Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/II3

Parte seconda.
Capitolo III - Guerra contro i Turchi

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Capitolo III

Guerra contro i turchi

Poiché Raimondo Montecuccoli fu ritornato dall’Ungheria, ove, secondo dicemmo, era andato a prender possesso della carica di governatore di Giavarino, un consiglio di guerra venne convocato in Vienna, nel quale si doveva decidere, se si aves[p. 361 modifica]sero a cominciare le ostilità contro i turchi, per le ragioni da noi accennate. Opinò la maggioranza de’ convenuti che si soprassedesse; ma avendo con pochi altri espresso parere contrario il Montecuccoli, come abbiamo da una lettera di Giuseppe Acerbotti agente estense, scritta nel marzo del 1661, a questo l’imperatore si attenne, e fu decisa la guerra. Apriva in tal modo a sé medesimo il Montecuccoli un vasto campo, nel quale raccogliere una gloria non peritura; perché furono infatti le guerre d’Ungheria e quelle contro i francesi, che fecero di Raimondo, per usare le parole di uno storico poco amico degli italiani, un modello di generale . Venne poi discusso nel consiglio, se fosse bene mandar l’esercito sui confini della Transilvania, per ritoglierla ai turchi che l’occupavano; ma consigliò invece Raimondo si tendesse piuttosto ai paesi danubiani, si prendesse con isforzo d’armi Strigonia (e Buda aggiunge il Mailàth), per andare di là a Belgrado, avuta la quale si vivrebbe alle spese del nemico, laddove in Transilvania i soldati sarebbero morti di fame. Aggiungeva, che fuor del paese loro più facilmente sarebbersi all’esercito imperiale uniti ungheri e croati, con che si condurrebbero in campo 40.000 uomini. Ma furono appunto gli ungheresi che riescirono a far mettere da parte i disegni concepiti dal Montecuccoli, quantunque li avesse approvati il consiglio aulico di guerra. Narra Raimondo, ne’ suoi Commentarii sulle cose dell’Ungheria, la prima origine dell’invasione de’ turchi in Transilvania essere da ricercare nella guerra, che dicemmo nel 1658 mossa alla Polonia contro il volere della Porta da Rakoczy, principe di quella provincia, alleato allora della Svezia. Deposto dai turchi che posero varii principi un dopo l’altro a reggere in luogo di lui la Transilvania, tentò egli di riafferrare il potere; ma fu sconfitto, e morì delle ferite riportate (1660). Kemeni Ianos, tutore del figlio di lui, fattosi eleggere suo successore, invocò aiuti dall’imperatore, il quale, come per noi fu detto, mandò sui confini con truppe il general Souches, pessimamente [p. 362 modifica]accolto, esso e i suoi, dagli ungheresi. Ma insistendo i transilvani per più efficaci soccorsi, poiché ebbe l’imperatore dichiarato che nessun principe intendeva impor loro, libera volendo in essi la scelta di chi avesse a reggerli, annunziava la spedizione di 10.000 cavalli imperiali con 5000 fanti sotto il comando del Montecuccoli, nominato allora maresciallo di campo generale, senza però che avesse luogo alcuna dichiarazione di guerra al sultano. Fu convenuto si porrebbero 1000 cavalli a disposizione del Kemeni, e si presidierebbero alcune piazze della Transilvania; della qual cosa venne dal Montecuccoli dato incarico agli ungheri dei generali Heister e Starhemberg, mentre che, a modo di diversione, andrebbero gl’imperiali verso Strigonia e Buda.

