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270 LIBRO QUINTO — 1799.

l’arrivo scopri da lunge un viluppo che Le onde spingevano verso il vascello; e fissando in esso vide un cadavere, tutto il f’ianco fuori dell’acqua, ed a viso alzato, con chiome sparse e stillanti, andare a lui quasi minaccioso e veloce; quindi, meglio intendendo lo sguardo, conosciute le misere spoglie, il re disse, Caracciolo! E volgendosi inorridito, chiese in confuso: «Ma che vuole quel morto?» Al che nell’universale sbalordimento e silenzio de’ circostanti il cappellano pietosamente replicò: «Direi che viene a dimandare cristiana sepoltura.» «Se l’abbia», rispose il re, e candò solo e pensieroso alla sua stanza. Il cadavere fu raccolto e sotterrato nella piccola chiesa di Santa Maria la Catena in Santa Lucia; e volendo spiegare il maraviglioso fenomeno, fu visto che il corpo, enfiato nell’acqua, non più tenuto a fondo dal peso di cinquantadue libbre inglesi (misurate dal capitano Tommaso Hardy comandante del vascello dove con Nelson stava il re imbarcato, testimonio e narratore a me stesso di que’ fatti), si alzò nell’acqua e per meccanico equilibrio ne uscì dal fianco, mentre vento di terra lo sospingeva nel mare. Parve che la fortuna ordir volesse lo spavento e i rimorsi del re; ma quegli, benchè credulo e supertizioso, non mutò costume.

Tante leggi tiranniche e fatti atroci risuscitando le furie della plebe, videsi a’ dì 8 di luglio nella piazza medesima della reggia ardere un rogo, gettare in esso cinque uomini viventi, e poi che abbrustoliti (precipito il racconto) gustar le carni. E stava il re nel porto, seco Acton e Nelson, due armate nel golfo, il cardinale in città, le milizie russe ai quartieri, i capi della santa fede per le strade, o per fino presenti al sacrifizio. Quella enormità inorridì le genti, e fu l’ultima della plebe; ma peggiori se ne preparavano sotto il nome di leggi. Avvegnachè, ricevute in quei giorni medesimi da Palermo le liste di proscrizione, colà compilate dalla regina, consultando i registri antichi, le delazioni delle spie nella repubblica, le successive, gli odii proprii e del suo ministro principe di Castelcicala, il re prescrisse che i tribunali di maestà cominciassero i giudizii.

Penavano carcerati nella sola città trentamila cittadini, e poichè le antiche prigioni erano scarse, come ho detto, a tante genti, servirono al crudele offizio i sotterranei dei castelli ed altre cavi insalubri, alle quali per martirio maggiore s’interdissero le comodità più usate della vita, letto, seggia, lume arnese da bere o da nutrirsi; perciocchè supponendo nei prigionieri disperazione di vita, coraggio estremo, estremi partiti, vietavano i ferri, i vetri, i metalli, le funi; visitavano i cibi, ricercavano le persone. Preposti alle carceri furono uomini spietati, dei quali fierissimo un certo Duecce, uffiziale maggiore nell’esercito, già pieno d’anni, padre di molti