Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro V/Capo I

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LIBRO QUINTO.

REGNO DI FERDINANDO IV.

(anno 1799 a 1806.)


CAPO PRIMO.

Il re Ferdinando Borbone rifacendo il governo eccede in tirannide.

I. Caduta la repubblica, finita la guerra dei campi, cominciò altra guerra più crudele ed oscena dentro la città. I vincitori correvano sopra i vinti: chi non era guerriero della santa fede o plebeo, incontrato, era ucciso; quindi le piazze e le strade bruttate di cadaveri e di sangue, gli onesti fuggitivi o nascosti, i ribaldi armati ed audaci; risse tra questi per gara di vendette o di guadagni, grida, lamenti; chiuso il foro, vote le chiese, le vie deserte o popolate a tumulto, aspetto di città mesta e confusa come allora espugnata. E la fierezza, saziata di sangue, voltasi all’avarizia, fingendo che i giacobini stessero nascosti nelle case, non lasciò luogo chiuso; e, appena aperto, vi rubava a sacco: i lazzari, i servi, i nemici e i falsi amici denunziavano alla plebe le case che dicevano dei ribelli; ed ivi non altro che sforzare, involare, uccidere; tutto a genio di fortuna. Traendo i prigioni per le vie nudi è legati, li trafiggevano con le armi, gli avvilivano per colpi villani e lordure su la faccia; genti di ogni età, di ogni sesso, antichi magistrati, egregie donne già madri della patria, erano strascinati a quei supplizii; così che i pericoli della passata guerra, la insolenza delle bande regie, le ultime disperazioni dei repubblicani, tutti i timori degli scorsi giorni al paragone delle presenti calamità parevano tollerabili. Il cardinale Ruffo, gli altri capi della santa fede ed i potenti su la plebe, validi ad accendere gli sdegni, non bastavano a moderare la vittoria.

Se descrivendo queste supreme sventure di Napoli io m’incontro nei sensi e nelle parole di Cornelio Tacito là dove rappresenta lo stato e la faccia di Roma, dopo ucciso Vitellio, sappia il lettore che avvisatamente non ho voluto fuggire la simiglianza o repetizione di quello autore gravissimo, opportuna a dimostrare che, per variar [p. 264 modifica]di tempi o di luoghi o di civili costituzioni, non varia la natura della plebe, mostro, se lo scateni, orrendo, simile a sè, indomabile; e quanto abominevol peccato fecero i tristi che a lei tolsero i freni delle leggi e della paura. Quindi tristissimi il cardinal Ruffo (per le cose narrate nel precedente libro), e l’ammiraglio inglese lord Nelson per altri più vergognosi fatti che giustizia e verità d’istoria vuol palesati. Veniva d’Egitto. l’eroe d’Aboukir, e innamoravasi, come ho detto nel terzo libro, di lady Hamilton. Costei, nata Emma Liona, di madre povera, di padre incerto, in condizione tanto scaduta che se ne ignora la patria, se non fosse nel principato di Galles in Inghilterra; poi adulta e bellissima, sola, vagante, in povertà di stato, fra costumi corrotti, menò vita sciolta e abietta sino all’età di sedici anni. E allora, venuta in possesso di certo Graham, davasi a spettacolo nello inventato letto di Apollo, nuda e coperta di velo sottilissimo, con le sembianze della dea Igea. Cento artisti ritrassero, a scuola o per lascivia, le divine forme; ed il Romney, celebre pittore, la riprodusse nelle figure di Venere, di Cleopatra, di Frine; come altri di Baccante, di Sibilla, di Leda, di Talia e della pentita Maddalena. Sotto immagini celesti e favolose bellezza vera e presente innamorò Carlo Greville della nobile famiglia Warwick; e quando egli scese da grande altezza di carica e di fortuna, Emma venne in Napoli oratrice allo zio di lui, sir William Hamilton, per ottenere ajuto di danari e permesso al nipote di sposarla, negato innanzi. Il vecchio zio, maravigliato e poi preso di amore della non più vista bellezza, concedendo al giovine parte della dimanda per prezzo dell’altra, pagò i debiti suoi e ritenne la donna. Quindi l’anno 1791 la fece sua moglie col nome di miss Harte; e così Emma, divenuta milady e ambasciadrice, scordando i principii e ’l corso della vita, prese contegno nuovo, e ’l sosteneva come fosse antico e nativo.

E quando lord Nelson si mostrò di lei pazzamente preso, la scorta regina di Napoli (che sino a quel punto avea conversato con milady da superba, come regina con donna di ventura) dechinata l’alterigia, provvida del futuro, l’avvinse a lei coi nodi tenacissimi della vanità; nella reggia, nei teatri, al pubblico passeggio Emma sedeva al fianco della regina; e spesso, ne’ penetrali della casa; la mensa, il bagno, il letto si godevan comuni: Emma era bellezza per tutte le lascivie. Al fuggire da Napoli de’ Borboni, ella imbarcata su lo stesso vascello prese cura sollecita dell’infermo principe Alberto, e il tenne in braccio sino all’ultimo spiro, sicchè la fuga, le sventure, il medesimo asilo in Sicilia doppiarono gli affetti delle due donne.

Ed allorehè la regina Carolina lesse in Palermo le capitolazioni de’ castelli, e vide svanire le sue vendette, pregò Emma, non da regina, da amica, di raggiungere l’ammiraglio che navigava inverso [p. 265 modifica]Napoli, portargli lettere sue e del re, persuaderlo a rivocare l’infame trattato che svergognava tutti i principi della terra, facendoli da meno de’ sudditi ribelli. E poi che l’ebbe infiammata de suoi desiderii, le disse: «A voi, milady, noi dovremo la dignità della corona; andate sollecita; vi secondino i venti e la fortuna.» Quindi con abbracciamenti l’accommiatò. Ella, partita sopra legno corridore, giunse a Nelson quando entrava nel golfo di Napoli. Erano le regie lettere preghevoli e ragionatrici dell’offeso decoro de’ troni, e della ventura che le sorti della sovranità stessero nelle mani dell’ammiraglio; la regina soggiungeva: «Manca il tempo a più scrivere; milady oratrice ed amica vi esporrà le preghiere; e le quante grazie vi rende la vostra Carolina.» In seno al foglio del re stava decreto che diceva:

«Non essere sua intenzione capitolare co’ sudditi ribelli; perciò le capitolazioni de’ castelli rivocarsi. Esser rei di maestà tutti i seguaci della così detta repubblica, ma in vario grado; giudicarli una giunta di stato per punire i principali con la morte, i minori con la prigionia o con l’esilio, tutti con la confisca. Riserbare ad altra legge la piena esposizione delle sue volontà, e la maniera di eseguirle.»

