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piacevolissima che abbiamo fatta al mare, della pesca che abbiamo eseguita ivi, quando alla sera, nel far ritorno a Roma, il buon Moritz si ruppe il braccio, per la caduta del suo cavallo sul selciato sdrucciolo della città, e questo tristo caso guastò tutta la nostra soddisfazione ed arrecò una certa malinconia nella nostra piacevole società.
Roma, il 13 Dicembre.
Sono stato propriamente lieto nell’udire che la mia partenza improvvisa e di nascosto, non sia stata presa in mala parte. Vogliate ad ogni modo, avermene ancora una volta per iscusato. Non ho mai avuta intenzione di recare dispiacere a chicchessia; e neanco ora saprei che cosa dire per giustificarmi; e tolga Iddio che io funesti un amico, col narragli quanto ho dovuto soffrire, prima di prendere quella risoluzione.
Ora io mi sto qui, riavendomi a poco a poco dal mio salto mortale, e quasi più ancora io vi studio, di quanto io mi dia spasso. Roma è un mondo, e vi vorrebbero anni ed anni per addentrarvisi, e conoscerlo a dovere. Quante volte non mi paiono felici i viaggiatori, i quali si contentano di dare uno sguardo, e se ne vanno.
Stamane per tempo mi caddero sotto mano le lettere scritte d’Italia dal Winckelmann. Con quale commozione ne intrapresi la lettura. Sono trascorsi trentun anno, dacchè egli veniva qui per la prima volta, povero diavolo quale io sono, e più ancora; ma ricco di serietà tedesca, di amore per l’antichità, e per l’arte. Quanto, e come stupendamente egli ha lavorato! Come mi è sacra la memoria di un tanto uomo, ed in questa località!
All’infuori delle bellezze naturali, le quali sono vere, e conseguenti in ogni loro particolare, nulla havvi che parli con tanta vivacità all’imaginazione, quanto la memoria di un uomo dabbene e d’ingegno, quanto il ricordo delle sue opere. E questa senzazione si prova vivissima,