A quel tempo l’imperatore, per mezzo del marchese Luigi Mattei, cavallerizzo maggiore dell’arciduca Leopoldo, si rivolgeva al papa, per averne soccorsi in quella guerra contro gl’infedeli. Impose il papa una tassa di 6000 scudi sui beneficii ecclesiastici in Italia: ma del denaro ritratto scarsa troppo fu la parte che pervenne in Germania, il più, secondo afferma il Priorato, essendo andato nelle tasche de’ collettori. Gli altri popoli, i quali erano stati richiesti di sussidii dal papa, nulla vollero dare, né incontrò favore la proposta lega generale contro i turchi. E sì che ardua impresa a quel tempo era il tener fermo contro gli ottomani, gli eserciti de’ quali sono dal Montecuccoli stesso nelle sue opere lodati assai di valore, di saldezza e di disciplina; né egli trascurava avvertire il vantaggio che lor derivava dal procedere tutti in un sol corpo contro gl’imperiali, deboli per numero di soldati, e perché una parte di questi dovevasi lasciare a guardia delle fortezze, o de’ luoghi di maggior momento. Né piccola ventura si aveva a reputare dai turchi il trovarsi sempre ben provveduti di denaro, mercé il quale s’ingraziavano i popoli che ad essi non lasciavano mancar le vettovaglie, le quali poi anche dai paesi loro ricevevano in copia; laddove gl’imperiali, non avendo di consueto di che pagare ciò che toglievano agli abitanti, ed essendo ingannati dai loro stessi fornitori, non solamente languivano di [p. 363 modifica]fame, ma erano inoltre odiati ne’ luoghi ove andavano, e singolarmente in Ungheria. Osserva ancora negli Aforismi il Montecuccoli, che la saldezza degli eserciti turchi, anche allora che l’impero, come nel secolo precedente, poteva opporre ad essi ben 100.000 uomini, li rendeva superiori ai cristiani, ch’erano gente raccogliticcia, soggetta a principi diversi, e non animata da un unico sentimento di onore e di dovere. Del rimanente, le lodi compartire da Raimondo agli ordinamenti militari de’ maomettani, le troviamo confermate nelle relazioni di Giovanni Sagredo, legato veneto a Vienna dal 1661 al 1665; il quale vituperava poi i colonnelli cristiani, perché, per lucrare sulle paghe, arrolavano contadini e pitocchi, secondo ei diceva, che venuti all’esercito si davano al saccheggio e alla crapula, laddove sobrii asseriva essere i turchi. Ma i reggimenti che da prima andarono con Raimondo in Ungheria, furono quegli stessi, come egli lasciò scritto, che erano stati con lui alle precedenti guerre, provati per ciò in più battaglia: senonché, stremati poi pei tanti disagi ai quali li vedremo sottoposti, furon dovuti rimettere a numero con gente nuova. Il primo di maggio di quell’anno 1661, l’Acerbotti e lo Stom annunziavano già partito per Giavarino il Montecuccoli a prepararvi gli alloggiamenti pei soldati, postisi in cammino il 14 di aprile. Convennero essi da varie parti a Mardog, dove schiera per schiera li rivide il generale, e in quel numero li trovò che più sopra abbiamo indicato, cioè di quattordici o quindici mila uomini, secondo aveva detto; errato dovendosi perciò reputare quel passo delle storie del Priorato, nel quale sono essi fatti ascendere a ventimila. Furono tosto messe quelle truppe in ordine per eseguire il progetto di guerra disegnato dal Montecuccoli, e lungamente discusso in consiglio. Tre ponti gettaronsi su fiumi o canali lungo la via per Komorn; si disposero gli uomini ai luoghi opportuni: quand’ecco, con sorpresa e sdegno di tutti, un ordine imperiale, che il Frescot storico dell’Ungheria asserì promosso dagli ungheresi che protestavano non volere trarsi in casa la guerra, imporre che invece l’esercito dovesse passare nell’Ungheria superiore. Per tal modo an[p. 364 modifica]dava perduto il frutto de’ faticosi apparecchi, e l’occasione propizia di conquistare le vicine fortezze, poco allora dai turchi presidiate. E andare si doveva dove nulla trovavasi preparato, e dove i pochi soldati che v’erano, morivan d’inedia o per mano degli abitanti; aggiungasi che le vie impraticabili farebbero perdere il tempo opportuno al combattere, mentre liberamente avevano insino allora scorazzato per ogni dove i mussulmani. Indarno supplicò il generale che da un progetto così inconsulto, intorno