La fatal donna giunta sul vascello di Nelson, destata la gioja e avute le carezze del non atteso arrivo, presentò i fogli a lui, che per istinto di giustizia e di fede senti raccapriccio dell’avuto carico, e rifiutava; ma vinto dalle moine dell’amata donna, l’uomo sino allora onoratissimo, chiaro in guerra, non vergognò di farsi vile ministro di voglie spergiure e tiranne. Tornò indietro il legno dì Milady, apportatore alla regina delle nuove felici; Emma, guiderdone della vergogna, restò con Nelson. E stavano assieme quando egli, arrivato in porto, pubblicando i decreti del re, consumò, come ho accennato nel iv libro, il tradimento.

II. Duravano intanto nella città e crescevano le uccisioni e gli spogli. Dicendo a pretesto che le parti repubblicane avevano preparato la morte di trentamila della plebe con lacciuoli da strozza, i tristi andavano per le case ricercando gl’istromenti del non creduto eccidio, e dovunque per mala ventura trovassero canape o funi, vuotavano e bruciavano le case, uccidevano gli abitanti; e dicendo che i repubblicani portavano sul corpo indelebilmente disegnata la donna o l’albero della libertà, facevano spogliar nudi i giovani militari o cittadini, ed era la bellezza e grandezza della persona stimolo maggiore alla crudeltà. Nè capendo nelle carceri e nelle cave delle fortezze i prigionieri, li spartivano ne’ vasti ed insalubri cameroni de’ Granili, ed all’isola di Procida, per essere condannati da tribunale di maestà colà stabilito; dal quale, primi tra molti, perirono i generali Schipani e Spanò rammentati nel precedente libro. [p. 266 modifica]Quindi Pasquale Battistessa, gentiluomo e padre di molti figli, onesto e non caldissimo seguace di libertà, sospeso alla forva e creduto morto del capestro, si scoprì ancora vivente scendendo alla sepoltura; e fu dal boja, per comando dell’empio Speciale , scannato in chiesa di coltello, e gettato nella fossa.

L’ammiraglio Caracciolo, preso per tradimento di un servo da remoto asilo, fu chiesto da Nelson al cardinal Ruffo, e credevasi per salvare un prode tante volte compagno a’ pericoli della guerra e del mare; sì che rammentando il rancore che le arti marinesche del Caracciolo avevano talvolta concitato nell’altro, si laudava la magnanimità del vincitore. Ma questi, che sua mala fortuna e cieco amore avevano destinato alle vergogne, volle in mano il rivale per saziarsene di vendetta. E quindi al giorno stesso e sul proprio vascello adunò corte marziale di uffiziali napoletani, e ne fece capo il conte di Thurn, perchè primo in grado. La qual corte, udite le accuse, quindi l’accusato (in discorso, però che il processo scritto mancava), credè giusta la inchiesta di esaminare i documenti e i testimonii della innocenza; di che avvisato lord Nelson scrisse: «Non essere necessarie altre dimore.» E allora quel senato di schiavi condannò l’infelice Caracciolo a perpetua prigionia; ma Nelson, saputa dal presidente Thurn la sentenza, replicò «La morte.» E morte fu scritto dove leggevasi prigionia. Si sciolse l’infame concilio alle due ore dopo il mezzodi; e nel punto stesso Francesco Caracciolo, principe napoletano, ammiraglio di armata, dotto in arte, felice in guerra, chiaro per acquistate glorie, meritevole per servigi di sette lustri alla patria ed al re, cittadino egregio e modesto, tradito dal servo nelle domestiche pareti, tradito dal compagno d’armi lord Nelson, tradito dagli uffiziali, suoi giudici, che tante volle aveva in guerra onorati, cinto di catene, menato su la fregata napoletana la Minerva (rinomata ancor essa tra i navilii per le felici battaglie di lui), appiccato ad un’antenna come pubblico malfattore, spirò la vita; e restò esposto, per chi a ludibrio, per chi a pietà, sino alla notte; quando, legando al cadavere un peso a’ piedi, fu gettato nel mare.

Per il quale esempio di crudeltà infierendo i malvagi della plebe, apportarono altre morti e rovine: nulla restava di sicuro o di sacro; la vecchiezza, la tenera età, il debol sesso, i tempii, gli altari non riparavano dalla sete del sangue e delle prede. Sola speranza ponevasi nello arrivo del re, promesso da’ suoi ministri; e difatti nel giorno 30 di giugno, al comparire delle attese vele, si spiegò allegrezza nella città. Il vascello regale, però che il re volle restar su l’acque, vedevasi accerchiato di barche portanti i ministri, gli ambiziosi, i solleciti di mercedi e di cariche; e pure, fra tanti felici ed allegri, qualche famiglia onesta ed abbrunata, supplichevole per [p. 267 modifica]alcun prigioniero pericolante in causa di maestà. Ma tosto il re, infastidito, vietò l’appressamento di alcun legno, e diessi a riordinare lo stato; avendo per consiglieri il generale Acton condotto seco da Sicilia, l’ammiraglio Nelson, i suggerimenti della regina ed il proprio sdegno.

Prima legge riguardò l’annullamento delle capitolazioni. Seconda legge, la nomina di una giunta punitrice de’ ribelli, serbando ad altre ordinanze la dichiarazione de’ delitti di maestà, le pene, il procedimento. Una giunta di stato, sin dalla resa de’ castelli, era stata composta dal cardinal Ruffo; e già in breve tempo aveva condannato parecchi repubblicani. Ma per l’accresciuta ferocia dopo la vittoria, il re, confermando giudici Antonio la Rossa di mala fama nelle pratiche di polizia, ed Angelo Fiore, notato nel precedente libro tra’ seguaci del cardinale, surrogò a’ giudici antichi altri nuovi e più tristi, fra’ quali Giuseppe Guidobaldi, già noto nella giunta del 1796, fuggitivo, e tornato in patria con stuoli di scrivani e di spie; e tre magistrati di Sicilia, Felice Damiani, Gaetano Sambuti, Vincenzo Speciale, provetti nei giudizii di Procida., Terza legge rimetteva la colpa de’ lazzari nel sacco dato alla reggia, e soggiungeva che vorrebbero i sudditi, a quello esempio, rimettere la colpa e la memoria de’ danni sofferti nello spoglio della città. Altra legge scioglieva scelte conventi ricchissimi degli ordini di san Benedetto e della Certosa, incamerando i beni a pro del fisco. Que’ frati, che non avevano colpa ne’ fatti della rivoluzione, caddero per troppa ricchezza, e per avidità regia smisurata ne’ desiderii e nelle azioni.

