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272 LIBRO QUINTO — 1799.

glie della Trebbia e di Novi perdute da’ Francesi, vide il governo delle Sicilie il pieno trionfo dell’antico sul nuovo; e rompendo gli estremi ritegni della politica (perciocchè non ne aveva della coscienza) stabilì di non più attenuare alcuna pena; e da quel punto, confermando tutte le sentenze di morte, non altro restò a’ capitolati che allungar la vita di alcuni giorni come in agonia, nella spaventevole cappella de condannati. Erano morti Oronzo Massa ed Eleonora Pimentel; successe Gabriele Manthonè, che dimandato da Speciale quali cose avesse fatte per la repubblica: «Grandi, rispose; non bastevoli: ma finimmo capitolando...» «Che adducete, replicò il giudice, in vostra discolpa?» «Che ho capitolato....» «Non basta»; «Ed io non ho ragioni per chi dispregia la fedeltà de’ trattati.» Andò sereno alla morte.

Seguì a Manthonè Nicola Fiano, che, fortunato nel processo non era colpevole di morte; ed in quelle stesse barbare leggi mancava materia alla sentenza; ma per i comandi venuti di Sicilia dovendo egli morire, caso e malvagità diedero ajuto alla giunta. Il giudice lo chiamò dal carcere; e appena visto disse; «Sei tu?» E prescrivendo che fosse sciolto delle catene; rimasti soli: «Ah, Fiano, soggiunse, in quale stato io ti rivedo! quando insieme godevamo i diletti della gioventù non era sospetto che venisse tempo che io fossi giudice di te reo. Ma vollero i destini per mia ventura che stesse in mie mani la vita dell’amico. Scordiamo in questo istante io il mio ufficio, tu la tua miseria; come amico ad amico parlando, concertiamo i modi della tua salvezza. Io ti dirò che dovrai confermare e che tacere per aver merito e fede di veritiero.» Fiano di maraviglia e di amicizia piangeva; Speciale (egli era il giudice) lo abbracciava. E così come quei volle, l’altro disse; e lo scrivano, registrò le parole, ch’ebbero effetto contrario alle promesse; perciccchè il traditore fece negare le cose certe nel processo, confessare le ignote; e l’infelice andò a morte per i suoi detti. Egli era stato in giovinezza compagno a quel malvagio nelle lascivie della vita.

Francesco Conforti, uomo dottissimo, scrittore ardito contro le pretensioni di Roma, legislatore nella repubblica, pericolava della vita. Gli scritti suoi eran perduti, ma pregato da Speciale a ricomporli, gli fu detto che in gran conto si terrebbero i presenti servigi ed i passati. Ebbe miglior carcere e solitario; si affaticò dì e notte a vendicare dal sacerdozio le ragioni dell’impero; e compiuto lo scritto, lo diè al suo giudice. Il quale aprì allora il processo; e pochi giorni dopo il servigio gli diede in mercede la morte.

Tali fatti e la disperazione del vivere spinsero i prigionieri a partiti estremi. Un tal Velasco, di forza e di persona gigante, schermendosi nelle risposte al giudice Speciale, sentì da quel barbaro la minaccia che al dì seguente, in pena del mentire, lo farebbe stroz-