al quale amare parole dettò poscia ne’ suoi Aforismi, si desistesse, e in Roma corse anche voce, riferita il 30 di agosto da Antonio Bernardi diplomatico estense, che designasse andare egli stesso a sollecitare ordini più consentanei al bisogno, il che probabilmente non avrà avuto luogo . Né altro ottenne per avventura, se non quella somma di 300.000 fiorini della quale è parola nella lettera ora citata del Bernardi: scarso sussidio al bisogno delle sue genti. Crede il Priorato che il persistere l’imperatore in quel rifiuto, derivasse dal voler evitare una dichiarazione di guerra alla Porta, ma questo forse era un pretesto addotto a dissimulare il vero, giacché ovunque s’andasse, non si sarebbe evitato di dar di cozzo, o prima o poi, nel nemico. Di questo non s’avvedeva però il ministro Porcia, ne’ consigli imperiali gran fautore della pace ad ogni costo, che stava, secondo al senato veneto scriveva il Sagredo, come addormentato fra lo strepito di tante armi. A lui allude senza dubbio negli Aforismi il Montecuccoli ove dice: “Ma vi ha talora de’ Ministri maggiori d’autorità che d’esperienza (e chi può averla in tutte le cose?) i quali far da sé non sanno, seguir degli altri il consiglio, quasi bisognevoli dell’altrui lume non vogliono ec.” (vol. II, pag. 14, ediz. del Grassi). Se fu però mestieri al Montecuccoli di fare in questo le voglie altrui, ben è giusto il lamento ch’ei mosse, quando a lui si tentò imputare l’insuccesso di un’impresa diversa da quella da lui proposta, che consisteva nell’affron[p. 365 modifica]tare il nemico, non dove le maggiori sue forze aveva adunate, ma altrove, e per mezzo di diversioni, come così bene gli era venuto fatto nella precedente guerra. Lasciando Souches a guardia dell’Ungheria inferiore con alcuni reggimenti, ai quali come avvisa il Priorato, fecero gli ungheri mancare i viveri, si pose Raimondo colle truppe in via pei luoghi designatigli; ma gli venne poi ritardato il cammino dalle sfrenate pioggie e dal fiume Vago, uscito dalle sponde. A Levenz, il 3 di agosto, gli fu riferito che incontrato si sarebbe, progredendo, in Alì pascià che a quella volta con artiglieria e con 60.000 combattenti procedeva, avendo anche posto assedio al castello di Hulst: ed egli animosamente messosi a capo di una parte de’ cavalli, mentre con 5000 di questi lo precedeva lo Spork, e le fanterie guidate dal principe di Baden dovevano tenergli dietro, mosse loro incontro. Ad una lega da Tokai così abilmente furono da lui disposte le cose, che, quantunque avesse divieto di attaccare i turchi, ai quali non s’era, come dicevamo, dichiarato guerra, dovendo soltanto tenersi sulle difese, credettero i mussulmani che s’apprestasse a piombare su di loro, e senz’altro attendere, si ritirarono al di là del Tibisco (ossia Theiss), intralasciando l’assedio di Hulst, e quello pur allora incominciato di Medgies, e le devastazioni di quelle terre. Raggiunto poscia Raimondo dalle fanterie, alle quali tre mila uomini del Kemeni s’erano uniti, non si peritò di correre sulle orme del nemico che si ritirava, pronto, se in lui s’avvenisse, a non tener conto, come negli Aforismi dichiarò, dell’ordine avuto di non attaccar battaglia con esso, potendo a sua discolpa allegare che coll’invadere i territori non suoi pareva avergli gettato il guanto di sfida. Di questi fatti presso Tokai fa menzione lo Stom altresì, e dice anche di un ponte, con celerità grandissima, come il caso richiedeva, fatto gettare da Raimondo sulla Theiss. Anche Filippo Cocchi modenese, segretario di Raimondo, che seco trovossi a quella guerra, e che [p. 366 modifica](senz’altro per commissione avutane da lui) teneva informato il duca di Modena delle cose che andavano accadendo, come ci mostra il carteggio di lui che è nell’archivio di stato, narrava con lettera del 17 di luglio, avere accompagnato il Montecuccoli in una corsa che con mille cavalli fece esso a Totos, antica residenza dei re d’Ungheria, per riconoscere que’ luoghi, e i passi che mettevano a Strigonia. Da lui sappiamo altresì che, mancandogli spesso istruzioni dalla corte su ciò che avesse a fare, dovette allora tenersi inoperoso, e che letali infermità gli venivano sminuendo il suo esercito.

