliti, all’autorità dei magistrati, alla forza delle milizie, ma soprattutto alla fede sperimentata de’ soggetti. Serbassero dunque intatta o accrescessero l’acquistata gloria, come egli serberà costante il pensiero della loro prosperità, e come spanderà sopra i meritevoli generosa mercede e benefizii.

1l vascello inglese, retto da Nelson, sciogliendo con prospero vento, ricondusse il re a Palermo dove fu accolto fra feste sino allora non viste, quasi re che scampato da pericoli ritorni da guerra fortunata e portando pace. Aspettava tempo il destino di volgere in pianto vero le gioje adulatrici di quel popolo, e pianto prodottogli dall’uomo istesso e dalle sue ferità che pazzamente festeggiavano. Se dove mancano forze o sono sceme, la universale scontentezza si manifestasse per mestizia e disertando i luoghi dove si aspetta l’uomo abborrito, quella collera muta sarebbe sincera e convenevole a dignità di popolo; ma la virtù del silenzio, comunque facile e sicura, è tenuta insopportabile dagli uomini molli e corrotti della nostra età. Cosicchè Ferdinando applaudito in Sicilia l’anno 1799 della tirannide esercitata su i Napoletani, e poi da questi l’anno 1816 della servitù ricondotta in Sicilia, vide l’agevolezza di soggiogare i due popoli stolti.

Ma non i premii o le promesse del re, nè la disciplina ormai tardiva del cardinale bastavano a moderare i borboniani nella città; le sfrenatezze, a capriccio di plebe, crescevano o scemavano; cedevano talvolta da stanchezza, e risorgevano maggiori per lievi occasioni o mal talento. Bisogno di guerra esteriore venne opportuno ad allontanare dal regno quelle torme per menarle a Roma, con la speranza nel re di cacciarne i Francesi, e ne’ guerrieri cristiani di spogliare la città santa e tornar pieni di novello bottino. Mossero sotto l’impero di Rodio che si chiamava negli editti gererale dell’esercito della santa fede e dottore dell’una e dell’altra legge, [p. 283 modifica]accompagnati da poche milizie ordinate e da parecchi squadroni di cavalieri che il colonnello Roccaromana comandava: Sciarpa, Pronio, Nunziante, Salomone, fra Diavolo, menavano senza gli ordini militari quelle genti, dodici migliaja; ma che variavano quando per i Romani che ad esse univansi, e quando per diserzioni da’ campi. Presero stanze, dopo leggieri azzuffamenti, ad Alfano e Frascati, correndo la sottoposta pianura verso Roma, dove il popolo tumultuava perchè pochi Francesi presidiavano la vasta città, e le insegne cristiane con la pompa della croce sventolavano a vista delle mura; ed il generale Rodio teneva pratiche interne per mezzo di un tal Giuseppe Clary, Romano, venuto partigiano al suo campo. Crescendo d’ora in ora i pericoli del presidio, esposto a doppia guerra, esterna e civile, il generale Garnier, ordinate nella notte del 10 di agosto le squadre assalitrici del campo borboniano e le guardie della città, uscì per due porte a’ primi albori; e con le arti di vecchia milizia e l’ardor francese, raddoppiando alle viste ed alle opere il numero de’ combattenti, fugò i primi posti, fugò i secondi: accrebbero i fuggitivi lo spavento e ‘l disordine; tutta l’oste cristiana, inabile all’aperto, confusamente si riparò nelle frontiere di Napoli: e Garnier, poste alcune guardie ad Albano e Frascati, tornò in Roma tra i plausi moribondi de’ repubblicani.

Imperciocchè le squadre alemanne che avevan preso per capitolazione la piccola città di Civita Castellana, e le squadre inglesi che stringevano di assedio Civita Vecchia, e milizie nuove ed ordinate che sotto il generale Bourcard erano venute da Napoli, strinsero la città di Roma ed obbligarono Garnier a trattare la cessione d’essa e dei castelli che nello stato romano i Francesi guardavano. Fu segnato l’accordo il 27 di settembre, con patti dei quali credo memorabili i seguenti:

«Libero ai Francesi di tornare in patria, non prigioni di guerra: libero ai partigiani loro di seguirli o restare in Roma sicuri delle persone e delle proprietà; i fatti di repubblica rimessi ed obliati; consegnata Roma alle schiere ordinate napoletane, Civita Vecchia alle inglesi; sgombere di Francesi le terre di Roma per il di 4 di ottobre, quelle milizie ritirandosi con gli onori di guerra.»

Mantenuta d’ambe le parti la capitolazione, il generale Garnier con indirizzo ai Romani disse: «La non mai ferma fortuna della guerra mi ha forzato agli accordi col nemico; voi troverete nel trattato nuovi documenti della lealtà repubblicana, e vedrete che ho in cuore gl’interessi di voi Romani quanto di noi Francesi; debitamente, perchè abbiamo causa comune alle venture o alle disgrazie. I fatti della repubblica romana sono rimessi e obliati, le persone sicure, i benefizii certi; qualunque di voi vorrà seguire le insegne francesi avrà ciò che è debito alla ospitalità e all’infortunio; [p. 284 modifica]chi resta su la fede de’ trattati, starà sicuro. Voi rassegnatevi alle nuove sorti; obbedite alle autorità che imperano.» E Bourcard annunziava con editto che sarebbero mantenute le capitolazioni, obliati i fatti della repubblica, punite solamente le nuove colpe ma con asprezza. Fossero le armi deposte e consegnate, sciolte le compagnie di guardia urbana, dissipati i segni della repubblica.

XII. Ai 30 di settembre uscivano di Roma le milizie francesi, entravano le napoletane; dietro alle prime molti Romani fuggitivi, e alle seconde stuoli della santa fede. Frattanto nella notte furono abbattuti gli alberi della libertà, e si videro nel giorno innumerevoli divise sacerdotali sino allora nascoste. Sopra il castello Santangelo e su le case pubbliche fu innalzata la bandiera di Napoli, ed alle porte chiuse del Vaticano e del Quirinale apposti i sigilli regii: l’impero pontificale non aveva segno. Un solo albero di libertà stando ancora elevato nella piazza del Vaticano, volle il generale Boureard atterrarlo con pubblica cerimonia; e atterrato, bruciarlo, e bruciato, dissiparne le ceneri. Ma la festa girò in tumulto, imperciocchè a quegli atti di odio e di vendetta della suprema autorità, destati gli odii e le vendette dei popolani trascinarono per la città il busto in marmo di Bruto, percossero molti partigiani di repubblica, spogliavano le case, rubavano per le strade; sino a che, sciogliendo la cerimonia dell’albero, le milizie schierate a mostra nel Vaticano non corsero a pattuglie la città e vi tornarono la quiete.

L’impero di Bourcard presto cadde nel generale Diego Naselli, principe di Aragona, venuto, di Napoli nell’ottobre col carico e il nome di comandante generale militare e politico negli stati di Roma, e udita in que’ medesimi giorni la morte di Pio VI, e perciò vacante la sedia pontificale, si aspettavano le prime voci dell’autorità dell’Aragona rimasta sola e suprema. Udironsi, e terribili; avvegnachè per editto del 9 di quel mese, manifestato il potere comunicatogli dal re di Napoli conquistatore di Roma, si diceva mandato ad ordinare lo stato ed a far disparire i segni e le memorie della infame repubblica, e purgare quella parte d’Italia della peste desolatrice di democrazia. Traspariva fra le minacce il timore, amplificando le proprie forze, e le altre in cammino tedesche, russe, turche, inglesi, pronte ad opprimere i ribelli. Temeva perciò il reggitore; ma lui, timido e potente, più temevano i soggetti.

E in fatti per novelli editti scacciò di Roma precipitosamente i forestieri, minacciando di morte i contumaci o lenti, e quei Romani che li ajutassero alla disobbedienza; mandò in esilio senza esame o giudizio cinque notai che avevano rogato l’atto della deposizione di Pio VI dal trono temporale; e dipoi altri parecchi, sol perchè impiegati o partigiani della repubblica davano con la presenza scandalo e noja ai riguardanti; empiè le carceri di onesti cittadini, tra’ [p. 285 modifica]quali si citava per costumi purissimi ed alto merito il conte Torriglioni di Fano. E imperversando, come avviene ai focosi, mandò per la città a dorso d’asino, accerchiati di sgherri e plebe scostumatissima, i nominati Zaccaleoni e de Matteis, uomini virtuosi, ultimi consoli della romana repubblica, e dietro ad essi altri trentacinque, noti per buone opere nello stato. Incamerò i beni de’ fuggitivi, de’ condannati, degli assenti, dei puniti ad arbitrio; avvegnachè negli editti suoi, trattando di castighi o di ammende, usava fissarne i limiti «nel nostro arbitrio»; e per eternare quei travagli compose la polizia, moltiplicò i birri e le spie, creò tribunale di stato che giudicava con le regole della giunta di Napoli. Allo spettacolo di tanta ingiustizia nei supremi del governo, si rompevano i già deboli freni della plebe e delle milizie; quindi i Romani tenuti partigiani della repubblica erano in molte guise travagliati dai pessimi del popolo, da parecchi della santa fede, e (rendasi alla verità pieno trionfo e doloroso) da taluno dell’esercito napoletano, i quali tutti spogliavano le case e le botteghe, profanavano per lascivie la santità delle domestiche mura, ingiuriavano, percuotevano, uccidevano per fino i resistenti alla loro malvagità.

Mentre durava stato sì misero, come che l’Aragona lo chiamasse riordinamento, egli rifaceva le leggi per la giustizia ordinaria, per la finanza, per l’amministrazione; sempre a nome del re di Napoli, scordando affatto il pontefice, e imitando gli statuti e le forme del governo del regno, ed anzi prescrisse che a non altro impero dovessero i popoli obbedire se non a quello che cmanava da S. M. siciliana. Creò tribunale col nome di Reggenza di Giustizia per le cause civili, ed altro di Reggenza di Polizia per le criminali; le due reggenze congregate in un sol magistrato, rappresentavano, per imitazione, la gran corte della vicaria napoletana. Così, tribunale novello, il Camerale, giudicando le cause civili delle comunità e delle pubbliche amministrazioni, somigliava alla Camera Sommaria; ed un Consiglio Rotale, magistrato supremo di appello nelle sentenze criminali o civili della reggenza, e consultore nei casi di grazia o nelle commessioni del governo, figurava la real camera di Santa Chiara. Compose, come tra noi, magistrati speciali per il commercio, l’agricoltura, le arti; ed a compiere la simiglianza, presedeva spaventevole ed assoluta la giunta di stato. I codici, già innanzi confusi ed incerti, cresciuti nei politici sconvolgimenti di nuove leggi, nuove prammatiche, intoppi nuovi all’intelletto ed alla coscienza dei giudici, furono dall’Aragona gravati di altre ordinanze, traendole dalla napoletana legislazione.

Quindi provvide alla finanza. La caduta del governo papale, il governo succedutogli di repubblica, gli eserciti francesi per lungo tempo stanziati a Roma, gli eserciti contrarii alla Francia venuti a [p. 286 modifica]folla, guerra lunga esterna e civile, piccolo territorio e macro, scarsi ricolti per due anni, e, quel che è peggio, incertezza di sorti che inaridisce o stagna tutte le vene della ricchezza, rendevano lo stato di Roma povero e tristo. Ma il generale Naselli Aragona empieva in varii modi le casse dell’erario; imperciocchè per nuova legge rivocando le vendite, i censi, gli affitti, tutte le alienazioni de’ beni dello stato, durante la repubblica romana, incamerava quei beni, confiscava per nuove ordinanze i terreni de’ repubblicani, quando anche non condannati, tenuti in carcere; ravvivava le taglie antiche; altre ne imponeva e fra queste una su le terre; con mirabile novità faceva tributarii anche i cherici, e annullava le immunità di questi, ancorchè fossero «patrimonii sacri, abbadie, monasteri, conventi, ospedali, qualunque luogo pio, qualunque persona privilegiata, privilegiatissima, e che avesse acquistato i beni a titoli onerosi.»

I quali atti contrarii all’indole romana, e di dominio pieno e durevole nel re delle Sicilie (mentre il generale tedesco Froeliek imperava da signore nelle Marche), diedero sospetto che i potentati conquistatori volessero tenere in possesso le regioni vinte, quali materie negoziabili nel mercato de’ popoli che speravano certo e vicino. Avvegnachè crescevano, tutto l’anno 1799, le sventure degli eserciti francesi: Macdonald debellato alla Trebbia, Joubert a Novi, Lecourbe nel Piemonte; le fortezze cadute, Genova cadente; la Italia riconquistata per gli antichi re, la Francia minacciata su le sponde del Varo e dai monti della Savoja, il direttorio della grande repubblica impotente, la nazione scorata e debole pe’ disordini; ed a quelle viste i re, non più temendo il ritorno delle fortune francesi, allargavano le ambizioni e le speranze.

XIII. Non avvertivano quali destini seco portasse da Oriente il generale Bonaparte; il quale, udite le estremità della Francia, vedendo ormai nell’Egitto lenta la guerra, incerta la vittoria, nullo il benefizio della repubblica, lasciò capo dell’esercito il generale Kleber, e sopra fregata che i venti e la fortuna secondarono, traversando mari e pericoli, giunse a Frejus, e andò trionfatore a Parigi. Fu la comparsa come di meteora prodigiosa per la grandezza del caso, la incertezza del disegno, le speranze, i timori; tutte le parti si agitavano; ed egli solo immobile in tanto moto che gli facevano intorno, bilanciava gli eventi; e quando ebbe deciso in suo pensiero mutare in governo più fermo la disordinata repubblica, egli, col nome che diessi di Consolo, fu dittatore. Non è debito mio narrare le maraviglie di quel fatto, assai conosciute per le istorie di Francia; ma poichè gli ordini nuovi di quello stato confusero le opinioni de’ governi e de’ popoli, non sarà senza frutto esaminare i politici effetti che tra noi produssero. [p. 287 modifica]

Quel ritorno da EFgitto spiacque a’ principi per il chiaro nome del guerriero e ’l sospetto che si facesse sostegno al dechinare della Francia; sebbene alcuno ancora non immaginasse di quanta mole fosse un sol uomo. Piacque a loro, per la opposta parte, la caduta della repubblica, e la pruova che il governo convenevole alle presenti società stia nel senno di un capo; e non sospettando che potesse farsi re un guerriero di ventura, aspettavano che, incatenate da lui le sfrenatezze del popolo, e spente le ambizioni discordanti degli ottimati, potessero più agevolmente le parti regie nell’interno, gli usciti al di fuori, i re e gli eserciti stranieri, condurre al trono di Francia il XVIII Luigi; a tanto innalzando le speranze che credevano Bonaparte inchinato a spianare il cammino, contento delle ricompense che danno i re, gradi, titoli, ricchezza e servitù. Così i principi; ma gli uomini di libero ingegno, sospirando la caduta della repubblica, dicendo colui dittatore, Cesare usurpatore, aguzzavano i pugnali di Bruto, e speravano ad ogni foglio di Francia sentire atterrato il tiranno.

Tra i primi e i secondi accesi di sdegni o speranze varie, piccolo numero di pensanti vedeva nel consolo il salvatore della nuova civiltà; imperocchè lo stato della Francia non essendo di repubblica, fuorchè agli aspetti, ma di vera tirannide ne’ capi, di servitù ne’ soggetti, gli uni comandavano da re, gli altri obbedivano da vassalli o disubbidivano da contumaci; e passaggio immediato a liberissimo reggimento era impossibile, perchè nelle menti delle moltitudini non erano altre idee di governo e ne’ costumi altre pratiche fuorchè le assolute d’impero e di obbedienza. Viste le quali cose, l’uomo potentissimo si unì alle opinioni e a’ bisogni del popolo, si fece consolo; ed in quel giorno surse nel mondo ragionevole fidanza di mantenere le parti possibili della rivoluzione francese. La quale se aveva potuto resistere sino a quel tempo a guerre interne ed esteriori, ne aveva debito, più che alle forze del proprio reggimento, i certe funeste necessità di combattere, ed a pochi uomini egregi ed al primo ardore di libertà, già raffreddato dalle sventure e dal mal governo.

Nel tempo che in Francia il console ordinava le parti dello stato, e proponeva paci non accette a’ potentati stranieri, e levava eserciti ed armi nuove, duravano le sventure delle insegne francesi nella Italia; ed il conclave in Venezia consultava la scelta del nuovo pontefice, che, qualunque egli fosse, usciva nemico della Francia. Per lo che il cardinale Ruffo con istruzioni del re delle Sicilie ed ambizioni proprie andò al congresso, deponendo i freni del governo di Napoli nelle mani del principe del Cassero, Siciliano, nominato dal re vicerè del regno, uomo splendido, saggio, e quanto i tempi comportavano pietoso; e ben egli aveva occasione alla pietà. [p. 288 modifica]imperciocchè non passava giorno che nella piazza infame del mercato non si vedessero appesi alle forche o troncati del capo uomini sino allora venerati per sapienza o virtù; a tal giugnendo la frequenza de’ supplizii che si trasandavano i segni di religione, soliti nelle morti per condanna; ed il giudice Guidobaldi, onde sgravare la finanza regia, fece novelli patti col carnefice, pagando il crudele offizio di colui a stipendio mensuale, non più come innanzi a persone.

XIV. Con tante morti per tutta Italia e nel mondo finiva l’anno 1799, quando venne a ristorare l’umanità, campando d’uomini numero infinito, l’innesto della marcia bovina a difesa dal vajuolo. Era certo il rimedio perchè l’usavano popoli dell’Oriente, la Georgia, la Circassia dove è fama che la estirpazione del vajuolo naturale per innesto ab antico del vaccino sia stata cagione della bellezza delle donne Giorgiane e Circasse. L’Europa, visti morire in ogni anno numero sterminato di fanciulli, cercò riparo dall’innesto naturale, cioè dall’inoculare in tempi e condizioni preparate il vajuolo benigno ma umano; e avvegnachè se ne traesse piccolo benefizio, il pensiero fu scala di maggior opera. Nel 1775 un’adunanza medica di Parigi discorse del contagio vaccino, ma la idea nulla valse insino a tanto che nel citato anno 1799 la riprodusse in Londra medico inglese, Ienner, il quale, provvista da Oriente la marcia e sperimentata sopra gran numero di fanciulli, pubblicato l’effetto, tessuta la istoria delle prove antiche, disteso il processo delle presenti, mutò in dottrina ed in fatto la sterile conghiettura del rimedio. Al grido ed alla gloria ch’ei ne ebbe si levò invidiosa la scuola medica di Francia, vantando sè, per gli accademici discorsi che ho citati, precorritrice al Jenner. Ma restò all’Inglese l’onore; perciocchè una scoperta in arti o scienze, essendo il fatto certo tra molti fatti vaghi ed oscuri che precederono, definisce lo stato della scienza o dell’arte già maturo a procedere, e quasi direi necessaria la invenzione; ed il più sagace o fortunato che agli esperimenti dà evidenza, è tenuto meritamente inventore, comunque sieno stati i dubbii e le infruttuose fatiche di coloro che precedettero.

La dottrina di Jenner si sparse in Europa, come che impedita dalla guerra, dall’amore de’ genitori che ammoniva di non essere primi all’esperimento, e (incredibile a dire) da religione. Alcuni medici scrissero contro la vaccina; fu predicato dai sacri pulpiti peccaminoso e bestiale il rimedio; e tutti dicevano mancanti le prove della sua durevole efficacia, e facile in età più matura e pericolosa il ritorno del vajuolo, o altro morbo ingenerato dalla natura compressa. Tra le quali dubbiezze giunse in Napoli, l’anno 1800, il dottore Marshall, inglese, propagatore del gran rimedio, e Napoli corrivo alle novità gli credè; il re Ferdinando stabili offizii ed uffiziali di vaccinazione, la prescrisse agli ospedali, alle case [p. 289 modifica]pubbliche di pietà, alla favorita colonia di Santo Leucio, e, da magnanimo e re buono, alla sua famiglia; lo propagò in Sicilia ed in Malta, e rendendo lodi e grazie al Marshall, lo accommiatò ricco di doni e di onori. Eppure verità, ragione, esperienza, comando e naturale amore della prole, non bastano ancora (e sono corsi trent’anni) a vincere l’errore di molte madri e padri, schivi alla vaccina perchè falsa religione la susurra all’orecchio come peccato.

