Sonetti romaneschi/Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola/III

Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - III

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - II Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - IV

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III.

Cominciando, com’è di dovere, dai Pasquillorum, e da ciò che contengono di men noto, o su cui si possa dire qualcosa di nuovo, accanto a’ notissimi epigrammi del Sannazaro e del Pontano contro Alessandro VI e Lucrezia sua figlia, se ne incontrano altri anonimi, uno de’ quali (pag. 24) ha fatto il miracolo di triplicarsi o viceversa, poiché in altri libri se ne dà ii solo primo distico, e gli stessi Pasquillorum (pag. 81) ne ridanno poi l’ultimo, che, così solo, s’incontra pure nel Burcardo (ediz. e vol. cit., pag. 218, nota), come ci s’incontra solo anche il primo (pag. 244):

Pasquillus in Alexandrum P. VI

Vendit Alexander clàves, altaria, Christum:
    Emerat ille prius, vendere iure potest.
De vicio in vicium, de flamma crescit in ignem
    Roma, sub Hispano deperit imperio.
Sextus Tarquinius, Sextus Nero, Sextus et iste:
    Semper sub Sextis perdita Roma fuit.

Anche Henri Estienne conosceva il solo primo distico, e lo tradusse bellamente cosi:

Clefs, autels, Ohristaussi vend le pape Alexandre:
11 les a achetez, il les peut bien revendre. nota

Il 25 aprile del 1515, finita già la luna di miele del

1 [p. clxv modifica]pontificato di Leon X, Pasquino fu bensì, per adulare il Papa poeta, vestito da Orfeo; ma sotto quelle spoglie lamentò che gli appiccicassero un numero strabocchevole di versi troppo spesso indegni di lui, e che a Roma facessero fortuna e spadroneggiassero i citaredi e i buffoni (pag. 4 e 5):

Pasquillus.
     Armigerum Xerxi non copia tanta, papyri
          Quanta mihi: fiam bibliopola statim.
Idem.
     Me miserum, copista etiam mihi carmina figit,
          Et tribuit nugas iam mihi quisque suas.
Ad Pasquillum.
     Deliras, Pasquille, lyrae si carmina iungas:
          Dives eris. solum si citharoedus eris.
Ad eundem.
     Cur non te fingi scurram, Pasquille, rogasti,
          Cum Romae scurris omnia iam liceant?

Cose anche più forti si fece dire o disse nel 1518, mascherato da Pellegrino (pag. 10 e 11):

Ad Pasquillum.
     Si tibi presbyteris fortasse placere voluntas
          Evenit, aut magnas quaeris avarus opes,
     Aut tibi gemmatis ponantur ut aurea vasis
          Fercula, tu faciem nunc moretricis habe.
Ad eundem.
     Iam multi dicunt quod tu vis esse Priapus:
          O quam te fessum sexus uterque dabit!

Più forti ancora, allorché ricominciarono, sotto Clemente VII e Paolo III, i suoi travestimenti annuali, che, a quanto pare dalla citata lettera del Negro, erano stati proibiti da Adriano VI. [p. clxvi modifica]

Nel 25, mascherato da Fortuna (pag. 12):


Roma.

Mas fueram, fortis vixit dum Scipio; sed nunc
     Istis sum mollis foemina: sic futuor.


Pasquillus ad Matronas Romanas.

Linteolum a tergo geritis, nihil ante, Quirinae.
     Num c..us c..no charior. est? stupeo.

Discorrendo nel 34 con san Pietro della morte di Clemente, che aveva già tanto bersagliato da vivo, profetò (pag. 41):

     Et Fiorenza gentil, che mai bramato
Altro non ha, del mulazo se rode,
Per amazarlo, o cacciarlo del stato.

E interrogato dal Santo se convenisse far Papa il cardinal Farnese, profetò ancora (pag. 42):

C....! l’ha tanti figli e tanta gente,
Che al fin sarria peggio che Clemente.

L’avveramento di questa seconda profezia gli diede poi tanto da dire per tutto quel lungo e infausto pontificato, che con piena ragione una volta potè domandare (pag. 21):

Ut canerent data multa olim sunt vatibus aera:
     Ut taceam, quantum tu mihi, Paule, dabis?

Nel 35, travestito da Occasione con lo stiletto in mano, pare che avesse perfino qualche velleità da Bruto contro il Farnese (pag. 15):

Desine mirari, teneat cur dextera sicam,
     Nam mihi temporibus congrua forma datur.

E volgendosi ai Cardinali che lo avevano eletto, li [p. clxvii modifica] invitava con un ingegnoso acrostico a contemplare gli effetti della lor cecità e ad aprir gli occhi (ibid.):

Omnes Caeca Cupiditas Auri Suffocat, Implicat, Opprimit.
O Caeci Cardinales, Aliquando Sapito, Intelligite, Olfacite.

Nel 36 invece, rappresentando la Religione, per la venuta in Roma di Carlo V dopo la conquista di Tunisi, parlò come un giornale ufficioso de' nostri giorni; benché in altre occasioni non mancasse di ammonire e Carlo e il Re di Francia, che con le loro rivalità desolavano il mondo (pag. 27-29) :

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ad vos nunc ambos, belli duo fulmina, verter:
     Ambos commoneo, commonet ipse Deus.
Parcite iam fesso, iam fesso parcite mundo.
     Sanguine cessantes commaculare manus.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Il travestimento in Perseo del 39 si prestò assai bene per continuar la campagna contro il mostruoso sgoverno e il mostruosissimo nipotismo del Farnese. Pasquino stesso se lo fa dire da un poeta barbaro di quel tempo (pag. 30):

O come ben vieni, Pasquin, cagnato di forma.
     O quanto a tempo Perseo fatto sei.
D'empio Meduse vedi Roma, di Gorgon piena:
     Gorgone ch'in sassi mutano l'alme vivo. Ecc.

Ma ai finti versi latini, io preferisco questi veri (pag. 20 e 21):


Ad Pasquillum Perseum.

Gorgonium truncasse caput, tibi gloria parva:
Prosbystoris caudam, gloria maior erit.


Ad eundem.

Papa medusaeum caput est, coma turba Nepotum:
Persou, caodo caput, caesarios periit.

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Ad Paulum.

Si caute meretrix cupidos expilat amantes,
     Persolvit meretrix, Paule, tributa tibi.
Si populos spoliat praeses, partitur et ille,
     Et socium lucri te facit esse sui.
Quaevis sic placeat tandem expilatio, tantum
     Nulla ut consensu sit sine praeda tuo.

Ad eundem.

Nescio si verum est, iam te faciente per Urbem,
     Quod sal vendatur carius, onmis ait.
O bene consultum, nil hoc perfectius uno:
     Iam foetes, aequum est sit tibi cura salis.

I Pasquillorum, del resto, pubblicati nel 1544, non solo sono necessariamente incompiuti rispetto a Paolo III, che visse fino al 49,2 ma hanno molte e molte lacune anche ne’ tempi anteriori; e chi vorrà colmarle, dovrà ricorrere ad altre quasi innumerevoli fonti.

II bibliofilo Jacob, nella Notice historique premessa alle opere del Rabelais (ediz. Charpentier), scrive: "On presume que Rabelais inspira quelquefois à la statue de Pasquin ces épigrammes hardies qui, durant son séjour à Rome, amusèrent le peuple romain.„ E può essere che il Rabelais facesse quel che avevano già fatto il Berni, l’Aretino e mille altri, ma le prove mancano. Certo è però che tra i beaux livres de la librairie de Sainct Victor3 ci sono anche questi: Pasquìilli, doctoris [p. clxix modifica] marmorei, de Capreolis cum chardoneta4 comedendis, tempore papali ab Ecclesia interdicto; — Marforii bacalarii, cubantis Romae, de pelendisque mascarendisque cardinalium mulis; — Apologie d’iceluy, cantre ceux qui disent que la mule du Pape ne mange qu’ a ses heures.5

Ed è certo del pari, che il 15 febbraio 1536, il Rabelais scriveva da Roma al Vescovo di Maillezais: "Pasquil a faict depuis nagueres un chantonnet, ouquel il dict: A Strossi [Strozzi]: Pugna pro patria. A Alexandre, duc de Florence: Datum serva. A l’Empereur: Quae nocitura tenes, quamvis sint chara, relinque. Au Roy: Quod potes, id tenta. Aux deux cardinaux Salviati et Rodolphe [Ridolfi]:6 Hos brevitas sensus fecit coniungere binos.,. Il Jacob osserva che in questo chantonnet, “rapporté par Rabelais avec une complaisance qui sent son auteur, on peut lui attribuer ce conseil énergique adressé au roi de France.„ E può essere ancora; ma la prova della complaisance non basta, tanto più che si riduce alle sole parole da me riferite. A ogni modo, queste supposizioni fanno onore a Pasquino, e l’acuto chantonnet non sarebbe davvero indegno dell’autore del Pantagruele.

Insieme con altre notissime pasquinate, una quasi ignota ci è stata conservata dall’Estienne: "Je croy que jamais il [Pasquin] n’eut meilleure grace qu’alors qu’ il disoit qu’ il s’en alloit mourir de tristesse, et qu’on luy avoit dict une injure qui luy avoit percó le coeur. [p. clxx modifica] Quelcun luy demandoit: — Mon ami Pasquin, quelle injure t’à esté diete? t’à on appelé larron? ou meurtier? ou empoisonneur? — Helas non (respondit-il): on m’a bien dict pis. — T’a on appelé sagrilége, ou parricide, ou bou..., ou ateiste? — Helas non: on m’a bien dict pis. — Apres qu’on l’eut interrogué de plusieurs autres injures les plus grandes dont on se pouvoit aviser, — Helas ce n’est point tout cela (respondit-il): et jamais vous ne devineriez que c’est. — En la fin, apres s’estre beaucoup fait prier de dire son de s confort, jettant un grand nombre d’helas, dict qu’on l’avoit appelé Pope.„ (Op. e loc. cit.)

Nel 1572, per la morte di Pio V (da un Ms. della Magliabechiana: VII, 345):

Papa Pius moritur Quintus. Res mira, tot inter
     Pontifices, tantum quinque fuisse Pios.

Su Sisto V, oltre quella della sorella lavandaia, il Leti racconta molte altre pasquinate, e tutte hanno l’aria d’esser autentiche. Eccone alcune.

Una volta dopo avere assistito dalle finestre del Vaticano alla impiccagione d’uno spagnolo che gli aveva ammazzato in San Pietro uno svizzero della guardia, Papa Sisto desinò allegramente e poi, levatosi in piedi, disse a’ suoi: Dio sia lodato, abbiamo desinato di buon appetito questa mattina. Il giorno seguente, di buon’ora, comparve Pasquino con un bacile pieno di forche, di ruote, di mannaie, di catene e simili iustromenti, ed interrogato da Marforio dove se ne andasse, rispondeva: Porto una salsa per dar buon appetito al Papa.„ (Op. cit., ediz. di Torino, 1852; voi. Ili, pag. 63.) [p. clxxi modifica]

“Comparve un giorno di domenica Pasquino con una camicia stesa al sole, che voltava e girava con gran sollecitudine per farla asciugare presto, ed interrogato da Marforio della causa perchè non aspettasse il lunedi per seccar la sua camicia, rispondeva: M’asciugo, innanzi che il sole si venda!, alludendo a un gran numero di gabelle... che Sisto aveva in quei giorni imposto sopra molte cose commestibili.„ (Ibid., pag. 81.)

Un altro giorno, dopo i "rigorosi divieti„ di Sisto contro le pasquinate, si vide "Pasquino con un ventre gonfio come una botte, e di sopra il motto: Crepo per non poter parlare; ed un’altra figura simile, ma col ventre rotto in più luoghi, col motto: Son crepato, per avermi troppo chiusa la bocca; ed a canto un’altra figura della stessa maniera, con queste altre parole: Amo meglio crepare, che tacere.„ (Pag. 81-82.)

"Acerbissima fu la pasquinata che comparve un giorno in più luoghi di Roma, cioè una figura dipinta a mano con inchiostro, che conteneva un estratto della favola d’Esopo, cioè un tronco di albero con la mitra papale, ed una cicogna dall’altra parte vestita alla papalina e nel mezzo un pantano pieno di Romani con molte rane trameschiate insieme, con il colpo d’impresa consistente in queste parole: Merito haec patimur, volendosi figurar con questo che da’ Romani s’era disprezzato il Buoncompagno, che vuol dir Gregorio XIII, appunto come se fosse stato un tronco, ma che in pena dal cielo gli era stata mandata una cicogna che gli devorava.„ (Pag. 82. j

"Aggiungo due altre pasquinate sopra lo stesso proposito del rigore di Sisto. Nella prima veniva rappresentato Gregorio Buoncompagno vestito da donna, con il triregno in capo, e con una conocchia e fuso in mano, che filava della canapa; ed accanto Papa Sisto, con molti carnefici all’intorno, che andavano intrecciando lacci ed accomodando mannaie, con lo parole nel mezzo: [p. clxxii modifica] Papa Gregorio ci ha filato le corde, per essere impiccati da Papa Sisto. Nella seconda, si vedeva questo medesimo Pontefice con catene, mannaie, forche, spade ed altri stromenti di morte, e dall’altro lato sporgeva fuori la statua di Pasquino, con questo motto di sotto: Felice me, che son di marmo!„ (Pag. 83.)

Un’altra volta, che alcuni ricchi furono, per lieve fallo, condannati a pagare una grossa multa in favore d’un ospedale, si finse che Marforio, tornato da un piccolo viaggio, domandasse a Pasquino che cosa faceva il Papa; e Pasquino rispose: "Spoglia i ricchi, per vestire i poveri. (Pag. 86-88.J

IN • HONOREM • PRINCIPIS • APOST • PAVLVS • V • BVRGHESIVS • ROMANVS • PONT • MAX • AN • MDCXTI • PONT • VII • A proposito di questa iscrizione, scolpita in una sola riga nel gran fregio della facciata della Basilica Vaticana, in modo che le parole: pavlvs • v • bvrghesivs • romanvs • campeggiano proprio nel mezzo, con sopra, nel timpano del frontespizio, lo stemma del borghese, Pasquino disse:.