Incominciò per tempo il generale italiano ad incontrare per opera degli ungheri contrarietà così grandi, da intralciargli alcuna volta le sue operazioni militari. Così il palatino, che gli aveva promesso 10.000 uomini, non gli fornì più di 180 cavalli, che vennero anche in breve da lui richiamati. Di questo palatino, che nomavasi Vesseleni, lasciò scritto Raimondo che, ito ad incontrarlo allorché entrava egli nell’Ungheria per salvarla dai turchi, con questa truce e villana profezia lo accolse: che non sarebbero uscite più dall’Ungheria quelle sue truppe, perché chi alle scimitarre dei turchi fosse scampato, da quelle degli ungheri stessi verrebbe spento. E soggiungeva Raimondo: “se tanto dicono costoro quando degli aiuti nostri hanno pressante bisogno, che sarà quando a loro più non occorrano?”. E invero que’ discendenti dagli unni, tra i quali uno scarso lume di civiltà era insino allora penetrato, uomini, come nel libro su L’Ungheria nel 1673 li dice Montecuccoli, “fieri, inquieti, volubili, incontentabili”, abborrivano dall’ingerenza dell’impero nelle cose loro, per quella lor libertà paventando, che ad altro non approdava se non al servaggio delle moltitudini ai magnati. Non è però da tacere che la loro costituzione tutelava anche la libertà religiosa, troppo dagl’imperatori disconosciuta, e il diritto di non sottostare a soverchie gravezze. Vedendo essi adunque ne’ turchi un popolo dal quale in più occasioni avevano ricevuto validi aiuti a mantenere quelle lor libertà e i privilegi del regno, non nudrivano certo per loro quell’avversione mista a terrore, che essi ispiravano ad [p. 367 modifica]altre nazioni . Che più? mentre non mancavano terre in Ungheria e in Transilvania che ricusassero presidii imperiali a difesa contro i turchi, pacificamente godevansi questi le principali città in quelle parti, essendoché in poter loro si trovassero a quel tempo Buda, Pest, Sthulweissenburg, Kanissa, Levenz, Gran, Neutra ed altre città; per la liberazion delle quali, non transilvani ed ungheri, o solo in pochi, ma gl’imperiali s’adoperavano, contentandosi que’ popoli di far sonar allora il cielo unghero e transilvano, per usar le parole del Montecuccoli, d’applausi alle armi germaniche liberatrici della patria (L’Ungheria nel 1673), senza punto concorrere con sufficienti forze a conseguir quello scopo, e a parole coloro esaltando che in cuor loro detestavano. Perché poi in tempo di pace non si tenevano dall’imperatore presidii in Ungheria, molti grossi villaggi in quelle parti, i quali rimanevano esposti alle scorrerie e alle devastazioni solite a farsi di tempo in tempo dai turchi, ad essi, per evitare maggiori danni, facevansi tributarii. Questo narra il Montecuccoli medesimo, non dubitando di affermare, tutti gli ungheri esser “vaghi di aderenza col turco” (L’Ungheria nel 1673). Aggiungi che stirpi a loro affini erano stabilmente soggette alla Porta, che trovava il corano alquanti seguaci in Ungheria, e che varii principi transilvani ed ungheresi non avevano dubitato di chiamare ne’ loro paesi eserciti mussulmani, e di ricevere dai sultani l’investitura . Non desterà pertanto meraviglia l’intendere, che, facendo mestieri una volta al Montecuccoli di assicurarsi della città di Clausemburg, si rifiutasse questa a ricevere guarnigione imperiale, che poi, come siam per dire, vi fu posta a presidio nel tempo del quale teniam discorso; e narra Montecuccoli, egual rifiuto aver fatto Presburg. E così accadde che, varcando le sue truppe i fiumi Tibisco e Crasna per combattere in Transilvania, ricusassero gli ungheri di seguitarlo, allegando non voler uscire dal regno. Assai male incolse a quelli [p. 368 modifica]che allora passarono in Transilvania, dove per la malvagità dell’aria e delle acque, e più forse per le fatiche durate, moltissimi s’infermarono, tra gli altri il principe Leopoldo di Baden che era a capo dell’artiglieria, e buon numero di ufficiali inferiori. Né scarsa messe colse