Quinta legge ed ultima di quel giorno prescrisse l’annullamento de’ sedili e de’ loro antichi diritti, o privilegi; per lo che, a far conoscere la gravità di quelle perdite, io rammenterò per cenni rapidissimi l’origine e l’ingrandimento di quelle congreghe. Napoli, quando città greca, aveva i portici dove per allegro vivere si adunavano gli uomini sciolti di cure, i ricchi, i nobili, gli addetti alla milizia: portici, che in appresso chiamati anche seggi, sedili o piazze, erano luoghi aperti, e nessuna ordinanza impediva lo andarvi; ma i riservati costumi di quel tempo, differenti dagli arditi di oggidi, e la mancanza del terzo stato, lasciando immenso spazio tra ’l primo e l’infimo, nessun popolano aspirava al conversar di que’ seggi. Furono quattro, quanti erano i quartieri, e poscia sei; allargata la città, altri seggi minori dipendenti da’ primi sorgevano, sì che giunsero a’ 29, ma quindi aggregati e stretti a cinque, li chiamarono da’ nomi de’ luoghi, Capuano, Montagna, Nido, Porto e Portanova. Le altre città del regno, già greche, pure avevano portici o seggi, ma quando a’ soli di Napoli si diedero facoltà di stato e privilegi, quelli rimasero a documento di nobiltà e di onore. Perciocchè il primo Carlo di Angiò concesse a’ cinque seggi di [p. 268 modifica]rappresentar la capitale ed il regno, scegliere tra loro i ministri del municipio napoletano, amministrare le entrate della città, concedere cittadinanza agli stranieri che la meritassero, giudicare in alcune cause. In tal modo quelle brigate, piacevoli ed oziose, mutandosi in corpi dello stato, si congregavano in luoghi chiusi, e magnifici quanto volevano ricchezza e nobiltà delle famiglie. Le case di fresco nobili, o le altre di antica ma scordata grandezza dimandavano l’ammissione in qualcuno de’ cinque seggi, però che solo in essi stava il registro e ’l documento della signoria. I popolani, sospettosi della soverchia potenza de’ nobili, chiesero ed ottennero un seggio detto del Popolo, uguale ne’ privilegi, fuorchè di nobiltà, agli altri cinque. Ed allora un sindaco e sei eletti, uno per seggio, componevano la municipalità di Napoli; con un consiglio di ventinove, scelti nelle congreghe medesime; rammentando col numero i primi ventinove seggi della città.

Perciò Ferdinando IV, scordando i giuramenti de’ re che lo avevano preceduto al trono, e del padre, e suoi, annientò per la citata legge del 1799 il corpo municipale della città, la rappresentanza del regno, la nobiltà e signoria delle famiglie; dovendo d’allora innanzi essere una l’autorità nello stato, quella che viene dal trono; una la condizione de’ soggetti, la servitù; semplici le regole di governo, la tirannide. Pretesto a quegli eccessi fu il diritto di conquista; il re dicendo il regno riconquistato. Ma poichè da quel suo diritto discendeva la legittimità della conquista francese, ed uguale diritto nel conquistatore di ordinare a repubblica lo stato, e ’l debito e la innocenza de’ vinti all’obbedienza, e la ingiustizia e illegalità di castigare popolo innocente: il re medesimo, nel preambolo della legge di maestà, dichiarava non aver mai perduto il suo reame; essere stato, benchè in Sicilia, come sul trono di Napoli; dover quindi riguardare ogni atto de’ sudditi, se contrario a’ doveri antichi, tradimento, e se offensivo della regale autorità, ribellione. Egli era nel giorno istesso (però che le due leggi avevano la stessa data) conquistatore e vinto, fuggitivo e presente, privato del regno e possessore.

Da questi principi egli trasse le ordinanze per la giunta di stato, dichiarando rei di maestà, in primo grado, coloro che armati contro il popolo diedero ajuto a’ Francesi per entrare in città o nel regno; coloro che tolsero di mano a’ lazzari il castello Santelmo; coloro che ordirono col nemico secrete pratiche dopo l’armistizio del vicario generale Pignatelli. E rei di morte i magistrati primarii della repubblica, rappresentanti del governo, rappresentanti del popolo, ministri, generali, giudici dell’alta commissione militare, giudici del tribunale rivoluzionario. E rei di morte i combattenti contro le armi del re, guidate dal cardinal Ruffo. E reo di morte [p. 269 modifica]chi assist all’innalzamento dell’albero della libertà nella piazza dello Spiritosanto dove fu atterrata la statua di Carlo III; e chi nella piazza della reggia operò o vide il distruggimento delle immagini regali o delle bandiere borboniane ed inglesi. E reo di morte que’ che scrisse o parlò ad offesa delle persone sacre del re, della regina, della famiglia. E rei di morte coloro che avessero mostrata empietà in pro della repubblica, o a danno della monarchia.

Quarantamila cittadini, a dir poco, erano minacciati della pena suprema, e maggior numero dell’esilio; col quale si castigavano tutti gli ascritti a club, i membri delle municipalità, gl’impiegati nella milizia benchè non combattenti. E infine, chiamando colpevoli anche le guardie urbane coscritte, senza il concorso della volontà, per forza di magistrati e di legge, il re diceva giusto il loro imprigionamento, e necessario a liberarle il suo perdono. La giunta di stato nella città, i commissarii regii col nome di visitatori nelle province, punirebbero i rei tenendo in mira di purgare il regno da’ nemici del trono e dell’altare. Furono visitatori il cavaliere Ferrante, il marchese Valva, il vescovo Lodovici, i magistrati Crescenzo de Marco, Vincenzo Marrano, Vincenzo Jorio. Ad ogni visitatore fu dato un compagno ne’ giudizii; sì che tribunale di due giudici pronunziava della vita, della libertà, de’ beni di numerosi popoli.

III. Così prestabilite le scale dei delitti e delle pene, con legge detta in curia retroattiva, perciocchè le azioni la precedettero; e scelti a grado i magistrati bisognavano le regole del procedimento. Quelle de’ nostri codici non bastando al segreto ed alla brevità, furono imitate le antiche dei baroni ribelli della Sicilia, ed erano: il processo inquisitorio sopra le accuse o le denunzie; i denunziatori e le spie validi come testimonii; i testimonii ascoltati in privato, e sperimentati, a volontà dell’inquisitore, co’ martorii ; l’accusato solamente udito su le dimande del giudice, impeditegli le discolpe, soggettato a tortura. La difesa nulla; un magistrato scelto dal re farebbe le mostre più che le parti del difensore; il confronto tra l’accusato eè i testimonii, la ripulsa delle pruove, i documenti e i testimonii a discolpa, tutte le guarentige della innocenza, negate. Il giudizio nella coscienza dei giudici; la sentenza breve, nuda, sciolta dagl’impacci del ragionamento, libera come la volontà; e quella sentenza inappellabile, emanata, letta, eseguita nel giorno istesso. Ma per quanto le forme fossero brevi, essendo assai maggiore la voluta celerità delle pene, il re nominò altra giunta, detta dei generali; e ad occasione in città e nelle province tribunali temporanei e commissioni militari, le quali sul tamburo, ad horas et ad modum belli, spedissero i processi e le condanne.