Angulus est Petri, Pauli frons tota: quid inde?
     Non Petro, Paulo stat fabricata domus.

Se dunque mentr’era cardinale il Borghese fu immune, come attestano quattro ambasciatori veneti, dalla "maledicenza di Pasquino,„7 non ne fu immune da Papa.

Chi lo crederebbe? Pasquino non solamente ispirò o secondò, come abbiamo veduto, il Fuori i barbari! di Giulio II, ma più tardi mise in giro anche la formula: [p. clxxiii modifica] L’Italia degl’Italiani, in un lungo dialogo tra lui e Marforio,8composto evidentemente dopo che nel 1628 gli Spagnoli tentarono invano l’assedio di Casale, occupata dai Francesi.

Il dialogo è intitolato: Pasquino franzese e Marforio spagnolo; ma alla fine, Pasquino conclude:

     Hor facciamo a parlar senza passione:
Vuoi ch’io ti dica? questi oltramontani
Sono una mala razza [di persone?].
     Dio ci liberi pur dalle lor mani
E rimandi ciascuno al suo paese,
Sì che l’Italia resti all’Italiani,
     E qui poniamo fine a ste contese.

"Di cannoni il Papa presente„ (Urbano VIIT) "ha molto contribuito alla mancanza [sic], che prima n’havea lo Stato Ecclesiastico... Molti sono stati gettati di nuovo per Castel Sant’Angelo, col valersi anco del metal antico di cui era singolarmente adornato il tempio di tutti i Dei, hoggidi detto la Rotonda. Onde nacque il motto di Pasquino: Quod non fecerunt Barbari, Barbarini fecerunt.„ Così, nella sua, Relazione del 1635, l’ambasciatore veneto Contarini.9 Dunque (e non tutti lo sanno) la famosa pasquinata è contemporanea al vandalismo, anzi al barbarinismo. Nè tutti sanno che quel bronzo, di cui erano rivestite le travi del portico del Panteon, e col quale furono fatti, chi dice più d’ottanta, chi centodieci cannoni, e le quattro colonne e il baldacchino dell’altar maggiore di San Pietro, pesava, secondo il Nibby del 1819,10 libbre 45 000 250; e, secondo il Nibby del [p. clxxiv modifica] 1838,11 libbre 450 250. Abituati poi come siamo ad attribuire ai tempi la barbarie de’ governanti, chi crederebbe che, invece, anche in questo caso, Pasquino fu eco e interpetre fedele del sentimento popolare? Eppure, la cosa è attestata da un diarista contemporaneo, e non punto sospetto, Giacinto Gigli: "Il popolo andava curiosamente a veder disfare una tanta opera, e non poteva far di meno di non sentire dispiacere et dolersi che una sì bella antichità, che sola era rimasta intatta dalle offese dei barbari e poteva dirsi opera veramente eterna, fosse ora disfatta.„12

A proposito poi dei lavori che Urbano, soprannominato Papa Gabella, fece fare alla Fontana di Trevi mentre proprio allora aveva messo un balzello sul vino, Pasquino disse:

Urbanus Pastor, post mille gravamina vini,
     Romulides pura nunc recreavit aqua.

E quando morì, gli fece questo epitaffio: Orbem bellis, Urbem gabellis implevit. E un altro ancora, allusivo alle api dello stemma barberiniano:

Pauca haec Urbani sint verba incisa sepulcro:
     Quam bene pavit Apes, tam male pavit Oves.

Tradotto così da Teodoro Ameyden, scrittore d’Avvisi per Filippo IV:

Questo d’Urban si scriva al monumento:
Ingrassò l’Api e scorticò l’Armento.13

Quando lo stesso Urbano, con breve del 30 gennaio 1642, proibì, sotto pena di scomunica latae sententiae, di [p. clxxv modifica] prender tabacco nelle chiese della città e archidiocesi di Siviglia; quando, come altri vogliono, Innocenzo X fece rs gennaio 1650 la stessa proibizione perla Basilica Vaticana, alla statua di Pasquino si trovò affissa l’amara interrogazione di Giobbe: Cantra folium, quod vento rapitur, obstendis potentiam tuam, et stipulam siccam persequeris?

E ci fu anche una coda, che, se non è vera, è assai ben trovata.

Il Papa (così raccontano), informato della satira, disse che sarebbe stato lietissimo di conoscerne l’autore, che certo doveva essere uomo di molto ingegno; e il suo desiderio fu soddisfatto, perchè, poco dopo, si trovò che il versetto era stato firmato dal vero autore: Iob. Allora il Papa fece sparger voce che avrebbe concesso un grosso premio al satirico, se si fosse palesato; ma quello, ricordando forse il brutto gioco fatto all’autore della pasquinata contro la sorella di Sisto V, accanto alla firma di Iob, scrisse: gratis, e così il Papa dovette restarsene con la voglia in corpo.

Nel citato Voyage del Guyot de Merville, è detto che questa satira fu fatta perchè Urbano "s’avisa de mettre à ferme le tabac et le papier.„ (Tom. I, pag. 447-48.) Parlando poi della leggerezza con cui più volte i papi fulminarono la scomunica per motivi come quello del prendere “du tabac... dans l’Eglise de St. Pierre,„ il Guyot aggiunge (tom. II, pag. 43): "Le fameux Pasquin parie de l’excommunication d’une maniere fort plaisante. Voici ce qu’il dit:

     Mi pare assai credibile,
Che il fulmine terribile
Della santa scomunica papale
Non possa fare all’uom nò ben né male.„

Quello stesso Pasquino, che il 23 novembre 1044, per la festa del possesso d’Innocenzo X, si era fatto [p. clxxvi modifica] "tutto bello, e risanato dallo stroppio, e benissimo ornato, e... trasformato in un Nettuno, con barba e zazzara riccia canuta, con tridente in mano, acconcio e congegnato dentro di un bel carro trionfale, in forma di una gran conchiglia, con due gran rote e due grossi cavalli marini o Tritoni;„14 e così trasformato aveva profuso mille lodi al novo Papa; gliele fece poi ripagare con altrettante satire, specialmente a proposito della celebre cognata donna Olimpia, con la quale, per servirmi d’una frase del cardinal Pallavicino, ripetuta dal Curci, Innocenzo "introdusse il mostruoso potere d’una femmina in Vaticano.„15

Già, appena egli fu eletto, avendo la cognata "un maestro di camera che chiamavasi il conte PFiume,„ e che "godeva la di lei intera grazia;„ e usandosi metter per Roma delle lapidi indicanti l’altezza delle maggiori piene del Tevere, che per antonomasia è detto fiume comunemente; "fu posto alla statua di Pasquino un quadro fatto in lapis rosso, il quale rappresentava una donna nuda, ed una mano che con un dito accennava di questa donna, con il motto: sin qui arrivò fiume, alludendo a donna Olimpia.„16

Magis amat Papa Olympiam, quam Olympum, disse poi un’altra volta Pasquino; e dopo aver cancellato "in tutte le iscrizioni il nome d’Innocenzo,,, e sostituitovi: olympia primus pontifex maximus, o olimpia prima papessa,17 quando Innocenzo morì, il suo sdegno contro di lui e contro la Pimpaccia non ebbe più nessun freno. [p. clxxvii modifica]

     Finita è la foia
Di questa poltrona
Di Piazza Navona:
Chiamateli il boia.
     Finita è la foia.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
     È morto il pastore,
La vacca ci resta:
Facciangli la festa,
Cavatili il core.
     È morto il pastore.

Queste due strofe, principio e fine d’una delle molte Compositioni fatte per la morte d’Innocentio X (Ms. della Nazionale di Roma, Fondo Vitt. Em., 29; pag. 97-98), son quasi il meno che dicesse di lei in tale occasione; e le invettive contro il Pontefice ricompendiò in un atroce epitaffio (Ibid., pag. 130):

INNOCENTIO DECIMO
fisci patrono optimo
ac
annonae mercatori maximo
qui nepotismum destruxit
ut cognatismum institueret
solus sibi solus suis
quos et infensos simulavit
ut thesauris ecclesiasticis immune ditarit
neminem dignum in successore indicavit
praeter uxorem fratris sui
quod perficere cum non possit
rugiens obiit
anno pont. 37 olimpiadis.


Il quinto e sesto e ottavo verso di questo epitaffio hanno un curioso riscontro nella Relazione del gravissimo ambasciatore veneto Giovanni Giustinian, che fu in Roma dal gennaio del 1648 al dicembre del 51: "Soppresso l’aiuto che li Pontefici solevano avere dalla assistenza d’un nipote, il più delle cose rimase in balia [p. clxxviii modifica] l’autorità e della venalità d’una donna prepotente.„ Ad Innocenzo "pareva di guadagnarsi l’acclamazioni del mondo col fingersi inimico delle sue carni,„ cioè del nipote don Camillo, perchè si era scardinalato per sposare la Principessa di Rossano.18

Alessandro VII (Fabio Chigi di Siena) sali sul trono pontificio tra un coro generale d’applausi, perchè, come diceva l’ambasciatore veneto Basadonna, "la più frequente parola che uscisse dalla sua bocca era che ateismo e nepotismo fossero compagni,„19 e promise solennemente a sé e a tutti di non volere in Roma nessuno de’ suoi parenti.

"Ma troppo per tempo,„ diceva ancora, a nome suo e di tre suoi colleghi, un altro ambasciatore della Serenissima, "parmi che il mondo canonizi questi sentimenti del Papa.„20 Di lì a poco, infatti, arrivò a Roma il primo parente; il quale, essendo cavaliere, fece esclamare a Pasquino: "Ecco la Croce: verrà tosto la processione!„21 E fu profeta, perchè "comparve a Roma, non un fratello, non un nipote, ma una inondatione formale di Chigi, e con successo tanto peggiore; che se vi fossero andati al principio, la consuetudine haverebbe fatte le scuse e si sarebbero tollerati come un male già abituato, laddove, dopo haver promessa il medico la salute, la nuova della morte parve tanto più strana.„22 Onde, gli amici del Pontefice, come attesta il cardinal Pallavicino, [p. clxxix modifica] non potevano più comparire in pubblico, senza esser fatti segno alle beffe e agli scherni.23 E il giorno ch’egli si recò in gran pompa a riconsacrare la Chiesa della Pace da lui restaurata, essendogli stato eretto davanti alla porta della Chiesa un arco trionfale, nel cui mezzo campeggiava il suo ritratto, con sotto l’iscrizione: orietur in diebus nostris lllstitia et abundantia pacis, Pasquino gli cambiò l’orietur in morietur e il pacis in panis.24

Il 15 aprile del 1667, sentendo avvicinarsi la morte, Alessandro convocò intorno al suo letto i cardinali, e, secondo un avviso dell’Agente della Repubblica di Genova,25 ebbe perfino il coraggio d’affermare di "haver dato alli nipoti moderatissimamente,„ mentre in realtà li lasciava più volte milionari; sicché, il giorno 20, lo stesso Agente genovese scriveva: "Si parla sempre contro la parlata fatta alli Cardinali; è distinta in quattro parti: la 1a contiene pietà; la 2a vanagloria; la 3a hipocrisia; la 4a maldicenza e mendacità. Altri la descrivono come segue: De se magnalia; de Consangaineis optima; de Principibus prava; de Cardinalibus turpia; de Regibus parva; de Deo nihil.„26 Il Gregorio Leti poi, nel Sindicato di Alessandro VII, messo in luce in quel medesimo anno 1667, diceva (pag. 66-67): "Pascquino, domandato da Marforio di ciò che haveva detto il Pontefice nelle sue hore estreme, gli rispose in questa maniera: [p. clxxx modifica]

Maxima de se ipso,
Plurima de Parentibus,
Prava de Principibus,
Turpia de Cardinalibus,
Pauca de Ecclesia,
De Deo nihil.

E in quest’ultima forma, la satira passò poi nel Guyot de Merville e nel Lafon, i quali saccheggiano, specialmente a proposito di Alessandro VII, le opere del povero Leti, senza citarlo mai o quasi mai; e chi sa in quanti altri sarà passata, che forse avranno fatto lo stesso. Intanto, l’avviso dell’Agente genovese prova che la satira è autentica e non fu inventata dal Leti; come autentiche sono di certo molte altre delle moltissime pubblicate da lui anche nell’Ambasciata di Romolo a’ Romani per la sede vacante di Clemente IX, e nel Vaticano languente dopo la morte di Clemente X. Ma della maggior parte di esse giudica assai bene Pasquino stesso in una lettera, e il Gobbo di Rialto in un dialogo con lui e con Marforio.

"Io ho sempre stimato i Genoesi„ (scrive Pasquino al signor Sergio Perditempo, a- Genoa) "più inclinati al sono della borsa che de’ sonetti: ad ogni modo V. S. mi sollecita a mandargli qualche compositione di questa natura, et io volentieri la servo, perchè l’abbondanza me ne porge ampio motivo, assicurandola che noi abbiamo più sonetti in Roma, che voi pesci in Genoa. Forse che la maggior parte li troverà senza sale et insipidi, ma gli sarà facile di renderli salsi, col gettarli nel mare, per farli beere alla sanità de’ poeti che l’hanno composti.„ (Il Vaticano languente; 1677; par. I, pag. 248.)

"Nel tempo della sede vacante, in Roma„ (dice poi il Gobbo), "si veggono Pasquinate infami, scelerate, e piene di parole oscene, nefande, lorde, sacrileghe e [p. clxxxi modifica] puzzolenti, a segno che gli Heretici (et io lo so di buona parte) ne diffendono a’ loro popoli la lettura, per non corrompere la modestia e l’honestà con tante sporchissime porcherie ch’escono di Roma.„ Al che però, Marforio risponde: "Di gratia, Gobbo, non far tanto il mondanespole con le forchette, perchè noi ci conosciamo assai bene gli uni con gli altri Roma fa le parole, Venetia i fatti.„ (Ibid., par. II, pag. 367.)