allora la morte, essendo tra i colpiti da essa anche lo Starhemberg, generale di battaglia, e il commissario generale. E la fame altresì ebbe le sue vittime, e tormentò i più robusti ancora, quantunque lungo la via che l’esercito percorreva, fossero in copia già mature le messi; ma indugiare non si poteva a raccoglierle, né mulini vi erano per macinarle, né forni, né magazzini, né carri sui quali trasportarle. Orribil cosa invero la fame, tanto più in un paese che a quel tempo, come si ha dal Bizozero, era provveduto d’ogni ben di Dio, con bestiami di gran lunga esuberanti al bisogno, e con miniere che lo provvedevano di danaro. In così difficili condizioni, minor danno fu reputato il far camminare separati i due diversi corpi in che l’esercito si spartiva. Entrerebbe Kemeni in Transilvania, e Montecuccoli per la via di Zilach nell’Ungheria superiore condurrebbe i suoi, anche perché, siccome lasciò scritto, più diffuso riescisse il grido delle armi imperiali. I documenti che abbiamo, ci mostrano non guari dopo il Montecuccoli presso Clausemburg, accorsovi quando pareva si apprestasse il turco ad accettar battaglia da quelle parti. E già ogni cosa il general cesareo aveva disposta all’uopo; se non che s’intese poscia che anche da quella città s’erano i turchi ritirati: ond’è che gli fosse fatta facoltà di presidiarla, senza aver duopo di combattere, checché ne scriva lo storico ungherese Gebhardi, il quale narra di cinquecento uomini colà uccisigli in battaglia dai turchi. Neppure in Clausemburg, contra ciò che aveva asserito il Kemeni, si trovò pane che bastasse ad un sol giorno; la qual cosa prostrò l’animo de’ soldati, tanto più che si vedevano avversi i cittadini, i quali dichiaravano non punto aver mestieri di loro, mutabile oltre ogni credere essendo quella nazione, come Raimondo la disse. Nelle campagne poi i contadini uccidevano ogni soldato in che s’avvenissero: carneficine continuate anche allora che presero le truppe i quartieri d’inverno. Dovette [p. 369 modifica]pertanto l’imperatore colà spedire un conte Rothal a trattare colla dieta per indurre quelle genti a men fieri consigli, e a far richiesta di viveri pei soldati; ma s’udì rispondere: nec possumus, nec volumus (L’Ungheria nel 1673). Non dubitò poi Gualdo Priorato di asserire, che una terza parte dell’esercito di Montecuccoli in quell’anno per fame, per malattia, per omicidii andasse perduta. L’Angelini altresì, nella sua Historia delle ribellioni d’Ungheria, edita in Bologna nel 1674, descrive le vessazioni che i soldati imperiali patirono in quell’epoca, e narra di gente appositamente assoldata dai nobili a danno di essi, di trecento uomini de’ reggimenti Carafa e Strozzi che, cacciati da Presburgo, perirono di freddo per le strade, e di altre consimili immanità accadute allora in Ungheria e in Transilvania. Ed incitatori di queste spesso erano i magnati, il palatino Vesseleni tra gli altri, segretamente avverso agl’imperiali. Eppure da codesti magnati veniva questi imposto all’imperatore di tenere 9000 soldati a difesa loro sulle frontiere dell’Ungheria, secondo narra il Coxe, pretendendo insieme di non sopperire a dispendio alcuno pe’ medesimi, e che avessero a dipendere dal palatino. Fu poi mestieri al Montecuccoli di ritirarsi dieci leghe più addietro di Clausemburg, come incominciò a fare il 17 di settembre: e ciò per più ragioni, non ultima delle quali la necessità di non impoverire al tutto il territorio, dal quale doveva la città ritrarre le vettovaglie. E quella ritirata fu disposta con tanta sapienza che neppure un uomo si perdette, come il Priorato affermò. Vedendo poi il generale imperiale, che i turchi non mostravano di voler dargli battaglia, paghi a mantenere Abaffi nel possesso delle sette città sassoni, o zecle come le dicono, e che finalmente si ritirarono nei quartieri d’inverno in Temesvar, essendo costume loro, secondo si legge negli Aforismi, il fare le guerre grosse e corte; mutò anch’esso le