XV. Nel cominciare dell’anno 1800 si annebbiarono le felicità dei re d’ Italia e d’Alemagna, però che la Francia, sentito l’impero di Bonaparte, confidando nel gran nome e nel grande ingegno, ripigliò animo e forza. Coscritto nuovo esercito in Dijon, dove abbondavano uomini ed armi; le sponde del Varo tornate libere; le milizie piemontesi e russe fermate in Savoja; ricomparsi nella Svizzera e lungo il Reno i vessilli della repubblica; l’Europa ravvisò il braccio immenso, che sospeso in alto aspettava l’opportunità di percuotere. Il governo di Napoli quanto più spietato tanto più timido, non appieno satollo di vendette (come tra poco mostrerò) nascose lo sdegno, e per editto appellato indulto, il giorno del nome del re, 30 di maggio nel 1800, rimise le passate colpe di stato, dicendo essere tempo di riposo; bramare che i soggetti fossero come figli suoi, tra loro fratelli; perciò sospendere e cancellare i giudizii di stato, vietare le accuse, le denunzie, le inquisizioni per officio di magistrato, e insomma, perdonare, obliare, rimettere i delitti di maestà. Ma prudenza di regno volendo alla misericordia certi confini, escludere dal perdono i fuggitivi, i giudicati, molti tra i prigioni, e coloro che per alta provvidenza e pubblico bene la polizia tratteneva nelle carceri. A nessuno per quelle grazie tornar diritto ai perduti officii, derivando la loro liberazione non da giustizia ma da clemenza del principe.

Sembrando l’editto il termine delle persecuzioni, il pensiero volto addietro misurò l’ampiezza delle patite sventure. Quanti ne morissero nelle guerre civili e nel tempo senza leggi che più o meno tollerò qualunque città o terra, non fu, per avvedutezza del governo, computato; i fuggiti montavano a tre migliaja, i cacciati in esilio a quattromila, i condannati a prigionia a parecchie centinaja, assai più alla morte, de’ quali centodieci nella sola città capo del regno. Rimanevano dopo il perdono altri mille nel carcere e nel pericolo, ma pure settemila o più uscirono liberi. Fu maggior benefizio scegliere capo della polizia il duca d’Ascoli, nuovo agli officii dello stato; ma poichè nobile d’animo come di lignaggio il pubblico ne sperava, e ne ottenne giustizia verso i buoni, severità su la plebe tumultuante ancora e ricordevole dei guadagni del 99, già sperduti nei vizii e nella crapula. Quel reggente {così fu chiamato dal nome antico) puniva i soli lazzari con le battiture, pena [p. 290 modifica]infame, che sebbene a quella razza scostumata non accrescesse vergogna, era pericolosa perchè arbitraria, ed ingiusta da che poneva ineguaglianza fra cittadini.

XVI. Poichè tornò, comunque in parte, la quiete del regno, il re, sperando il giudizio dei posteri da pietra muta più che dalle sue leggi e dalle istorie, diede carico all’insigne scultore Antonio Canova di ritrattarlo in marmo, in forme colossali e in fogge di guerriero. Ed instituì ordine cavalleresco, detto di San Ferdinando, dal suo nome, e del Merito perchè destinato ad insignire fra sudditi o stranieri i notati di fedeltà nelle guerre intestine dell’anno innanzi. La croce di argento e d’oro è terminata nelle quattro punte dal fior di giglio, sta nel mezzo effigiato il Santo in abito di re della Castiglia; il motto è Fidei et merito; il nastro, colore azzurro orlato di rosso. Il re gran-maestro, quindi gran-croci che non eccedono i ventiquattro, commendatori e cavalieri di piccola croce ad arbitrio del re. Gli statuti, quelli medesimi dell’ordine di San Gennaro, e pochi altri diretti a rimeritare i servigi di guerra. Con altra legge di tre mesi appresso il re aggiunse al nuovo ordine due medaglie in oro, in argento, per i gradi minori dell’esercito e dell’armata, concedendo con la medaglia pensione varia e non tenue. Furono cavalieri gran-croci tutti i reali della casa, i re più potenti di Europa, i personaggi più alti del regno; ma nei minori gradi l’ordine si macchiò, però che videsi al petto d’uomini che nelle armi della santa fede non cancellarono le infamie della vita.

Per le cose di Francia crescendo tuttodì la incertezza e timore, fu stabilito nel consiglio del re coscrivere poderoso esercito, comunque fosse scarsa la finanza e non bastevole a’ bisogni presenti dello stato. Si alimentavano molte milizie napoletane, viveva del denaro di Napoli nella impoverita Roma numeroso presidio, sostenevasi con gl’Inglesi il blocco di Malta, si nutrivano le squadre russe venute in gran numero per aspettar la fine di quel blocco. E frattanto i consiglieri del re, nelle cose civili arrischiati, proposero che fosse levato novello esercito e soccorsa la finanza dai popoli, debitori al re (si diceva) d’innumerevoli benefizii, ed a sè stessi della comune difesa. Per ciò fu prescritto: comporre di nuova milizia sessanta reggimenti, quarantaquattro di fanti, sedici di cavalieri; uomini in tutto sessantasettemila e duecentoventotto, e cavalli novemila settecentonovantadue; cannoni di campo centosettantasei. Dai resti delie antiche leve e da leva nuova (dieci soldati per mille anime) aver gli uomini; scegliersi a sorte chi dasse i cavalli ; ed i possidenti provvedergli di finimenti e di strami; le comunità fornire gli attrezzi militari e le armi per i fanti, le tende, le macchine di campo, i cannoni, le munizioni da guerra, e un mese di stipendio. Il servizio, se in pace, da guardie interne; e se in guerra, [p. 291 modifica]secondo i bisogni; la durata, cinque anni. Gli uffiziali, scelti fra’ più distinti nello esercito della santa fede. A’ coscritti il foro speciale in cause criminali o civili; gli onori, le preminenze, le dignità usate nel regno; i premii secondo il merito ci servigi.

Era peso gravissimo a’ cittadini; e però il troppo di quella legge trattenendo il possibile, fallì le speranze, e fu cagione che ingiustizie e rapine si tollerassero nelle province e nella città; il solo beneficio che n’ebbe il governo fu il grido in Italia di nuovo e poderoso esercito, sotto di un re fra tutti nemicissimo della Francia. Ma non perciò si arrestarono le adunate schiere in Dijon, le quali anzi fecero cose mirabili, che io toccherò per sommi capi, inviando i bramosi di più saperne a’ racconti de’ generali Dumas e Iomini, il primo de’ quali scrisse il vero in poetiche immagini, ed il secondo per le teoriche della guerra. Nè sarebbe uffizio nostro esporre a disteso que’ prodigi, se doppio desiderio non m’attraesse parlar, come istorico di cose grandi, e come guerriero, di guerra, e sperando dire su la idea di quella guerra cose non dette, Si vedrà che le maraviglie degli eserciti antichi sono state superate da presenti, e che agli avi nostri solo rimane maggior vanto di virtù civile; che pur essa, quando i cieli non sieno crudelissimi, sarà in poche età che a noi succedono uguagliata e vinta.

XVII. Il primo consolo quando seppe come i Tedeschi guardavano la Italia, fatta esplorare da ingegneri valenti la catena delle Alpi, fermò in mente di condurre l’esercito per le quattro valli, del San Gottardo, de’ due San Bernardo, e del Monte Cenisio; avvegnachè giungeva improvviso e rompeva nel mezzo la linea del nemico, il quale stanziando con diversi corpi nella Lombardia, e con altri sopra i monti di Genova e lungo il Varo, lasciava il mezzo della linea poco guardato. Bisognava il segreto; ed egli con tali arti simulò, tanto pochi e lenti giungevano i coscritti a Dijon, e tanto quetamente in altre città della Francia le schiere dei veterani, che l’esercito di Dijon era tenuto a menzogna ed a scherno del generale Melas, supremo de’ Tedeschi in Italia, e dalle male scaltre corti di Europa. Ma il 17 del maggio dell’anno 1800, mosso l’esercito maggiore, che Berthier guidava sotto Bonaparte, giunse in poco tempo dal piano del San Bernardo alla cima, dove solamente si vedevano gelo e cielo, e le nuvole addensarsi sotto i piedi de’ riguardanti. Non racconterò come uomini, cavalli, carri e artiglierie tragittassero per quelle rupi, e quali travagli tollerassero; bastando dire che quanto il senno provvede, o il genio crea, e può la costanza, e vuole necessità, tutto fu operato da quello esercito: le macchine, scongegnate, portate a pezzi; i cannoni trascinati sopra carretti di nuovo ingegno; il soldato carico di settanta libbre francesi in armi, viveri e munizioni da guerra, camminare verso l’erta [p. 292 modifica]trasportando a catena di braccia smisurati pesi; ed al discendere (per condizioni peggiori del terreno) mandare a precipizio i cannoni commessi nel seno di alberi cavati; regolar la caduta degli altri pesi; tenersi a fatica sopra que’ geli eterni; così che venne pensiero ad un soldato seder sul ghiaccio e strisciarsi per la china; la qual cosa, veduta dal primo consolo ed imitata, fu seguita (quasi esempio fosse comando) dall’esercito intero; e però in due giorni furono quelle alte cime tragittate.

Gli altri tre eserciti per altri monti e valli procedevano con pari stento e felicità: il generale Moncey per il San Gottardo, Chabran per il piccolo San Bernardo, Thureau per il Monte Cenisio, sessantamila combattenti, e cavalli, ed armi, e macchine, venivano come torrenti per quattro precipizii nell’Italia. L’esercito maggiore, poi che ebbe scacciato dalla città di Aosta e da Chatillon i presidii tedeschi, si arrestò al forte Bard, fondato sopra grosso macigno nel più stretto della valle, tra rupi deserte ed invalicabili che gli si alzano a’ fianchi: piccola città fortificata gli sta vicino, e scorre sotto in abisso precipitoso la Dora; la cinta, di figura ellittica, volge in giro quanto appena trecento metri; e qualche torre distaccata dal forte accresceva le difese; munivano le mura ventidue cannoni; le guardavano trecento ottanta soldati sotto il comando del capitano tedesco Bernkopf; piccola strada per lo spalto traversa la città. Chiesto il passaggio al capo del forte, lo negò; minacciato, rispose dla prode; formate a spavento le colonne di assalto, si guardò; e tentati gli assalti, li respinse. Al dì vegnente iterando le inchieste, le minacce, la guerra, tornarono gli effetti come innanzi; ed intanto mancavano i viveri ed ogni mezzo di averne: la impresa divolgavasi; perivano al piede di piccolo castello quelle genti, quel genio, que’ destini.

Necessità fece aprire per altra montagna (l’Alberedo) un varco a scaglioni, disagevole a’ fanti, pericolosa a cavalli, impossibile alle artiglierie: i Francesi presero, scalando i muri, la città, assalirono nella foga il castello; rinnovarono nella notte gli assalti (non contando per la salute dell’esercito le ferite e le morti), ma furono con perdita maggiore discacciati. Disperazione in essi, onorevole al capitano Bernkopf, suggerì di trasportare i cannoni per le vie della città, sotto le offese aperte del castello. E così perduti uomini e giorni, lasciata buona schiera per lo assedio del forte, quello esercito e gli altri tre giunsero alle pianure d’Italia. Ma benchè ponessero i campi ne’ disegnati luoghi tra Susa e Bellinzona, non istavano in ordinanza di battaglia; però che le valli, com’è natura, sebbene partano vicino da gruppo comune di monti, scostandosi dalle origini si dilargano; e perchè le formazioni delle quattro colonne, la rapidità, il cammino, lo scopo, davano a quella guerra i caratteri [p. 293 modifica]della invasione, co’ vantaggi e i difetti che ne derivano; ossia, nessuna base di operazione, non essendo base la catena dell’Alpi; linee di operazione divergenti, viveri alla ventura, ordini pochi, ritirata difficile; ma d’altra parte, celeri conquisti, ed apportando al nemico sorpresa e scompiglio. La specie di quella guerra sino alla battaglia di Marengo palesa le cagioni dell’andare incerto e azzardoso di Melas e di Bonaparte; e scusa nei capitani degli opposti eserciti molte azioni, che si dissero falli, benchè discendessero da invincibile natura delle cose.

Fu dunque ventura de’ Francesi che il generale Melas nulla credendo dell’esercito di Dijon, si travagliasse intorno a Genova e su le sponde del Varo: mentre magazzini pieni venivano in mano al nemico, e cadeva la fortezza di Pavia con grande numero d’armi, di viveri, di vesti, nessun presidio, e senza onore di combattimento. Ma, presa Milano, e per mille voci, per molti fatti avuta certezza che il primo console con esercito grande stesse in Italia, Melas abbandonò il Varo, chiamò da Genova il generale Ott e le sue schiere, unì quanti poteva uomini, cavalli e cannoni. La fortezza di Genova cedè in quei giorni: il presidio francese unendosi alle legioni che nel Delfinato comandava il generale Suchet, formò buono esercito di ventimila soldati. Nel tempo stesso che dalla Italia superiore i Francesi proseguendo le irruzioni valicarono il Po, il generale Murat prese Piacenza; le comunicazioni fra i Tedeschi dell’alta e bassa Italia s’interruppero, e l’oste intera si divise in due, sotto Alessandria e sotto Mantova. Bizzarre ordinanze di quattro eserciti; stando i due maggiori nel mezzo, ed a’ fianchi ed alle spalle eserciti minori ma considerevoli. Ottantamila soldati obbedivano a Bonaparte; cento e sei mila a Melas, non computando gli Alemanni di Ancona e di Toscana. Bisognavano giorni a Melas, battaglie a Bonaparte; ma, quegli, sentito il bisogno di aprirsi un cammino con L’esercito di Mantova, e confidando nella dispersione de’ campi francesi, pel maggior numero dei combattenti, e nelle rimembranze delle fresche vittorie sopra gli eserciti della repubblica, raccolse intorno ad Alessandria trentuno mila soldati, de’ quali ventitrè mila fanti, ottomila cavalieri, ed artiglierie poderose: fece occupare innanzi alla Bormida e render forte il villaggio di Marengo, che dall’alto vede vasta pianura; solo terreno in quella parte d’Italia non segato da canali, dove la cavalleria, ne’ Tedeschi più forte, potesse volteggiare agevolmente.

Così stavano le cose al 12 di giugno. Moti celeri ed universali d’ambe le parti confondendo le relazioni delle spie, de’ prigioni, de’ disertori, facevano incerta la posizione degli eserciti. Bonaparte al dì seguente fece assalire Marengo; e poi che i Tedeschi, forse ad inganno, lo abbandonarono, egli dubbioso de’ pensieri di Melas, [p. 294 modifica]tenute lontane atcune legioni, altre allontanate, accampava dietro a Marengo con quindicimila cinquecento fanti, tremila settecento cavalieri. Fu perciò come sorpreso l’abilissimo capitano quando agli albori del dì 14 vide sboccare dalla Bormida sopra tre ponti colonne poderose di Tedeschi. Potea, volgendo cammino, schivar la battaglia; ma, con onta del nome, e concedendo al nemico ciò che più bramava, un varco per l’alta Italia: quindi accettarla, rivocare in fretta le distaccate legioni confidare nel valore delle presenti, nelle arti proprie, e nella fortuna, furono i suoi proponimenti. Formò in linea le poche genti, con ordini (che mai ne creda scrittore dottissimo di guerra) convenevoli al suo maggior bisogno, le ore; e correndo le file de’ soldati, accendendo il desiderio di gloria nuova col ricordo delle geste passate, concludeva: «E noi vinceremo se non mancherà tempo alla vittoria.»

Conobbe Melas per la opposta parte che stava nella rapidità la speranza del vincere; ma benchè l’esercito per tre ponti valicasse il fiume, poichè tragittava per una sola porta del campo, spese tre ore all’uscita. Assalirono Marengo con forze doppie de’ Francesi, e l’espugnavano, quando novelle forze accorsero al pericolo, e poi novelle agli assalti; così che nel mezzo del giorno fu necessità de’ Francesi lasciar Marengo, per rinnovare la guerra in altri luoghi della pianura. Non comportando il preso stile delle presenti storie descrivere a parte a parte l’andare, il ritorno, le venture, gli infortunii di ogni schiera di cavalieri o di fanti, solamente dirò che alla prim’ora dopo il mezzodì l’oste francese, abbandonando il campo, riducevasi alle colline; ed il nemico vicino e superbo gli faceva il ritorno sanguinoso e lento. Tutti i corpi francesi combattevano; le sole guardie consolari, ottocento fanti, trentosessanta cavalieri, stavano in riserva. Bonaparte spedì quei primi alla pianura; e là formati a quadrato, sostenendo gli assalti de’ cavalli, le offese de’ fanti, gli esterminii delle artiglierie, davano tempo alle proprie genti di riordinarsi; e somigliando, per la immobilità, a quadrato meno d’uomini che di mura, cbbe onorevole nome di castello di granito.

Poscia richiamati dal piano, scemati di numero non di animo, guerreggiavano in altro campo; ma già l’oste alemanna invadendo d’ogni parte i Francesi, confusero gli ordini, sparì la tattica, si combatteva alla spicciolata, la battaglia era vinta da’ Tedeschi; non rimanendo che superare gli ultimi sforzi di valor disperato. E però Melas, formando a colonne le sue genti, lasciati luogotenenti Ott e Zach a raccorre i frutti della giornata, andò in Alessandria per far nota al mondo con bullettini la battaglia, e per ordinare le imprese del vegnente giorno. Si stava intorno alle tre ore della sera, e durava il combattere: però che il primo console dal suo quartiere di [p. 295 modifica]Sangiuliano, benchè vedesse le perdite, non raccoglieva i resti dell’esercito, non disponeva le ritirate, bramoso che lo scompiglio durasse. E difatti, avvisato da precursori che il generale Desaix con novemila soldati or ora giungerebbe a soccorso, ne mandò annunzio alle sue genti, accertò la vittoria, comandò che in ogni campo si resistesse al nemico: e le abbattute squadre resistettero.

Alle quattro ore dopo il mezzogiorno giunto Desaix, il primo console, correndo quelle file, diceva: «Abbiamo dato indietro assai passi; è tempo di avanzare, per poi riposare nella notte, come è nostro costume, ne’ campi della vittoria.» I resti più numerosi de’ Francesi accampavano a Sangiuliano ove Desaix venne, e dove il generale Zach andava, certo di vincere, con cinquemila soldati. Ma lo affrontò in ordinanza, quasi uscito di terra, esercito francese; ed essendo impossibile al Tedesco evitar la zuffa o aver soccorso, però che già da due ore i volteggiamenti delle due parti andavano soli, senza ordini, senza nesso, senza capo supremo, a consiglio di molti capi e della sorte, smarrisce, ma pur combatte con valore alemanno: muore Desaix; Kellermann, generale di Francia corre con mille cavalli sopra Zach, e tre volle traversando la linea de’ soldati, uccide, abatte ed imprigiona i resti col suo capo. Procedono lo stesso Kellermann, e Murat, e Boudet, che teneva le veci di Desaix, contro gli altri corpi, i quali vedendo la maravigliosa schiera tornano fuggitivi verso Marengo; i Francesi, che poco innanzi difendevano a mala pena il piccolo terreno dove trista ventura gli avea ridotti, prorompono nel piano, e uccidono e fugano i troppo assicurati vincitori. Così cambia della fortuna il favore e la faccia.