Tornando ad Alessandro VII, de’ molti epitaffi che gli si fecero il più spiritoso e men noto è questo (Arch. di Stato di Firenze, filza med. 4610):

ALEXANDER VII PONTIFEX
maximus in minimis
minimus in maximis

Ma il più vero e compiuto, è quest’altro, trovato e pubblicato dal Cantù (Op. e voL cit., pag. 219):

     Papa Alessandro Settimo, sanese
Di casa Chigi, qui sepolto giace,
Che sopra dodici anni e più d’un mese
Mal grado suo, non vide Italia in pace.
     Con finto zelo e con pietà fallace,
Molto al mondo promise e nulla attese.
Disse che i suoi starebbono al paese,
Ma a capo all’anno si trovò mendace.
     Vantò di sollevar lo Stato oppresso,
Disse voler premiar li dotti e buoni.
Far tornar Roma al suo primiero sesso;
     Ma ni uno più di lui senza occasione27
Mille gabelle impose, e niun quant’esso
Distrusse Roma ed ingrandi bricconi.
Un Papa il ciel ci doni,
Che riducendo quel ch’ei disse in atto.
Si guardi poi dal far quel ch’egli ha fatto.

[p. clxxxii modifica]

San Matteo apostolo, tutti lo sanno, faceva il pubblicano, e nel suo Vangelo (IX, 9) racconta di sé medesimo: “Et, cum transiret inde Iesus, vidit hominem sedentem in telonio, Matthaeum nomine. Et ait illi: Sequere me. Et surgens, secutus est eum.„

Ora, nei Menagiana (ediz. cit., pag. 185) si legge: “Le Pape Innocent XI„ (Odescalchi, di Como) “étoit fils d’un banquier. Il fut élu le jour de saint Mathieu„ (21 settembre, 1676); “et dés le méme jour le Pasquin dit: Invenerunt hominem sedentem in telonio.„

Il segretario del rappresentante del Duca di Savoia in Roma, in un dispaccio del 18 agosto 1688, racconta che il Marchese di Coccogliudo, ambasciatore spagnolo, dette, “pel natale della Regina regnante, la sua superbissima festa,„ facendo persino costruire apposta a Piazza di Spagna “un gran teatro di tele dipinte;„ ma, secondo il solito, non pagò nessuno. “Onde, la mattina seguente, si senti essere uscita una pasquinata che diceva: Il signor Marchese di Coccogliudo fa tutto quello che deve, e deve tutto quello che fa.„28

Durante il Conclave del 1689, da cui uscì eletto Alessandro VIII (Ottoboni):

“Pasquinata per il Cardinal de Angelis, soggetto papabile: — San Paolo: Pontifices de hominibus fiunt et non de Angelis.

“Al portone della Dateria, alla quale abitava Monsignor Liberati, datario del Papa morto: — Et inde Liberati sumus. [p. clxxxiii modifica]

“Per il Cardinal Altieri, soggetto papabile, che è servito da un gentiluomo chiamato il Padre Sansimone, censurandosi alcune pratiche, che ha fatto per S. E., dove entra il sospetto di simonia:

Altieri vedran Papa le corone,
Se conduce in Conclave San Simone.29

Alla morte poi dell’Ottoboni, che lasciò straordinarie ricchezze al nipote, già da lui creato cardinale di soli diciotto anni, Pasquino esclamò: “Che fortuna per la Chiesa, se invece d’esser la figlia, fosse stata la nipote del Papa!„

Il 27 agosto del 1697, il ministro De Gubernatis, che rappresentava in Roma il Duca di Savoia, scriveva al suo Governo: “Nella congregazione della Riforma, tenutasi ultimamente innanzi a Sua Santità, fu determinato di far distruggere il teatro pubblico di Torre di Nona, ampliato e si può dire fabbricato colla spesa di cento e più mila scudi pochi anni prima, col consenso in iscritto del medesimo Papa. Si cominciò l’istesso giorno a mettere in terra alcuni palchetti: l’indomani, sulli richiami degl’interessati, non si proseguì la demolizione; ma ieri ed oggi si continua alla gagliarda, sicché finirà i suoi giorni con terzana doppia.... L’intenzione del Papa è ottima, ma l’ottimo non è sempre il meglio nel governo del mondo.„

Il Papa infatti, che era Innocenzo XII, non sapendo non volendo trovare altri mezzi, affinchè ne’ palchetti e negli appartamenti annessi al teatro si osservassero le leggi dell’onestà e della decenza, imitò il selvaggio, che abbatte l’albero per cogliere il frutto. [p. clxxxiv modifica]

Poteva dunque tacere Pasquino, davanti a un fatto così enorme e così caratteristico nella storia del Governo papale? Parlò molto, come si vede nel libro dell’Ademollo su i teatri di Roma a quel tempo; e fece parlare anche il povero Tordinona, che, con Giobbe, domandava al Pontefice: Manus tuae fecerunt me,... et sic repente praecipitas me?

Clemente XI (Albani, di Urbino) spediva grosse somme e roba ai parenti nel paese nativo. E Marforio domandava: "Che fai, Pasquino? — "Eh, guardo Roma, che non vada a Urbino!„

Il carattere poi di questo Pontefice fu giudicato, veridicamente, così:

Est Clemens fortasse bonus, sed Pastor ineptus
     Incipit, audet, agit maxima, plura, nihil.30

E quando, per una grave malattia, nel 1719 si credette che Clemente morisse (eletto nel 1700, morì realmente nel 21), Pasquino mise subito in giro questi due epigrammi:

Sia Papa chi vorrà;
Cho sia peggio di questo, io me la rido;
Ma tant’anni, perdio, non camperà!

Dacci un Papa miglior, Spirito Santo,
Che ci ami, tema Dio, nè campi tanto.31

[p. clxxxv modifica]

"Il Padre Campana Domenicano gavotto è uno dei barboni più creduti alla Corte di Firenze. Egli gira due o tre volte l’anno per lo stato, riconoscendo dove siano scandali di femmine, ed altri disordini intorno al sesto precetto, facendo una secreta lista di ciò che trova di mal assetto, secondo la quale si spediscono poi ordini dalla Corte, di riforma, d’esilii, di separazioni o simili. Il buon Padre marcia in una comodissima lettiga, mangia volentieri ostriche, prugnoli, polli e buone cacciagioni, e dopo la digestione suol andar in estasi visibilmente a tutti ....

"Sta qui in Roma il frataccio Campana, conosciuto dai suoi frati e da tutta questa Corte per un ipocrita, ghiotto, ambizioso e maligno, spione della Corte di Toscana; ma poco gradito dal Papa e meno dai cardinali, per il che molti non hanno voluto dargli udienza. Io ci ho fatti due o tre dialoghi famosi, di che fino il Papa [Clemente XI] ne ha riso. L’altra mattina [6 marzo 1717], alle porte della Minerva e per diverse altre chiese fu trovata scritta questa pasquinata: Il Padre Zanobi Camj)ana la mattina dalle 12 alle 16 sta in estasi, il giorno dalle 20 alle 24 fa miracoli,„

Così scriveva Girolamo Gigli,32 a cui però il granduca Cosimo III fece pagar salato questo sparlare del frate cortigiano e inquisitore.

Nel Conclave del 1721, da cui uscì eletto Innocenzo XIII ( Conti ), papeggiava anche il cardinale Scotti, notissimo austriacante. E per Roma si diffuse questo dialoghetto: [p. clxxxvi modifica]

Marforio.   Che farà Gesù, se lo Scotti diventa Papa?

Pasquino.   Imparerà il tedesco, per capire il suo Vicario.

A Roma e altrove, poco prima di cominciare ne’ giorni festivi la spiegazione del catechismo, solevano i parrochi mandare in giro per la parrocchia un chierico con la croce, accompagnato da alcuni ragazzi, che sonavano un campanello e gridavano in coro: “Padri e madri, mandate i vostri figlioli alla Dottrina Cristiana, perchè n’averete da render conto a Dio;„ ovvero “e se non ce li manderete, ne renderete conto a Dio.„

Di questa usanza, abolita in Roma, come tante altre, dopo il 20 settembre 1870, Pasquino profittò durante il Conclave del 1724, per mettere in bocca a monsignor Ghezzi (il quale, come maestro di cerimonie, doveva anche sonare il campanello per convocare i Cardinali allo scrutinio) un grazioso sonetto:

     Padri e non madri, io suono il campanello,
Degnatevi d’udire un pensier mio,
Se non farete un uomo di cervello,
N’averete da render conto a Dio.

     Dateci un papa dotto, allegro e pio,
Che non sia lupo, ma nemmeno agnello.
L’aver poi de’ nipoti ed esser zio,
Non è colpa di lui, ma del fratello.

     So ch’io non ho nè autorità néè ingegno.
Ma suono il campanel sera e mattina
Solo per dar dello scrutinio il segno.

     So ben che l’elezion sarà divina.
So che farete un Papa santo e degno;
Ma io vi raccomando la dottrina.33

Su Benedetto XIV, autore di tante opere, e morto d’ofctantatrè anni dopo averne pontificato diciotto: [p. clxxxvii modifica]

Qui giace Lambertini da Bologna,
Che visse e scrisse più che non bisogna.

E ancora: Vir bonus in folio, in solio bonus vir. (Ms. della Marucelliana, cccii.)

L’11 maggio 1768, Alessandro Verri scriveva da Roma al fratello Pietro, a Milano: "Corre questo ridicolo epitaffio sul marchese Tanucci:

D. O. M.
BERNAEDINO TANUCCIO
ecclesiastica auctoritate deleta
regia aucta
utraque sibi attributa

LUTHERUS CALVINUS ZUINGLIUS
grati animi m. p. p.
anno domini mdcclxviii.


E insieme gli mandava, come ugualmente diffusi per Roma, anche due versi, ne’ quali si finge che risponda il Tanucci:

[In] quattro siamo stati, signor mio:
La carta, penna, calamaro, ed io.34

Per la sede vacante ( 1769) di Clemente XIII, e più ancora per quella ( 1774-75) del suo immediato successore Clemente XIV, le pasquinate prò e contro i due papi e i Gesuiti, che il primo difese e il secondo abolì, diluviarono addirittura; né c’è bisogno d’aggiungere che furono, per la massima parte, opera dei Gesuiti stessi, o di preti e di frati loro emuli ed avversari. Io solo ne

[p. clxxxviii modifica] posseggo la bellezza di cinque volumi manoscritti; e, tra molta borra, c’è pure qualcosa di buono.

Del 1769, una Missa canenda pro Vivis atque Defuntis, Societatis Iesu turpissimae, comincia così:

Introitus.

Dispersionem aeternam dona eis, Domine, et confusio perpetua appareat eis.

Psalmus.

Intereantur omnes iniqua agentes, et tibi reddetur votum in Orbe; exaudi orationem meam; a te omnis gloria pendet.

Dispersionem etc.

Kyrie eleison: deleatur Societas.
Kyrie eleison: deleatur Societas.
Kyrie eleison: permittat Omnipotens Deus.

Oremus.

Deus qui iesuiticam hypoerisiam, te miserante, usque adhuc tolorasti, exaudi praeces nostras, ut gens ista, quae nudum nomen Iesu habet, in inferis aeterne torqueatur. Per Domminum etc.

Bellissimi poi mi paiono un epitaffio e un sonetto:

CLEMENS XIII
pontifex
non sibi non urbi non orbi
sed suis maximus
hic requiescit
utinam cum nepotibus
et iesuitis!

Supponendosi distrutta la Compagnia di Gesù,
si rallegrano le altre Religioni.

     “Or de pulpiti avremo il primo onore,„
Grida il sozzo ignorante Cappuccino;
E divoto ripiglia il Teresino:
“Più fortuna farem con le signore.„ —

[p. clxxxix modifica]

     "Non più tra noi sentenze di rigore,
Busembau seguiremo e il Tamburino,„
Grida lieto il Tomista; e il buon Maurino:
“Viva Quesnello e viva il santo amore!„ —
     “A noi le scole,„ dice il merdosello
Scolopio: "e chi più a noi farà la guerra,
Gesuiti parendo al gran mantello?„
     Così gli empi del cuor sensi disserra
L’invida turba, e gode e fa bordello;
Ma il gran nemico ancor non è sotterra.

Del 1774, un piccolo saggio delle due contrarie correnti si ha in questi epitaffi su Clemente XIV:

VENIT UT VULPIS (mendax)
REGNAVIT UT LUPUS (false)
MORTUUS EST UT CANIS (impie).

VENIT UT ANGELUS (a Deo)
REGNAVIT UT SALOMON (sapienter)
MORTUUS UT SIXTUS (ex veneno).

E molto spiritoso è un sonetto, in cui si finge che Niccola Bischi, odiato dai gesuitanti e dal popolino, e fatto bersaglio di mille satire, perchè era stato nelle grazie di Clemente e si era arricchito con l’ufficio di Commissario Generale dell’Annona, risponda così alli satirici:

     Ingegni mordacissimi e perversi,
Frenate ormai la lingua ardimentosa,
Chè sembra crudeltà pungere in versi
Un che alla fin v’ha canzonato in prosa:
     Mentre ad onta de’ carmi industri e tersi
E dell’arguta monippea famosa,
Siete nell’indigenza ognora immersi
E di moneto in povertà penosa.
     Il Principato io ressi e il Santuario;
E quasi ebbi il Triregno sulla chioma.
Senza nemmeno intendere il breviario.
     Ed or che ho l’oro accumulato a soma,
Sia propizio il destino o sia contrario,
Ho in c...il Papa, i Cardinali e Berna.

[p. cxc modifica]

Egli però, come racconta l’Ademollo nel suo importante lavoro su Corilla Olìmpica (Firenze, 1887; pag. 190), fu messo sotto processo, e dopo tre anni d’indagini, benché si adoperassero calorosamente in suo favore i Ministri di Spagna e di Francia, il 20 gennaio 1778 venne condannato a reintegrare la Camera di 282 562 scudi per hora, senza pregiudizio delle altre partite da liquidarsi. “Ma la Spagna si vendicò (settembre 1778) con la concessione ai Bischi di un assegno annuo di scudi 1500, e la sospensione dei processi di beatificazione o canonizzazione di Santi spagnuoli, che alimentavano la Congregazione dei Riti!„

L’arguta menippea famosa a cui allude il sonetto, e nella quale anche il Bischi e la moglie son bistrattati, è quella mordacissima satira, che in forma di melodramma metastasiano fu scritta sul Conclave del 1774 dall’abate Sertor, e che fece un chiasso del diavolo.