disposizioni prese. Lasciati due mila cavalli al Kemeni, e guarnigioni in qualche piazza , ritornò nelle men desolate terre lungo [p. 370 modifica]il Tibisco. Infiniti disagi dovè sostenere nel viaggio per la peste che si mise ne’ soldati e nella famiglia stessa del generale, che si vide astretto, com’ei racconta, a supplire da sè all’ufficio di tanti che erano infermi.1 Ma di ciò non tenevasi conto alla corte di Vienna, dove, come l’Acerbotti scriveva il 22 di ottobre, era stata veduta di mal occhio la ritirata del Montecuccoli, quantunque non mancasse anche colà chi prendesse le difese di lui, attribuendola al difetto di vettovaglie. Ma forse a quest’epoca potrebbe riferirsi, secondo diremo, una lettera del Federici che avvertiva, come con un ordine segreto il ministro Porcia avesse imposto al Montecuccoli di levarsi dalla Transilvania. Non era questo però ciò che voleva il consiglio aulico di guerra, che al Montecuccoli, il quale era allora a Varosmart, comandò di avanzarsi e di dar battaglia ai turchi: singolar comando invero, dato a tanta distanza dai luoghi in cui doveva esser eseguito, e con sì scarsa conoscenza delle condizioni del generale che aveva a dar battaglia, e senza sapere se il turco avrebbe accettato la pugna offertagli, il che dicemmo già che non avrebbe fatto. Si restrinse il Montecuccoli a qualche mossa d’arme contro San Job che non fu potuto prendere, e altrove. A quest’epoca probabilmente riferir si dovrebbe ciò che il Freschot racconta nel suo Ristretto della Storia d’Ungheria, che cioè il Montecuccoli sorprese un corpo di 30,000 tartari, un terzo de’ quali sarebbe rimasto sul campo, cadendo in mano di lui il ricco bottino a cui que’ soldati facevano scorta; e per questo fatto, continua il Freschot, si fece la Porta a proporre la pace, che dall’imperatore venne rifiutata. Ma di ciò dubito assai, non trovandone altro ricordo; né parrà verosimile che l’imperatore, e più il suo ministro Porcia, fossero per ricusare allora proposte di pace. Vedremo anzi che le accettavano essi nell’anno successivo. Gli ungheri intanto, poichè videro tenersi inerti i turchi, con che momentanea[p. 371 modifica]mente cessava il pericolo per le terre loro, più concorrer non vollero alle fazioni che intendeva intraprendere il Montecuccoli; il quale dovette, checché fossero per dirne i ministri di Vienna, porre i quartieri lungo il Tibisco e nell’isola di Schutt, propugnacolo dell’Ungheria da quelle parti, e donde si poteva vigilare sopra Komorn e Giavarino. Infelicissime stanze codeste per quelle truppe, rimaste esposte a que’ disastri che più sopra indicammo; aggiungi, che le strade sfondate non permettevano, dice il Montecuccoli negli Aforismi, che pervenissero al campo le vesti invernali, sicché ben 300 uomini all’asprezza del clima soccombettero. E mentre a così dura prova quelle genti venivano sottoposte, non cessavano i lamenti circa il poco che in quell’anno avevano saputo fare: quasi che nulla fosse, a tacer d’altro, l’avere, in così scarso numero, tenuto addietro 80.000 nemici, de’ quali dopo essersi scontrati col Montecuccoli, null’altro più s’intese, imperocché assai per tempo si ritirarono ai quartieri d’inverno, che certo avrebbero preso nelle provincie austriache, al dire del Priorato, se a Raimondo, quasi senza soldati, non fosse bastato l’animo d’impor timore ai mussulmani. Alle calunnie che corsero allora, ricordò il Federici essere stata opposta una scrittura che si reputava opera del Montecuccoli; il quale, del rimanente, ne’ suoi Commentarii dié poi conto amplissimo del modo con che le cose erano procedute. In quella scrittura di cui dicevamo, il Gebhardi, storico dell’Ungheria, che l’asserisce fatta dal Montecuccoli, afferma che si ribattevano altresì le molte accuse recate contro di lui dagli stati d’Ungheria, senza però ch’ei potesse vincere l’odio di quella nazione verso di lui e degli imperiali; al qual odio non sembra estraneo lo storico medesimo, parzialissimo