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biamo fatto acquisto di carta stupenda, e ci proponiamo disegnare molto, tuttochè sarà probabile che la bellezza, lo splendore degli oggetti, imporranno limiti alla nostra buona volontà.

Intanto, in ordine a miei lavori poetici sono riuscito a decidermi di portare meco unicamente il Tasso, del quale per dir vero spero molto. Se almeno io sapessi ora quanto pensate dell’Ifigenia, mi potrebbe ciò servire di norma, imperocchè si tratta di lavoro analogo, di argomento forse più limitato ancora, e che converrà svolgere più ampiamente nei particolari; finora però non so se riuscirà; ho dovuto annullare tutto quanto avevo di già scritto, tutto quello era rimasto abbandonato troppo a lungo, e nè le persone, nè l’orditura del dramma, nè il modo di svolgerla, corrispondevano menomamente più alle mie idee attuali.

Nel disporre in ordine le mie carte, mi vennero sotto mano talune fra le vostre care lettere, e nel rileggerle vi trovo il rimprovero di cadere spesse volte in contraddizione nella mia corrispondenza. Non posso verificare se lo appunto abbia fondamento, imperocchè spedisco via tutto quanto scrivo, senza serbarne copia, ma riconosco io stesso, essere la cosa probabile, imperocchè mi trovo sotto l’influenza di svariate impressioni, ed è possibile che io non sia sempre coerente a me stesso.

Narrasi di un navigante, il quale sorpreso di notte tempo in mare da una tempesta, si affatica a drizzar la prora verso la sua casa. Un suo ragazzo, il quale nelle tenebre si teneva serrato contro il genitore, gli domandò: «Padre che cosa mai si è quella luce capricciosa, che vediamo ora più in alto, ora più al basso di noi.» Il padre promise spiegargli la cosa il giorno successivo, ed allora si riconobbe che quella era la luce del faro la quale ora compariva più alta, ora più bassa, allo sguardo confuso, ed abbagliato dall’imperversare della tempesta.

Ed io pure drizzo la prora verso il porto, in un mare agitato, se non chè scorgo abbastanza la luce del faro, e