Il 19 novembre di quell’anno, il conte Balbis di Rivera, ambasciatore piemontese a Roma, scriveva al Ministro degli affari esteri a Torino: "Attualmente Roma non è occupata d’altro che dell’incluso Dramma giocoso, che ha presa la fantasia ad una testa, che può sicuramente dirsi bene allegra ma poco religiosa, di dare alla luce mettendo in derisione il Conclave; Dramma, per verità, graziosissimo, ma scandaloso, composto, per la maggior parte, coi recitativi ed arie dei drammi del rinomato Metastasio, trasportati dal serio al bernesco, ad esempio di quello che fanno i Francesi delle loro più celebri tragedie e chiamano parodies. I due soggetti presi di mira principalmente nel Dramma, sono i cardinali De Bernis e Zelada. Si mette il primo nel più gran ridicolo, e si fa del secondo, e troppo crudelmente e calunniosamente, a vero dire, il più nero ed infame carattere, che mai si possa immaginare. Gli altri Cardinali poi, che si mettono, giacchè tutti non sono messi, in [p. cxci modifica] scena, sono descritti e definiti tanto al naturale, che non si può dir di più, ma non si possono conoscere da chi non è sul luogo. Gran fuoco ha acceso nel Conclave un tale componimento negli animi principalmente dei Cardinali più maltrattati e massime del Cardinale De Bernis, cosicché il Sacro Collegio lo ha proscritto, insieme ad altri scritti satirici, coll Editto, che qui unisco, e fatto bruciare questa mattina per mano del carnefice. Tutti però vogliono leggerlo, specialmente le donne, che sanno a memoria il Metastasio, e se ne pagano le copie, difficilissime ad aversi, cinque, sette e sino a dieci zecchini. Si va esagerando contro i Cardinali, che sintantoché non si era lacerata che la memoria del papa defunto, han mostrato di compiacersene e cercavano avidamente tutte le satire, che uscivano contro il passato pontificato, ed ora, poiché si sono essi sentiti pungere, se ne risentono, pubblicano Editti, taglie e premi per scoprire l’autore del Dramma.„35

Ne’ primi due atti si contrastano l’elezione il Negroni candidato del De Bernis, e il Serbelloni candidato de’ due Albani. Il Sersale, e più ancora il Zelada, fanno la parte di Mezio Fuffezio. E il contrasto finisce a colpi di breviari, calamai, polverini e cinturoni, tra camerieri, facchini e conclavisti de’ due partiti, rimanendo vincitori i Serbelloniani. Ma mentre il Serbelloni sta per essere eletto, il Sersale a nome del De Bernis porta l’esclusiva della Francia. L’escluso piglia la cosa con filosofia, e canta:

. . . . . . . . . . . . . Non mi conosci
Abbastanza, Sersale: un fiero colpo
So che darmi protendi in questa guisa;
Ma a me muovon lo risa

[p. cxcii modifica]

Questi vostri artifizi . . .
Il Triregno non curo, e tu all’amico
Portalo, e di’ che non lo prezzo un fico.
               (Da a Sersale il Triregno.)
               Recagli quel Triregno,
          Digli ch’io lascio il Trono:
          Rammentagli chi sono,
          E vedilo arrossir.

Rivolto quindi a’ suoi fautori, prosegue:

               Voi serenate il ciglio,
          Se il viver mio vi piace:
          Io goderò più pace
          Prima del mio morir.

Il secondo atto si chiude con quest’aria del Sersale, il quale ayeva per un momento ripensato al Negroni; ma, visto spirargli il vento contrario, si schiera subito nel novo partito per il Fantuzzi:

               Se bel tronco crescer vede
          Di zibibbo o pizzutello,
          S’aifatica intorno a quello
          Il geloso agricoltor.
               Ma da lui rivolge il piede,
          Se lo vede imbastardito,
          s’accorge ch’ha patito
          Nella pianta o nell’umor.

.

Nel terzo atto, il cardinal D’Elei così descrive le discordie del Conclave:

... Or l’uno or l’altro a suo piacer n’aggira
O l’ambizione, o l’avarizia, o l’ira.
               Siam navi all’onde algenti
          Fra la tempesta e il tuono:
          Impetuosi venti
          1 Cardinali sono.
          Tutto il Conclave è un mar.

[p. cxciii modifica]

               Qual buon nocchier per noi
          Non veglia la ragione:
          Ciascuno a’ vizi suoi
          Serve, o dalla passione
          Si lascia trasportar.

E il Corsini osserva malinconicamente:

     Pur troppo è ver: nell’elezion del Papa,
L’utile, il giusto, il retto ognun di noi
Non si propon, ma gì’ interessi suoi.
Olà, la cioccolata.
Con due biscotti, e che sia ben frullata.

Messisi poi d’accordo il De Bernis e Gianfrancesco Albani per eleggere il Fantuzzi, fanno tra loro questo dialogo:

De Ber.   Ecco finite

     Le discordie, i tumulti.
Albani.   Ecco ritorna
     La pace e l’amistade: eccoci al fine
     Tutti concordi e amici.
     Il Conclave è finito.
De Ber.   Oh. noi felici!
Albani.   Dopo l’orrida prigione,
     Ond’ò oppresso il nostro core,
     Ecco alfin la libertà.
De Ber.   Di star lieti abbiam ragione.
     Che una volta il nostro amoro
     A riviver tornerà.
Albani.   Della mia vezzosa Altieri
     Parmi già d’udir la voce.
De Ber. Vedo i vezzi lusinghieri
     Della bella Santacroce.36
Albani.   Dalla gioia...
De Ber.   Dal contento...
Albani. Manco, oh Dio!
De Ber.   Morir mi sento.

[p. cxciv modifica]
A due.   Chi m’aiuta per pietà?

  Alme belle innamorate,
  Dite voi, che lo provate,
  Se più bel piacer si dà.

Eletto finalmente il Fantnzzi, morto di rabbia il Zelada, contenti gli altri, tanto più che il nuovo Papa, asceso sul trono, ha detto:

          Tutto per voi farò: tutti felici,
          Tutti paghi vorrei;

il dramma si chiude con un Coro di facchini del Conclave:

          Su compagni allegramente,
          Coroniam sì fausto dì:
          Di star chiusi finalmente
          Questa buggera finì.

Non sciuperà, io credo, la sua fatica, un giovane studente di lettere a cui ho consigliato di confrontare qualche manoscritto di questa satira con le stampe, che sono tutte, più o meno, monche e spropositate, e di farne un’edizione integra e corretta (che potrà dirsi la prima), aggiungendovi note storiche dichiarative e riscontri dei passi metastasiani parodiati.

La fioritura satirica del 1774-75 prò e contro i Gesuiti può dirsi che continuasse nel 76, per l’eroicomica incoronazione di Corilla; poiché i loiolisti si schierarono contro di lei, e gli antiloiolisti in favore: quasi tutti poi, contro il senso comune.

Uno de’ pochissimi che conservò il cervello a segno, fu il Milizia, che il 17 agosto scriveva al Conte di San[p. cxcv modifica] giovanni:37 "Roma è tutta seriamente occupata nelle puerilità della sua Arcadia. Quest’Accademia di futilità e di parole fa qui più fracasso che tutte le accademie di scienze le più utili che fioriscono altrove. Si è suscitata una ribellione di Arcadi contro il loro Custode. Costa forse meno pensieri all’Inghilterra la ribellione dei suoi Americani. Ma qui è tutto comico: ed i Paonazzi e i Porporacei e il Santissimo fanno la loro parte in questa commedia, e chi può ridere se la ride. Questo risibile scompiglio è originato da una donna, che arcadicamente è chiamata Corilìa Olimpica. E una pastorella di cinquant’anni; ed a Lei, signor Conte, sarà ben nota: costei aspira alla incoronazione nel Campidoglio. Petrarca e altri vi furono incoronati, e Galileo fu messo al Sant’Uffizio. Tre o quattro cardinali hanno sostenuta questa pretensione. Il Papa disse prima di no, e poi di sì. Gli altri tutti hanno urlato, e il Papa ha chiuso gli orecchi ai loro urli. Corilla si è esposta agli esami: nel secondo esame soffrì una forte burrasca nel Mar Rosso.38 Il terzo esame dovea succedere ieri sera; ma la poetessa si è finta ammalata e seguiterà a stare ammalata finché bisognerà. Il Papa pare ritornato al suo primo no. Che diluvio di satire! Corilla è il principale bersaglio. Il suo principe Gonzaga è trattato da imbecille. Il Papa non è risparmiato . . .„

Il diluvio di satire precedette, accompagnò e seguì l’incoronazione; e co’ carteggi privati e diplomatici (che l’Ademollo ha diligentemente raccolto, e di cui io qui darò un piccolo saggio) dilagò per tutta Italia.

“Le satire fioccano da tutte le parti,„ scriveva il 17 luglio il Cancellieri al Tiraboschi, dandogli, come [p. cxcvi modifica] un’osservazione fatta in prosa da Pasquino, il senso di quest’ottava:

     Se meritevol fu d’avere in fine
Stazio gli allori in Campidoglio un giorno,
Onde famoso per le ascree colline
Il suo nome immortal suona d’intorno:
Se meritevol fu d’avere il crine
Il gran Petrarca di bei lauri adorno,
Se meritevol fu Perfetti, allora
È meretrice la Corilla ancora.

“Cominciano ad uscire satire offensive, non meno di essa„ (Corilla), "che di altri soggetti, ed ancora del Papa, il di cui carattere si è avanzato taluno a formare con quel sarcasmo: Clemente XIII diceva sempre no; Clemente XIV diceva sempre sì; Pio VI dice sempre no e sì.» (Agente genovese, 20 luglio.)

"Le satire diluviano..., ed anche contro il Santo Padre, correndo ora per le mani il seguente sanguinoso distico:

Plaudite, lascivae: pepulit vos Quintus ab Urbe,
     Nunc habet a Sexto serta Corilla Pio.39

Versi ai quali è stato risposto:

Del vizio e di virtù giudice è Roma:
Cacciò il Quinto le oscene, e il Sesto Pio
A Corilla immortale orna la chioma.

....Acchiudo... altre pasquinate, in una delle quali, per le pur troppo frequenti sue variazioni, si accusa il Papa di dir sì e no nel medesimo tempo. Il signor cardinal Giraud avendogli riferito il distico: Plaudite, lascivae, ecc., non se n’è Sua Santità punto commossa, e con grandissima placidezza solamente ha risposto: Oh! questo si ch’è per me!„ (Ambasciat. sardo, 3 agosto.) [p. cxcvii modifica]

“Le satire crescono in numero e in mordacità, e arditamente si attaccano i primi personaggi, i Cardinali fautori, il Papa medesimo, che vi è cascato senza saperlo.„ Così, il 10 agosto., il Cancellieri al Tiraboschi, mandandogli per saggio, tra gli altri, questi due distici:

Sacra Vaticani Corillam oracula castam
     Dicunt; non ergo est crimen adulterium.
Fronde caput sacra vilis meretricula cingit;
     Quis tua nunc vates praemia, Phoebe, velit?

“L’altra sera, avanti la finestra del conte Cardelli Conservatore, quattrocento e più persone gli portarono una meretrice, e gliela incoronarono. Uno dei di lei partigiani„ (di Corilla, s’intende) “è stato ancora questo degnissimo Cardinal Vicario, onde alla porta della sua anticamera si trovò scritto: Et homo factus est! Gira un vago pensiero in una composizione, nella quale il principe Gonzaga, in rendimento di grazie al Campidoglio ed in compenso della perduta Ghinea, gli offre tutte le sue ragioni dei perduti Stati, ed il Campidoglio gli promette l’annuo censo nella presentazione di un’asina.„ (Incar. d’affari del Grand. di Tosc., 31 agosto.) Per capire questo vago pensiero, bisógna rammentare che appunto allora era cominciata la controversia per la Ghinea, avendo il Tanucci protestato che il Re di Napoli non presenterebbe più pubblicamente e come tributo la solita offerta, ma bensì in forma privata e come semplice atto di devozione. La qual protesta in realtà non ebbe effetto prima del 1788, ma intanto servi a bistrattar Corilla anche in un profetico sonetto, comunicato subito dall’Incaricato fiorentino al suo Ministro:

     Apre gli occhi l’Europa, e già riprendo
I dritti suoi la Maestà Regale;
E se si corro innanzi a passo eguale,
Roma, mi fan tremar le tue vicende.

[p. cxcviii modifica]

     Epoca è questa, per chi ben l’intende,
Che in pochi dì l’Autorità Papale
Cangia in fuso la spada, e il pastorale
Aspersorio di parroco sì rende.
     E pur, chi ’l crederia? mentre affannata
Esser Roma dovrìa fra le tempeste
Donde sì da vicino è minacciata,
     Immersa in cure puerili e insane,
Fra ridicole pompe e inette feste.
Consuma il tempo in coronar p...... .

Secondo un’altra lettera del La Barthe all’Albergati, la Corte papale fu punta tanto sul vivo da questo sonetto, che fece "le più esatte perquisizioni dell’autore,,, e corse voce che fosse perfino "uscito il premio di mille scudi„ per chi lo scopriva. Ma pare che perquisizioni e premio non approdassero a nulla. In compenso però, il giorno dell’incoronazione fu trovato affisse in Campidoglio un cartello che diceva:

luxuria et iniustitia amplexatae sunt
s. p. q. r.
in perpetuam presbyterorum infamiam.

Precursore della libertà della stampa, nel bene e nel male, nel grave e nel leggiero, Pasquino dette saggi anche di quelle freddure sopra i cognomi, che sono oggi tanto in voga, specialmente nelle elezioni generali de’ deputati e nelle nuove composizioni dei Ministeri.