Si riparano i fuggitivi a Marengo e a Pedrabona, per dar tempo agli avanzi della disfatta di valicare la Bormida; e però combattendo sino a notte piena, quanti poterono ripassare il fiume posero il campo sotto Alessandria. Furono morti e feriti nella battaglia settemila dei Tedeschi; sette mila de’ Francesi; perderono inoltre i Tedeschi tremila prigionieri, venticinque cannoni, altre armi e bandiere; tra morti e feriti d’ambe le parti si contavano parecchi generali e numero grande di uffiziali minori; ma più compianta dalle schiere e dalla Francia fu la morte di Desaix. Il valore degli eserciti fu grande; il primo console non combattè; lentezza ne’ Tedeschi al mattino, ordinanze poco sapienti incontro alle ordinanze de’ Francesi, tutte le schiere tedesche impegnate, combattenti senza ultima riserva, nessuno assalto estremo, nessuna azione, facile nelle fortune, ardimentosa; e d’altra parte ostinato proponimento dei primo console, arrivo al maggior scopo del generale Desaix, sorte, destini, furono le cagioni della vittoria de’ Francesi.

La notte, dispensiera benigna di quiete, passava dolente al campo alemanno e dolentissima al capitano; nè riposavano i Franchi [p. 296 modifica]perchè intenti a ricomporre le scemate schiere, e valicar nel mattino la Bormida. Melas, veterano di guerra sventurato, incerto tra pensieri varii, avendo incontro esercito forte e vincitore, alle spalle, in Acqui, l’esercito di Suchet, con sè poche squadre e sconfidate, i generali migliori o morti o feriti o prigioni; convocato consiglio ed avuto più rimproveri che ristoro alla sfortunata vecchiezza, decise in animo di concordar col nemico il passaggio dell’esercito nell’alta Italia, per così adunare sessantamila soldati su le sponde del Mincio, appoggiare il dosso agli stati dell’impero, e cominciare con migliori auspici nuova guerra. Diceva sovente nel suo dolore, nè saprei se a maraviglia o a conforto: «La battaglia era vinta per noi, ma quegli è l’uomo del destino.» Gli lacerava il cuore l’avviso decantato della vittoria, ed arrossiva della vergogna di mandare altri nunzii di dolenti venture. Aveva scritto nel primo foglio: «Per lunga e sanguinosa battaglia ne’ piani di Marengo, le armi di S. M. l’imperatore hanno battuto compiutamente l’esercito francese condotto in Italia, e comandato nell’azione dal generale Bonaparte. Altro foglio dirà i particolari della battaglia, ed i frutti della vittoria, che nel campo stan raccogliendo i luogotenenti generali Ott e Zach. Di Alessandria il 14 di giugno del 1800, al cadere del giorno.»

Poi scrisse:

«Cadente il giorno, il nemico afforzato di esercito novello, combattendo negli stessi campi di Marengo per gran parte della notte, ha battuto il nostro esercito, vincitore nella giornata, Ora noi, accampati sotto le mura di questa fortezza, raccogliamo i miseri avanzi della battaglia perduta; e consultiamo de’ rimedii, per quanti ne concede lo stato delle cose, o la fortuna del vincitore. Di Alessandria, alla mezzanotte del 14 al 15 di giugno.»

Alla prima luce del giorno, le già formato colonne de’ Francesi assalirono il campo che guardava i tre ponti della Bormida; e lo espugnavano, se Melas non mandava oratore a Bonaparte per trattare accordi; e poichè l’esercito francese abbisognava di riposo e di migliori ordinamenti, il primo console mandò negoziatore in Alessandria il generale Berthier, che per non lungo discorso con Melas, stabilirono:

Armistizio sino alle risposte da Vienna su le proposizioni di pace che farebbe il primo console all’imperatore Francesco;

Durante l’armistizio, gl’imperiali occuperanno i paesi tra ’l Mincio, Fossa-Maestra e Po; conserveranno Ancona e la Toscana;

I Francesi occuperanno quanto sta confinato tra la Chiesa, l’Oglio ed il Po;

Il paese dalla Chiesa al Mincio non avrà soldati di nessuna parte;

I castelli di Tortona, di Milano, di Torino, di Pizzighettone, di [p. 297 modifica]Arona, di Piacenza, di Ceva, di Savona, di Urbino; e le fortezze di Coni, di Alessandria e di Genova saranno date a’ Francesi dal 16 ai 24 di giugno. Delle artiglierie che muniscono i su detti forti, le sole austriache saranno rese agl’imperiali;

Le schiere tedesche andranno libere in tre colonne, dal 16 al 26 di giugno, per Piacenza e Mantova, dietro al Mincio; i presidii delle cedute fortezze, nel più breve tempo, per il più breve cammino, le raggiungeranno;

Nessun cittadino sarà molestato per le sue politiche opinioni, sì da’ Francesi che da’ Tedeschi.

Il qual trattato fu eseguito. I presidii delle fortezze partivano, mormorando de’ capi vergognosi di aprir le porte senza guerra al nemico; i partigiani dell’Austria dicevansi traditi o miseri; nemmeno confortati dalla pietà o ammirazione del mondo, perchè la loro causa era tenuta interessata e servile. Genova lasciata da Massena il dì 5, rialzò le bandiere della repubblica il 24 dello stesso giugno; e al dì seguente arrivava navilio inglese con ottomila soldati, destinati a presidio della fortezza: ma perchè troppo tardi di poche ore, mancò all’Inghilterra balovardo fortissimo in Italia, ed il primo console accolse dalla maravigliosa battaglia di Marengo tutti i benefizii della vittoria, tutte le carezze della fortuna. Il castello Bard, sin dal 1° di giugno aveva capitolato col generale Chabran, e fatta libera la strada per la valle di Aosta, e libere le schiere assediatrici, che subito vennero ad accrescere l’esercito d’Italia; stavano ancora nel castello armi, viveri, presidio intero, e mura intatte; sì che il capitano Bernkopf, laudato ne’ primi giorni dell’assedio, mancò al finire. E così Bonaparte, stabilite le nuove linee dell’esercito, liberato d’ogni pericolo il territorio, ch’ei chiamava sacro, della Francia, riconquistata in un giorno la maggior parte d’Italia, ritornate a vita le repubbliche ligure e cisalpina, felice, fatale, andò in Francia; e là fece altlre cose mirabili che non spettando a noi di narrare, volgiamo a’ fatti di Napoli.

XVIII. La regina Carolina, sul finire del maggio, quando credè fissate le sorti d’Italia e vacillante l’odioso stato di Francia, andò a Livorno per passare, dopo la resa di Genova, in Germania, e patteggiare con l’imperatore nuovi dominii italiani, a ricompensa delle guerre sostenute e delle fatte conquiste negli stati di Roma. Intesa in Livorno e festeggiata con sacra cerimonia la caduta di Genova, si partiva; ma la inattesa guerra d’Italia la ritenne. Indi a pochi giorni, alle cinque ore della sera del 16 di giugno, ricevè il primo foglio di Melas, nunzio della vittoria di Marengo; e fatto cantare in chiesa inni di grazie, aspettando il secondo avviso, comandò che a qualunque ora della notte giungeva fosse destata dal sonno. E difatti a notte piena del giorno medesimo arrivò il messo; [p. 298 modifica]fu desta, ed ella nell’aprire il foglio, diceva: «Leggiamo la fine del presuntuoso esercito di Bonapart.» Ma quando lesse la disfatta di Melas instupidì, rilesse come incredula il foglio, e fatta certa della trista nuova, le mancò la luce e si appoggiò morente alla donna che l’aveva desta. Risensata, scorse di nuovo l’abborrita lettera e infermò; poi seppe la convenzione di Alessandria, lo sgombero delle fortezze da’ Tedeschi, tutte le felicità di Bonaparte; e appena sanata del male andò ad Ancona, quindi a Trieste ed a Vienna; già mutata in timore di perdere i proprii regni l’ambizione di maggior dominio.

Nel conclave di Venezia, che durò tre mesi e mezzo, fu eletto pontefice il cardinale Chiaramonti che prese nome di Pio VII. Invocato a tornare al Vaticano dai popoli di Roma, dichiarava che tornerebbe quando i Napoletani e i Tedeschi deponessero il governo de’ suoi stati ai ministri pontifici; ma que’ due potentati nelle attuali confusioni d’Italia, bramando ritenere terre e dominii per patteggiarli nei congressi di pace, si opponevano; e lo stesso re delle Sicilie, devoto alla chiesa, difendeva le scandalose brighe dicendo conquistate quelle province, non dal papa, sopra i Francesi. Ma infine, per coscienza o politica, egli primo cedè, indi, ad esempio, l’imperator d’Austria; e concordando che gli stati sarebbero presidiati dalle milizie delle due corone, ma restituito libero il governo, il pontefice in luglio tornò in Roma, dove rivocando le ordinanze e leggi di Bourcard e di Aragona, ristabilito l’antico reggimento, rimesse le colpe della rivoluzione, disserrate le carceri, cominciò regno, a modo papale, modesto e cauto.

XIX. In quel tempo medesimo, fra tante nuove avverse, una giunse avventurosa, la cessione di Malta alle milizie inglesi e napoletane, Il re Ferdinando, durevole nemico della Francia, manteneva nello assedio duemila soldati, due vascelli ed altre navi da guerra e da trasporto; e quelle milizie di terra e mare gareggiarono per valore o per arti con le inglesi. La fortezza, dopo assedio di due anni e sforzi portentosi del presidio, ai 5 di settembre di quell’anno 1800, per mancanza di vettovaglie, capitolò coi soli Inglesi, quantunque i Napoletani fossero stati a parte della guerra, ed un trattato d’alleanza (l’anno 1798) tra l’Inghilterra e la Russia stabilisse che l’isola, quando fosse riconquistata sopra i Francesi, andrebbe all’ordine legittimo di Malta, del quale Paolo I di Russia erasi nominato gran-maestro; ma le felicità dell’Inghilterra coprivano i debiti di onore e di fede. Tra le milizie napoletane si numeravano trecento soldati, già uffiziali, colà mandati a riscattare il fallo dell’essersi arruolati alle bandiere della repubblica partenopea, i quali sebbene combattessero animosamente e ne portassero i documenti nelle ferite o negli attestati dei loro capi, non bastando al [p. 299 modifica]riscatto quel servizio, ero al grado, per essi abbietto, di soldato.

E più, la reggia fu rallegrata perchè nacque da Maria Clementina e da Francesco un principe erede al trono, cui si diede il nome dell’avolo, Ferdinando. La principessa dopo il parto aspettando, come i costumi della regal casa, visita del re, preparò atto benigno che importa descrivere a parte a parte, a memoria e meraviglia dei secoli futuri. È pietosa costumanza della famiglia dei re di Napoli concedere per la ventura di quei natali, a dimanda della principessa, tre grazie splendide e grandi; ma colei, per meglio accertare il successo e palesare l’ansietà del suo desiderio, strinse le tre grazie in una, per la misera Sanfelice, la quale giorni avanti sgravatasi di un bambino, stava tuttora in carcere aspettando che le tornassero le forze per tollerare il viaggio da Palermo a Napoli, dove la condanna di morte si eseguiva. Un foglio contenente la supplica di lei e le preghiere della principessa fu posto tra le fasce dell’infante, cosi che il re lo vedesse; e difatti quando egli andò a visitar la nuora, ed allegro e ridente teneva su le braccia il bambino, lodandone la beltà e la robustezza, vide il foglio e dimandò che fosse. «È grazia, disse la nuora, che io chiedo; ed una sola grazia, non tre, tanto desidero di ottenerla dal cuore benigno di vostra maestà. Ed egli sorridendo sempre, «Per chi pregate? — Per la misera Sanfelice.... » e più diceva, ma la voce fu tronca dal piglio austero del re, che mirandola biecamente, depose, o quasi per furia gettò l’infante su le coltri materne, e senza dir motto uscì dalla stanza, nè per molti giorni vi tornò. La severità di lui, la pietà disprezzata, il caso acerbo, trassero dagli occhi della principessa lacrime dolorose ed incaute. La preghiera fu ricordo al re, e la misera Sanfelice, mal sana, mandata in Napoli, ebbe il capo reciso dal carnefice nella piazza infame del Mercato; quando già per il perdono del 30 di maggio erano quei supplizii disusati; e innanzi a popolo impietosito del tristo fato di bella e giovine donna, chiara di sangue e di sventure, solcata in viso dalla tristezza e dagli stenti, rea di amore o per amore, e solamente dell’aver serbata la città dagl’incendii e dalle stragi.

Ma i fatti interni, comunque lieti o avversi, erano passeggieri per lo stato, e tutti gli sguardi si fissavano ai potentati del settentrione e dell’occidente. Bonaparte dal campo di Marengo, pieno e caldo della vittoria,. conquistatore in un giorno di dodici rocche e di mezza Italia, scrisse all’imperatore d’Austria pregando pace durevole, ai patti, vantaggiosi per l’Austria, del trattato di Campoformio, e però giunsero a Vienna, quasi al tempo medesimo, i due fogli di Melas, la convenzione di Alessandria, e le offerte del primo consolo, producendo sbalordimento nella città, dubbiezze e [p. 300 modifica]gli nella reggia. Piegava alla pace l’imperatore, ma si opponeva Thugul suo ministro, nato plebeo, salito per ingegno ed ostinato volere ai primi offici, nemico ai Francesi, odiato dai grandi dell’aula e della città, ma potentissimo ed obbedito. Lo secondavano per la guerra il ministro inglese lord Minto, e la passionata regina di Napoli, giunta a Vienna in mal punto, perchè arrischiata consigliera nel più grave negozio dello stato; lord Minto assicurando gli ajuti promessi nel fresco trattato del 12 di giugno, e la regina Carolina offerendo muovere un esercito di Napoletani, che unito ai Tedeschi della Romagna e della Toscana assalirebbero a dosso l’oste francese; l’uno e l’altra rammentando che alla fin fine Melas accampava su le sponde del Mincio sessantamila soldati, ed aveva per sè le fortezze di Mantova e Peschiera. Lord Minto così consigliava per dar potenti alleati all’Inghilterra, e così la regina per antico sdegno implacabile nelle buone venture o nelle male. Potè quindi la sentenza di guerra.

Ma l’imperatore austriaco scrisse lettere di sua mano al primo console, non ben chiare per la guerra o per gli accordi; e soggiungendo: «Confidate in tutto ciò che dirà il conte di Sangiuliano mio ambasciatore, avvegnachè ratificherò quanto egli avrà fatto.» Il conte, giunto a Parigi, e sei giorni dopo l’arrivo entrando in negoziati col ministro francese Talleyrand, fermarono i preliminari della pace sopra le basi di Campoformio. Se ne allegravano il primo consolo e la Francia, quando il generale Duroc, spedito a Vienna in ambasciata, fu trattenuto a’ confini dell’impero; annullati i preliminari di pace dall’imperatore e rivocato il conte di Sangiuliano confinandolo per pena in Transilvania; se mancasse agli avuti carichi l’ambasciatore, o alla promessa fede il mandante, va incerto ancora. Bonaparte disse ingannati sè, la Francia, la fede pubblica; e intimando la guerra in Italia e in Alemagna per il 10 settembre, movendo le schiere accampate, altre aggiungendone, mandato in Isvizzera novello esercito, provvedendo armi e vettovaglie, concitò col braccio smisurato della sua possanza tutto il paese tra il Po e il Reno, La casa austriaca ne intimorì, e dichiarando al primo console che i suoi legami con l’Inghilterra impedivano ch’ella trattasse divisamente, propose novelle conferenze per conchiuder pace più larga fra i tre potentati. Bonaparte o che, dotto de’ casi di fortuna, fuggir volesse i cimenti, o che dopo lunga rivoluzione e sanguinose discordie domestiche ed esterne sentisse quanto la Francia bisognava di quiete, o che volesse apparire al mondo invincibile in guerra ma propenso alla pace, accettò le offerte, fermò nuova armistizio ad Hohenlinden, e convennero gli ambasciatori austriaci, inglesi e francesi nella città di Luneville. Giovavano all’Austria le induge per adunare nuove milizie, e rassicurare gli animi delle [p. 301 modifica]recenti sconfitte di Marengo; giovavano all’Inghilterra per impoverire l’esercito francese bloccato in Egitto; di altrettanto nuocevano alla Francia, che in quel tempo avendo vantaggio di numero e di fama, le conveniva pace o guerra, ma sollecita. Erano però in Luneville differenti le guise, rapide ne’ Francesi, indugevoli ne’ contrarii; si arrestarono le conferenze e si scioglievano; ma l’Austria, per prolungare, fece le finte che fosse cagione di lentezza l’ostinato proponimento di Thugul, lo dimesse, ripetè, aspettando il verno, le proteste di pace. Non pertanto, Bonaparte intimò le ostilità per il giorno 8 di ottobre in Alemagna; e ’l 5 di settembre in Italia; da che quella guerra prese nome di guerra d’inverno.

Incredibili moti d’ambe le parti. Il primo console, fermate le idee, diede opportuni comandi al generale Moreau capo dell’esercito del Reno, al generale Brune capo in Italia, ed al generale Macdonald per lo passaggio delle Alpi nella valle difficile dello Splugen. Dalla opposta parte l’imperatore austriaco, riordinati gli eserciti ed accresciuti, eletto capo in Italia il generale Bellegarde, corse i campi dell’Inn concitando i soldati e le corti di Alemagna per ajuti ed alleanze. Delle cose mirabili che seguirono toccherò quelle sole che importano alla storia di Napoli.

XX. Denunziate le ostilità, cominciarono, come in guerra è costume, le occupazioni de’ paesi neutri; in Italia il generale tedesco Sommariva, governatore di Ancona, campeggiò le terre sino a Ferrara, e quasi alle porte di Bologna; e Bonaparte comandò che fosse la Toscana occupata. E poichè d’essa il sovrano, Ferdinando III, stando a Vienna, aveva confidato il carico delle cose militari allo stesso Sommariva, questi usando del nome del principe e dell’amore che gli serbavano i soggetti, presto compose milizie ordinate sotto il generale toscano Spannocchi, e bande armate di cittadini, sotto varii capi, combattenti da popolo. Le quali bande, moleste al nemico, ma distruggitrici delle proprie terre e città, si fortificarono nel montuoso paese di Arezzo. Montavano i Tedeschi, tra Ancona, Ferrara e Firenze, a più di quindicimila soldati; Spannocchi assoldava dodici migliaja di Toscani; una grossa legione napoletana stava su le mosse negli Abruzzi; il generale Damas con legione più forte accampava nella Romagna; le bande sciolte apparivano numerose: era dunque facil opera e sollecita formare esercito di quarantamila combattenti su gli Apennini, al fianco ed alle spalle delle linee francesi; ma lentezza o ignavia, o destino, rattenendo le mosse, diede opportunità al generale francese Dupont di avanzare con Ire legioni nella Toscana. Una, ch’egli medesimo guidava, dopo fugate le bande aretine e romagnole intorno a Lugo e Faenza, e respinto il generale Spannocchi presso Barberino, entrò il 15 di ottobre a Firenze; la seconda legione prese Livorno, ed [p. 302 modifica]arricchì di prede la repubblica; la terza, sotto Mounier debellò gli Aretini, e con guerra fiera come civile prese di assalto la città di Arezzo e ’l castello. I quali combattimenti cessarono dopo alcuni giorni per la piena sommissione della Toscana, mentre dall’alto e dal sicuro guardavano lo scompiglio del bel paese i concitatori inglesi, alemanni e napoletani. A Dupont succedè Miollis; il generale Sommariva raccolse intorno Ancona i suoi Tedeschi.