degli ungheri, di quelli specialmente di religione protestante. A Kaskau, destinata dal palatino a stanza del Montecuccoli e del suo stato maggiore, narra quello storico come non fosse voluto ricevere dai cittadini, e dovesse dimorare in un vicino villaggio. L’anno 1662 incominciò con una sventura, la morte cioè di Kemeni Janos, avvenuta il 23 di gennaio a Sachsburg, mentre [p. 372 modifica]fuggiva dopo un conflitto avuto colle truppe del suo competitore Abaffi, del quale valevansi i turchi per prepararsi l’acquisto della Transilvania. L’infelice Kemeni in quella occasione era stato soccorso dal Montecuccoli, che gli aveva mandato duemila cavalli con quattrocento dragoni, comandanti da un colonnello Gherard, secondo scrive Priorato; ma i turchi erano venuti numerosi al campo di Abaffi, e non vi fu modo di superarli: poca la strage nella battaglia, molta durante la fuga . A quel tempo Raimondo era a Clausemburg in qualità di commissario regio, insieme col già nominato Rothal, alla dieta dell’Ungheria superiore ove si doveva trattar dei quartieri da darsi alle truppe imperiali, e circa la guarnigione della città stessa. Dopo lunghi contrasti i commissarii ottennero che le truppe, sparse allora per miserabili villaggi, potessero ritirarsi in alcune contee e prendervi men disagiati alloggiamenti, andando però alquanti reggimenti a svernare negli stati ereditarii dell’imperatore, come avvisa il Priorato. I grani poi necessarii alle truppe rimaste in Ungheria fu mestieri in massima parte acquistare nella Polonia, due soli signori ungheresi essendosi offerti al Montecuccoli di vendergli una parte de’ proprii. L’odio nazionale degli ungheri verso gl’imperiali giunse allora tra i possidenti al punto di far sgombrare dai contadini le case loro lasciandole vuote, acciò gl’imperiali non trovassero di che vivere, incitandoli poi a correre le campagne, dove quanti soldati trovassero, o soli o in poco numero, tutti li avessero uccisi, come vedemmo aver narrato anche l’Angelini nella sua storia. I quali fatti alcuna volta spinsero i soldati al furore ed alle rappresaglie. Atroci vendette da loro si fecero su quegli ungheri, che parteggiavano pei turchi: uno di essi ch’era loro spia, caduto nelle forze degl’imperiali a Zatmar, dice il Priorato che, posto vivo sul fuoco, venne arrostito: un altro che s’era fatto maomettano, fu impalato. Chi legga poi le storie dell’Ungheria, vedrà a quali inauditi sup[p. 373 modifica]plizii venissero dagli ungheri sottoposti i nemici loro; ed orribili cose narrò il prete Bizozero tra gli altri . Ancora in più casi gli odii di razza erano accresciuti da quelli che seco recava la differenza di religione, essendoché nell’alta Ungheria i protestanti, che erano i più, temessero che i gesuiti, potenti nei consigli imperiali, usassero le truppe, come era accaduto in Boemia, a persecuzioni religiose e a nuove confische. Dell’anno a questo successivo scriveva Montecuccoli: “Nell’Ungheria superiore pullulano giornalmente dissensioni fra gli abitanti stessi a causa di Religione, e fra gli abitanti e la soldatesca alemanna, onde si è mandato colà il signor Palatino del Regno e il signor general di battaglia Co. Strozzi, acciò che veggano di rimediare ai mali il meglio che possano”. Ma indarno in questo si adoperarono essi, come in simili casi suole intervenire, quando una religione o una setta si creda fatta a segno a persecuzioni, reputandole volute o consentite dal principe. Che se il Nani, nunzio veneto, lasciò scritto, essere fredde le relazioni di Leopoldo col clero, avrà alluso probabilmente a passaggeri dissidii, giacché ci vien esso rappresentato di spiriti intolleranti, imparati certo dai gesuiti, fra i quali pensò un tempo di ascriversi, e che lo ammaestrarono in quelle minute pratiche esterne di religione, lodevoli allora soltanto che s’accompagnano colle virtù cristiane. Benché poi reputato di animo mite, le note opinioni di lui non potevan procacciargli favore