Quando Pio VI, nel 1782, si ostinò a voler fare la visita a Giuseppe II, sperando vanamente di riuscire a distoglierlo dalle riforme liberali, Pasquino scrisse il

Notamento de’ Prelati nominati dalla Santità di Nostro Signore per accompagnarlo nel viaggio di Vienna, colla spiegazione delle incumbenze assegnate alli medesimi:

Avvocati tutelari del viaggio: Monsignor Sampieri, Santandrea, Raffaeli e Gabrieli. Per intimar la levata: Mons. Gallo [p. cxcix modifica] e Mons. Albani. Per celebrar la Messa: Mons. De Pretis. Per ordinar il viaggio: Moris. Vai. Per regolar le fermate: Mons. Stai. Per diriger le poste: Mons. Ventimiglia. Per irrigar le strade: Mons. Riganti. Per sopraintendere ai Corrieri: Mons. Cavalchini. Per sopraintendere ai Carriaggi: Mons. Della Somaglia e Carrara. Per aprir le porte della città: Mons. Bussi. Per il ricevimento alle porte: Mons. Della Porta. Per solennizzar l’arrivo di Nostro Signore: Mons. Campanari e Campanella. Per battere la campagna: Mons. Boschi e Silva. Per evitar i pericoli delle strade: Mons. Sbarra. Per vegliar sui costumi della Famiglia: Mons. Onesti e Buonfigliuoli. Per provvedere alla sete: Mons. Acquaviva. Per prevenir gl’incomodi di salute: Mons. De Medici. Per riparar il Santo Padre dal freddo ed umido: Mons. Berretta e Coppola. Per solecitare il pranzo: Mons. Cacciapiatti. Per odorar le vivande: Mons. Nari. Por sopraintendere alla credenza: Mons. Carrara, Bottiglia e Malvasia. Per direttore delle salse: Mons. Alliata. Por provedere la cena: Mons. Erba, Finocchietti, Pancotti, Palombi, Galletti, Passeri e Merli. Per sopraintendere alla cucina: Mons. Pelagatti e Pignatelli. Per la cena della Famiglia: Mons. Calderoni. Per sopraintendere ai letti: Mons. Mollo. Per scaldare i letti: Mons. Scotti. Per la preservazione di Nostro Signore: Mons. Cacherano. Per interprete dello lingue: Mons. Tedeschi. Esclusi dall’accompagnamento di Nostro Signore: Mons. Testa e Vinci.„40

La chiusa, come si vede, fu profetica; e Pasquino potè poi salutare il ritorno del Pontefice, dicendo ch’egli era andato a Vienna a cantare una messa senza Gloria per lui, e senza Credo per l’Imperatore.

In una raccolta di Diversi Sonetti, molti de’ quali in romanesco bastardo, sopra la caduta di tutto il Regno di Francia nella diabolica setta de’ Frammassoni, e su di altre occasioni e circostanze accadute in Roma nell’anno 1793 ecc. (Ms. della Nazionale di Roma, Fondo Vitt. Em., 27-28), [p. cc modifica] c’è anche una sestina, che è forse la cosa migliore dei due volumi:

     Vinceste, o Galli. Il trono è già distrutto;
Più Monarca non v’è. Liberi siete.
Godete pur del vostro ardire il frutto.
Abbia il comando ognun. Ma riflettete,
Che quando cantan tanti galli intorno,
Dice il proverbio: Non si fa mai giorno.

Il conte Alessandro Moroni, nelle Buffonerie vecchie e nuove (Roma, 1882; pag. 64), racconta: "Furono erette in Roma due statue, una grande alla Repubblica Francese con la iscrizione: Matri magnae, ed altra più piccola rappresentante la Repubblica Romana con la iscrizione: Filia grata. Pasquino volle farla da epigrafista, e spiegò la iscrizione in questo modo: La madre magna e la figlia se gratta.„

Altri però dicono che l’iscrizione fosse posta sopra un arco trionfale. Ma, per verità, io non son riuscito a trovarla in nessun modo in giornali e memorie del tempo che pure parlano di statue erette alle due Repubbliche e d’archi trionfali, e riferiscono altre iscrizioni consimili.

Sotto la data del 26 maggio 1798, trovo invece nel Diario dell’abate Benedetti: "Oggi è stata pubblicata questa satira:

Marforio. Che tempo fa, Pasquino?
Pasquino. “Fa tempo da ladri.„

E vedo che il povero abate aveva già, senza saperlo, preparato il commento alla risposta di Pasquino, notando pochi giorni prima un piccolo saggio de’ segni del tempo: — "20 maggio. è ordinata una requisizione della metà delle posate d’argento che possiede ciascuna famiglia. — 24 maggio. Oggi è stato affisso un ordine del Consolato per un’altra requisizione di posate d’argento. — Per [p. cci modifica] dieci libbre di zuccaro ed altrettanto di caffè, sono occorsi 40 scudi [in cedole]; una canna di scarlatto è stata pagata scudi 150.„41

Di quello stesso periodo di tempo, e allusivo a simili e ben più gravi taglieggiamenti, e alle spoliazioni delle nostre biblioteche e de’ nostri musei, dev’essere anche un altro famoso dialoghetto, del quale però non ho potuto trovare testimonianze sincrone:

Marforio. È vero che i Francesi son tutti ladri?
Pasquino. Tutti, no; ma bona-parte.

Appena fu noto che il cardinal Chiaramonti, eletto Papa, aveva assunto il nome di Pio VII, Pasquino, memore del nepotismo d’altri Papi, gli disse: Settimo, non rubare.

E poiché il Chiaramonti ebbe comune con tanti non umili Vicari di Gesù Cristo la vanità di non far cambiare un mattone, senza metterci la solita epigrafe, una volta che per suo ordine fu rimbiancato non so quale edifizio, Pasquino ce la mise lui, cosi:

PIUS VII PONT. MAX.
hanc albitudinem
a fundamentis erexit
anno etc.


Perciò forse Leone XII, che successe a Pio VII, non volle “che il suo nome fosse apposto a nessuno de’ suoi lavori.„42 Ma con Gregorio XVI, si tornò daccapo, e “i monumenti pubblici furono contaminati di bugiarde iscrizioni.„43 [p. ccii modifica]

Per il Congresso di Vienna, Pasquino scrisse in romanesco:

A Vienna c’è un bellissimo mercato
E i popoli ce vénneno all’incanto:
E a echi ne compra e che je paga un tanto
Je conzegneno er popolo legato.
E llui in appresso s’arifà su quello
Co’ la tosa, cór latte e ccór macello.

E per la morte di Napoleone I, sentenziò in buon italiano:

               Fu genio onnipotente,
          Fece tremare il mondo;
          Ora è sparito in fondo
          All’abisso del niente!
               Ed è morto di male,
          È morto tal e quale
          Come muore un ciociaro,
          Un Papa e un pifferaro.44

Il 14 novembre 1818, l’abate Cancellieri scriveva da Roma a Sebastiano Ciampi: “Son finite le gran feste„ (tra cui, le solite luminarie), “date al Re di Napoli.... Pasquino ha detto che non occorreva tanta profusione di olio, per condire un broccolo.„ (Autografi della racc. Gonnelli nella Nazionale di Firenze.)

Cominciando da Giovanni Antracino, che curò nell’ultima malattia Adriano VI, e a cui, spirato il Papa, fu posta, come narra il Giovio (Op. cit.), l’epigrafe: [p. cciii modifica]

liberatori patriae
s. p. q. r.

gli archiatri pontifici servirono assai spesso di pretesto alle pasquinate contro i loro padroni.

Una delle più saporite fu quella di Francesco Spada, l’amico del Belli, per la morte di Leone XII, del quale pare che realmente precipitasse la fine un’operazione mal riuscita del Chirurgo Todini. Divenne subito e si mantiene ancora popolarissima; ma appunto perciò gira per le bocche e ne’ libri con varianti arbitrarie, che ne guastano la squisita fattura. Solo a pubblicarla nella vera lezione, fu, ch’io sappia, il fratello stesso dello Spada; e l’accompagnò con parole che, dette da lui, caldo benché onesto fautore del Governo de’ Papi, le danno il valore d’un irrecusabile documento: "Morto nel 1829 Leone XII il pubblico non ne fu dispiacente, perchè il suo pontificato lasciò voce se non di odioso, per lo meno di vessatorio e quasi antisociale. In prova di che, alla sua morte si diffuse una satira che compendiava il pensare del popolo a suo riguardo, e che diceva così:

          V’ha chi al chirurgo appone
          La morte di Leone:
          Roma però sostiene
          Ch’egli ha operato bene.„45

Popolarissima insieme con molte altre, ma oggi quasi dimenticata, divenne anche la

descrizione anatomica del cuore di leone xii.

Di vari esperti fisici
Ecco la descrizione
Dell’esame anatomico
Del cuore di Leone.

Era questo composto
D’una materia molle,
Con strati sovrapposti
A guisa di cipolle.

[p. cciv modifica]

     E in ogni strato eravi
Impresso un qualche oggetto
O cosa che nel mondo
Gli dette più diletto.
     Dipinta fu trovata
Con tinta assai gagliarda
Una cuffia da donna
In punta a un’alabarda.46
     V’era in un’altra foglia,
Ma questo cancellato,
Scritto con cifre ignote
Il bene dello Stato.
     Polvere, palle e schioppi,
Uccelli, cani e belve,
E un cacciator mitrato
Dipinto tra le selve.47

     In molte foglie poi
V’eran con tratti arditi
Impressi una gran folla
Di Padri Gesuiti.48
     Vi si vedeva ancora.
Ma scancellato affatto.
Con barba e con cappuccio
Di Micara il ritratto.49
     Nel mezzo poi del cuore
(Chi ’l crederebbe, oh Dio?)
Impresso fu trovato:
Caro Pietruccio mio!50
     Dissero allora i fisici:
“Oh corpo del demonio!
Avea lo stesso istinto
Costui di sant’Antonio.„
. . . . . . . . . . . . . .

[p. ccv modifica]

Davanti alla sua commedia: L’Innocente in periglio, rappresentata per la prima volta in Roma nell’autunno del 1807, Giovanni Giraud scrive: “Credo inutile riportare, che (al pari, delle altre) soffrì questa ancora qualche vicenda nella Revisione, dopo sei sere di recita, e che la cavalla, sulla quale cavalca il Priore, fu da mano scrupolosa ed erudita, con pronta metamorfosi, fatta divenir cavallo, con più facilità assai che Tiresia non divenne donna.„51

Le parole, che dettero specialmente nel naso allo scrupoloso revisore furono queste (Att. II, sc. 1):

Geltrude. Ma come mai quella povera bestia...

Anacleto, La bestia stava come un principe, quando tre miglia lontano di qui ho cominciato a sentirmi fra le gambe, che la bestia si contorceva. Dissi a Bartolomeo mio servitore, che veniva dietro a piedi: “Cos’ha questa cavalla?„ — “Che cosa volete che abbia,„ mi risponde, “avrà posto male un piede, ed ora pare che zoppichi.„ L’ha presa per la corda, e con un piccolo bastoncello ha cominciato a percuoterla. La cavalla ha fatto al momento come uno strillo, e si è buttata per terra. Cos’è, cosa non è...

Geltrude. Era crepata?

Anacleto. Un aborto me l’ha rapita.

E volle, dopo sei recite, che si sostituisse cavallo a cavalla.

[p. ccvi modifica]

La cosa si riseppe, prima della settima recita: e le risate e gli urli degli spettatori andarono alle stelle, quando Anacleto, con grande indifferenza, disse: "Un aborto me l’ha rapito.„

Ma il chiasso fu anche maggiore molti anni dopo, allorché un altro revisore, l’abate Antonio Somai, fece mutare questi due versi d’un melodramma:

Amo la patria, e intrepido
Il mio dovere adempio,

in

Amo la sposa, e intrepido
Il mio dovere adempio.

Scherzando sul cognome di questo povero abate Somai, i Romani dicevano che aveva perduto l’r; e il Giraud, per vendicarsi delle vecchie e delle nuove ridicole prepotenze della censura, scrisse contro di lui un sonetto, felice imitazione d’un altro del Fagiuoli, e che corse per tutta Roma:

     Del sommo Pietro, Adamo del Papato,
Puoi dirti, Abate mio, fratel cugino:
Abbietto nacque Pietro, e tal sei nato;
Pietro pescò nell’acqua, e tu nel vino.
     Peccò con la fantesca di Pilato
E ne pianse col gallo mattutino:
Tu, con le serve altrui quand’hai peccato.
N’hai pianto col cerusico vicino.
     Pietro irato fe’ strazio agli aggressori
D’un solo orecchio; ma tu sempre, il credi,
Ambo gli orecchi strazi agli uditori.
     Giunto alfin Pietro ove tu presto arrivi,
Pose nel luogo della testa i piedi;
E com’egli morì, così tu vivi.

[p. ccvii modifica]

Dopo morto Pio VIII, che regnò venti soli mesi:

     Breve, ma ben regnò l’ultimo Pio:
Odiò l’arbitrio, amò la pace altrui,
Non ebbe d’esser despota disio,
Non arricchì ladroni intorno a lui,
Non fe’ bottega del poter di Dio.
O Padri Santi, successori sui,
Se imitar nol potete in tutto il resto,
Superatelo almeno in morir presto.

E sulla sua tomba;

     L’ottavo Pio qui giace,
Che essendo cardinal fu assai stimato:
Nel suo pontificato
Pianse,52 dormì, morì:
Requiescat in pace.

Né basta:

L’Ottavo Pio fu Papa; visse, è morto,
E, grazie a Dio, nessuno se n’è accorto.

E durante il breve regno dello stesso Pontefice, anzi ventiquattr’ore dopo la sua elezione, Pasquino poteva vantarsi d’aver acquistato un formidabile collaboratore in Giuseppe Gioacchino Belli, come appare dal sonetto: Pio Ottavo, 1 aprile 1829, e dalle prime righe delle mie note. Ma a quel piccolo capolavoro mancò affatto uno de’ caratteri principali delle pasquinate, voglio dire la popolarità, che ebbero invece, e straordinaria, altri sonetti del Belli, scritti quasi tutti sotto Gregorio XVI, i quali però, quantunque siano un bel numero, appaiono tuttavia piccola cosa rispetto all’intera opera sua, rimasta in complesso assai meno popolare di quel che comunemente si credo. [p. ccviii modifica]

Il 2 febbraio 1831 mentre la maggior parte dello Stato pontificio era per prorompere in aperta rivolta, tonava il cannone da Castel Sant’Angelo per l’elezione di Gregorio, e il Belli rispondeva con un sonetto: L’upertura der Concrave, al quale non si regala nulla chiamandolo addirittura maraviglioso, ma che pure rimase interamente sconosciuto. Moriva Gregorio nel 1846, e aperto il suo testamento, “che portava le impronte delle false idee che lo avevano traviato durante il suo regno,„53 il Belli lo commentava con quell’altro sonetto:

Papa Grigorio è stato un po’ scontento,

il quale, al contrario del primo, diventò subito ed è ancora popolarissimo, benchè forse artisticamente meno perfetto.