Tali asprissime leggi dettava il re, quando al terzo giorno dopo [p. 270 modifica]l’arrivo scopri da lunge un viluppo che Le onde spingevano verso il vascello; e fissando in esso vide un cadavere, tutto il f’ianco fuori dell’acqua, ed a viso alzato, con chiome sparse e stillanti, andare a lui quasi minaccioso e veloce; quindi, meglio intendendo lo sguardo, conosciute le misere spoglie, il re disse, Caracciolo! E volgendosi inorridito, chiese in confuso: «Ma che vuole quel morto?» Al che nell’universale sbalordimento e silenzio de’ circostanti il cappellano pietosamente replicò: «Direi che viene a dimandare cristiana sepoltura.» «Se l’abbia», rispose il re, e candò solo e pensieroso alla sua stanza. Il cadavere fu raccolto e sotterrato nella piccola chiesa di Santa Maria la Catena in Santa Lucia; e volendo spiegare il maraviglioso fenomeno, fu visto che il corpo, enfiato nell’acqua, non più tenuto a fondo dal peso di cinquantadue libbre inglesi (misurate dal capitano Tommaso Hardy comandante del vascello dove con Nelson stava il re imbarcato, testimonio e narratore a me stesso di que’ fatti), si alzò nell’acqua e per meccanico equilibrio ne uscì dal fianco, mentre vento di terra lo sospingeva nel mare. Parve che la fortuna ordir volesse lo spavento e i rimorsi del re; ma quegli, benchè credulo e supertizioso, non mutò costume.

Tante leggi tiranniche e fatti atroci risuscitando le furie della plebe, videsi a’ dì 8 di luglio nella piazza medesima della reggia ardere un rogo, gettare in esso cinque uomini viventi, e poi che abbrustoliti (precipito il racconto) gustar le carni. E stava il re nel porto, seco Acton e Nelson, due armate nel golfo, il cardinale in città, le milizie russe ai quartieri, i capi della santa fede per le strade, o per fino presenti al sacrifizio. Quella enormità inorridì le genti, e fu l’ultima della plebe; ma peggiori se ne preparavano sotto il nome di leggi. Avvegnachè, ricevute in quei giorni medesimi da Palermo le liste di proscrizione, colà compilate dalla regina, consultando i registri antichi, le delazioni delle spie nella repubblica, le successive, gli odii proprii e del suo ministro principe di Castelcicala, il re prescrisse che i tribunali di maestà cominciassero i giudizii.

Penavano carcerati nella sola città trentamila cittadini, e poichè le antiche prigioni erano scarse, come ho detto, a tante genti, servirono al crudele offizio i sotterranei dei castelli ed altre cavi insalubri, alle quali per martirio maggiore s’interdissero le comodità più usate della vita, letto, seggia, lume arnese da bere o da nutrirsi; perciocchè supponendo nei prigionieri disperazione di vita, coraggio estremo, estremi partiti, vietavano i ferri, i vetri, i metalli, le funi; visitavano i cibi, ricercavano le persone. Preposti alle carceri furono uomini spietati, dei quali fierissimo un certo Duecce, uffiziale maggiore nell’esercito, già pieno d’anni, padre di molti [p. 271 modifica]figli; per ventura d’Italia straniero perchè nato Svizzero. Egli più che gli altri inaspriva i martorii delle catene, del digiuno, della sete, delle battiture; tornando in uso e a merito le costumanze orribili de’ tempi baronali o monastici. Seguiva per ferocità al Duecce il colonnello de Gambs preside alle prigioni di Capua, e pari ad esso Scipione Lamarra generale di esercito, non che altri parecchi, allora oscuri, e dei quali la istoria debbe scordare i nomi.

IV. Ma pure a sollievo de’ prigionieri, come a spavento del re e de’ suoi ministri, stavano le incertezze d’Italia; cioè squadre francesi ancora in Roma ed in Toscana; Genova guardata da presidio forte per numero di legioni, fortissimo del suo capo general Massena; il Piemonte corso da Lecourbe; Macdonald con oste numerosa presso ad unirsi al general Moreau; e in somma eserciti combattenti, e la fortuna, sebbene inchinasse ai troni, ancora sospesa, o, quanto ella suole, mutabile. Perciò a’ tribunali di stato furono date due liste di nomi: de condannabili a morte, e di quelli tra loro per i quali non sarebbe eseguita la sentenza prima del regio beneplacito; questi erano i capitolati. Ma per due soli, prevalendo l’odio alle prudenze dell’avvenire, la eccezione fu trasandata, e si videro pendere dalle forche il generale Massa autore delle capitolazioni, ed Eleonora Pimentel, donna egregia, poetessa tra i più belli ingegni d’Italia, libera di genio, autrice del Monitore Napoletano, ed oratrice facondissima nelle tribune de’ club e del popolo.

Avvisate le giunte de’ voleri della regina e del re, cominciarono l’iniquo uffizio; prima e sollecita quella detta di stato, la quale congregavasi nel monistero di Monte-Oliveto; e, sia per mostra d’infatigabile zelo, sia per più grande orrore o spavento, l’infame concilio giudicava nella notte. Stabilirono, per tener viva la tirannide, scrivere in ogni giovedì le sentenze, pubblicarle al dì appresso, eseguirle nel sabato; a’ soli delle capitolazioni condannati mutava il re la pena di morte in ergastolo perpetuo dentro la fossa di Santa Caterina, nell’isola della Favignana. Questa isola dei mari di Sicilia, Aegeusa de’ Latini, e fin di allora prigione infame per i decreti de’ tiranni di Roma, s’erge dal mare per grande altezza in forma di cono, del quale in cima sta fabbricato un castello. E dal castello per iscala tagliata nel sasso, lunga nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta da scarpello, incavata, che per giusto nome chiamano fossa. Ivi la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; e grave il freddo, l’umidità densa; vi albergano animali nocevoli; l’uomo, comunque sano e giovine, presto vi muore. Fu stanza di nove prigionieri, tra’ quali più noti il principe di Torella grave d’anni ed infermo, il marchese Corleto della casa de’ Riarii, l’avvocato Poerio, il cavaliere Abbamonti.

V. Comincio racconto più doloroso; avvegnachè dopo le [p. 272 modifica]battaglie della Trebbia e di Novi perdute da’ Francesi, vide il governo delle Sicilie il pieno trionfo dell’antico sul nuovo; e rompendo gli estremi ritegni della politica (perciocchè non ne aveva della coscienza) stabilì di non più attenuare alcuna pena; e da quel punto, confermando tutte le sentenze di morte, non altro restò a’ capitolati che allungar la vita di alcuni giorni come in agonia, nella spaventevole cappella de condannati. Erano morti Oronzo Massa ed Eleonora Pimentel; successe Gabriele Manthonè, che dimandato da Speciale quali cose avesse fatte per la repubblica: «Grandi, rispose; non bastevoli: ma finimmo capitolando...» «Che adducete, replicò il giudice, in vostra discolpa?» «Che ho capitolato....» «Non basta»; «Ed io non ho ragioni per chi dispregia la fedeltà de’ trattati.» Andò sereno alla morte.