Ordinamenti più vasti avevano gli eserciti nella Italia oltra Po. Il generale Brune accampava in battaglia settantamila soldati tra quel fiume e il lago d’Idro; altrettanti Tedeschi o poco meno accampavano tra lo stesso Po e il lago di Garda, in linee oltrachè forti per natura, munite di trinciere e di ridotti, tra i balovardi di Mantova, Peschiera, Legnago, e con poderoso navilio nelle acque di Garda. Il generale Macdonald conduceva ottomila Francesi per i monti del Tirolo, tragitto non men difficile de’ portentosi che ho descritti alla discesa in Italia di Bonaparte. Ognuno dei due eserciti poteva muovere; ma Brune aspettava che Macdonald giugnesse al piano, e Bellegarde che l’esercito napoletano si avanzasse verso Romagna e Toscana. I Francesi ruppero gl’indugi, però che sapendo la vittoria dell’esercito compagno sul Reno tumultuavano del desiderio d’imitarlo per bella gara ed impazienza di gloria. Quindi, Brune, al 25 del dicembre, fatto passare il Mincio a Molino, impegnò battaglia nel villaggio detto Pozzolo che durò sanguinosa dal primo mattino a notte piena: la vinsero i Francesi, rara felicità, però che stando lontano il generale supremo, i luogotenenti combattevano, diresti, meno per sè stessi che in ajuto al compagno, e ne uscì gloria comune e grandissima.

Nel dì vegnente in altro punto, in Monzanbano, Brune egli stesso, ajutato da caligine densa che lo nascondeva, tragittò sopra due ponti esercito poderoso; ed in nuova battaglia meno dubbia della prima e meno fiera, fu vincitore; l’esercito tedesco mostrandosi verso l’Adige, lo passò. Intanto che Maedonald scalando i monti de’ Grigioni, traversando i fiumi nelle loro fonti, abbatteva l’ala diritta degli Alemanni. Mantova e Peschiera, isolate, disperarono di ajuto; cominciò di Peschiera l’assedio, di Mantova il blocco. Così durando le fortune de’ Francesi non bastò l’Adige ad arrestarli; ed il generale tedesco Laudon schivò la prigionia, simulando al generale nemico un fermato armistizio, che due giorni appresso (quasi la fallacia presagisse il vero) fu conchiuso in Treviso.

Per esso gl’imperiali cedevano della Italia tutto fuorchè Mantova; ma scontento della esclusione il primo consolo, denunziate per il più vicino termine le ostilità, fu dato a’ Francesi, per nuovo patto in Luneville, quell’ultimo resto delle passate vittorie alemanne. Le armi restarono sospese, aspettando di posarle per la [p. 303 modifica]pace che si maneggiava nella stessa città di Luneville; talchè la guerra d’inverno durò in Italia venti giorni, nel qual tempo, a fronte di nemico potentissimo, furono valicati due grandi fiumi, percorsa con quattro legioni tra geli e precipizii tutta la pendice delle Alpi Retiche, combattute due battaglie e dodici almeno fatti d’armi, uccisi o feriti novemila Tedeschi, imprigionati dodicimila, prese artiglierie e bandiere, espugnati molti forti, e a tali strette confinato l’esercito alemanno che il non perduto in guerra lo cedè per accordi. Tutti prodigi della strategia e della sapienza de’ capi e del valore delle squadre. N’ebbe il maggior nome il generale Brune benchè il meno facesse; e chi più meritava per travagli ed ingegno, Macdonald, meno accolse di fama, perchè vincitore di natura più che di eserciti. E se a debole voce fosse concesso tanto innalzar le interrogazioni, nol chiederemmo a Bonaparte per qual pro arrestare nella miglior fortuna l’esercito del Reno, e non dare a questo il frutto felice della guerra, ed imporre il tragitto rovinoso dello Splugen. Anche agli uomini eccelsi sono i malnati affetti nebbia e falli della mente.

Avvegnachè l’esercito che il generate Moreau in quella stessa guerra d’inverno conduceva nell’Alemagna, dopo corse in quindici giorni novanta leghe, valicati tre gran fiumi, imprigionati ventimila soldati, sedicimila uccisi o feriti, presi cento cinquanta cannoni, quattrocento cassoni, seimila carretti, stava sopra di aperta a venti leghe lontano da Vienna. Sì che proseguendo cammino stipulava sotto le mura della città capitale dell’impero, senz’altra guerra ed altre morti, i patti della pace; ma un armistizio fermati in Steyer il 24 del dicembre, sospese di Moreau il cammino e la gloria.

XXI. E questo armistizio e l’altro di Treviso avevano quetate le discordie, allorchè si udì che il re di Napoli mandava tre legioni contro pochi Francesi stanziati nella Toscana. Da lungo tempo i reggitori dello sciagurato regno, da infelici destini o da mala coscienza dissennati, brandivano le armi quando ragion di stato consigliava a deporle. Veramente mossero il 14 di gennaio, non ancora noto l’armistizio di Treviso; ma sapevano l’altro di Steyer, e le disavventure in Italia di Bellegarde. Che che fosse di quel consiglio, il generale Damas con diecimila soldati uscito di Roma si avanzava contro Siena, e lo secondavano le rinate torme di Arezzo. Miollis, ardito e celere, sguernì Livorno, abbandonò Firenze e andò in colonne contro Damas; il quale, dopo aver fugata da Siena picciola mano di Francesi, e posto il campo in monte Reggioni, vi fu scontrato dall’avanguardo nemico. Erano disuguali le schiere combattenti perchè i Francesi metà de’ Napoletani; ma questi, guerrieri la più parte della santa fede, guidati da uffiziali della [p. 304 modifica]stessa insegna, niente esperti alla guerra campale, e già scorati dal grido delle vittorie francesi nella Germania e nella Italia. Fu quindi breve il conflitto; i Napolitani fuggendo traversarono Siena; il generale Damas con alcuni squadroni di cavalli e con batterie di cannoni acconciamente postate, trattenendo i Francesi, raunò i fuggitivi e li trasse nel territorio romano. Il generale toscano Spannocchi, che sosteneva con pochi battaglioni le bande di Arezzo, si ritirò; quelle bande si sciolsero. Il generale Sommariva, comparso sopra i monti, tornò ad Ancona. E Miollis, lasciato in Siena grosso presidio, ripigliò i quartieri di Firenze e Livorno.

Quegl’impeti tardivi di Napoli, sconsiderati, come innanzi ho mostro, inutili all’Austria e all’Inghilterra, incitarono l’ira del primo console, che mandò su i confini degli stati di Roma il generale Murat con le legioni tenute in riserva in Milano mentre durava la guerra d’inverno, e con altre che dopo l’armistizio di Luneville richiamò dall’esercito di Brune. Lettere di Murat, amichevoli e riverenti al pontefice, assicuravano che quell’esercito rispettoso a’ suoi stati, veniva per punire la pazza ed implacabile nemicizia del re di Napoli. Era mutato lo stile della Francia, repubblica in certe forme e in tutti i nomi, signoria nell’animo e nelle opere del primo console e de suoi luogotenenti. Sì che il pontefice rispose benignamente al benevolo foglio; ma in Napoli paventavano i ministri del re, ed il re medesimo nella sua reggia di Palermo. Tanto più quando intesero fermata la pace in Luneville ed affatto scordato il sovrano delle Sicilie; dimenticanza o abbandono meritato da principe che non avendo della guerra nè il senno, nè il valore, ma solamente lo sdegno, era stato di scandalo più che di ajuto a’ regni collegati.

Quel che importi a noi del trattato di Luneville è il sapere che le armi furono deposte in tutta Europa fuorchè in Inghilterra; che divennero confini della Francia le Alpi, i Pirenei, l’Oceano ed il Reno: e confine dell’Austria in Italia, l’Adige tenendo essa l’Istria e la Dalmazia, sino alle Bocche di Cattaro. Che le repubbliche batava, cisalpina e ligure furono riconosciute dall’imperatore d’Austria; che il gran ducato di Toscana andò ceduto da Ferdinando III al duca di Parma, spossessato de’ suoi stati per unirli alla Cisalpina; che le passate opinioni, opere o colpe di stato furono rimesse, così che i cittadini avessero certe le proprietà, libere le persone.

Quella pace rallegrò il mondo; solamente piangevano di giusto dolore i Toscani per la perdita del buon principe Ferdinando III, e di lacrime amare ma debite la casa di Napoli e i partigiani di lei. Pure la sorte ajutò questi, perchè da Vienna la regina Carolina per lettere e ambasciatori al sovrano di Russia Paolo I, mostrando i pericoli della casa, dimandò soccorsi non d’armi ma di nome, dire al primo console (e la voce basterebbe) che non atterrasse il trono [p. 305 modifica]di Napoli; e quello imperatore, vago della bella gloria di farsi scudo alla infelicità di un monarca, scrisse lettere commendatrici a Bonaparte, e spedì oratore il conte Lawacheff. Il quale, vista in Vienna la regina e preso di riverenza e di ammirazione per lei, donna grande e rispettabile nei precipizii della fortuna quanto volgare o peggio nelle felicità, andò caldo intercessore a Parigi, ed ottenne comando di Bonaparte a Murat per trattare accordi con Napoli.

Stava sempre in Roma con le milizie napoletane il generale Dames, e però da Foligno Murat a lui scrisse in questi sensi:

«L’affetto dell’imperatore di Russia per il re di Napoli ha fatto dimenticar al primo console tutte le ingiurie di quel re al popolo francese. Ma frattanto, quasi credendosi più forte degli altri principi che han cercato nella pace la salvezza dei loro troni, è rimasto in armi: si disinganni. E voi, generale dell’esercito napoletano, sgomberate subito gli stati del papa e ’l castello Santangelo. Il primo console mi vieta di negoziare prima che non siate tornati nei confini del regno. Non le vostre armi, non il vostro contegno militare; il solo imperatore delle Russie, per la onorevole stima che il primo console a lui porta, può proteggere il vostro re, il quale per meritarsi la continuazione delle grazie di quel monarca, impedisca i porti delle due Sicilie alle navi inglesi, e metta embargo (il sequestro) su le presenti, a ricompensa di ciò che la Inghilterra fece ingiustamente sopra i Danesi, gli Svedesi ed i Russi. Fate che l’ambasciatore delle Russie presso la vostra corte certifichi a me l’adempimento dei preliminari che qui ho fissi; e solamente allora, trattenendo il cammino dell’esercito, fermerò con voi giusto armistizio, precursore di pace uguale.»

Damas, letto quel foglio e provveduto di nuove lettere dell’am basciatore russo Lawachef, mandò negoziatore a Foligno, meno invero per trattare che per obbedire, il colonnello Micheroux. Stabilirono: che la sollecitudine dell’imperatore di Russia per la casa di Napoli, e la modestia e la generosità del governo di Francia avendo arrestato il cammino delle schiere francesi, ed aperti gli accordi, Napoli e la Francia facevano armistizio per un mese, impegnandosi non muovere alle ostilità se non dieci giorni dopo intimate. E ciò a patti: che le milizie napoletane sgombrassero nel termine di sei giorni gli stati del papa; che i Francesi occupassero Terni ed il paese lungo la Nera sino allo sbocco in Tevere; che i porti delle due Sicilie fossero chiusi agli Inglesi ed ai Turchi, e le navi di quelle due nazioni ne uscissero un giorno dopo la notificazione del presente armistizio; che i vascelli francesi da guerra e di commercio godessero in que’ porti tutti i privilegi delle bandiere più favorite; che subito i Francesi imprigionati venendo dall’Egitto (Dolomieu sopra tutti) tornassero liberi, e così. gli altri prigionieri [p. 306 modifica]francesi; che ogni tribunale di stato fosse abolito nelle due Sicilie, ed il re promettesse di accogliere, intanto che la pace si conchiudesse, le raccomandazioni del governo francese a pro delle persone imprigionate o fuoruscite per causa di opinioni.»

Sciolto il congresso per lo armistizio, altro per la pace convenne in Firenze, trattando per il re lo stesso colonnello Micheroux, e per la repubblica il cittadino Alquier. Fu stabilito:

«Pace durevole:

I porti delle due Sicilie chiusi agl’Inglesi ed a’ Turchi sino alla pace di que’ due potentati con la Francia, e sino al termine delle quistioni marittime fra l’ Inghilterra e î regni del Settentrione:

Que’ porti medesimi aperti a’ Russi, agli stati compresi nella neutralità marittima, ed alla repubblica di Francia e suoi collegati. E se il re di Napoli per questi patti temesse le offese de’ navilii discacciati da’ porti, la repubblica francese darebbe come l’imperatore delle Russie, ajuti di armi capaci ad assicurare gli stati delle due Sicilie:

Rinunzia del re alla repubblica francese, di Porto Longone e di quanto altro egli possiede nell’isola d’Elba; non che degli stati detti Presidii della Toscana, e del principato di Piombino.

Oblio ne’ Francesi de’ sofferti danni, ma obbligo nel re di pagare in tre mesi cinquantamila franchi (centoventimila ducati napoletani), onde ristorare quegli agenti o cittadini francesi che più patirono per causa de’ Napoletani:

I soggetti del re, banditi, costretti a fuggire, o chiusi nelle carceri, o nascosti per politiche opinioni, riammessi alla patria, alla libertà, ed al godimento de’ loro beni:

Restituiti alla repubblica i monumenti di belle arti presi a Roma da’ commissarii napoletani:

E infine comune quella pace con le repubbliche bàtava, cisalpina e ligure.»

E per patti segreti:

«Stanziare, durante la guerra della Francia con la Porta e con la Gran Brelagna, quattromila Francesi negli Abruzzi dal Tronto al Sangro, e dodicimila nella provincia d’Otranto sino al Bradano;

Dare il re tutto il frumento necessario a quei presidii, e cinquantamila franchi il mese per gli stipendii.»

XXII. Dura pace per Napoli, ma pace. Il marchese del Gallo mandato supplicchevole a Bonaparte, come che grato a lui fin da’ negoziati di Campoformio, nulla ottenne in disgravio, se non la promessa di resta fedele a’ trattati, ed impedire le ribellioni negli stati de re. Perciò al generale francese Soult, destinato ad occupare il paese dal Tronto al Bradano, fu: proscritto dal primo console mantenere nell’esercito severa disciplina non incitar tumulti, [p. 307 modifica]contenere le fazioni, far conoscere a’ popoli che la repubblica era amica sincera del re. È mia brama, soggiungeva Bonaparte, che il generale Soult con gli ajutanti di campo, gli uffiziali e le schiere della repubblica vadano i giorni festivi con suoni musicali alla messa, e conversino confidentemente co’ preti e con gli uffiziali del re. Tanto era mutato lo stile della prima repubblica, in peggio al dire degli impazienti, e in meglio al pensar degli altri, amatori di possibile civiltà. Per le quali narrate cose, disserrate nel regno le prigioni, palesati i nascondigli, aperte agli esuli le frontiere, tutti i patti adempiuti, ricomparivano i segni beati della pace.

Allora il generale Murat in Firenze per comando del primo console, che sospettava gli esuli italiani (avendone trovati nelle congiure di Ceracchi e della macchina infernale), o per senno proprio, consigliò a’ fuorusciti romani e napoletani tornare in patria con queste parole che qui trascrivo.

«Murat, generale supremo a’ rifuggiti napoletani e romani. Voi che lontani dalla patria penaste lungo tempo, tornate ad essa. La Toscana generosa nelle vostre sventure può sostenere appena L’esercito francese, sì che voi ormai liberi di rimpatriarvi non potreste chiedere ad essa nuovi soccorsi, io non potrei costringerla a fornirli.

Ritornate al vostro paese che vi desidera; egli è pur dolce rivedere la terra nativa! Non temete ingiuste persecuzioni; la Francia, poi che in essa voi confidaste, ha stipulato, ne’ trattati coi vostri governi, la sicurezza delle vostre persone, de’ vostri beni. Non è fallace la protezione del gran popolo, riposate all’ombra di lei.

Napoletani e Romani, scacciate dunque dall’animo i timori, e per carità di voi stessi e della patria perdonate alle vendette, abbandonate i pericolosi disegni. Apprendete dal nostro esempio quanto costino le rivoluzioni; credete ch’è loro essenza produrre in ogni terra, in ogni tempo sventure uguali, nè sperate che il cielo mandi sempre opportuno un genio potente a trattener le rovine, ed a fissare la miglior sorte dello stato.

La storia nostra insegni a’ depositari dell’autorità governar con giustizia, onde scansare la collera tremenda de popoli; e insegni a’ popoli rispettare i depositarii dell’autorità, per non precipitare ne’ disordini civili e nel terribile stato senza leggi. — Murat.»

Eppure, sensi come questi benevoli e sapienti hanno avuto acerbi detrattori; ma chi legge istorie contemporanee non iscorderà che maledire a chi cadde è viltà facile, antica, impunita, come biasimare i potenti è prova ardimentosa di verità.

Quando al re di Napoli fu noto il trattato di Firenze, mutando in atti di governo i patti della pace, dispose le stanze per i Francesi negli Abruzzi e nelle Puglie, ordinò le amministrazioni per il [p. 308 modifica]mantenimento di quegl ingrati presidii, chiamò nuovo perdono la liberazione de’ prigionieri e l’entrata degli esuli, rivocò i tribunali di maestà; con pompa ridevole di clemenza, perciocchè i patti dell’ armistizio e della pace andavano per le bocche del volgo, e non era creduto, abbenchè si dicesse occasione a quelle grazie l’arrivo in Napoli del principe Francesco e della principessa Clementina. Venivano intanto a folla i fuorusciti, e dimandavano la restituzione delle proprietà incamerate alla finanza, vendute in parte, e in parte amministrate dal marchese Montagnano, uomo rigido e ingiusto, che per interminabili trovati ritardò di alcuni anni il pattuito rendimento, ed alfine rese i beni scemi e sfruttati.

XXIII. Mentre in Italia sucecedevano le deseritte cose morì strangolato nella sua reggia l’imperatore delle Russie Paolo I, e si sciolse per quella morte l’alleanza marittima del Settentrione, fermata poco innanzi e detta quadruplice, perchè a danno della Inghilterra la componevano la Russia, la Prussia, la Svezia, la Danimarca; il successore a Paolo, Alessandro I, non volle guerra ne’ principii del regno, e mostravasi avvererso a Bonapartie quanto il padre gli fui proclive; serbò intere le amicizie con la casa di Napoli, e le accertò per lettere ed ambascerie.

Così, finita la guerra marittima del Settentrione, altre paci si strinsero tra la Francia e la Spagna e la Russia e il Portogallo. L’esercito francese nell’Egitto, dopo nuove battaglie, e la spietata morte del generale Kleber, l’imperio debole del successore generale Menou, stretto dalle armi inglesi e turche, impoverito di vettovaglie, disperato di soccorsi, capitolò; e tornando in Europa lasciò in pace quella parte del mondo. Il primo console propose al papa un concordato, e fu gradita l’offerta. Bonaparte con quell’atto pacificava le coscienze,. e (ciò che più gli premeva) le nemicizie di vasto numero di Francesi; e ’l papa rialzava gli altari e il nome e l’autorità pontificia ne’ credenti e superstiziosi. Furono quindi piane le conferenze, nelle quali comparve Roma umile e concedente, la Francia quasichè imperante: Bonaparte dotto di politica, il papa scaltro.