Ora, senza stare a indagar le cagioni di questa differenza (non ultima delle quali, però, dovette esser la minor ritenutezza del poeta stesso sul principio del pontificato di Pio IX a comunicare agli amici alcuni de’ suoi sonetti), mi pare di non aver fatto male, arrivati dove siamo con la nostra rapida corsa, di anticipare una parola sul Belli, poiché egli pure, specialmente per tutta la parte politico-religiosa dell’opera sua, e più ancora per quel tanto di questa parte che diventò patrimonio comune della memoria del popolo romano, si collega strettamente con Pasquino e con le pasquinate, almeno quando s’intendano con la necessaria larghezza. Ma per tutta questa parte dell’opera del Belli e di alcuni suoi primi imitatori, che investe e flagella specialmente il pontificato e la persona stessa di Gregorio, rimando, com’è naturale, al corpo di questi sei volumi; e qui mi [p. ccix modifica] restringo a dar qualche saggio d’altre satire di quello stesso tempo.

Una delle più spiritose (già da me pubblicata, ma inesattamente, nel vol. V, pag. 273, nota 6) fu fatta a proposito della costruzione di quel grande edifizio semicircolare lungo il Tevere, nella Via di Ripetta, in una parte del quale risiede il R. Istituto di Belle Arti. Di questo edifizio si disse allora un gran male, per parecchie ragioni: perchè, nelle strettezze in cui versava l’erario, parve inopportuna la gravissima spesa; perchè non piacque il disegno, e si sospettò che l’architetto Camporesi ci avesse guadagnato più del dovere; e finalmente perchè, appena terminato, minacciò rovina e si dovettero rifare le fondamenta. Eco di tutti questi malumori, comparve un’incisione rappresentante il Tevere che portava sulle spalle il novo edifizio, con sotto la prima parte del terzo versetto del salmo cxxviii: Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores. E poichè il Camporesi, co’ quattrini guadagnati, si costruì li vicino sulla stessa linea una bella casa, rieccoti il padre Tebro con la seconda parte del versetto: prolongaverunt iniquitatem suam.

Quando Gregorio conferì una delle molte lucrose sinecure della Dateria a un giovane conte, che aveva la madre e la sorella un po’ screditate, Pasquino sentenziò: Mater dabat, filia dat, et filius in Dateria.

Nel 1845, predicava nella chiesa di San Carlo al Corso il quaresimale, istituitovi per la prima volta in quell’anno dalla Confraternita della Nazione Lombarda, don Giuseppe Lorini, arcidiacono di Cortona;54 il quale un giorno spiegò a’ suoi uditori come il fuoco del Purgatorio non sia vero, ma simbolico; e pare che perciò gli toccasse una bella lavata di capo dal Cardinal [p. ccx modifica] Vicario. Il fatto sta, che sulla porta maggiore di San Carlo fu affisso un sonetto, ch’io raccolsi quindici anni dopo, monco di due versi, dalla bocca d’un sarto:

     Senza neppur di fuoco una scintilla
Ci pingesti, o Lorini, il Purgatorio:
Dicesti, quasi in cella o romitorio
Starsi colà ogn’anima tranquilla.
     Perdio! se fai cosi, come si strilla!
Addio messe, addio esequie, addio mortorio!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
     E non sai tu che il fuoco de’ purganti,
Sorgente di dovizie al sacerdozio.
Fa bollir la marmitta a tutti quanti?
     Deh, per pietà! dismetti un tal negozio,
E lascia come pria che gl’ignoranti
Ci mantengano i vizi in grembo all’ozio.

Delle molte satire uscite poi per la morte di Gregorio, il Gualterio (voi. IV, pag. 337j e lo Spada (I, 37 e 41) attestano concordemente che ebbero un carattere più grave e più virulento del solito. Ed è vero, e se ne intende il perchè. Troppo spesso, sotto Gregorio, la commedia del Governo papale s’era mutata in tragedia; troppe lacrime, troppo sangue s’era versato! E troppi atti del defunto Pontefice alla parte comica avevan congiunta l’odiosa, come la proibizione degli asili d’infanzia e delle strade ferrate, e la multa e il carcere ai vetturini che avessero percorso in un sol giorno più d’una determinata distanza, e non avessero, per esempio, impiegato due giorni per il viaggio da Roma a Viterbo, che si può fare comodamente in dieci ore!55

“Un sonetto terribile,„ aggiunge il Gualterio, "non tardò a circolare,„ e “l’ultimo verso compendiava quanto [p. ccxi modifica] era sulle labbra e nel cuore della moltitudine.„ Venne pubblicato ne’ Fiori sparsi sulla tomba di Gregorio ecc. (Losanna, 1846), e io l’ho riprodotto, insieme con altre satire, nelle note a quello già ricordato e popolarissimo del Belli (vol. V, pag. 343-46).

Tra i detti Fiori c’è anche un’atroce parodia del Cinque Maggio, ed eccone alcune strofe:

               Ei fu. Siccome immobile
          Stette di vita nuda
          La vecchia spoglia e al diavolo
          Lasciò l’anima cruda,
          Così per gioia attonito
          Il mondo al nunzio sta,
               Lieto pensando all’ultima
          Ora di quel brutale,
          E spera che una simile
          Orma di piè papale,
          Di Cristo il gregge e i pascoli
          Più non devasterà.
               Lui sbevazzante in solio
          Vide il mio genio e tacque,
          Finché alla sua tirannide
          Ognun di noi soggiacque:
          E di mill’urli al sonito
          Il suo misto non ha.
          . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
               Fu vera infamia, e i posteri
          Si stupiran di nui,
          Che abbiam sofferto taciti
          Un tristo come lui,
          Che del buon Dio Vicario
          Da Satan ci trattò.
          . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
               Ei si nomò Gregorio;
          Promise mari e monti
          E le paterne viscere
          A’ suoi popoli tonti,
          Mentre in paura orribile
          Tremante si trovò.

[p. ccxii modifica]

               Ma quindi alzò patiboli,
          Fe’ piene le prigioni,
          Si circondò d’ipocriti,
          Di lupi e di spioni,
          E a Cristo e all’Evangelio
          Le spalle, empio, voltò.
               Chiamò l’orde barbariche
          A taglieggiar la greggia;
          Di svizzeri satelliti
          Si puntellò la reggia,
          E la crudel politica
          De’ regi esercitò.
          . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
               Bella Immortai!l benefica
          Fede ai trionfi avezza!
          Morì anche questo, allegrati;
          Che tanta nefandezza
          A disonor del Golgota
          Giammai non ti sposò.
               Invan sulle sue ceneri
          Di requie la parola
          Pregate, o preti: il Massimo,
          Ch’anche il ladron consola.
          Sulla deserta coltrice
          Deserto lo lasciò.

Nella disposizione testamentaria di Gregorio, “la quale esentava i nepoti dal pagamento del diritto di successione dovuto all’erario pubblico sulla sua eredità, vide ognuno la falsa idea che aveva della legge e della sua inviolabilità; poichè non contento di essersi voluto sempre riguardare ad essa superiore, le volle fare un ultimo sfregio morendo, e credette padroneggiarla fin dopo morte.„ (Gualterio, IV, 338.) E una lunga Parafrasi di tutto il testamento, pubblicata anch’essa ne’ Fiori, dà quella disposizione in questa forma:

     Poichè al roman tesoro far vogliamo
Un danno pur quando saremo spenti,
Mandiamo, prescriviamo ed ordiniamo

[p. ccxiii modifica]

Che i nostri cari eredi siano esenti
Da tasse di registri e successioni.
Così bestemmierà pur Compagnoni.

Il quale, dice una nota, era “Proposto della tassa Successioni,„ e agiva “a guisa de’ più esosi Pubblicani.„

Ne’ funerali in San Pietro, essendosi il 10 di giugno rovesciata dal tumulo la statua della Religione, uscirono subito due epigrammi, uno de’ quali, alludendo al libro pubblicato da Gregorio mentre era frate col titolo: Il Trionfo della Santa Sede, diceva:

     Frate, esaltasti Religione in carte;
Papa, morte le desti e non trionfo;
Sul tumul tuo volle riporla l’arte:
Sdegnò di starvi, e diede abbasso un tonfo.

Finalmente, una lunga sentenza, intestata:

REGNO DE’ CIELI.
In nome del Padre Eterno Iddio,

e pronunziata dalla Commissione straordinaria mista, sedente in Paradiso (mista, cioè, di santi dottori e di santi soldati, a somiglianza, con rispetto parlando, di quelle miste di azzeccagarbugli e di birri, delegate da Gregorio a commettere tante vendette legali contro i patriotti), riassumeva gli atti più importanti del suo pontificato, e lo condannava al fuoco eterno.

Ma per annunziare il Conclave che elesse Pio IX, Pasquino tempera alquanto la virulenza, e pubblica un Manifesto teatrale, in cui prima di tutto dice che dopo sedici anni di silenzio (quanti, cioè, ne aveva regnato Gregorio), si riapre il Teatro al Quirinale (dove il Conclave doveva tenersi), con una bravissima Compagnia Comica; e poi dà l’elenco degli attori e delle parti, un gioiello di verità arguta. [p. ccxiv modifica]

Prim’uomo assoluto: Lambruschini. — Questo cardinale, infatti, imposto già a Gregorio come segretario per gli affari esteri dall’Austria, “assoluto e superbo, volle dominar solo in Corte e nello Stato... Non sopportava emuli pari in autorità, e non voleva inceppamenti alle voglie o deliberazioni sue.„56 Dettogli un giorno che le carceri dello Stato non erano più capaci di contenere prigionieri politici, rispose con una frase che divenne famosa: Se son piene le carceri, son vuote le sepolture. Candidato, della parte più retriva del Sacro Collegio, sperava d’essere eletto papa invece di Pio IX, e realmente al primo scrutinio ebbe quindici voti, cioè due di più del suo competitore. All’ultimo, quando il Mastai n’ebbe trentasei e lui soli dieci, caddero svenuti l’uno e l’altro, ma per ben diversa cagione.57

Tiranno: Micara. — Cardinal Decano ed ex-generale dei Cappuccini, la sua riputazione di rigidezza era tanta, che allorchè “affranto dalle infermità più che dagli anni,„ s’avviava in lettiga al Conclave, molti popolani gli si affollarono attorno, gridando: Viva Sisto V!58 Quand’era già cardinale, ma continuava a reggere il generalato, i suoi frati di Piazza Barberini “lo presero un giorno a colpi di boccali in refettorio, pel governo tirannico,„ che faceva di loro.59 Pare però ch’egli non avesse tutti i torti, giacchè poco dopo, e precisamente nel 1837, si scoprì che i Cappuccini di S. Meandro presso Venafro, facevano, a tempo perso, i grassatori, uccidendo e rubando, col Padre Guardiano alla testa, come io stesso ho raccontato e documentato!60 [p. ccxv modifica]

Buffo comico: Soglia. — Perchè, veramente, quando era ancora monsignore e grand’elemosiniere di Gregorio, si prestava a fargli un po’ da buffone,

Pe’ mmerità l’onore der cappello,

come dice il Belli e come conferma il Pianciani.61

La parte di servetta sarà sostenuta da Mario Mattei. — Era infatti "uomo di poco momento in tutto, fuorchè nell’arte del dissimulare e nella servilità.„ Strumento docilissimo nelle mani del prepotente Lambruschini, "fu ministro„ (per gli affari interni), "ma non di Stato, sibbene di piccoli intrighi e favori, autore di qualche male, di nessun bene:„ come attesta il Farini (vol. I, pag. 83), che certo non prese a prestito il suo giudizio da Pasquino. Il quale, dopo aver distribuito altre parti tra gli attori cardinali, conclude che per prima rappresentazione daranno le Barufe Chiozote del Goldoni, e il Ludro del Bon, fatica particolare di Tosti (il Calonne delle povere finanze pontificie), e assicura che non ometteranno nessuna premura, per poter divertire le Corti straniere a spese del pubblico romano.

Non è esatta l’affermazione del Cantù, che "esaltato Pio IX, Pasquino tacesse sotto l’universal concerto di applausi.„ (Op. e vol. cit., pag. 229.) Giacchè, alle prime esitanze a proseguire le riforme, gli disse subito:

Pio Nono,
Sei buono,
Ma-stai.

E quando (per restringermi a un altro solo esempio), nel dicembre del 1846 si seppe che de’ due primi [p. ccxvi modifica]cardinali creati dal nuovo Papa uno era l’odiato gregoriano Marini, che come Governatore di Roma e Direttor generale di polizia aveva avuto per braccio destro il famoso Nardoni (a cui la galera e il bollo di falsario e di ladro62 non erano stati impedimento a salire al grado di tenente colonnello de’ carabinieri), ci fu, come dice il Farini (I, 178), “alterazione d’umori,„ e Pasquino non mancò al debito suo di farsene eco:

O Pio, che dirà Roma, che penserà lo Stato,
Se da un tuo primo parto un tristo mulo è nato?

Se il pianto basta a moverti per decorar bricconi,
Il nostro voto accogli: fa’ cardinal Nardoni.

E, se maggior del popolo vuoi tu che sia la gioia,
Componi il più bel terno: fa’ cardinale il boia.