Seguì a Manthonè Nicola Fiano, che, fortunato nel processo non era colpevole di morte; ed in quelle stesse barbare leggi mancava materia alla sentenza; ma per i comandi venuti di Sicilia dovendo egli morire, caso e malvagità diedero ajuto alla giunta. Il giudice lo chiamò dal carcere; e appena visto disse; «Sei tu?» E prescrivendo che fosse sciolto delle catene; rimasti soli: «Ah, Fiano, soggiunse, in quale stato io ti rivedo! quando insieme godevamo i diletti della gioventù non era sospetto che venisse tempo che io fossi giudice di te reo. Ma vollero i destini per mia ventura che stesse in mie mani la vita dell’amico. Scordiamo in questo istante io il mio ufficio, tu la tua miseria; come amico ad amico parlando, concertiamo i modi della tua salvezza. Io ti dirò che dovrai confermare e che tacere per aver merito e fede di veritiero.» Fiano di maraviglia e di amicizia piangeva; Speciale (egli era il giudice) lo abbracciava. E così come quei volle, l’altro disse; e lo scrivano, registrò le parole, ch’ebbero effetto contrario alle promesse; perciccchè il traditore fece negare le cose certe nel processo, confessare le ignote; e l’infelice andò a morte per i suoi detti. Egli era stato in giovinezza compagno a quel malvagio nelle lascivie della vita.

Francesco Conforti, uomo dottissimo, scrittore ardito contro le pretensioni di Roma, legislatore nella repubblica, pericolava della vita. Gli scritti suoi eran perduti, ma pregato da Speciale a ricomporli, gli fu detto che in gran conto si terrebbero i presenti servigi ed i passati. Ebbe miglior carcere e solitario; si affaticò dì e notte a vendicare dal sacerdozio le ragioni dell’impero; e compiuto lo scritto, lo diè al suo giudice. Il quale aprì allora il processo; e pochi giorni dopo il servigio gli diede in mercede la morte.

Tali fatti e la disperazione del vivere spinsero i prigionieri a partiti estremi. Un tal Velasco, di forza e di persona gigante, schermendosi nelle risposte al giudice Speciale, sentì da quel barbaro la minaccia che al dì seguente, in pena del mentire, lo farebbe [p. 273 modifica]strozzare su le forche. E Velasco: «Nol farai», replicò; nè compiuta la parola, sì avventò al nemico, e strascinandolo alla finestra sperava che precipitassero insieme. Lo scrivano presente lo impedì; ed accorrendo alle grida gli sgherri della giunta, Velasco andò solo al precipizio.

ll conte di Ruvo svillaneggiato dal giudice Sambuli, ruppe le ingiurie, dicendogli: «Se fossimo entrambo liberi, parleresti più cauto; ti fanno audace, queste catene», e gli scosse i polsi sul viso. Quel vile impallidito comandò che il prigioniero partisse; e non appena uscito, scrisse la sentenza che al dì vegnente mandò quel forte al supplizio. Egli, nobile, dovendo morir di mannaja, volle giacere supino per vedere a dispregio scender dall’alto la macchina che i vili temono.

Altri prigionieri nella fossa profonda del Castelnuovo tentarono il fuggire; ajutati da egregia donna, libera in città, perciocchè nel tempo tristissimo che descrivo, impediti gli uomini dal pericolo e dalla paura, le donne presero il carico di assistere gli afflitti. Elle, spregiate nelle sale de’ ministri, scacciate dalle porte delle prigioni, oltraggiate nella sventura dalle lascivie degli scrivani e de’ giudici, tolleravano pazientemente le offese; e senz’ardire o viltà, tornavano il dì seguente alle medesime sale, alle medesime porte, a dissimulare le patite ingiurie colla modestia e col pianto. Se alcuno sfuggì dalla prefissa morte, o se di altri scemò la pena, fu in mercè delle cure e della pietà delle donne. Delle quali una, per fatica e per cimenti, fece penetrare nella fossa lime, ferri, funi, altri stromenti; architetto della impresa il matematico Annibale Giordano, rammentato nel III libro; gli altri, addetti a segare i cancelli ed a comporre gli ordegni per discendere al sottoposto mare della darsena, dove piccola preparata nave li accoglieva. E già stando sul termine il lavoro, si allegravano della speranza di libertà que’ prigionieri, diciannove di numero, ma di virtù smisurata; però che tra loro vedevi Cirillo, Pagano, Albanese, Logoteta, Baffi, Rotondo; quando nel pieno della notte, schiuse le porte, videro entrare nella fossa Duecce, un giudice di polizia, birri, sgherri, altre genti; e i due primi andar dirittamente dove stavano sotterrati. gl’istromenti, e poi ad una cava ed a’ cancelli, cammino disposto al fuggire; non come uomini che van dubbiosi, ma spediti e certi. Avvegnachè due de’ prigioni, lo stesso Annibale Giordano, provetto ne’ tradimenti, e Francesco Bassetti generale della repubblica, palesarono al comandante del forte le avanzate pratiche in premio di salvezza. E difatti diciassette subirono infima sorte; i due vissero vita infame, corta il Bassetti, lunga e non misera il Giordano.

Continuavano i giudizii. Il giudice Guidobaldi, tenendo ad esame il suo amico Niccolò Fiorentino, uomo dotto in matematiche, in [p. 274 modifica]giurisprudenza, in altre scienze, caldo ma cauto seguace di libertà, schivo di offici pubblici, e solamente inteso per discorsi e virtuosi esempii ad istruire il popolo, Guidobaldi gli disse: «Breve discorso tra noi; di’ che facesti nella repubblica? — Nulla, rispose l’altro, mi governai con le leggi o con la necessità, legge suprema.» E poichè il primo replicava che i tribunali non gli accusati dovessero giudicare della colpa o della innocenza delle azioni, e mescolava nel discorso alle mal concette teoriche legali, ora le ingiurie, ora le proteste di amicizia antica, e sempre la giustizia, la fede, la bontà del monarca, il prigioniero, caldo di animo ed oratore spedito, perduta pazienza, gli disse: «Il re, non già noi, mosse guerra ai Francesi: il re ed il suo Mack furono cagioni alle disfatte; il re fuggì lasciando il regno povero e scompigliato; per lui venne conquistatore il nemico, e impose a’ popoli vinti le sue volontà, Noi le obbedimmo, come i padri nostri obbedirono alle volontà del re Carlo Borbone; che la obbedienza de’ vinti è legittima perchè necessaria. Ed ora voi, ministro di quel re, parlate a noi di leggi, di giustizia, di fede? Quali leggi? quelle emanate dopo le azioni! Quale giustizia? il processo secreto, la nessuna difesa, le sentenze arbitrarie! E qual fede? la mancata nelle capitolazioni dei castelli! Vergognate di profanare i nomi sacri della civiltà al servizio più infame della tirannide. Dite che i principi vogliono sangue, e che voi di sangue li saziate; non vi date il fastidio dei processi e delle condanne, ma leggete su le liste i nomi dei proscritti e uccideteli; vendetta più celere e più conforme alla dignità della tirannide. E infine, poichè amicizia mi protestate, io vi esorto ad abbandonare il presente uffizio di carnefice non di giudice, ed a riflettere che se giustizia universale, che pure circola su la terra, non punirà in vita i delitti vostri, voi, nome abborrito, svergognerete i figli, e sarà per i secoli a venire la memoria vostra maledetta.» L’impeto del discorso consegui che finisse; e, finito, fu l’oratore dato ai birri, che stringendo spietatamente le funi e i ceppi tante piaghe lasciarono sul corpo quanti erano i nodi; ed egli, tornato in carcere, narrando a noi que’ fatti, soggiunse (misero o veritiero indovino) che ripeterebbe tra poco quel racconto a’ compagni morti.