La Toscana, ceduta per la pace di Luneville, fu data al duca di Parma, che, preso il nome di Lodovico I re di Etruria, venne a Firenze. L’isola d’Elba, i Presidii di Toscana e il principato di Piombino, ceduti peri trattati di Luneville e di Firenze, andarono alla Francia;: ma ne impediva il possesso la Inghilterra, la quale, alimentando la scontentezza degli Elbani, rinforzava le difese di Porto Ferrajo per incitamenti, danaro ed armi. Gli abitatori dell’isola inchinevoli alla quiete, ma fedeli e divoti al buon principe Ferdinando III tumultuavano contro i nuovi dominatori, e cinquecento soldati di Toscana guardavano la fortezza di Porto Ferrajo sotto il colonnello Fisson, d’origine torenese, di vecchia età oltre [p. 309 modifica]i settanta anni, bravo per naturale vigore ed onorate abitudini di guerra. Queste genti, ajutate da mano inglese di quattrocento soldati sotto il colonnello Airey, e da tumulti nell’isola, e dalle bande dei cittadini, sostennero assedio maraviglioso per combattimenti di terra e mare, lungo di tredici mesi contro schiere le più agguerrite e fortunate del tempo. Nè cederono che per comando di quello istesso Ferdinando III, la cui bandiera difendevano; e il Fisson per ischivare, la vergogna non già, ma il dolore di cedere la fortezza, ne lasciò il carico ai cittadini, ed egli con le genti assolate navigò per Toscana. Le guardie municipali aprirono le porte ai francesi, ed il già presidio scemato di quei soli che morirono combattendo, tornò libero ed onorato alla patria, dove il Fisson serbò, ed oggi morto ancor serba bella fama. Non era guerra in Europa che per la Inghilterra, ma venne a rallegrare le speranze il congresso in Amiens di ambasciatori francesi e inglesi per trattar pace.

Così lieto finiva l’anno 1801 quando in Napoli morì l’infante Ferdinando nipote al re, e poco appresso la infelice madre di lui Clementina, giovine che di poco superava i vent’anni, sposa e moglie sempre misera, perchè prima, come ho detto, tratteputa in Austria da impedimenti di guerra, poi venuta nell’armistizio tra schiere nemiche e fortunate, mesta nelle nozze, fuggitiva con la famiglia dal regno, scontenta della casa, orbata del figlio, lungo tempo moribonda per malattia lenta e struggitrice, serbando interi i sensi e la ragione. Morta, arrecò lutto al popolo, bruno alla reggia.

Non ancora finito quell’anno, l’astronomo Giuseppe Piazzi dall’osservatorio di Palermo scoprì e aggiunse al sistema solare nuova stella, che nominò Cerere Ferdinandea, per alludere alle ricche messi della Sicilia ed al re di quel regno.

XXIV. Continuando in Amiens le conferenze di pace, se ne stabilirono i preliminari che toccavano alle quattro parti del mondo; ma io ne dirò quanto solo importi alla nostra istoria. Lo sgombero dei Francesi dallo stato di Napoli e di Roma, e degl’Inglesi da qualunque posto che occupassero nel Mediterraneo; la ricognizione delia repubblica delle Sette Isole; la restituzione all’ordine gerosolimitano dell’isola di Malta, che dovea restare indipendente, neutrale nelle future guerre, presidiata, finchè l’ordine mancasse di milizie proprie, da duemila soldati del re di Napoli. Gli sgomberi avvenissero, secondo le distanze, in tempi prefissi. Il trattato era comune con la Porta Ottomana; le ratificazioni così delle due parti, come dai potentati che avevano interesse nella pace di Amiens, presto seguirono: parve nel mondo finita la guerra.

Bonaparte, inteso a raffermare gli ordini interiori della Francia per imprendere voli più arditi di signoria, desideroso di quiete, sollecitò perciò di eseguire i preliminari d’Amiens, vuotò de’ soldati [p. 310 modifica]francesi le terre di Roma e di Napoli. E poichè il restar liberi di peso e di soggezione piaceva ai popoli ed ai principi dei due stati, il generale Murat, per cogliere il merito di opera gradita, venne in Roma, rispettoso al papa e dal papa onorato; e poscia in Napoli dove le accoglienze e le feste furono maggiori, perchè più grande il benefizio, più splendida la corte, più vasto il regno. Lo ammirava il popolo per il bello aspetto, per le fogge d’abito straniero e vago, e per la gran fama di guerra; l’onoravano il principe Francesco reggente, i reali ed i ministri della casa per l’allegrezza della pace e per gli usi di corte; ed al suo partire, il reggente, a nome del re, gli fece presente di brando ricchissimo, non sapendo in quel tempo la casa dei Borboni quali destini per lei stessero nascosti nella spada di Murat.

Uscirono al tempo stesso dal regno le milizie russe, che venute in poco numero nemiche della repubblica Partenopea, l’anno 1799, accresciute per i casi di guerra nelle isole Ionie, stanziate per pigliar consiglio e destro dagli avvenimenti; ora, fatta in Amiens la pace, tornavano richiamate in Russia. Cosicechè, pacificato il mondo, e libero il regno di genti straniere, venne in Napoli da Sicilia il re Ferdinando, tra feste piuttosto vere che prescritte, perchè ammirato dopo tanti casi di fortuna, e come portando seco destino indomabile di grandezza. Indi a due mesi giunse da Vienna la regina, che sebben fosse cagione più vera della salvezza della corona, fu, per la sua mala fama e le passate memorie, meno gradita. Riunita la regal famiglia e felice, strinse doppie nozze con la casa spagnuola, maritandosi al principe Francesco di Napoli, rimasto vedovo, la infanta di Spagna Isabella, ed a Ferdinando principe di Asturies Maria Antonietta principessa di Napoli. Navilio spagnuolo venne a servizio di questa principessa; e quindi unito a navilio napoletano, che andava col principe Francesco a Barcellona per accogliere la principessa Isabella, navigarono insieme, e quello di Napoli tornò con gli sposi il 19 di ottobre del 1802. Per la gioja della pace, del ritorno dei principi e delle nozze, furono continue le feste nella reggia e nella città.

Frattanto il primo console ordinava tutte le parti dello stato. Egli nominato in Francia console a vita con la facoltà di scegliere il successore, ed in ItTalia presidente della Cisalpina, aveva già strette in signoria quelle repubbliche, e poi man mano sostituendo alle pratiche della libertà le opposte della obbedienza, riduceva il popolo alle forme nuove, ma con giustizia ed utilità pubblica. Rialzò gli altari, mantenne i sacerdoti, ordinò le scuole, provvide alle finanze, alle amministrazioni, al commercio, aprì nuove strade, scavò canali, cominciò, poi finì cosa immortale, il nuovo codice, e però imprese o compiè tutte le opere della civiltà. La Francia ne fu lieta, [p. 311 modifica]imperciocehè le nazioni godono dei materiali giovamenti, e non già delle immagini di felicità ideale non mai raggiunta. I settarii di repubblica, pochi e impotenti, mormoravano; i settarii dell’antico re, meno di numero e spregevoli, dicevano rapita la clamide regale; il mondo vedeva in Bonaparte il capo e il termine della rivoluzione. Godevano i re stranieri della svergognata repubblica, e, non prevedendo l’avvenire, dicevano in que’ fatti essere la prova che il reggimento di un solo fosso necessaria condizione della umanità; ma nulla rimettendo della antica superbia, volsero a sdegno per Bonaparte gli odii che portavano alla repubblica, odii funesti alla pace del mondo.

L’isola di Malta non era restituita dagl’Inglesi; e i rifiuti, sprovvisti di ragione, palesavano il pensiero di nuova guerra. Ma pure in Napoli si godevano i benefizii della pace, e si sperava dagli ammonimenti delle sventure alcun senno a’ popoli ed a’ principi, Allorchè, l’11 di gennaro del 1803, per cagioni a me ignote, benchè cercate ne’ registri e nella memoria de’ contemporanei, comparve regal dispaccio in questi sensi: «Non essere bastato al ravvedimento de’ malvagi le sofferte calamità, vedersi rianimate le speranze di sconvolgimento, e tessuto novelle macchinazioni e congiure, così all’interno come nell’estero, da que’ Napoletani che sono rimasti fuori; dispregiando il grazioso invito del re, la tenera voce del perdono e gli allettamenti della patria; esser quindi necessità e giustizia contenere la sovrana clemenza, e, castigando i colpevoli, rendere ai pacifici soggetti la desiderata sicurezza. Perciò comandava il re che la giunta di stato (la medesima che pur si diceva sciolta dopo la pace di Firenze) spedisse i processi e i giudizii; e, ciò fatto, e poi bruciate per segno di oblio le carte de’ suoi archivii, cessasse da quell’uffizio, e si componesse altro magistrato a giudicare co’ modi appellati di guerra i misfatti di maestà.» Proseguirono senza grido i giudizi, non fu sciolta la giunta, congerie grandissima di processi fu bruciata. Nè veramente per l’oblio de’ fatti e dello sdegno, ma per distruggere i documenti della malvagità de’ giudizii. I posteri avrieno letto cose crudelissime; giovani imberbi giustiziati o espulsi, castigato il recidere de’ capelli o il crescer de peli sul mento, punita l’allegrezza o l’assistenza alle feste della libertà, prescritte le condanne o mutate a piacimento dei principi, e in somma tutti gli orrori della tirannide, tutte le pazienze della servitù. Ma se il fuoco incenerì gli archivii, restarono gli annali e la memoria degli uomini.

L’editto rigoroso del re, svegliando le mal sopite passioni di parti; riagitò le furie della polizia, e ricomparvero a folla su la mesta scena della città le spie, i denunzianti, gli accusatori. Il professore di fisica Sementini, trattando un giorno dell’elettricismo promise a’ discopoli per lo indimani l’esperimento della batteria [p. 312 modifica]elettirica. Assisteva in quella scuola giovane di mala ambizione. che sperò merito ed impiego dal denunziare che il maestro al dì vegnente avrebbe mostrato come espugnare la fortezza di Santelmo co’ soli mezzi della chimica; e creduto da ignavo magistrato di polizia, la scuola è assalita in atto degli esperimenti; imprigionati col maestro i discepoli, prese le macchine, e indicato a prova di fellonia il castello elettrico. E la ignoranza o malvagità progredì tanto che fu aperto il processo, e i prigionieri non furono liberi innanzi il quinto mese, quando già nel regno tornava il presidio francese. Era tra quelli un giovinetto Cianciulli, che appena finiva il dodicesimo anno di età, e seco il precettore.

Frattanto numerose bande di assassini, già guerrieri della santa fede tornati poveri e scioperati, correvano in armi le province; ed unendosi a duecento e più, fuggiti dalle carceri dell’Aquila, ponevano a ruba, pubblici ladri, le case di campagna od i villaggi mal cusloditi. Colonne poderose di soldati gl’inseguivano alla pesta; disordini e spese quando l’erario era vuoto di danari; avvegnachè, dopo lo spoglio de’ banchi e le taglie dell’esercito francese e i guasti dell’anno 99, bisognò sostenere in Roma un esercito, e provvedere alla spedizione di Toscana, all’assedio di Malta, e pagare i patti della pace di Firenze, e alimentare il presidio francese nelle Puglie, e satollare l’avarizia de’ diplomatici stranieri, e sborsar dote per le nozze della principessa, e mantenere tre reggie e tre corti, una in Napoli del principe Francesco, l’altra in Sicilia del re, la terza in Vienna della regina. Ma pure la finanza lungo tempo resistè, per prestiti rovinosi e per le arguzie del ministro D. Giuseppe Zurlo, che trasandando leggi, regole, giustizia, utilità del fisco, utilità dello stato, schermivasi come disperato tra le tempeste, e solamente inteso a schivare il naufragio. Erasi indebilato co’ negozianti della città, con gli esattori delle taglie, con le casse di deposito, co’ civili stipendiati, con l’esercito, con la stessa borsa del re: e a tali stremità pervenne che involò dal procaccio le somme (poco più di dodicimila ducati) che venivano a cittadini privati e bisognosi. Egli per certo tempo quietava i creditori con le promesse o con le ricompense di altri interessi e d’impieghi pubblici; ma caduto alfine il credito, la fede, la pazienza, si levarono lamentanze infinite, e nelle rovine dell’erario rovinò il ministro.

Il re, proclive alla collera, lo dimise con onta; ed egli tornava in patria, piccola terra di Molise, povero, creditore del suo stipendio di molti mesi, e debitore agli amici del suo stretto vivere, nella carica sublime di ministro. Tra via fu rivocato in Napoli, dove andò chiuso nelle carceri del Castelnuovo; ma poco appresso, esaminata da ragionieri l’amministrazione del denaro pubblico, fu trovata sregolata ma sincera; i disordini quando comandati, quando [p. 313 modifica]necessarii; ed il ministro veramente colpevole di tenere uffizio dov’era impossibile il successo. Ebbe pensione dal re di tremila ducati all’anno e ristoro di fama, ma taccia d’incapacità negli uffizii che richiedono misura, ordine e severo adempimento di regole e di leggi. Abolito il ministero e ricomposto il consiglio di finanza, il re nominò vice-presidente il cavalier dei Medici, lo stesso palleggiato poco innanzi tra favori e disgrazie della corte; ma oggi l’emulo suo general Acton, giunto a vecchiezza, sazio di fortune, stanco di brighe, marito e padre, non più impediva il Medici, divenuto uomo comune, da che perdè il prestigio dell’ammirazione e della novità; e la regina matura d’anni, travagliata sul trono, dedita a’ gravi pensieri di regno, non più curava le arti e gli studii de’ cortigiani a piacerle. Niente dimostra meglio l’umana piccolezza che la scena di uno corte dove si vedono ardenti passioni e nefandi delitti per tali cose che in breve mutar di tempo e di condizioni fanno riso e vergogna.

Il consiglio di finanza per nuovi provvedimenti salvò l’erario del fallire; vero è che le tre corti per la unione de’ principi si erano strette in una, e le spese maggiori già fornite, le minori scemate, accresciute le taglie, ristorato il credito. Si mostrò per la prima volta l’ingegno del Medici nell’azienda pubblica, e fino d’allora diede sospetto, quindi avverato, ch’ei fosse miglior banchiere che finanziere, cioè più adatto a maneggiar le ricchezze che a crearle. Liquidato il debito de’ banchi, si addissero al pagamento i beni detti dello stato, poi quelli della chiesa, e in ultimo le doti degli stessi banchi; niente fornirono i beni della corona e gli assegnamenti ricchissimi della casa; chi spogiiò i banchi, di nulla gli ristaurò.

XXV. Non appena risurte per la pace e per gl’interni provvedimenti le speranze di miglior vita civile, si udì che la Inghilterra, prima ritrosa quindi manchevole a’ patti d’Amiens, ritenendo l’isola di Malta, denunziava nuova guerra alla Francia. Il primo console, capitano invitto e capo di popolo non restio alle armi, accettò la disfida, sì che d’ambe le parti si apprestavano eserciti e disegni. Schiere francesi posero campo sopra le coste di Boulogne, minacciando la Inghilterra di impresa difficile e sanguinosa, ma non finta nè impossibile; altre schiere, le medesime che avevano sgombrate le Puglie, le rioccuparono riversando sul regno spesa e pericoli. L’ordine di Malta, compagno agl’Inglesi ne’ travagli dell’assedio, salito a speranza di signoria per il trattato d’Amiens, ed oggi deluso, cercò altro asilo, e l’ottenne dal re di Napoli a Catania, città della Sicilia. Perciò in Messina l’eletto dal pontefice gran maestro Tommasi, e buon numero di bali e di cavalieri, celebrarono le solennità di ristabilita signoria; e, nominati gli uffizii, ricomposero il governo come in antico, ma perduta la potenza e le sedi proprie. [p. 314 modifica]Quindi splendido navilio e convoglio per terra condussero l’ordine intero nelle nuove stanze di Catania, dove pareva che fermasse; ma più grandi speranze e disinganni gli erano destinati, però ch’egli moriva necessariamente dalle cambiate costituzioni di alcuni regni e dalla migliorata civiltà, benchè apparisse che lo percuotevano la guerra e la forza.

Le ostilità tra la Francia e la Inghilterra proruppero come nelle private nemicizie ad alti vili e nefandi; non vergognò il governo inglese di congiurare con piccol numero di fuggitivi francesi la morte di Bonaparte; nè Moreau, generale chiarissimo francese, si ritenne dal consentire alle pratiche inique de’ congiurati, mentre stava in Ettenheim prossimo al Reno il duca d’Enghien di regio sangue, preparato ad entrar con le armi nella Francia. Ma palesate le trame, condannati i colpevoli altri alla morte, altri all’esilio, tra quali Moreau; il giovine Enghien sicuro in terra neutrale, sorpreso di notte da mano potente di gendarmi francesi, e menato in Francia, per iniquo giudizio militare fu messo a morte. Crebbe il primo console in potenza, scemò in fama; nè bastò ingegno proprio e di altrui ad onestare la mal’opera, che andrà sempre odiosa compagna con le grandezze della sua vita. Vero è che altri nomi si udirono avvolti nelle stessa infamia, tra i quali si tacciava il generale Murat governatore a Parigi; ma il tempo chiaritore delle dubbie cose, accumulò tutte le colpe sul consolo e su gli ultimi esecutori, che per bassezza scomparendo dalla istoria, lasciano nella brutta scena lui primo e solo.

Il quale, volgendo a sua fortuna i pubblici eventi o buoni o tristi, tolse da que’ pericoli argomento di assodare con le constituzioni dello stato la sua possanza, e richiedente in segreto, richiesto in pubblico dal senato, fu imperatore per voto unanime del popolo francese. Allora la repubblica mutò in signoria, e senza i freni che pure il secolo conosceva, sicchè novello trono ereditario ed assoluto, quasi uguale (non ancora ne’ frutti ma ne’ germi) a quello che il popolo sotto immense rovine aveva sepolto, oggi il popolo stesso, vago, leggiero, innalzò ed obbediva; compiendo nel giro di pochi anni ciò ch’è vicenda di secoli per altre genti. Alla incoronazione in Parigi del nuovo imperatore andò invitato il pontefice Pio VII, con pompa degna del grado e della cerimonia; biasimato dagl’insipienti, laudato dai dotti della politica romana, perciocchè la consecrazione e legittimazione dell’impero dalla mano della chiesa ricordava i tempi della maggiore potenza papale; e scemava la sovranità del popolo, e la pienezza delle ragioni del principe eletto. Fu dunque un atto nocevole a Bonaparte, e il primo che lo respingesse a quella antichità che dovea distruggerto. Ma pure il popolo applaudiva, contento sotto braccio tanto forte di far sicuri [p. 315 modifica]gl’interessi nuovi, minacciati sino allora e cadenti. I re stranieri sconoscevano il nome, il grado, la legittimità dell’impero.

XXVI. Quegli avvenimenti di Francia rinforzavano il sospetto che se l’età, allora finita, era stata distruggitrice delle cose antiche, l’età vegnente rialzerebbe le troppe rovine. Anche i monarchi bramosi di riparare, quanto il potere giungesse, a quelle operate da loro stessi, tentarono ravvivare la compagnia di Gesù che aveva in ogni luogo membri e seguaci. Sino dagli ultimi anni del secolo XVIII molti devoti si univano in Roma nell’oratorio detto del Caravita, e seguendo le regole di sant’Ignazio si chiamarono compagnia della Fede di Gesù. Un settario tra loro, Niccolò Paccanari , Tirolese, giovine audace, raggiunse in Siena il pontefice prigioniero Pio VI, ed ottenne l’assentimento alla società del Caravita, ed il carico di andare in Dillingen nella Germania. e concertare con altra società, del Cuore di Gesù, i mezzi di spandersi nell’Europa per accendere le coscienze alle regole del Lojola, e spianare il cammino al ritorno de’ gesuiti. Andò, ed avuto accesso all’arciduchessa Marianna d’Austria, pia e zelosa, fondò per gli ajuti di lei, con le constituzioni di sant’Ignazio, un convitto di donne, chiamate Dilette di Gesù. E a poco a poco, distendendo gl’intrighi e le credenze, tante genti devote riunì, che potè stabilire tre collegi negli stati del papa, due in Venezia, tre in Francia, uno in Germania, uno in Inghilterra, e molti convitti delle Dilette. Egli a Roma, presso l’arciduchessa Marianna, divenuto con abuso de’ sacri canoni sacerdote, superiore in Dillingen del Cuor di Gesù, fondatore di collegi e di convitti, vestito da religioso della compagnia, era tenuto in riverenza e concetto di santità.