Durante la Repubblica del 1849 (cosi si racconta, e vedremo poi quel che ci sia di vero), il chimico Pietro Peretti teneva in una delle sue due farmacie, e precisamente in quella di fianco a S. Andrea della Valle, ritrovo consueto di molti liberali, un bel pappagallo, ammaestrato a dir male parole a preti e frati, quando li vedeva passare. Entrati in Roma i Francesi, e dietro di loro i tre cardinali, Altieri, Della Genga e Vannicelli, che Pio IX mandò da Gaeta per rimetter le cose a sesto e la testa a partito ai sudditi riottosi, il povero pappagallo fu catturato, e non se ne seppe più nova. Circolò allora una satira intitolata: Il Pappagallo Romano, dichiarato reo di Stato e condannato all’esilio dal Triumvirato Cardinalizio. Scherzo politico-animalesco. E divenne e meritò di diventare popolarissima, perchè, non ostante una certa prolissità e qualche trascuratezza di forma, è [p. ccxvii modifica] bella per molti passi veramente spiritosi, e più ancora per nn sentimento sincero e profondo delle sciagure italiane:

     O dei volatili
Pinto drappello,
Odi la storia
D’un tuo fratello.
     Nella romulea
Città beata.
Dal suo Pontefice
Infranciosata,
     Era bellissimo
Un pappagallo,
Bianco-porpureo
E verde-giallo.
     Presso d’un chimico
Laboratorio,
Cantava i scandali
Del fu Gregorio.
     Era satirico
Motteggiatore,

E de’ retrogradi
Persecutore.
     Vedea canonici.
Frati e piovani?...
Gridava subito:
     “Razza di cani!„
Un dì battendosi
Vita per vita.
Beccò la chierica
D’un gesuita.
     Siccome indigeno
Americano,
Era fierissimo
Eepubblicano;
     Quindi in sua stridula
Voce nativa.
Alla Repubblica
Cantava evviva.

Ma ecco, un bacchettone va e riferisce al Triumvirato Cardinalizio che il pappagallo ha dato dell’apostata a papa Mastai. Le eminenze, sorprese del novissimo caso e dell’audacia della bestia,

     “Cospetto!„ esclamano,
"Anche gli uccelli
In questo secolo
Sono rubelli?
     È un sacrilegio,
Un malefizio:

Bisogna chiuderlo
Al Sant’Uffizio.
     È bestia eretica,
Indemoniata,
In Coena Domini,
Scomunicata.„

Cessato però questo primo bollore di collera, e riconosciuto che non conviene fulminar la scomunica contro una bestia. [p. ccxviii modifica]

     “Ebben,„ ripiglia
Il Della Genga,
"Ad un rimedio
Dunque si venga:
     Questo volatile
È demagogo;
Senza giudizio,
Si danni al rogo.
     "Non è più l'epoca
D'esser severi,„
Disse il patrizio
Mistico Altieri:
     "Vada in esilio
Fuor degli Stati,
A far combriccole
Con gli emigrati.„

     "In Christo Domino
Cari fratelli, 27
Rispose il bambolo
Di Vannicelli,
     "Io per l'ergastolo
Ho più passione;
È più politica
Punizïone!„
     E qui la triade
Dissenzïente
Ai voti appellasi
Immantinente.
     Fu per l'esilio
La maggioranza,
D'appello e grazia
Senza speranza.

E a questo punto, il poeta compiange la sorte del povero pappagallo, il quale non troverà un lembo di terra che lo accolga nella sventura.

                    Costantinopoli?
               Direi di no,
               Perchè alle costole
               Hai Niccolò;

Se vai in Austria, ti chiudono nel carcere duro. In Inghilterra, son tutti mercanti, e ti venderebbero per pochi soldi. Nella Spagna, donna Isabella ama i volatili, ma senza favella.

                    Torni in America?
               Che ci guadagni?
               Ti fischierebbero
               I tuoi compagni.

Dove, dunque, potresti andare?... Ah! ecco, è trovata! In Francia. Ma che! tu ridi? [p. ccxix modifica]

     Di': per qual crimine
Ti dan lo sfratto?
Per le tue chiacchiere,
Per nessun fatto.
     Ebben, tal genere
Di crimenlese
È proprio il genio
Di quel paese.
     Ivi di chiacchiere,
Di cicalate
Si fa commercio,
E son pagate.
     Thiers, il celebre,
Con che s’aiuta?

Con la linguaccia
Che s’è venduta!
. . . . . . . . . . . . . . 
     E i capocomici
Dell’Assemblea
Non fanno vendita
Di panacea?
     Là v’è commedia
Ogni momento,
Sotto il bel titolo
Di parlamento.
     Chi più sofìstica
Ha più ragione,
E chi più strepita
È un Cicerone.

Là le bestie fanno fortuna, e ce n’è di tutte le razze

     Bestie che rodono
Tozzo plebeo;
Bestie che ingrassano
Nell’Eliseo;
     Bestie che vestono
Da generali;
Bestie che gracchiano
Da curïali;
     Bestie che nacquero
Presso del soglio;
Bestie che rubano
Il portafoglio.
. . . . . . . . . . . . . . 
     E non è l’ultimo
In tal corteggio
L’eminentissimo
Duca di Reggio.63
     Di Roma il lauro
Porta sul fronte,
Generalissimo
Rinoceronte.

     E de’ suoi militi
Alla presenza
Legge il chirografo
Dell’indulgenza,
     Che il gran Pontefice
Scrisse a que’ bravi
Che combatterono
Per le sue chiavi.
     Oh! dolce premio
Di sacre mani.
Ad un esercito
Di sagrestani!
     Ma la grossissima
Bestia potente,
Della Repubblica
È il Presidente:
     Bestia cattolica,
Belligerante,
Nella politica
Vero elefante.

[p. ccxx modifica]

     Ei scrive lettere,
Détta messaggi;
Ma ci si nettano
Ministri e paggi;
     Vorrebbe l'aquila
Di quel divino...!

Ma un teschio d'asino
Gli sta vicino.
     Cerca la celebre
Spada fatale,
Ma stringe il manico
Dell'orinale!

Va’ dunque, mio pappagallo; che là, tra tante bestie, farai fortuna tu pure:

     Vanne, e salutami
La grande armata,
Che già s'esercita
Alla parata.
     Saluta i poveri
Nostri emigrati,
E i democratici
Perseguitati;
     E, se d'Italia
Parlar ti lice,
Narra lo strazio
Dell'infelice!
     Narra l'infamia
Di Rostolano,64
Che a feccia d'uomini
Diede la mano;

     E de' suoi militi
Narra lo scempio,
Ridotti ad essere
Sgherri del tempio.
     Di' ch'essi baciano
I delatori,
E il pan dividono
Coi monsignori;
     Di'... ma deh! lascia,
Per carità!
Neppur un'anima
T'ascolterà.
     Là v'è politica
Senza ragione,
E babilonica
Confusïone.

H P eretti fu, per decreto del Triumvirato Cardinalizio, destituito dalla cattedra di farmacia pratica che occupava nell’Università, e con lui fu destituito il [p. ccxxi modifica] figliuolo Paolo, che gli faceva da assistente, e che era anche stato ufficiale della Legione Romana. Le due farmacie perdettero la clientela di circa quaranta conventi, e molti anni dopo, Pio IX, essendogli presentata una nipote del Peretti, esclamò: “Ah! quello del pappagallo!„ Pochi giorni fa, un vecchio medico, di cui potrei dire il nome, assicurava di aver visto, e toccato, e accarezzato quell’ingegnoso animale. Una Nota, nell’ultima pagina della meno scorretta delle due edizioni della satira che conosco io, stampata in Genova dalla Tipografia Dagnino in quello stesso anno 1849, comincia: "La presente poesia non è una favola, essa parte dall’esistenza di un fatto. Il noto farmacista Pietro Peretti...,,, e così seguita, raccontando la storia del pappagallo, come è tuttora, nelle sue parti essenziali, saputa e creduta da qualche mezzo milione degli antichi sudditi del Papa, senza contarci gli altri Italiani. Eppure, non ostante tutte queste testimonianze e questa universale credenza, il pappagallo è un mito, nè più nè meno; e la satira non nacque da lui, ma lui dalla satira. Confesso però, che quantunque il caso sia tutt’altro che nuovo, anch’io cascai dalle nuvole quando ne ebbi le più formali assicurazioni dalla bocca stessa del cav. Paolo Peretti; il quale mi raccontò le noie procurate alla sua famiglia da questo immaginario animale, la destituzione sua e di suo padre, la clientela de’ conventi perduta, l’uscita di Pio IX; e aggiunse, scherzando, che sarebbe stato curioso di conoscere l’autore della satira, per ringraziarlo.

Ma l’autore, Filippo Meucci, che come scrittore di prose e d’inni e melodrammi patriottici, come giornalista, come oratore, come Direttore di polizia sotto la Repubblica, prese tanto fervida e onesta e disinteressata parte al movimento liberale di quegli anni, e poi esule dalla sua Roma, morì Preside del Liceo di Pisa nel 1865, [p. ccxxii modifica] non ebbe, io credo, nessuna colpa nel fatto. Egli dice semplicemente:

               Presso d’un chimico
          Laboratorio,
          Cantava i scandali
          Del fu Gregorio.

E la Nota dell’edizione Bagnino, benchè firmata, come la poesia, con le iniziali F. M., anche dal modo come è scritta mi pare che non possa esser sua. La leggenda, del resto, si spiega facilmente, considerando che allora il solo chimico liberale in Roma era il Peretti: e che perciò, a que’ versi, tutti pensassero a lui, senza badare che la satira portava il sottotitolo di Scherzo, conservatole anche nell’edizione genovese. Fatto questo primo passo, gli altri si spiegano col detto dell’Ariosto:

il miser suole
Dar facile credenza a quel che vuole.

Piacque ai liberali il farsi compagna di lotte e di tribolazioni quella simpatica bestia; i clericali poi, colpendo il Peretti, non guardarono troppo nel sottile, poichè, a ogni modo, sapevano di non sbagliare, essendo ben noto che quella farmacia era un covo di rivoluzionari, e che lì era stata fatta su di una bomba francese, caduta sulla scalinata di Sant’Andrea della Valle, l’iscrizione:

Pio IX ai suoi.

Quando il 27 novembre del 1853 l’areonauta bolognese Luigi Piana morì per aria assiderato, il luttuoso caso fornì argomento a una satira, di cui ricordo solo il principio e la fine. Il Piana era andato personalmente da Pio IX a chiedergli il permesso di volar nel pallone, e il Papa, concedendoglielo, aveva voluto per [p. ccxxiii modifica] soprammercato impartirgli la benedizione apostolica. Si sa che Pio IX aveva fama di iettatore; e la satira diceva appunto cosi:

Mori per l’aere l’infelice Piana,
Lottando con libeccio e tramontana.
.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;.&nbbp;
Ma già si prevedea un destin fatale,
Per l’alzata di Pio, che ha sempre male.

Il Papa fu dolente della morte del Piana, e nel gennaio del 1859 negò il permesso di volare nell’Anfiteatro Corèa a un areonauta francese. Gli concesse però di mettere nel pallone una pecora; e Pasquino disse: “Quest’anno è volata la pecora; st’altr’anno, volerà il pastore.„

La sera di Pasqua del 1857 doveva, secondo il solito, illuminarsi la cupola di San Pietro, e n’era già stato dato l’avviso al pubblico. Ma volendosi far godere lo spettacolo all’Imperatrice vedova dello Czar Niccolò che si aspettava a Roma per quel giorno, ma che venne più tardi, l’illuminazione fu sospesa, senza però pensare a disdire l’avviso. Sicchè, all’ora fissata, la Piazza di San Pietro era piena di gente, la quale, rimasta al buio, mandò lei molti moccoli contro il Governo e i governanti.

Il Roncalli dice che, specialmente dal basso popolo, il fatto fu riguardato “come anti-religioso, per essersi trascurato un omaggio alla Solennità Pasquale.„ E Pasquino, a cui la Pasqua deve necessariamente stare a cuore, si fece eco del malcontento popolare, rivolgendo allo Spirito Santo una preghiera, che si trova, ma con grossi svarioni, nello stesso Roncalli. [p. ccxxiv modifica] Eccola qui, corretta:

Accende lumen sensibus.

                    O Paracleto Spirito,
               Da te, da te V impetro,
               I lumi necessari
               Al Successor di Pietro.
                    Quéi lumi almen concedigli
               Ch’egli negava a Cristoì
               Il dì che redimendoci
               Risorgere fu visto.
                    Quei lumi che, sacrilego,
               Egli invece serbò
               Per onorar la vedova
               Di Papa Niccolò.

Sotto la data del 16 luglio 1859, il Roncalli registra che Marforio, avendo veduto un soldato del Papa con le iniziali R. E. (Reggimento Estero) sul giacò, chiese a Pasquino che cosa significassero; e Pasquino rispose: Rifiuto Europeo.

La sera del 25 maggio 1861, l’Accademia filodrammatica romana diede una rappresentazione in una sala del Palazzo Braschi, alla presenza del cardinale Altieri (quello del Pappagallo) suo protettore, e di molte signore dell’aristocrazia nera.

C’erano però anche molti liberali; e mentre terminava il primo atto, alcuni di essi, dietro le spalle del cardinale che occupava il posto d’onore, sprigionarono dal fondo dei loro cappelli a cilindro un bel numero d’uccellini con nastri tricolori al collo o alle zampe, e al tempo stesso cominciarono ad applaudire fragorosamente. Il cardinale, credendo che si applaudisse agli [p. ccxxv modifica] attori, batteva le mani anche lui. Ma accortosi del tradimento, proruppe in acerbe parole, fece sospendere lo spettacolo, e abbandonò infuriato la sala.

Quella stessa notte furono arrestati, tra gli altri, un Lodovico Monti e certo Franz; e s’istruì regolare processo. Girò allora per Roma una pasquinata assai mordace; ma, per capirla, è necessario rammentare la formula, con cui s’intitolavano le cause e che si metteva come frontespizio sugli atti processuali: Spoletina, di furto magno; Perugina, di assassinio, ecc.,

Marforio a Pasquino. Che porti in tutte quelle carte?

Pasquino. Una causa grossa! Leggi.

Marforio. Nespole! Romana, d’innalzamento d’uccelli davanti a Signore e dietro a S. E. il Car inale Altieri.

Anche l’anagramma fu da Pasquino coltivato felicemente.