Mario Pagano solamente disse ch’egli credeva inutile ogni difesa; che per continua malvagità di uomini e tirannia di governo gli era odiosa la vita, che sperava pace dopo la morte.

Domenico Cirillo, dimandato della età, rispose sessant’anni; della condizione, medico sotto il principato, rappresentante del popolo nella repubblica. Del qual vanto sdegnato il giudice Speciale, dileggiandolo disse: «E che sei in mia presenza?... — In tua presenza, codardo, sono un eroe!» Fu condannato a morire. La sua fama e l’aver tante volte medicato il re, e i reali trattenevano l’iniquo [p. 275 modifica]adempimento della sentenza; pel qual tempo Hamilton e Nelson facendoli dire nelle carceri che s’egli invocasse le grazie del re le otterrebbe, quel magnanimo rispose aver perduto nello spoglio della casa tutti i lavori dell’ingegno, e nel ratto della sua nipote, donzella castissima, le dolcezze della famiglia e la durata del nome; che nessun bene lo invitava alla vita, e che aspettando quiete dopo la morte, nulla farebbe per fuggirla, E l’ebbe sulle forche insieme a Mario Pagano, Ignazio Ciaja e Vincenzo Russo: tanta sapienza, c tanti studii, e tanto onore d’Italia distruggeva un giorno. La plebe spettalrice fu muta e rispettosa, poi dicevano che il re, se non fosse stato sollecito il morir di Cirillo, gli avrebbe fatta grazia; ma quella voce menzognera e servile non ebbe durata nè credito.

VI. Sarebbe lungo e doloroso uffizio discorrere a parte a parte le opere malvage dei tiranni, le commiserevoli degli oppressi; e però a gruppi narrerò molti casi spietati e ricordevoli. Morirono de’ più noti del regno intorno a trecento, senza contare le morti nei combattimenti o pei tumulti; e furono dell’infelice numero Caraffa, Riario Colonna Caracciolo, cinque Pignatelli (di Vaglio, di Strongoli, di Marsico). ed altri venti almeno di illustre casato; a fianco ai quali si vedevano uomini chiarissimi per lettere o scienze, Cirillo, Pagano, Conforti, Russo, Ciaja, Fiorentino, Baffi, Falconieri, Logoteta, de Filippis, Albanese, Bagni, Neri ed altri assai; poscia uomini notabili per sociali qualità, i generali Federici, Massa, Manthonè, il vescovo Sarno, il vescovo Natale, il prelato Troise; e donna rispettabile la Pimentel, e donna misera la Sanfelice, Non vi ha città o regno tanto ricco d’ingegni che non avesse dovuto impoverirne per morti tante e tali. Ed a maggior pietà degli animi gentili rammenterò che si vide troncato il capo ai nobili giovanetti Serra e Riario che non compivano il quarto lustro, ed a Genzano che appena toccava il sedicesimo anno; per il quale si avverò fatto incredibile. Solo, di casa ricchissima e patrizia, bello di viso e di persona, speranza di posterità, morì dal carnefice; ed il padre di lui, marchese Genzano, troppo misero, o schiavo, o ambizioso, o mostro, dopo alcune settimane della morte del figlio convitò a lauto pranzo i giudici della giunta.

Altro spettacolo miserabile era la povertà delle famiglie; i beni stavano incamerati o sequestrati dal fisco, le case vote perchè spogliate nel sacco, il credito spento nella nudità di ogni cosa, ed i soccorsi dei parenti e degli amici consumati nella prigionia e nei maneggi del processo dall’avidità degli scrivani e dei giudici, Era vietato per legge parlare ai prigionieri, o saper delle accuse, o accedere ai magistrati; ma tutto diventò venale; la pietà, la giustizia stavano a prezzo. E però famiglie agiate sino a quel giorno stentavano la vita, e spesso accattavano ii nutrimento. [p. 276 modifica]zione dei beni de’ ribelli furono preposti Uomini spietati, che in quei bisogni dell’erario incassavano le entrate, vendevano i beni, trasandavano il sostenimento delle famiglie. La vecchia principessa della.... (mi sia concesso in questa età velarne il nome) viveva poveramente per la carità di un servo.

VII. Cominciò il processo della Sanfelice, di quella donna che fu cagione dello scoprimento della congiura di Baker. Il giovine Ferri era morto in guerra, o fuggito in Francia, ed i congiunti degli uccisi Baker dimandavano vendetta a’ tribunali di stato e nella reggia; che non baslando a consolarli tutto il sangue che si versava per la monarchia, ne chiedevano per la famiglia. La misera donna, vergognosa dell’offesa pudicizia (che pure il corrotto secolo perdona), fu menata in orrendo carcere, e per la legge che diceva reo di morte chi avesse mostrata empietà in pro della repubblica, fu ella condannata a morire; e subito moriva se non diceva di esser gravida. Osservata e creduta, fu sospeso il supplizio. ed allora il re da Palermo ne rimprocciò per lettere la giunta, dicendo inventata la scusa e sedotti gli esperti; e quando per secondo esame si confermò il primo avviso, comandò che la donna fosse menata in Sicilia per essere osservata dai medici della casa; ma in Palermo, accertata la gravidanza, fu chiusa in carcere aspettando il primo giorno di vita per la prole, ultimo per la madre.

Altro processo di’grido riguardava gli uffiziali della marina: l’ammiraglio Caracciolo era spento; ma una morte non consolando i molti sdtegni prodotti dalle guerre di Procida, di Castellamare, del Ponte della Maddalena, la regina comandò da Palermo che la giunta scegliesse quattro de’ più felloni per farli morire; mandasse gli altri a pene minori, compiesse ormai quel processo, troppo lungamente trattenuto, con grave danno dell’esempio, e lamentanze de’ fedeli servi del re. L’infame congresso, consultando, disegnò le vittime, tra le quali il capitano Sancaprè tenuto nelle prigioni di Santo Stefano, isola presso Gaeta. Prefisse il giorno per il giudizio, i venti tardavano arrivo all’isola della nave ed il ritorno col prigioniero; ma non però fu contraddetta la volontà della regina o differita la sentenza, imperciocchè gl’iniqui giudici surrogarono al fortunato Sancaprè il capitano Luigi Lagranalais che per le prime condanne andava in bando. Nè fu quello il solo esempio di servile obbedienza. Flavio Pirelli egregio magistrato, imprigionato, e per dimostrata innocenza fatto libero dalla giunta, andò per lettere del re a perpetuo confino in Ariano; Michelangelo Novi condannato al bando dalla giunta, fu chiuso, per comando venuto da Palermo, in ergastolo a vita; Gregorio Mancini sbandito per quindici anni, già preso commiato dalla moglie e da’ figli, e in nave per partire, trattenuto per nuovi ordini del re, morì al seguente giorno su le forche. [p. 277 modifica]