Ma l’imperator de’ Francesi, riconoscendo nelle nuove forme il germe del gesuitismo, vietò i tre collegi nell’impero: il Paccanari a Roma proruppe in disordini, e palesate ne’ convitti delle Dilette le sue lascivie, fu accusato di sacrilegio alla inquisizione, e andò punito di quattordici anni di carcere; l’arciduchessa tornò vergognosa ne’ suoi stati; e sciolte le società di ambo i sessi, restò di loro disgustosa memoria, e l’avviso di esser passato il tempo di rifondare a nuovo siffatte istituzioni. Fu perciò più sapiente del Paccanari il gesuita Angelini, venuto modestamente di Russia per trattar col papa il ristabilimento della compagnia in que’ soli regni dove i principi la chiedessero. Quindi Pio VII, il 30 di luglio del 1804, con breve pontificio diceva: «Per secondare i desiderii di S. M. Ferdinando IV re delle due Sicilie, e giovare col progresso della pubblica istruzione al miglioramento de’ costumi, noi estendendo a quel regno il breve emanato nel 1801 per le Russie, aggreghiamo alla compagnia di Gesù di quello impero tutti i collegi e scuole che si stabiliranno nelle due Sicilie sotto le regole di [p. 316 modifica]sant’Ignazio.» Sursero, dopo ciò, ne’ due regni parecchi collegi, quasi, per modestia, inosservati.

XXVII. Comechè il consiglio di finanza sollevasse per credito l’erario pubblico, non bastando le entrate ai bisogni, propose, e il re approvò, taglia novella sopra tutti gli ordini dello stato, dichiarata di un milione, creduta di tre, incapace di computo per i disordini della statistica ed il garbuglio dei metodi finanzieri, transitoria per la promessa, poi continua nel fatto. Altre due leggi francarono d’ogni tributo l’uscita della seta e dei metalli a verghe o in denaro; leggi sapienti, che poco fruttarono perchè mancò tempo a maturarne i benefizii; e sole, in sei anni di regno, che trattassero di pubblico interesse, in mezzo ad infiniti provvedimenti intesi a sfogar vendette o a stabilire quieta servitù nei soggetti e tirannide sicura nei dominatori.

Perciò afflitte stavano le nostre genti, allora quando ad accrescere mestizia e danno la terra scosse per tremuoto, poco meno terribile di quello descritto nel secondo libro di queste istorie. Giorno della sventura il 26 di luglio, alle ore due ed undici minuti della notte; centro del moto Frosolone, monte degli Apennini fra la Terra di Lavoro e la contea di Molise; il terreno sconvolto da Isernia a Ielzi, miglia quaranta, e per largo da Monterodoni a Cerreto, miglia quindici; perciò seicento miglia quadre, disegnando un lato della figura la catena lunga dei monti del Matese. Sopra quello spazio sorgevano sessant’una città o terre, albergo a quarantamila o più abitatori; e di tanto numero due sole città, San Giovanni in Galdo e Castropignano, benchè fondate alle falde del Matese, restarono in piedi; gli uomini morti montarono intorno a sei mila; i casi del morire varii e commiserevoli, come nel tremuoto delle Calabrie, che nel secondo libro ho descritti. E varii furono i movimenti, perchè di questi è cagione meno la spinta che la natura del suolo dove gli edifizii sono fondati; la città d’Isernia, lunga un miglio e solamente larga quanto le case che fiancheggiano una strada, cadde metà, cioè tutto l’ordine verso oriente, lasciando intero il resto. Il terreno, fesso a rete, e in certi luoghi tanto ampiamente che subissò in voragini; uscivano dai fessi fiamme lucenti, e la cima del monte Frosolone brillava quasi ardente meteora. Gli abitanti di quella infelice regione avevano sentito nel mattino del 26 straordinaria lassezza, e puzzo come di zolfo, nojoso all’odorato ed al respiro; videro alle ore quattro dopo il mezzogiorno annubilato il cielo, e correre i nugoli come turbine impetuoso gli spingesse, mentre che in terra nessun vento spirava benchè leggerissimo, ma col cadere del sole si alzò fiero aquilone, che poi cedè allo scoppio del tremuoto mutandosi a spaventevole rombo. La prima scossa fu leggiera e da pochi avvertita, ma ne succederono tre altre nel breve tempo di [p. 317 modifica]venti secondi, furiose, crescenti, produttrici delle rovine e dei guasti che ho accennato. Anche la contea di Molise ebbe le sue maraviglie di fortuna; e come in Calabria visse sotto alle rovine per undici giorni Eloisa Basili, così nella terra di Guardia Regia aspettò sotterra dieci giorni ed otto ore Marianna de’ Franceschi, gentil donna, giovine bella che appena compieva i venti anni; se non che la Basili visse mesta, e poco di poi morì, e l’altra ripigliando sanità e letizia ebbe ventura di lunga vita, di marito e di figli.

Quel tremuoto fu sentito nelle parti più lontane del regno, e, traversando il mare, nelle isole di Procida ed Ischia. Napoli fu scossa fortemente, così che alcune case rovinarono, molte furono fesse, nessuna illesa, o poche. Il governo per iscarsa finanza e mal animo nulla fece in ristoro di quelle genti. I tremuoti durarono ma innocui sino al finire di marzo; ed andavano a que’ moti compagne le eruzioni del Vesuvio. Fu chiaro che derivarono da elettriehe accensioni, potenti dove il suolo, come in Molise, conserva i segni e le materie di vulcani estinti. Il giorno 26 di luglio è votivo a sant’Anna, e però nel popolo fu creduto miracolo di lei che la città di Napoli non cadesse tutta intera in rovine.

Era in quel tempo tornato in Roma da Parigi Pio VII, e venuto poco appresso in Italia Bonaparte a porsi in capo la corona dei Longobardi, mutata in regno d’Italia la repubblica Cisalpina. Seguirono in Milano le solenni cerimonie, dove tutti i re amici della Francia, e i principi italiani, comunque addolorati del nuovo regno e dal nome insospettiti di perdere i proprii stati, mandarono ambasciatori di apparente allegrezza. Il ministro nopoletano a Parigi, marchese del Gallo, stava in Milano a corteggio dell’imperatore; ma da Napoli fu spedito straordinario il principe di Cardito, che nel circolo di corte espose a Bonaparte l’ambasciata e gli augurii. Volle fortuna che pochi giorni avanti per lettere intercette fosse a Bonaparte giunto notizia di non so quali intrighi tessuti dall’Inghilterra con la regina delle Sicilie a danno della Francia, sì che egli scordando la grandezza della cerimonia, offendendo la dignità degli ascoltanti e di sè medesimo imperatore e re, così all’ambasciatore di Napoli rispose: «Dite alla vostra regina che io so le sue brighe contro la Francia, ch’ella andrà maledetta da’ suoi figli, perchè in pena dei suoi mancamenti non lascerò a lei nè alla sua casa tanta poca terra quanta gli cuopra nel sepolcro.» Al fiero dire ed al bieco aspetto intimorirono gli astanti, Cardito ammutolì; ma l’imperatore, tornato alle maniere cortesi, che aveva facili e seduttrici, ricondusse la calma nell’assemblea.

Erano veri i maneggi di guerra. La Inghilterra minacciata dai campi di Boulogne, costernata dal pericolo d’invasione, ma confidente (come vuole gran popolo) nelle sue forze, si stava, incontro a capitano e ad esercito maraviglioso, preparata, non certa della [p. 318 modifica]vittoria. Aveva ripigliato il seggio di ministro Guglielmo Pitt, che, dotto della povertà de’ potentati europei e dell’avarizia dei gabinetti, deliberò far guerra sterminatrice alla Francia col danaro della Inghilterra ed il sangue straniero; disegno facile tra governi assoluti, dove la vita dei soggetti, nuda di guarentige, rappresenta nei soli computi della forza e della finanza dello stato. Per sussidii della Inghilterra, uguali o maggiori alle spese di guerra, si allearono segretamente contro i Francesi l’Austria, la Russia, la Svezia; mentre come in mercato negoziava la Prussia, e Napoli precipitava ai proponimenti meno avara degli altri principi perchè più calda di sdegno. L’imperator dei Francesi dagl’intercetti fogli e da relazioni e da spie sapeva l’ordita guerra, ma dissimulando sperava romper la lega ed eseguire il passaggio in Inghilterra; odio, vendetta, gloria pari alla grandezza del pericolo incitavano l’animo superbo di lui, che ambiva compier solo tutte le imprese ond’ebbero fama ed onore i maggiori capitani de’ tempi antichi.

Disegnavano i re collegati prorompere con esercito di Svedesi, Russi ed Inglesi negli stati di Hannover, poi di Olanda e portar guerra su le antiche frontiere della Francia; prorompere in Baviera con esercito austriaco e russo; e procedendo, tener gli sbocchi della Selva Nera; prorompere in Italia con esercito austriaco negli stati di Milano. mentre altro esercito di Napoletani, Russi e Inglesi, per le vie di Toscana e di Genova si avanzerebbe (in quanto avesse amica la fortuna) nel Piemonte o sul Varo. Questo esercito e lo svedese agirebbero ad offensiva; l’esercito di mezzo, nella Baviera, si terrebbe in difesa per dar tempo ai Russi di giungere in Alemagna e spiegarsi a seconda linea de’ Tedeschi. I capitani più chiari di quei regni, e il re di Svezia, l’imperatore d’Austria e l’imperatore di Russia, gli arciduchi Ferdinando, Carlo, Giovanni, andavano al cimento; quali a combattere, quali ad animare i combattenti. Fra tutti alzava grido il general Mack, e prometteva difendere la Baviera ed armeggiare finchè giungesse la forza de’ Russi. All’entrar del settembre dovevano muovere contemporanei gli eserciti, com’era prefisso dall’Inghilterra per patto necessario dei sussidii; avvegnachè i preparativi contr’essa di Bonaparte in quel mese compivano, ed era la stagione propizia a valicare con piccole navi la Manica.

Su la riva della quale, trecento leghe lontano dalla Baviera, attendavano le maggiori milizie della Francia, sì che gli alleati credevano vincer paesi voti di guardie. Ma quel sommo, che già previde i pericoli, aveva provvisto a’ rimedii, ed apprestate in tal maniera le forze proprie e dei suoi collegati (pochi e piccoli principi della Germania) da giungere in breve tempo sul Reno, indi alle terre sperate dal nemico facil conquista. Sfuggivagli la impresa d’Inghilterra; ma cercando altrove ricompensa di gloria e di vendetta. [p. 319 modifica]sguernì le coste dell’Oceano, e per le vie più spedite avviò ne’ primi giorni del settembre numerose squadre a’ prefissi luoghi.

Andò a Parigi per altri armati ed altre mosse, e promettendo vincere si partì. Non erano intimate le nemicizie, ma in quei giorni medesimi, a’ 3 di settembre del 1805, l’imperatore Francesco parlando agli eserciti scoprì la guerra; ed ai 7 dello stesso mese l’oste guidata, sotto il nome dell’arciduca Ferdinando, dal generale Mack, ruppe il confine della Baviera, valicando la Salza in Burghausen e cacciando in Franconia l’esercito ed il re di quel regno; ma le genti amiche dell’Austria, russe, inglesi, svedesi, napoletane, indugiavano; era uscita in campo Austria sola, mirabile nelle sventure per costanza del principe ed obbedienza de’ soggetti; ond’ella si vanti meritamente de’ maggiori successi politici e guerrieri, che tutta la ostinatezza inglese e la jattanza de’ Russi non valsero quanto metà della sua fermezza.

XXVII. Per molte strade le genti nemiche andavano a scontrarsi, in Olanda, in Italia, sul Danubio, ed in mare; imperciocchè a soccorso della sperata discesa in Inghilterra ancoravano armati quattro potenti navilii, tre di Francia in Tolone, in Rochefort, in Brest, ed uno della collegata Spagna in Cadice; aspettando la opportunità dei venti per unirsi, e poscia il comando per uscire a vincere, o impegnare il navilio inglese che navigava nel canale della Manica e lungo le coste della Francia. Ammiraglio supremo de’ Francesi era Villeneuve, degli Spagnuoli un Gravina, Siciliano agli stipendii di Carlo IV, e dalla parte inglese Nelson, noto in questi libri per glorie di guerra e tristizie di amore; ottanta vascelli e grande numero di fregate e di legni minori stavano per i Francesi, e quasi egual numero pe’ contrarii. Bonaparte, quando maturava l’impresa d’Inghilierra, aveva dato ingegnose istruzioni per salpare dai porti le flotte, ingannare il nemico e navigare i mari delle Antille onde soccorrere i vacillanti possedimenti francesi, oceupare o sovvertire quei d’Inghilterra, chiamarsi dietro molte navi nemiche, e vincendo o perdendo in lontana guerra, sgomberare il passaggio a’ suoi centocinquantamila soldati nelle isole della Inghilterra. I quali avvisi e comandi, seguiti dall’ammiraglio Villeneuve, produssero ch’egli uscisse da Tolone con dodici vascelli ed altri legni, raggiunti da quattro navi spagnuole, sì che l’11 di aprile dell’anno istesso quell’ammiraglio con quattordici vascelli, sei fregate, quattro brick, prese il cammino delle Antille.

Vi giunse non incontrato, però che Nelson vagò incerto nel Mediterraneo, poi nell’Oceano lungo le coste di Europa; nè volse alle Antille che più tardi un mese del nemico Villeneuve, il quale predò parecchie navi, si afforzò di altri legni da guerra, avvantaggiò le proprie sorti, peggiorò le nemiche; e sebben facesse assai meno [p. 320 modifica]de’ mezzi e delle speranze, tornava contento ne’ mari di Europa con le prue volte a Rochefort. Ma il dì 22 di luglio incontrato nel grosso dell’Oceano dall’ammiraglio inglese Calder che aveva quindici vascelli, fu assalito; e per i difetti delle coalizioni e le migliori arti marinaresche degl’Inglesi, Villeneuve più forte di cinque navi, restò vinto, e si riparò, co’ legni malconci che gli restavano, dentro il porto del Ferrol, indi a Cadice. Sopravvenne, come testè ho rammentato, l’abbandono della impresa d’Inghilterra, scemò l’importanza delle battaglie di mare; ma correva maligna la fama dell’ammiraglio Villeneuve.

Il quale avendo quarantasei tra vascelli e legni minori e credendo assai men forte innanzi Cadice l’ammiraglio Nelson, pensò agevole il vincere; e la vittoria sopra il più grand’uomo di mare dell’Inghilterra e del secolo dover essergli ristauratrice delle patite sventure nell’Oceano e in Egitto. Così lieto, il 19 di ottobre uscì dal porto; e per due giorni navigarono a fila Nelson e Villeneuve; ciascuno inteso a scegliere il tempo e le ordinanze per combattere. Il dì 21 si affrontavano nelle acque di Trafalgar, e seguì battaglia sanguinosa, stupenda per virtù e per valore; della quale non fo racconto perchè serbato allo storico felicissimo delle geste di Francia; e solamente ne dirò quello che importi alla piccola nostra fatica, o che per la maraviglia de’ casi e per gl’insegnamenti che ne derivano diviene istoria di ogni età e di ogni popolo.

Gl’Inglesi con quaranta navi restarono per ardite ordinanze vincitori di nemico più forte, imperciocchè Villeneuve sperava dar battaglia in linee parallele, e Nelson procedendo a colonne sfondava in due punti l’ordinanza francese, e combattendo con tutti i suoi legni parte dei legni del nemico, la inferiorità scompariva. Gli ordini paralleli rammentano in terra e in mare la infanzia della tattica; e può giovarsene un capitano quando abbia maggior forza e libertà di movimenti, che l’andare così formato al nemico può essere utile, lo aspettarlo è danno. Perderono i Francesi per difetto d’arte; ma quanto in uomini possa valor di guerra, disciplina, pazienza, disperazione, mostravano in quel giorno. Il vascello che aveva nome il Redontable perdè sopra seicentoquarantatrè uomini di equipaggio, cinquecentoventidue morti o feriti; all’Achille si apprese il fuoco, e nell’incendio combatteva; le trombe ad acqua erano sprezzate, mancavano i mezzi di salvezza, le batterie una dietro l’altra bruciavano, bruciavano gli alberi, le antenne, era inevitabile e vicino lo scoppio della polveriera. E allora tre vascelli nemici si slontanarono, e i difensori dell’Achille, volgendo un guardo mesto a sè stessi, provvedevano a salvarsi altri a nuoto, altri sopra tronchi di legno gettati in mare. Fu visto, spettacolo sublime, andar gl’Inglesi sopra piccole barche intorno all’incemdio per ajutare e [p. 321 modifica]raccorre que’ fuggitivi; ponendo a rischio la propria vita per salvarla a’ Francesi, non più nemici ma uomini commiserevoli. Così pochi scamparono; saltarono gli altri col vascello allo scoppio delle polveri.

L’ammiraglio spagnuolo Gravina guerreggiò con virtù pari alle virtù più conte, e benchè ferito a morte stava sulla piazza del vascello ai pericoli ed al comando. E pure egli moribondo, meno infelice di Villeneuve che su la capitana il Bucentoro, spezzati gli alberi, le vele, il timone, e immobile il vascello disarmato perchè le artiglierie rotte e cadute, circondate di pochi viventi e di molti morti o feriti, lui non ferito veggente le sue miserie, cercò un palischermo che lo menasse sopra altro legno ancora combattente; ma i palischermi del suo vascello erano stati nella guerra disfatti, ed egli a maggior martirio, abbandonato come certa preda, non poteva combattere nè morire fuorchè di morte volontaria, vergognosa in guerra per chi ne regge l’impero. Andò preso il Bucentoro con altri sedici vascelli, e prigioniero l’ammiraglio con quanti restavano sopra quelle navi. Nè fu allegra la vittoria per gl’Inglesi che videro uccisi oltre due migliaja dei loro prodi, e i proprii legni guasti, e dei legni predati due soli capaci di entrare in porto rimorchiati. E maggiore di ogni perdita fu la morte dell’ammiraglio Nelson, primo capitano di mare per eccellenza d’arti e per ardimento e fortuna: morì su la capitana il Victory di palla di spingarda; beato perchè in tal punto che la vittoria era certa. Gravina finì delle sue ferite nel porto di Cadice. E Villeneuve, tornando dalla prigionia d’Inghilterra, vergognoso delle disfatte, quando fu su la terra di Francia, si aperse il seno di molte ferite e spirò. Fu questo il luttuoso fine della battaglia di Trafalgar, data in mal punto, senza scopo di guerra.

La morte di Nelson e la memoria delle descritte cose m’invitano a compiere il racconto d’Emma Liona, la quale tornata dall’ambasciata di Napoli a Londra, l’anno 1800, viveva in campagna, stanza opportuna agli studii del cavalier Hamilton, e seco l’ammiraglio Nelson, ritirato dal servizio d’armi per pigliar riposo de’ travagli e delle ferite. Nacque in quel tempo da Emma una bambina cui pose nome paterno di Nelson, dispregiando sè stessa, la dignità del marito, la fama dell’amante. E quando per i pericoli della gran Bretagna fu Nelson richiamato a comandare il maggior navilio, Hamilton morì, lasciando milady ricca di danari e di terre. Nelson donò a lei villa bellissima con vasti campi, dov’ella viveva alle cure della fanciulla; ma quando fu morto Nelson, ella isolata, esposta a’ ritorni terribili della fortuna, contrastata nel possesso de’ doni degli eredi d’Hamilton e di Nelson, spregiata e abborrita, non sostenne la mutata scena e passò con grandi ricchezze e con la fanciulla in [p. 322 modifica]Olanda. Nè quietando le sfrenate voglie di lascivia e di lusso, caduta in giovine scostumato ed avaro, sperdè le mal conseguite ricchezze, e morì in povero albergo presso Calais l’anno 1815. La figliuola rimase oscura e compianta. I sozzi amori del grand’uomo per Emma si sperderebbero ne’ racconti di Aboukir e di Trafalgar, se non andassero uniti alle infelici ma durevoli memorie di Cirillo, di Pagano e di altri mille.