Da tempo immemorabile, per esempio, egli voltò le lettere della parola Cardinali in Ladri cani;65 e quando nel luglio del 1861, per propugnare gl’interessi dell’Altare e del Trono, al Giornale di Roma si aggiunse L’Osservatore Romano, che nel suo primo numero chiamava (bontà sua!) chimerica l’unità d’Italia, Pasquino lo battezzò: Altro servo somarone.

Nel maggio del 1862, parandosi a festa la Basilica Vaticana per la canonizzazione de’ Martiri Giapponesi, si ebbe, tra l’altre, l’infelice idea di coprire le pareti con carta dipinta a giallo antico. E poichè allora si parlava molto della probabile partenza di Pio IX da Roma, se [p. ccxxvi modifica] si fosse rivendicata all’Italia, Marforio domandava ingenuamente a Pasquino: “È vero che il Papa fa fagotto?„ — “È verissimo,„ rispondeva Pasquino: "non vedi che ha incartato San Pietro?„

"Forse Serrano, antico amante d’Isabella, sarebbesi ancora adoperato in favore di lei, se si fosse potuta decidere ad allontanare l’odiato e indegno suo favorito Marfori...„ Cosi il Weber nella Storia Contemporanea (Milano, 1878, pag. 697), a proposito della rivoluzione spagnola del settembre 1868, per la quale la regina Isabella perdette il trono e dovette fuggire a Parigi.

Ma poichè allora si disse ch’ella sarebbe venuta a Roma, il Roncalli racconta che la mattina del 4 ottobre fu trovata affissa per il Corso questa satira:

               Di Spagna la Regina,
          Piena d’amor divino,
          Per non lasciar Marforio,
          Viene a trovar Pasquino.

Nel 1870, poco prima che si proclamasse il domma dell’infallibilità pontificia, mentre un venditore di fiammiferi pasquinava per conto suo a Piazza Colonna, gridando: So’ ttutti infallibbili, so’ ttutti infallibbilli!, e veniva arrestato (Roncalli, vol. II, parte II, pag. 628); Pasquino sentenziava gravemente (Ibid., 630):

Quand’Eva morse e morder fece il pomo,
Iddio per salvar l’uom si fece uomo:

Or per distrugger l’uomo il Nono Pio,
Nato dal fango, vuol crearsi Iddio.

E dopo che il domma fu proclamato, diceva "che i vescovi erano venuti in Roma pastori, ed erano partiti [p. ccxxvii modifica] pecore.„ (Ibid., 646.) E interpetrava le quattro iniziali del Crocifisso cosi: Io Non Riconosco Infallibilità.

In quegli stessi giorni dava poi sulla politica mulesca dell’Antonelli un giudizio, che la storia confermerà, io credo, pienissimamente:

     Fior di cicoria!
Se i preti se ne andranno a pancia in aria,
D’Antonelli sarà tutta la gloria.

Arguto stornello, che il Roncalli (Ibid., 629) assassina in questa forma:

     Fiore di cicoria
Se i preti vedremo andare a pancia in aria
Del cardinale Antonelli sarà tutta la gloria.

Il famoso S. P. Q. R., che Pasquino, alludendo alla nessuna autorità rimasta sotto i Papi al Municipio Pomano, lesse già: Si Peu Que Rien, e in tanti altri modi; dopo il 1870 lo lesse: Sanctus Pater Quondam Rex,66 e a proposito del Sella ministro delle finanze: Sella Piglia Quanto Resta; e mentre era Sindaco di Roma Luigi Pianciani: Sindacus Plancianus Quondam Republicanus.

E queste furono, si può dire, le sue ultime parole. Dubito, anzi, che alcune non siano sue, ma de’ suoi emuli ed uccisori, con la cui opera è naturale che negli ultimi momenti la sua si andasse confondendo; resta però a lui il vantaggio di aver già da solo, nella storia, un’importanza che essi non possono sperare d’averci, se non collettivamente.

Note

    ses entreprises. A la mort du Pape, il vint en Angleterre faire un commerce do pierres précieuses, dont on ne pouvait expliquer la possession.„ La Rome des Papes etc, par unancien membra de la Constituante Romaine [Luigi Pianciani]; Bàle-London, 1859; vol. II, pag. 382-83. — Cfr. anche il sonetto del Belli: L’Apostoli, 23 novembre 1831.

  1. Cap. XXXIX dell’Apoìogie pour Hérodote, pubblicata nel 1566. Nello stesso capitolo l’Estienne dà pure due traduzioni, fatte da altri e certo meno felici, dell’epigramma del Fontano contro Lucrezia. La seconda mi pare migliore:

    Ci dort qui fut de nom Lucrece,
    De faict Thais, p.... de Grece:
    Qui jadis d'Alexandre fille
    Et femme fut, et belle fille.

  2. Pare che nel 43 egli pure avesse cominciato a risentirsi contro Pasquino, poiché il 27 aprile di quell’anno Claudio Tolomei (Lettere; Venezia, 1547; pag. 40) scriveva da Roma: “Pasquino questo anno non ò stato rivestito. Ecco che tutte le buone usanze s’intralascian talvolta. Se ne fan vari discorsi e diversi giudizi; ma la maggior parte si risolve ch’egli non si vuol più trasfigurare, perchè si duol che questa arte, ch’era già la sua, gli sia stata oggidì tolta da molti uomini del mondo; ond’egli sdegnatosi la vuol lassar fare a loro, sì come in ciò meglior maestri di lui.„
  3. Pantagruel, liv. II, chap. VII.
  4. "Chardonnette. Ou donno encoro co nom, en Saintongo, i la fleur il’ano esplico d’artichaut sauvago, qui est tròs omployóo pour taire caillor lo lait.„ Nota del Moicani), nell’ cdiz. Garnier.
  5. Scherza sul modo proverbialo: "Il ost quiutuux comnio la mulo da Papo, qui no boit et no mango qu’à ses luuxros.„
  6. Nei Pasquillorum (pag. AB):

                   Rudolpho è un monstro insieme
    Col feroce cugin sua Salviati,
    Et ab utraque lege reprobati.

  7. Le Relazioni della Corte di Roma ecc. (Venezia, 1877); vol. I, pag. 58.
  8. A. Bartoli, I Mss. Ital. della Bibliot. Nazion. di Firenze; tom. II (Fironzo, 1881), pag. 219-24.
  9. Le Relazioni ooc, vol. cit., pag. 864.
  10. Nota alla Roma Antica del Nardìni; tom. III, pag. 48.
  11. Roma nell’anno 1838; Parte II Antica, pag. 704.
  12. Cit. dall’Ademollo: Giacinto Gigli ecc, Firenze, 1877; pag. 77.
  13. Ibid., pag. 76-77.
  14. Antonio Gerardi, Trionfal Possesso della Santità di N. S. Innocentio X alla sacrosanta Basilica Lateranense, ecc. Roma, 1664; pag. 4.
  15. Curci, La nuova Italia ecc.; Firenze, 1881; pag. 73.
  16. Vita della celebre D. Olimpia ecc., fedelmente copiata dal manoscritto di un Contemporaneo [cioè dell' abate Gualdi, come oggi di novo sicrede], esistente nella Libreria del Vaticano; Roma, 1849; pag. 22.
  17. Ibid., pag. 111-12.
  18. Relazioni cit., vol. II, pag. 97 e 101-02.
  19. Ibid., pag. 265.
  20. Ibid., pag. 170, Relaz. di Giovanni Pesaro.
  21. Menagiana; Amsterdam, 1693; pag. 254.
  22. Relaz. del Basadonna, pag. 264.
  23. Cfr. il bel libretto del Neri, Costumanze e Sollazzi (Genova, 1883; pag. 5), a cui appartengono anche la prima e la terza delle tre citazioni precedenti.
  24. Leti, Il Nipotismo di Roma; s. 1. e n. di stamp., 1667; par. I, pag. 324-25. — Nel Lafon, e in tutti gli altri autori da me veduti, che dopo il Leti hanno dato questa satira, si trova mutila del cambiamento di pacis in panis.
  25. Pubblicato dal Neri, nella Rivista Europea del 16 febbraio 1868, pag. 670-72.
  26. Ibid., pag. 678
  27. Occasioni? ragioni?
  28. Ademollo, I Teatri di Roma nel sec. XVII; Roma, 1888; pag. 171-72.
  29. Da un Ms. della Riccardiana: 8478
  30. Da un copiosissimo saggio, pubblicato dal signor C. Romussi
    nelV Emporio Pittoresco di Milano (marzo-maggio 1878), di un Ms.
    di 822 pagine di Satire, fatte per le sedi vacanti di Clemente XI, e
    Innocenzo e Benedetto XIII, e posseduto dall’abate Regonati. Ma,
    nel cit. Ms. della Magliabechiana, questo distico si trova, con poca
    differenza, fatto già contro Gregorio XIV:

    Vir simplex, fortasse bonus, sed pastor ineptus
    Videt, ait, peragit omnia, multa, nihil.
  31. Goyot de Merville, Op. cit., tom. II, pag. 118-19.
  32. Cit. dal prof. Manfredo Vanni, nel suo bel Saggio di ricerche su codeato autore; Firenze, 1888; pag. 48-49.
  33. Dal cit. saggio del signor Romussi.
  34. Lettere e scritti inediti di Pietro e di Alessandro Verri; Milano, 1879-81; vol. III, pag. 148.
  35. Ademollo, Di nuovo sul “Dramma del Conclave.„ Fanf. della Dom., 12 agosto 1888.
  36. Cfr. un altro articolo dell’Ademollo: La Principessa Santacroce, nel Fanf. della Dom., 24 febbr. 1834.
  37. Ademollo, Corilìa Olimpica, pag. 265-66.
  38. Sul tema "del passaggio del Mar Rosso, datole da Assomani, si trovò essa più imbarazzata che Faraone medesimo.„ Lett. del Wacquier de la Barthe all’Albergati, cit. dall’ Ademollo, pag, 284,
  39. Nel Lancetti(Memorie intorno ai Poeti laureati ecc.; Milano, 1839), che ricava da copie del tempo e dal Casanova molte satire su Gorilla, questo epigramma è composto di tre distici.
  40. Catalogo di Mss. della Biblioteca di C. Minieri-Riccio; Niipoli, 1868; vol. I, par. III, pag. 70-71.
  41. Silvagni, La Corte e la Società Romana ecc.; vol. I, cap. XXIII.
  42. Cardinal Wiseman, Rimembranze degli ultimi quattro Papi ecc.; Milano, 18-)8; pag. 154.
  43. Ranalli, Le Istorie Italiane; Firenze, 1868; vol. I, pag. 30. — Cfr. anello il sonetto del Bolli: Li nimmichi ecc., 8 nov. 1816.
  44. Giovagnoli, Passeggiate Romane; Milano, 1879; pag. 259.
  45. Giuseppe Spada, Storia della Rivoluzione di Roma ecc.; Firenze, 1888-70; vol. III, pag. 782.
  46. Allude agli amori che, da monsignore, Leone aveva avuto con la bellissima moglie dello svizzero Pfyffer, comandante delle guardie di Palazzo, Al qual proposito erano stati fatti anche quest’altri versi:

    Passando Della Genga, un forestiero
    Domandò: — Quello è il Santo Padre, è vero?
    E il Capitan de’ Svizzeri che udì,
    Rispose: — Santo, no; ma Padre, sì.

  47. Perchè appassionatissimo per la caccia; onde l’altro noto epigramma:

    Quando il Papa è cacciatore
    I suoi Stati son le selve,
    I ministri sono i cani
    Ed i sudditi le belve.
  48. A cui Leone restituì il funesto monopolio delle scuole del Collegio Romano, le quali, da Clemente XIV in poi, erano state rette da sacerdoti secolari.
  49. Non so a che dissapore tra lui e il cappuccino cardinal Micara alluda. Forse, alla fallita missione del Micara presso il Re di Napoli, per ripristinare l’atto di vassallaggio della Ghinea.
  50. Pietro Fumaroli, suo favorito, “homme de si mauvaise renommée, que nous avons nous même, tout enfant, entendu dire à Della Genga,„ (cioè lo stesso Leone XII), "alors vicaire de Rome, qu’ il avait du l’éloigner de lui à cause de sa vie scandaleuse. Le Pape l’appela près de lui, il devint son confident et son ami. C’était un ancien entrepreneur de travaux publics, qui s’était enrichi dans
  51. Opere edite ed inedite del conte Giovanni Giraud; Roma, 1840-42; tom. VII, pag. 9.
  52. Piangeva infatti assai facilmente.
  53. Gualterio, Gli ultimi Rivolgimenti Italiani; 2a ediz.; Firenze, 1852; vol. IV, pag. 338.
  54. Notizia del Giorno, 6 febbraio 1845.
  55. La prove e le cagioni di questa proibizione incredibile possono leggersi in una mia nota a pag. 206-7 del vol. V.
  56. Farini, Op. cit., vol. I, pag. 82-83.
  57. Poggi, Storia d’Italia dal 1814 al dì 8 agosto 1846; Firenze, 1883; vol. II, pag, 406.
  58. Ibid., pag. 403.
  59. Belli, vol. V, pag. 115, nota 10.
  60. Ibid., pag. 114, nota 1.
  61. Cit. da me, nel vol. III, pag. 148-49.
  62. Ranalli, Op. e vol. cit., pag. 126.
  63. Il generale Audinot, Duca di Roggio, assediatore di Roma ed esecutore infelice di quella infelicissima politica a doppio manico, che la Repubblica Francese usò verso la Romana.
  64. II generale Rostolan, che nell’agosto del 1849 succedette all’Audinot nel comando delle truppe francesi in Roma, e fu, "più dello stesso Audinot, morbido alle voglie dei chierici.„ (Farini, Op. cit., voi. IV, pag. 265.) Richiamato in Francia nel novembre, prese il suo posto il Baraguay d’Hilliers, a cui Pasquino rivolse subito questa domanda (Roncalli, Op. cit., vol. II, par. I, pag. 207):

    Chi dice che li guai son terminati,
    dice che li guai son cominciati.
    Dites dons, sor Para-guai, che qui venite,
    I guai li cominciate o li finite?


  65. Cfr. il sonetto dol Belli: Er nome ecc., 24 mar. 1884.
  66. Marco Besso, Roma nei Proverbi ecc.; Roma, 1889; pag. 78.