Non appena finita la causa detta della marina, si aprì quella della città. Carichi gravi sì addossavano a que’ nobili: disobbedienza al vicario del re; usurpato impero; nuovo governo sul decadimento della monarchia e della casa de’ Borboni; impedimenti al popolo nel difendere la città; ajuti alle armi nemiche; molte fellonie in un fatto, Era tribunale in quel giudizio la stessa giunta di stato, aggrandita di alcuni giudici straordinarii, scelti dal re tra magistrati di alto grado e suoi ministri; lo stesso il procedimento, nè variavano le pene. La intera nobiltà tremava; che sebben fossero intorno a venti gli accusati, erano timorosi per legami di sangue innumerevoli. Avevano in difesa i privilegi antichi; gli assalivano i fatti presenti ed i tempi. In cinque giorni fu spedito il giudizio; dal quale pochi andarono liberi, molti puniti di prigionia o di confino su l’isole della Sicilia, un solo condannato a morte, il duca di Monteleone, personaggio illustre in Europa, in America, ricco oltre i termini di privata fortuna, marito, padre, venerato per qualità di animo e di mente. E tal uomo dal carnefice moriva se lettere del papa Pio VI, preghevoli al re, non avessero impetrata grazia ed ottenuto che mutasse la morte in prigionia perpetua nell’isola di Favignana. Andarono alla pena i condannati, e tra loro il giovine principe di Canosa, dichiarato fellone perchè propose, come altrove ho riferito, il mutamento del principato in aristocrazia; tre degli otto giudici, più severi lo punivano di morte; gli altri benigni, perdonando la inezia del voto, lo castigarono di soli cinque anni di carcere.

La giunta de’ generali preseduta dal luogotenente generale de Gambs, e i consigli detti subitanei, e i visitatori nelle province, gareggiavano a rigor di condanne con la giunta di stato, e ne erano vinti; non che avessero sensi più miti di giustizia, ma perchè i principali tra colpevoli erano affidati alla certa perfidia della prima giunta. Coi processi di sangue processi minori si espedivano, condannando alle prigioni, al confino, ed in grande numero all’esilio; vedevi fra gli esiliati vecchi infermi e cadenti, giovanetti o fanciulli che non passavano l’età di dodici anni, donne matrone e donzelle; e tutta questa innocenza castigata, chi per aver tagliata la coda dei capelli o cresciuti i peli del mento, chi per avere assistito a repubblicana cerimonia, le donne per avere accattato limosine ai feriti ed agli infermi. Nè mancò in tanta licenza di pene la spinta degli odii o delle avarizie private, mandando in esilio, sotto pretesto di ragione di stato, il nemico, il creditore, l’emulo, il rivale; per lo che si tollerarono traditori o spie i servi, le domestiche persone, gli amici, i congiunti, il fratello, la moglie. I costumi già fiaccati dalle condizioni antiche del regno e dalle più recenti narrate nei primi libri di queste istorie, caddero affatto in quell’anno 1799 [p. 278 modifica]sotto innumerabili esempii di virtù punita e di perversità rimunerale.

VIII. Imperciocchè mentre la tirannide abbatteva i migliori, innalzava gli empii e li arricchiva di doni e di fregi chiamati onori, comunque a vergogna si volgessero. Al cardinal Ruffo il re diede in benefizio la badia di Santa Sofia con l’entrata di nove mila ducati, perpetua nella famiglia, ed altre terre che fruttavano quindici mila ducati, a pieno e libero possesso, e l’uffizio di luogotenente del regno con lo stipendio di ventiquattro mila ducati all’anno; largità nuove, solamente possibili dove gli affetti del re sono leggi allo stato. Lettere che accompagnavano i doni esprimevano la regia benevolenza e la gratitudine per il ricuperato regno. Altre lettere dell’imperatore delle Russie Paolo I dicevano al cardinale che per la brillante impresa delle Calabrie egli nel mondo era segno di ammirazione ai virtuosi, perciò lo nominava cavaliere degli ordini di Santo Andrea e Santo Alessandro; ad un fratello del cardinale, capitano in ritiro, fu dato il grado di colonnello e pensione di tre mila ducati all’anno; i vescovi di Capaccio e di Policastro ebbero benefizii ecclesiastici e doni, terre, pubblici offizii; il cavaliere Micheroux ottenne grado di maresciallo e splendido impiego in diplomazia, e ricchi stipendii; il de Cesare, servitor di livrea in Corsica, falso duca di Sassonia in Puglia, fu generale; Pronio, frà Diavolo, Mammone, Sciarpa e tutti capi delle bande regie, nominati colonnelli, baroni la più parte; e insigniti dell’ordine costantiniano, arricchirono di pensioni e di terre.

Si diffuse la gratitudine ai primi delle milizie turche e russe per doppii stipendii e larghi doni. N’ebbe più grandi il cavaliere Hamilton; e in quanto ad Emma prese la regina cura diligentissima di mostrare la riconoscenza dei Borboni. Per onorare lord Nelson fu ordinata in Palermo festa magnifica in una sala della reggia, rappresentante il tempio della Gloria; dove entrando l’ammiraglio, incontrato dei reali, era dalla mano del principe di Salerno coronato di alloro. E al punto istesso gli dava il re spada ricchissima e foglio che lo nominava duca di Bronte, con la entrata annuale di sei mila once (lire francesi settantocinque mila). Bronte è piccolo villaggio ai piedi dell’Etna presso Catania, scelto per la favola del nome. In Roma gli artisti di scoltlura volevano ergere a proprie spese una colonna rostrata per il duca di Bronte. I quali premii ed onori, debiti o forse pochi al vincitore di Aboukir, erano indegni al Nelson di Napoli; e frattanto i regi ed i popoli che solamente di alcune lodi furono larghi all’eroe di Egitto, ora dedicavano monumenti eterni all’uccisore del Caracciolo, all’invilito amante di un’adultera, al mancatore della pubblica fede, al braccio potente della [p. 279 modifica]tirannide. Qui, cioè in queste vilezze della Italia, risiede la principal cagione delle sue miserie.