XXVIII. La battaglia di Trafalgar, festeggiata dal governo di Napoli a modo di nemico della Francia, più animò i contrarii a Bonaparte, nulla sconfidati dall’ardita promessa di andare a Vienna in un mese, però che sapevano vicina e credevano invincibile l’oste de’ Russi. Nelle menti come nel vero pendevano incerte le sorti degli eserciti, e quindi l’Austria sollecitava i re collegati, e dall’opposta parte l’imperatore de’ Francesi, provvedendo le difese o gli assalti, aveva scritto a Saint-Cyr, generale supremo delle squadre stanziate nel regno, lettere importanti, che per sommi capi rapporterò.

«Una guerra nuova in Germania prepara nuove fatiche e nuove glorie alla Francia. Il re di Napoli, nostro amico per trattati, nemico per animo pertinace, si leverà contro voi ne’ campi della Puglia, ne andrà solo al cimento ma con Ingiesi e Russi, già pronti nella Sicilia e in Corfù. Voi, generale, siate in punto per questa guerra; I colpi fatali saranno vibrati in Germania, e di qua si partiranno le sorti d’Europa...»

E poi ch’ebbe esposti gli alti concetti per vincere in Baviera, ed espugnare la città capo dell’impero austriaco, proseguiva:

«A due casi attenderete. Impadronirvi del regno di Napoli avanti che giungano Inglesi e Russi, o difendervi da queste genti quando assaltato. Aspetterete per il primo caso il comando di muovere, provvederete al secondo con vostro senno. Serbo ancora speranza di mantener pace col re di Napoli, per non aver guerra lontana, e nemici da combattere in Italia, a fronte, a fianco.

Ma se voi foste primo a muover guerra, avanzate sopra Napoli, discacciate l’attual governo, sciogliete l’esercito napoletano, formando a battaglioni i volontarii e i partigiani francesi che dopo la tirannide patita dovrebbero esser molti ed ardenti, disponete le forze ad impedire gli sbarchi d’Inglesi e Russi, o battergli, se sbarcati.

Demolirete le fortezze, come verranno in vostre mani, e preparerete le mine sotto i castelli della città.

Fornirete a lungo assedio la fortezza di Pescara, e ne darete il comando al generale Regnier.

Questa fortezza, importante quando a vai convenisse invadere [p. 323 modifica]il regno, diverrebbe di maggior momento nel caso di tener fronte ad esercito più potente d’Inglesi, Russi e Napoletani.

Ed allora voi contrasterete il terreno piede a piede, per impedire al nemico di giungere alle spalle del nostro esercito d’Italia, prima che le certe sventure delle armi austriache in Germania non abbiano richiamato dall’Adige o dal Mincio il principe Carlo.

Saranno dunque le vostre parti, se di assalitore, conquistare il regno e conservarlo; se di assalito, impedire al nemico il cammino verso il Po.»

Per le quali lettere il generale Saint-Cyr, disposto l’esercito al doppio scopo, attendeva il comando dell’imperatore o gli eventi. Giunse il comando che imponeva uscir dal regno le schiere francesi, però che il re di Napoli avea confermato i patti di amicizia per nuovo trattato conchiuso a Parigi tra ’l ministro Talleyrand per lan Francia, e ’l marchese del Gallo per Napoli, il giorno 21 di settembre del 1805: il qual trattato stabiliva dalla parte del re neutralità nella guerra presente, mantenimento con tutte le sue forze di terra e mare delle ragioni di stato neutro, impedimento agli sbarchi di soldati o alla entrata ne’ porti di legni contrarii alla Francia, promessa e debito di non affidare ad alcun forestiero il comando delle milizie napoletane o di alcuna fortezza. E dalla parte dell’imperator de’ Francesi lo sgombero in trenta giorni dell’esercito di Saint-Cyr.

Succedute le ratifiche il dì 9 di ottobre, il generale Saint-Cyr nel giorno istesso per le vie più brevi parti dal regno, sollecito di congiungere i suoi battaglioni all’esercito d’Italia già combattente su Adige. Piacque a’ Napoletani la neutralità preservatrice dalla guerra, e cagione di tornar liberi da’ presidii francesi e dal peso di mantenerli. Andava perciò benedetta la prudenza del re, quando si udì essersi legato per trattato di Vienna (trattatore il duca di Campochiaro) con l’Austria, la Russia e l’Inghilterra, contro la Francia, e date le ratifiche il dì 26 di ottobre, diciassette giorni dopo le ratifiche date al trattato di neutralità e però nel tempo medesimo il re di Napoli stipulava pace in Parigi, guerra in Vienna, ed a quelle azioni turpissime e alla fine esiziali si dava nome di sapienza e di senno di governo.

Poco appresso, il giorno 19 di novembre, approdate nel golfo molte vele, sbarcarono in Napoli ed in Castellamare undicimila Russi, duemila Montenegrini, e poco meno di seimila Inglesi. Il re, festeggiando l’arrivo di quelle genti, pose il proprio esercito sotto l’impero del generale russo Lasey. Il quale, poco esperto di guerra e superbo, vantava certa la vittoria; e nel circolo di corte, quando ebbe dalla mano del re, in segno di supremo imperio, spada ricchissima, egli brandendola in alto, disse: Non la [p. 324 modifica]deporrebbe prima che non avesse rovesciato dal rapito soglio l’infame Corso: di che fu in segreto deriso da’ circostanti e dal re. Cominciarono i consigli di guerra; il re per il trattato dì Vienna era impegnato a fornire trentamila soldati, ma vedendo di non aver pronti che dodicimila fanti e duemila cavalieri, prescrisse leva d’uomini e di cavalli. Stava in Napoli documento schernito di pace e testimonio di tanta nemicizia l’ambasciatore francese Alquier, il quale, dopo consigli non uditi a’ regii ministri e minacce spregiate, abbassò le insegne di Francia, e, chiesto il congedo ed avuto, si partì da Napoli. Nei congressi per la guerra fu stabilito correre con una colonna di Russi e Napoletani le Marche, le Legazioni, ed attendere che altra colonna d’Inglesi, traversando la bassa Romagna e la Toscana, si unisse alla prima su la sponda del Po. Dove il generate Lascy, prendendo consiglio dagli eventi, deciderebbe se avanzare in Piemonte a sostenere le parti dell’antico re già sommosse, o combattere alle spalle l’esercito di Massena. Stringeva il tempo, imperciocchè per solito fato delle confederazioni gl’Inglesi e i Russi erano venuti più tardi delle promesse, Napoli allora allora conscriveva i soldati; e frattanto Bonaparte in Germania abbatteva gli eserciti austriaci, Massena in Italia guerreggiava con virtù e fortuna degne del nome; ed il principe Carlo, mirando alle sventure dell’impero ed al bisogno di tenere aperto il cammino a ritirarsi, mutate veci, di assalitore assalito, portava indietro i suoi campi. Quindi Lasey e Greig generale degl’Inglesi, rompendo le piacevoli dimore della reggia, accamparono, il primo negli Abruzzi e a Sangermano, l’altro a Sessa ed Itri. La città ed il regno presero gli aspetti di guerra, sgraditi perchè tante volte precursori di vergogne e sventure.

CAPO TERZO.

Ultimi fatti di quel regno.

XXIX. Il motto dell’imperatore Bonaparte che nella sola guerra di Germania consistevano i destini di tutte le guerre di quell’anno, si avverava. Mentre Mack, sicuro ed altiero, guardava i preparati campi della Selva Nera, le legioni francesi marciavano con tal ordine e misura di tempi e luoghi, che a’ primi dell’ottobre si trovavano nelle ordinanze definite dalla mente del capitano, il quale schivando i posti premuniti, tagliando il cammino fra ’l Tirolo e l’esercito tedesco, spiegandosi a battaglia nel fianco sinistro delle linee nemiche, aveva accertata la vittoria prima che le offese cominciassero. È difficil opera volger la fronte di un esercito dove finiva il fianco, ma il generale tedesco, se fosse stato altrimenti che [p. 325 modifica]Mack esperto alle teoriche ed a’ campi, poteva eseguire il cambiamento e presentarsi intero al nemico; colui, non credente per molti giorni alle annunziate mosse de’ Francesi, quindi attonito e smarrito, tramutò le schiere, le confuse, le disgregò; e l’oste intera francese, nel procedere, incontrava spicciolati i Tedeschi incapaci il ritirarsi in buon punto o soccorrersi tra loro, perchè mancavano in quella nuova ordinanza tutte le parti della scienza difficile della guerra. Il dì 6 d’ottobre cominciarono i combattimenti, e durarono cinque giorni sempre vincitori i Francesi; nè veramente per maggior valore, ma per numero assi più grande, come ho dimostrato, e per ordini serrati contro genti divise. La fortezza di Memminingen cadde in un giorno; legioni intere deposero le armi; artiglierie, munizioni, canove abbondanti furono prese; solamente nella fortezza e ne’ dintorni di Ulma erasi accolto sotto lo stesso Mack e l’arciduca Ferdinando numero considerevole di soldati, ma quasi accerchiato dalle squadre francesi. A queste infelici strette, per li ignavia di un solo, fu ridotta la fama ed il valore degli Alemanni.

Per successivi combattimenti, tra’ quali fu sanguinoso quello di Elchingen, i marescialli Soult, Marmont e ’l principe Murat, occupati gli sbocchi d’Ulma, chiusero la fortezza. L’arciduca Ferdinando, vergognoso di patire assedio e andar prigione a’ Francesi, uscì tacitamente, e con quattro squadroni di cavalli per vie deserte cercò ingannare o vincere i posti francesi, e riuscì per celerità di cammino e per arditi scontri a ripararsi con pochi seguaci nella Boemia. Il generale Mack in Ulma aspettava gli assalti del nemico, ma giunse araldo di pace che lo pregava evitar battaglie inutili e disperate. Ed entrando in parlamenti, quel capitano tedesco, inabile a’ trattati quanto alla guerra, cedè la fortezza e diessi prigioniero col presidio e con l’esercito accampato intorno; vent’ottomila fanti, duemila cavalli, sessanta cannoni, quaranta bandiere, magazzini traboccanti. Altra capitolazione fece abbassare le armi al corpo del generale Verneek, prima vinto, quindi accerchiato dalle legioni del principe Murat. E per terza capitolazione furono dati a cavalieri dello stesso Murat numero grande di carri che andavano a convoglio sotto scorta di fanti e di cavalli: Murat fra i luogotenenti dell’imperatore fu il primo favorito della fortuna. E così nel breve giro di due settimane (da che fu detta la guerra de’ quindici giorni) un esercito alemanno di cento mila soldati fu debellato, numerandosi di esso sessantamila prigioni, tra quali ventinove generali, il generale supremo, duemila uffiziali e poche migliaja di morti o feriti, molti dispersi e quindicimila spicciolati e fuggiaschi verso Vienna per unirsi a’ Russi che già spuntavano in Moravia. La gioja ne campi francesi fu grande; l’imperatore narrando le [p. 326 modifica]maravigliose geste al senato di Francia mandò a trionfo con l’esercito prigioniero ottanta bandiere, duecento cannoni, gli arredi de’ campi; e tanta vittoria essendo costata duemila soldati alla Francia e però poco lutto, la contentezza parve piena; e sempre più si dimenticavano le ultime lusinghe della libertà. Mack, tornato a Vienna, e condannato a perpetua prigionia, finì la vita in un castello della Boemia, egli è il medesimo general Mack condottiero dell’esercito napoletano l’anno 1798; e frattanto i suoi ultimi fatti e le vergogne di Ulma non poterono nelle opinioni del mondo assolvere i Napoletani de’ tristi casi di quella guerra, tanto la loro sventura soperchiava la infamia del capitano.

Era seconda la guerra d’Italia: il maresciallo Massena la maneggiava per i Francesi, il principe Carlo per i Tedeschi, e le sorti dell’uno come dell’altro andavano legate, anzi soggette alla guerra di Germania. Che se Bonaparte era vinto o trattenuto sul Reno, forse il principe Carlo riconquistava l’Italia; ma poichè furono contrarie le vicende, e l imperator de’ Francesi, vincitore al Danubio ed all’Inn, procedeva sopra Vienna, il generale austriaco non aveva altre parti che le infelici di tardare il nemico e ritirarsi. Fu questo il carico dato al primo capitano della casa d’Austria, e per merito e nome fra’ primi di Europa. Dopo lunga sospensione d’armi, al termine d’essa, il 18 di ottobre del 1805 il maresciallo Massena varcò l’Adige in gran possa, ed aspettati sino al di 29 i progressi di Bonaparte, diede in quel giorno battaglia tra San Michele e San Martino, e la vinse. Seguì l’altra battaglia di Caldiero, felice a’ Francesi e sanguinosa tanto che vi fu triegua per interrare i cadaveri. Una legione tedesca sotto il generale Hillinger, combattuta, vinta, accerchiata, abbassò le armi. La città di Vicenza, fortificata da’ Tedeschi, espugnata da’ Francesi, diede trionfo di prigioni, di armi, di bandiere, e profitto di abbondanti magazzini. Per combattimento in San Pietro in Gru, i Francesi valicarono la Brenta; e il dì seguente, 6 di novembre, la Piave; e giorni dopo, senza contrasto, il Tagliamento. Presero Trieste: il principe di Rohan, tagliato nel Tirolo, cercando per forza passaggio tra Francesi, sempre vinto e attorniato da maggior numero, davasi prigioniero con seimila fanti e mille cavalli; la città di Laybach apriva le porte al vincitore. E in Laybach finì la guerra d’Italia, perciocchè l’esercito di Massena, col nome di ottavo corpo, confinava l’ala diritta del grand’esercito; e l’esercito del principe Carlo si confondeva negli eserciti alemanni intorno a Vienna. Ebbero i Francesi nelle battaglie durevole fortuna; quindicimila prigioni, armi, bandiere, tutte le dolcezze della vittoria; combatterono, egli è vero, valorosamente, ma non mancava nè valore nè scienza nella opposta parte, respinta da’ destini di altra guerra lontana ed infelice. [p. 327 modifica]

XXX. Bonaparte vincitore in Baviera, e già inteso dell’arrivo de Russi nella Moravia, ordiva il proseguimento della guerra; e quindi radunate in Monaco le sue legioni, le spediva per direzioni varie sopra base novella, donde poscia movendo per linee convergenti di operazione accennavano a Vienna; rincorava e rallegrava le sue genti nelle rassegne, che alla voce di libertà (magica ne’ Francesi per tre lustri) era già succeduta la voce di gloria, ed a quella di patria, Bonaparte. Le milizie di Wurtemberg e di Baden si unirono a’ Francesi, altre di Francia raggiungevano l’esercito; mossero perciò di Baviera ottanta mila combattenti. I resti dell’esercito austriaco acceleravano la ritirata, e spesso i retroguardi erano presi o sconfitti. Ma giungeva in Austria il dì 28 di ottobre la prima colonna de’ Russi; e su le rive dell’Inn, con alcuni battaglioni e squadroni il generale supremo Kutusow, noto nelle guerre di Russia, millantatore e superbo, che tenendo certa la vittoria dispregiava i Francesi, peggio i Tedeschi, e per arte o natura vantava quell’orgoglio a’ soggetti.

Credendo debole la linea dell’Inn, accampò dietro all’Ens; e benchè accresciuto della seconda colonna, lasciò quei campi per attendere sopra i colli di Amstetten che guardano e difendono la città di Vienna. Pure in Amstetten assalito e vinto, desertò il campo, e valicando il Danubio lasciò Vienna preda facile al vincitore; sì che l’imperatore Francesco, uscendone colla famiglia, bandì saggio editto che imponeva ai popoli, non già resistenza inutile e rovinosa (come vedemmo in altri regni), ma ubbidienza al vincitore, e sempre durevole amore alla patria, alla indipendenza e al sovrano dato da Dio. Chi leggesse le costituzioni dell’Austria o giudicasse di lei dai paesi vinti, crederebbe sfortunati e scontenti i suoi popoli; ma chi vivendo in Austria meglio consideri la natura dei principi, ta natura dei popoli, l’amore veramente paterno dei primi, la filiale sicurezza degli altri, la polizia troppa ma giusta, il codice criminale barbaro ma sincero, le pene, benchè aspre, conformi al sentir tardo di quelle genti, e poi lo studio de’ magistrati di piacere al popolo, la povertà soccorsa, l’agiatezza comune, il viver lieto, e cento altre municipali usanze fondamento di civiltà; cessa la meraviglia di veder popolo, beato de’ suoi legami, correre volontario alta guerra dietro la voce dell’imperatore che paternamente lo invita. Debbesi a questa politica simpatia dei sudditi e del principe il miracolo, nel passato, di aver sostenuta mole sì grande di eserciti e di sventure, e nel presente la concordia, sola in Europa, dei soggetti e dei reggitori. Chè dal dominio assoluto, ma di padre o di principe benignamente riformatore, può derivare (per quanto dura il bisogno di passiva ubbedienza) stato comportabile o felice, come l’essere [p. 328 modifica]governati dalla sfrenata potenza di re nemico è la miseria estrema di un popolo.

Per lo editto dell’imperatore Francesco entrarono a Vienna i Francesi, quasi amici, nel giorno 18 di novembre, e le milizie viennesi guardavano i posti interni della città, e per fino le stanze dove l’imperator nemico albergava. Nel giorno medesimo l’avanguardo francese valicò il Danubio, e tutta l’oste nei seguenti giorni procedè verso di Olmutz, dove unito e possente stava l’esercito austro-russo. L’imperatore Alessandro tra le file dei soldati andava rammentando il facile trionfo dei popoli del settentrione sopra genti molli per natura e per uso, guerreggianti nel verno sotto cielo inclemente; ma più fiero il generale Kutusow prediceva poca gloria alle bandiere dei Russi, perchè al primo vederle fuggirebbe il nemico. Pronti così ad assalire stavano sessantacinquemila Moscoviti, diciottomila Alemanni, che il dì 28 dello stesso novembre mossero da Olmutz ad affrontarsi ai Francesi; ma questi non vinti retrocederono per comando di Bonaparte, il quale aspettava l’arrivo di altre legioni, e cercava terreno meglio adatto a dar giornata. Mai Francesi, giunti ai campi di Austerlitz il giorno 1 del dicembre, fermarono; e i due eserciti, però che la notte era vicino, apprestarono la battaglia per il dì vegnente. Quel terreno, acconcio a grandi geste di guerra, aveva pianura per i cavalli, colline l’une all’altre addossate, dicevoli alle arti della tattica, e laghi, e boschi, e impedimenti, venture a chi vince. Sorgeva in mezzo della linea dei Russi, a cavaliero, il colle detto Pratzen le cui pendici si perdono ne’ piani del diritto lato e negl’impedimenti del sinistro; l’occupavano i Russi, e nella notte i numerosi fuochi mostravano che vi accampassero molte genti. Ma nel mattino, movendo le schiere, non misurato il tempo, restò sguernito e quasi vuoto quel poggio, mentre le colonne russe dell’ala manca s’ingombravano nei viluppi detti di sopra, e le altre della diritta si spiegavano alla pianura in ordinanza di battaglia. Bonaparte, visto l’errore del nemico, facendo avanzare a corsa tre legioni, e comandando che in tutta la linea fossero gli Austro-Russi assaliti, disse a’ circostanti già vinta, benchè appena cominciata, la battaglia; e difatti rotta nel Pratzen la debole ordinanza nemica, furon le due ale battute in fianco ed a fronte. Il corpo maggiore dei Russi, quel di sinistra, formato in colonna, rattenuto nella fronte, impedito a spiegarsi dai muri e laghi e impacci stava a segno di strage sotto le artiglierie francesi, e più era in loco disciplina e valore, più erano le morti; ma infine per naturale istinto di vita si scomposero gli ordini, e ciascuno a proprio senno cercava salute fuggendo. Erano gelati due laghi, ma debolmente da non sostenere nè cavalli nè uomini, pure disperazione o necessità fece a [p. 329 modifica]parecchi tentarne il varco, e vi rimasero trattenuti, quindi presi o morti. L’annientamento dell’ala sinistra portò debolezza e scompiglio alla diritta ed al centro, così come nella opposta parte la certa vittoria doppiò l’animo e le forze; nè più si combatteva se il valore dei Russi comportava che avesse il nemico facil trionfo, ma durò la guerra l’intiero giorno. Suonando alfine a ritirata i tamburi russi, gli avanzi del collegato esercito soprastettero molte miglia indietro del campo, e l’oste francese riposò fortunata dove avea vinto. Rivolgo il pensiero dagli effetti dolorosi della giornata, che fu mesta da troppe morti anche al vincitore; e dirò di salto che all’esercito russo, per generosità di Bonaparte, fu concesso il ritorno alle sue terre, e che i legati degl’imperatori d’Austria e di Francia, convenuti a Presburgo per gli accordi, stabilirono (ciò fu a’ 26 del dicembre di quell’anno 1805) fra molti patti quelli che qui riferisco perchè importanti alla nostra istoria. Pace: aggiunti al regno d’Italia gli stati veneti posseduti dall’Austria per i trattati di Campoformio e di Luneville; i regni di Baviera e di Wurtemberg ed il ducato di Baden ingranditi di città e terre austriache in ricompensa della confederazione colla Francia; riconosciuto dall’imperatore d’ Austria il regno e re d’Italia, ed il nuovo stato di Piombino e di Lucca.