IX. Ricompense maggiori furono date col formare del nuove esercito: erano le milizie antiche disciolte, le repubblicane proscritte e abborrite, le bande regie disordinate da innumerevoli uffiziali, nessuni o pochi soldati. Il cardinale, nel principio della guerra, per non iscontentare i seguaci suoi aveva tollerato che ciascuno ponesse il più gradito segno della milizia; e perciò i capi presero il grado di colonnello, o non più alto perchè mancava nelle province dove il tempo e dove l’arte a’ ricami di generale; ma parecchi tra loro, Pronio, Mammone, Rodio, se ne davano il nome. Un tal Carbone, solamente soldato del vecchio esercito, ed un tal Nunziante foriero, carpirono il grado di colonnello; altro soldato, di nome Pastore, si disse, con più modestia, maggiore; tutti i fratelli di frà Diavolo, uomini di marra o di arti abbiette, comparvero capitani; ed oltre a’ su detti, altri colonnelli, maggiori ed uffiziali di tutte le armi, come volle vaghezza o caso, andavano a folla. Poi succedendo agli abiti esterni le ambizioni, quegl’idioti, per bassezza di natali e di costume disadatti al nobile mestiero delle armi, pretendevano serbare nel nuovo esercito gli assunti gradi. Tra le quali sregolatezze d’interessi e di voglie, bisognando arti sottili a ricomporre l’esercito, tenuto consiglio dove il cardinale Ruffo espose veracemente la mala indole dei predoni che lo avean seguito, il re dettò parecchie ordinanze o dispacci, che in complesso dicevano:

«Poichè la guerra del 1798 fu perduta per tradimento di molti uffiziali dell’esercito, noi vogliamo che que’ ribelli (sia che malamente servissero, sia che pigliassero impiego militare o civile nella repubblica) restino esclusi dalla milizia.

Sarà riputato reo di maestà chiunque servì quello illegittimo reggimento; e più reo, se nelle armi; e peggio, se guerreggiando contro le nostre insegne; e reo di morte, se, spinto da perfidia e ostinatezza, ne tornò ferito.

Ma volendo dare alcuno sfogo alla nostra natural clemenza, e qualche perdono alle giovanili sconsideratezze, ed alcuna mercede al ravvedimento, vogliamo che sieno raccomandati alla nostra grazia quegli uffiziali che, obbligati da povertà, per bisogno di vita, servirono i ribelli, rifiutando bensì di combattere contro le nostre insègne; o che all’aspetto di esse disertarono o che per maggior fede e ravvedimento, uniti alle truppe regie, si volsero contro i nostri nemici. E vogliamo che sieno riammessi al regal servizio quegli altri, che stando al comando di alcun forte per la repubblica, lo deposero in mano delle milizie nostre o de’ nostri alleati.

«E dopo di aver così provveduto agli uffiziali del passato [p. 280 modifica]esercito, comandiamo che nel nuovo figurino da primi coloro tra nostri sudditi che militarono per la causa del trono; rimettendo le colpe della lor vita precedente, o le azioni forse biasimevoli nella riconquista del regno; imperciocchè solamente in essi risguardiamo e rimeritiamo i servigi resi alla nostra causa. Saranno perciò colonnelli i capi delle bande regie, e uffiziali (sino ad alfiere) coloro che in quelle bande combatterono distintamente. E acciò sieno i premii quanto i meriti, dichiariamo casi meritevoli, essere stato primo in un comune a prender l’armi, aver concitato alla guerra i cittadini, aver guidato numerosa banda o fatte imprese notabili, e dichiariamo casi più meritevoli l’aver congiurato contro il nemico, ed arrecatogli maggior danno per mezzi manifesti o secreti.»

Alle quali ordinanze succedevano i provvedimenti per ascriver soldati; e fu necessità comporre molti battaglioni sciolti o volontarii, perchè i guerrieri della santa fede negavano di tornare al faticoso esercizio della marra, o piegarsi alle discipline della milizia.

X. A molte giunte borboniane, con le rapportate ordinanze del re, fu data incombenza di scrutare le opere degli uffiziali del vecchio esercito; e poichè a’ rigori de’ provvedimenti si univa l’animo avverso di que’ giudici, ne derivò che a pochi fosse dato scampar la morte, o la prigionia, o l’esilio. E quando per un consiglio di guerra subitaneo mori il general Federici che aveva combattuto per la repubblica, e da un altro consiglio fu morto il maggiore Eleuterio Ruggieri in pena di aver sul corpo due margini freschi e sanguigni, sorsero per salvezza di vita menzogne infinite e vergognose. Altri diceva esser fuggitivo dalla battaglia, altri comprava da’ capibanda della santa fede falso accertamento di aver disertate le bandiere della repubblica, altri otteneva scrivere il nome ne’ registri di Baker, o di Tanfani, o del Cristallaro, comprando a ricco prezzo la infamia del non vero tradimento; ed altri nascondeva i segni di onorate ferite, o le copriva del disonore, dicendole prodotte da sventurata lascivia. Lettere false, falsi documenti, testimonii bugiardi, seduzioni, pervertimenti, eran continui; tutte le idee dell’onore volsero indietro; il più saldo legame degli eserciti fu rotto. Non avevano le giunte guida miglior a’ giudizii che i fatti della repubblica, supponendo traditori al re gl’impiegati da lei, e fedeli i negletti; e poichè quel governo aveva impiegato i valorosi, trascurato i codardi, le virtù militari ebbero castigo, la viltà ebbe premio.

E poco appresso a questi fatti, messe ad esame le azioni de’ generali dello esercito di Mack, e dei comandanti delle rese fortezze di Gaeta, Pescara, e Civitella, il generale Micheronx, battuto a Fermo e tornato indietro lasciando vuota la frontiera, fu assoluto e [p. 281 modifica]laudato; i generali Mech e Sassonia partirono da Sicilia pieni di doni; Bourcard, de Gambs, Naselli, riassunsero i passati offizii; il tenente-colonnello Lacombe, timido comandante di Civitella, fu libero di pena e poco appresso alzato a colonnello; il colonnello Prichard ebbe la sorte istessa, ed avanzò a brigadiere; il maresciallo Tschiudy godevasi nell’ozio gli stipendii e l’autorità del grado. Eppure cotesti comandanti di fortezze, cagion prima e sola della invasione francese, avevano mancato, oltracchè all’arti ed al valore di guerra, al giuramento di guardar quelle mura; e però la codardia come che vera non iscusava le colpe. Se fossero stati Napoletani prodi, nobili, pieni di merito e di servigi, sariano morti sul palco; ma stranieri, carichi d’anni di servitù, inviliti nella reggia, non davano sospetto di tradimento; esizial nome, creduto o trovato per coprire tutti gli errori, tutte le sfrenatezze della tirannide.

Si ricomponevano con l’esercito le altre parti dello stato, e tutte le opere del governo consigliava il genio maligno di vendetta. Erano gli antichi uffiziali timorosi, gli aspiranti audaci, nè tutti i commilitoni del cardinale volevano posto nella milizia; molti bramando cariche civili e riposate. Quel Dechiara, già capo dei repubblicani, che diessi, come ho riferito nel IV libro, con la città di Cosenza e le sue schiere alle armi di Ruffo, andò preside della provincia nella stessa città spettatrice del tradimento; i congiurati con Baker, con Tanfani, col Cristallaro scacciarono da ogni uffizio numero grande d’impiegati antichi. Fu rifatto lo stato e benchè sopra basi non giuste, meglio addicendosi alla natura del popolo e dei reggitori, uscì più forte il governo dalle sue rovine; ma forte della sovversione degli statuti antichi, e dell’innalzamento di uomini ed ordini moderni; da che derivava stato, come di conquista, commosso ed incerto sino a quando quel nuovo non diventasse antico: successo possibile, ma che abbisogna o di gran tempo, o di gran senno e virtù di governo.