Per gli alleati dell’Austria non si trattò; l’esercito di Alessandro, con itinerario fissato dal vincitore, tornò in Russia; restò la gran Bretagna nemica, Napoli abbandonata. Ed in mal punto, perciocchè l’ira di Bonaparte contro la casa dei Borboni era grande e manifestata in un bullettino (così chiamava i commentarii di guerra) nel quale diceva: «di avere spedito Saint-Cyr con esercito poderoso a punire i tradimenti della regina di Napoli, ed a precipitare dal trono donna colpevole che tante volte sfrontatamente avea profanato quanto di più sacro hanno gli uomini; che le praticate intercessioni di potentato straniero erano tornate vane, la dignità della Francia, quando anche cominciar dovesse nuova guerra è «e durarla trent’anni, non comportando che malvagità sì grandi restassero impunite. Aver dunque i Borboni di Napoli cessato di regnare, e de’ suoi precipizii esser cagione l’ultima perfidia della regina; andasse ella in Londra, accrescesse il numero de’ briganti.»

Fa maraviglia osservare dalle narrate cose che a’ 17 di ottobre cadesse a’ Francesi la fortezza di Ulma dandosi prigione il maggiore esercito tedesco, ed a’ 26 di quel mese il re di Napoli ratificasse la lega con la già debellata casa d’Austria; che a’ 13 di novembre i Francesi occupassero Vienna, città capo dell’impero, non essendo bastati a difenderla i freschi eserciti austro-russi, e sette giorni più tardi ricevesse il re ne’ suoi porti le armate inglesi e moscovite, facendo la nemicizia e la mancata fede irrevocabili e manifeste; e che, [p. 330 modifica]già succeduta la pace di Presburgo, stessero le milizie napoletane a documento di ostilità, su le frontiere del regno, pronte con gl’Inglesi a prorompere negli stati d’Italia. Le quali stultizie traggono cagioni dall’odio cieco de’ sovrani di Napoli alla Francia, e dall’arrendevole servitù dei ministri, e da ignoranza comune.

XXXI. L’esercito di Saint-Cyr destinato a conquistar Napoli era forte di trentaduemila combattenti; ma stando in cammino, lo raggiunsero altre schiere, e duce sopra tutte il maresciallo Massena, il quale in tre colonne, una del centro di quindicimila soldati, altra di sinistra di dodicimila, e la terza di diecimila Italiani, procedeva a gran giornate verso il regno. Veniva con l’esercito, portando nome di principe dell’impero e luogo-tenente dell’imperatore dei Francesi, Giuseppe Bonaparte fratello a Napoleone; sì che celeremente avanzavano la vendetta, la conquista e nuovo re. I generali russi ed inglesi, agli annunzii che succederono rapidamente della presa di Vienna, della battaglia d’Austerlitz, della pace di Presburgo e del vicino al regno esercito francese, convenuti a consiglio nella città di Teano, deliberavano se difendere Napoli o abbandonarlo. Lasey e Greig erano per il secondo partito; Andres, generale russo, rammentando i patti della lega, la fidanza in essa del re di Napoli, la perdita certa del trono se fosse in quei cimenti abbandonato, la viltà e l’onta di fuggire innanzi a nemico non visto, il discredito al nome de’ sovrani di Russia e d’Inghilterra per aver volte le spalle nel bisogno maggiore a principe piuttosto sedotto che venuto libero all’alleanza, e per altri generosi argomenti, proponeva restare se non a vincere, a combattere, e se non a serbare il regno a’ Borboni, a pagare il debito dell’amicizia. Ma prevalendo la sentenza de’ primi, Andres replicò: «La storia dirà che io sedeva tra voi, ma che fu il mio consiglio contrario al vostro.» E difatti la giusta dispensiera del biasimo e della lode ha in questa pagina registrato il magnanimo intendimento dell’oratore.

Lasey scrisse al generale Damas, secondo nel comando de’ Napoletani, che, non potendo difendere con poco esercito tutta la frontiera del regno, andrebbe egli ad accampare nelle terre tra Gravina e Matera. Indi a pochi giorni l’ambasciatore di Russia denunziò al governo di Napoli: «Dovere le schiere moscovite uscire dal reame di Napoli, intendersi (aggiungendo al mancamento il dileggio) ristabilita la neutralità tra la Francia e le due Sicilie.» Nè andò guari che Inglesi e Russi, abbandonando gli accampamenti delle frontiere, bruciando il ponte di barche sul Garigliano, marciando co’ modi e le ansietà del fuggire, imbarcarono ne’ porti della Puglia, i Russi per Corfù, gl’Inglesi per Sicilia. E cotesti Inglesi, tornando dalla frontiera, tentavano d’impadronirsi, sotto specie di amicizia, della fortezza di Gaeta; ma il generale che la comandava, [p. 331 modifica]principe d’Hassia Philipstadt, gli respinse con lettere. con messaggi ed alfine con le armi.

XXXII. A quegli aspetti e pericoli, la casa di Napoli scordata ne’ trattati di pace, schernita dagli agenti dei re suoi collegati, sola con la memoria de’ suoi passati mancamenti, trepidava. Convocato consiglio, il re mostrandosi rassegnato alle male venture diceva unico scampo la Sicilia, e sola speranza di regno nell’avvenire; il principe Francesco, timido ed inesperto si taceva; i vili ministri del re, benchè in animo distaccandosi dal sovrano infelice, secondavano le voglie di lui perchè infingarde e sicure. Ma la regina, sempre animosa nelle avversità, rammentando i prodigi del 99, viventi ancora i campioni di quel tempo, spente co’ traditori le interne tradigioni, ordinato l’esercito su la frontiera, e già levate nuove milizie, diceva possibile il vincere, facile il difendersi. certo almeno l’onore di resistere, vergogna lasciare un trono da fuggitivi; spartiva le incumbenze fra il principe Francesco negli Abruzzi, il principe Leopoldo nelle Calabrie, lei stessa nella Terra di Lavoro e nella città, il re in Sicilia. La qual sentenza componitrice dei varii pareri, lasciando a’ timidi sicuro asilo in Palermo, ed agli ambiziosi vasto campo nelle agitazioni del regno, fu applaudita. Colei non avvertiva che erano i tempi mutati dai 99; che l’amore de’ popoli abusato strugge sè stesso; e che il pregio di fedeltà andò sì pieno di misfatti e d’infamia, che cerasi ormai voltato a dispregio e divenuta ingiuriosa la parola di santa fede. Ma le opinioni vere de’ popoli raro giungendo all’orecchio dei re, e la regina credendo facile il rinnovamento dei popolari prodigi, chiamò a sè gli uomini più noti di quella parte, frà Diavolo, Sciarpa, Nunziante, Rodio, e con maniere allettatrici delle quali abbondava, dato l’ordine di attruppar genti, gli avviò nelle province. Così nella reggia.

Il maresciallo Massena giunto a Spoleto, come arringa scritta (detta ordine del giorno) da leggere a’ soldati, manifestò il proponimento di conquistare il regno di Napoli da qualunque fosse difeso, e dopo i consueti ricordi all’onore, alla gloria, alla disciplina, raccomandò il rispetto ai popoli ed alle leggi. Ed un bando del principe Giuseppe, da Ferrentino, diceva: «Napoletani! Il vostro re ha mancato alla fede dei trattati, e l imperator Napoleone giusto quanto potente, per dimostrare all’Europa il rispetto che si debbe alla fede pubblica, darà castigo condegno alla colpa. Voi che non aveste parte alla perfidia, non ne avrete alla pena. I soldati francesi saranno come vostri fratelli.»

E lo stesso principe a’ soldati: «Noi combatteremo i Russi, gl’Inglesi; noi puniremo la corte che gli ha chiamati a dispregio delle più solenni e giurate stipulazioni; noi rispetteremo i popoli. Se i confederati del re non aspetteranno il nostro arrivo, se i [p. 332 modifica]Napoletani non vorranno partecipare alle colpe di una corte che ha sempre tradito i loro interessi, non resterà per noi altra gloria che la disciplina.»

Si leggevano quei fogli. 11 cardinale Fabrizio Ruffo, già capo della santa fede, mandato al principe Giuseppe e male accolto, proseguì verso Parigi; e la corte di Napoli temendo che il nome dell’ambasciatore avesse nociuto all’accoglienza dell’ambasciata, inviò il duca di Santa Teodora, nome nuovo e senza parti. Fu accolto; ma quando espose che il re aveva mancato alla neutralità con a Francia sol per forza patita da’ Russi e dagli Inglesi ({menzogna grossolana e manifesta), il principe francese ruppe l’udienza, dicendogli: rimanesse o partisse a suo bell’agio, ma col divieto di parlargli di accordi. Santa Teodora tornò in Napoli, e narrando le udite o viste cose, ebbe comando di aspettare presso a Giuseppe qualche opportunità per la pace. Procedendo le colonne francesi e quasi toccando la frontiera del regno, non rimaneva speranza che nel popolo.

Sorgeva nella città presso al mare su la riva di Chiaja piccola cappella votiva a sant’Anna, in antico scordata, chiusa, bruttata d’immondizie all’intorno, casolare deserto piuttosto che tempio; ma per il tremuoto di quell’anno, descritto in questo libro, salì nelle credenze a tanta santità che i devoti ne allargarono le pareti, le cuoprirono di presenti, ed andavano a folla ne’ dì festivi a pregare e cantar inni. A quella cappella si condusse aspettata la regina con la famiglia, tutti a piedi processionando vestiti a bruno, con altri segni di penitenza e di dolore, portando in mano ricchi doni al santuario. Popolo immenso la seguiva, ma lo scopo mancò; imperciocchè la regina che memore del valore di quelle genti nell’anno 1799, sperava di concitarle a simile guerra, osservò che al grido, viva il re, muojano i Francesi, di persone apprestate, seguiva silenzio degli astanti, o voce divota per sant Anna. Ne’ medesimi giorni tornavano dalle province i commissarii dei tentati sollevamenti riportando che le concette speranze erano cadute, la plebe indifferente ai travagli della reggia, e i possidenti armati per impedire il rinnovamento de’ disordini del 99. Più largo alle promesse era stato il brigadiere Rodio, e più sincero e sollecito fu al disinganno; il solo frà Diavolo attruppò duecento tristi ed andava con essi correndo e rapinando le sponde del Garigliano.

Sorte irreparabile percoteva la casa de’ Borboni: fuggire, lasciare il regno, scampar la vita in Sicilia, sperare nelle mutabilità del tempo e della fortuna, erano le necessità di quei principi. Il re, il 23 di gennaro del 1806, si partì alla volta di Palermo, lasciando vicario del regno il figlio primo nato principe Francesco. Furono intanto sguerniti di milizie i confini per accamparle intorno a Napoli, sciolti gli attruppamenti volontarii, nudato di guardie tutto il [p. 333 modifica]paese insino a Capua, è solamente guernite le fortezze. Indi a poco, per lo appressar del nemico e la freddezza dei soggetti, disperando difese fuorchè in Calabria dall’asprezza dei luoghi e dall’indole armigera degli abitatori, la regina inviò le schiere assoldate (sedicimila uomini) sotto il generale Damas nelle strette di Campotanese. E l’11 di febbrajo ella con le figliuole e quanti rimanevano ministri ed alti partigiani sopra vascello partì, mentre i due principi Francesco e Leopoldo per la via di terra celeremente raggiunsero e trapassarono l’esereito di Calabria, ponendo le stanze in Cosenza; e di là incitando per comandi e preghiere alla guerra.

Due bandi pubblicò il vicario partendo: uno esponeva la perfidia del nemico, la sua durezza in rifiutare gli accordi, la mira manifesta d’impadronirsi del regno; malvagità tanto peggiori (egli diceva) quanto più la corte di Napoli era stata mansueta, leale, e sempre amica di concordia e di pace. E che sebbene i sudditi si mostrassero pronti a sostenere con l’armi le ragioni del trono, l’animo pietoso del re non tollerava che il suo popolo sfidasse lo sdegno e la vendetta di barbaro nemico; e che perciò questa parte di regno vuotata da milizie piegasse al destino, e serbando in cuore costante affetto al re, padrone dato da Dio, aspettasse la sua liberazione dalle armi borboniche; le quali poderose e risolute distruggerebbero nelle Calabrie, sotto il comando suo e del suo fratello principe Leopoldo, le schiere francesi, per poi volgere alla capitale e riassumere il governo de sudditi amatissimi.

Detti fallaci e derisi. L’altro bando nominava al consiglio di reggenza il tenente-generale don Diego Naselli Aragona, il principe di Canosa uomo di onesta vita (padre a quello dello stesso nome noto oggi per diversa fama), il magistrato Michelangelo Cianciulli.

XXXIII. Era certa la conquista ma di alcuni giorni lontana; e certo il nuovo re, ma reggeva lo stato l’autorità dell’antico. La plebe, avida, scatenata, infrenabile da forze legittime perchè mancanti o svogliate, certa di perdono dal vincitore per allegrezza e prudenza della conquista, e perchè le colpe o i colpevoli si sperdono fra i tumulti, minacciava e impauriva gli onesti della città; mentre i reggenti, deboli per vecchiezza, inesperti al governo dei popoli ed a’ pericoli, timidi dell’antico re, timidi del nuovo, stavano fisi a mirar gli eventi e smarriti. I partigiani dei Francesi assembrati nascostamente per provvedere alla propria salvezza ed alla quiete della città, ma senza ordini o capi, varii d’animo e di senno, sperdevano le ore, che veloci e pericolose fuggivano; quindi tra loro moti agitati, costernazioni, timori; ma pure speranze ed allegrezza. E fu ventura che i primi della parte borbonica fossero fuggitivi, così che la plebe divisa pur essa ed incerta, ignorando il modo di prorompere, dissipava i tempi e le occasioni. [p. 334 modifica]

La reggenza, inviati al principe Giuseppe il marchese Malaspina e il duca di Campochiaro ambasciatori ad informarlo dell’autorità venuta in lei dall’editto regio, e proporre armistizio di due mesi, udì per assolute risposte, cedesse le fortezze, aprisse le porte della città, o si aspettasse render conto di ogni stilla di sangue francese o napoletano, che fosse versata per guerra stolta ed inutile. Così che stringendo il tempo e i timori, stando l’esercito francese presso alle mura di Capua, gli ambasciatori medesimi concordarono, a solo patto di quiete pubblica e di rispetto alle persone ed alle proprietà, la resa delle fortezze e de’ castelli del regno, il libero ingresso nella città, l’obbedienza al conquistatore. Così cessato il timore della guerra esterna, crescevano per lo avvicinamento dei Francesi e per la voce plebea che quegli accordi venivano da tradimento, i pericoli interni della città; insurgevano i prigionieri a rompere i ceppi e le porte, si assembravano a gruppi nelle piazze più frequentate i lazzari ed i già noti nel sacco del 99. Così finiva il giorno 12 di febbrajo e per molti segni l’alba vegnente pareva dovesse illuminare lo spoglio e le stragi nella città. Ma in quella notte, in un congresso di partigiani francesi, uomo risoluto così parlò:

«La nostra vita o la nostra morte, la quiete della città o lo scompiglio stanno nelle nostre mani. La reggenza è una forma vana di governo, sprovvista di credito e di forze, i tribunali sono chiusi, la polizia flagellata dalla mala coscienza si nasconde, mancano re, leggi, magistrati, ordini, forza pubblica; la società è dunque sciolta, ogni cittadino debbe provvedere alla sua salvezza; chi dimani sarà primo in armi, sarà vincente. Io propongo star desti a ed armati, e prima che il giorno spunti correre alle case dei compagni, unirgli, e andando, crescere di numero e di possanza. La piazza Medina sarà nostro campo, e di là, spartiti a pattuglie, percorreremo la città per raccorre i buoni, sperperare i tristi, opprimere i contumaci. Se al primo sole cento di noi andremo uniti, sarà nostra la città e la vittoria; ma se precederanno venti o meno lazzari armati gridando sacco e guerra, noi soffriremo guerra, sacco, ed esterminio.» L’animoso disegno fu applaudito. Altri più rispettoso alle leggi, con bel dire aggiunse che di quei pericoli si parlasse alla reggenza, e si ottenesse per decreto l’armamente de’ buoni, offerendosi ambasciatore. Ed il primo: «Tu andrai ad aringare i reggenti, io ad avvisare i compagni, e non cercando dei successi tuoi, sarò dimani primo ed armato per la città.»

La reggenza impaurita dalle udite minacce della plebe, come dall’ardire dei partigiani francesi, aderì all’inchiesta, e fece decreto che, stampato nella notte, fu affisso, prescrivendo quiete a’ cittadini, e di essa difensori i gentiluomini di ogni rione, facoltati ad armarsi ed a percorrere come forza pubblica la città. E così nel [p. 335 modifica]mattino del 13 di febbrajo alcune migliaja di cittadini onesti ed armati andavano a partite per le vie e le piazze; mentre i lazzari, maravigliati e dispettosi, accusavano la tardità dei loro capi. Stavano le armi in mano ai partigiani di Francia, quei medesimi che poco innanzi, seguaci di repubblica, avevano sofferto la prigionia o l’esilio; ed erano fresche le memorie, vivo il dolore delle patite stragi del 99, e con essi abitavano la città molti dei più feroci persecutori, e tutti i giudici delle giunte di stato, e giungeva esercito amico e potente. Così che invitavano alla vendetta, facilità di conseguirla, giusto dolore, istinto (quasi di umanità) e certezza di andare impuniti. Ma virtù civile si oppose; le case dei malvagi furono guardate, e dal timore che la mala coscienza suscitava, vennero quei tristi rassicurati per discorsi e per opere dell’opposta parte. Allora fu visto la utilità delle guardie cittadine nei politici sconvolgimenti; e poscia ricomposte ne’ moti civili degli anni successivi, tre volte salvarono la città e le province che della città si fanno esempio dalle nequizie del 99.

Durò quell’ordine due giorni, però che al mezzo del dì 14 di febbrajo del 1806 giunsero alle porte le prime squadre francesi. Quante passioni racchiude un popolo, quanti interessi un regno pendevano in sospeso; chi fuggiva, chi nascondevasi, chi andava incontro al vincitore; sospetti, speranze ambizioni agitavano a gara l’animo dei Napoletani.


FINE DEL TOMO PRIMO.