in Ungheria. Le diffidenze di quel popolo e le persecuzioni de’ protestanti ordinate da Vienna tornavano funeste al Montecuccoli: anche allora che da Claudemburg andava al suo quartiere d’inverno ch’era ad Hettars, egli si vide chiudere in faccia le porte della città di Zeben, presso la quale ebbe a passare; della qual cosa sdegnato un colonnello Heberstein del seguito suo, le bruciò i sobborghi, e se non fosse stato impedito poi dal Montecuccoli non avrebbe risparmiato altri danni a quelle genti. E più assalti improvvisi vennero dati al campo imperiale di Hettars (altri scrissero Hertneck), e nuove molestie si recavano a que’ soldati, [p. 374 modifica]vestendo talvolta gli aggressori, per non essere scoperti, abiti turcheschi; ma ben sapeva il Montecuccoli, che lo dichiarò negli Aforismi, essere quelle insidie preparate da magnati ungheresi. E la dieta stessa si fece a chiedere il richiamo delle truppe all’imperatore; il quale nel marzo di quell’anno (1662) consentì infatti che passassero nell’Ungheria inferiore, ponendo Montecuccoli il quartiere a Rimusambock. Il tempo opportuno al guerreggiare fu speso quest’anno a vigilare i turchi che miravano ad impadronirsi di Clausemburg; il che non venne lor fatto, mercé il valore del suo comandante David Redani veneto, che n’ebbe in premio il grado di colonnello, ma per breve tempo, imperocché, come narra il Freschot, le durate fatiche lo trassero in breve al sepolcro. Coadiuvò Raimondo la difesa, ed introdusse soccorsi nella piazza. Altro impedimento alle operazioni di guerra apportarono trattati di pace che i turchi, ai quali occorreva tempo per nuovi apprestamenti guerreschi, vennero facendo, e che l’imperatore, temendo qualche sedizione degli ungheri, accettava di discutere. Neppure mi farò a dire qui delle marce e contromarce degl’imperiali, delle quali tien parola il Priorato, bastandomi l’accennare che, se in quest’anno mancò l’ardimento ai turchi per chiamare a battaglia il Montecuccoli, a lui per sfidarli fecero difetto le forze; imperocché di poche poteva disporre, e queste gli erano ancora state diminuite allora che il Porcia, illuso dalle vane lusinghe che dicemmo di vicina pace, e ligio troppo alla Spagna, in soccorso di questa distrasse dallo scarso esercito d’Ungheria oltre 4000 uomini “de’ più combattenti, vecchi ed agguerriti”, dicono gli Aforismi. Gli allontanati furono i reggimenti di fanti Schoneich e Porcia, e quelli di cavalli Fabri e Carafa , come riferì negli Aforismi esso Montecuccoli, che li annunziò partiti per l’Italia, di là forse essendo passati [p. 375 modifica]per andare in Spagna a prender parte sotto don Giovanni d’Austria alla guerra ispano-portoghese. Dopo la partenza di quelle genti, il corpo degli imperiali era rimasto da quelle parti così assottigliato, che nella dieta la quale nel successivo anno (1663) si radunò il 13 di gennaio a Ratisbona, senza por tempo in mezzo venne deliberato di far leve, mentre all’imperatore si consigliava di meglio munire le sue piazze, e di afforzarsi con alleanze o leghe, unendosi specialmente ai veneti.

Da una lettera del Federici potrebbe rilevarsi, che dalla Transilvania ritirasse allora Montecuccoli le scarse sue truppe. In essa, che è dell’8 di luglio del 1663, si legge che nel precedente anno “un ordine del Porcia lo fece tornare indietro così all’improvviso, che ognuno ne fu sorpreso” (Carteggio del Federici, nell’appendice all’Archivio storico italiano del 1847). Potrebbe sospettarsi nondimeno che per l’anno passato s’avesse ad intendere il 1661, quando, come narrammo, fu biasimato a Vienna il ritirarsi del Montecuccoli dalla Transilvania. E questa supposizione io stimo abbia fondamento nel vero, come più addietro avvisai. Il 16 di luglio del 1662, come nel precedente capitolo per noi fu detto, cessava di vivere il duca di Modena Alfonso IV, col quale era stato Raimondo in qualche relazione, che però, per le ragioni politiche che accennammo, non fu veramente molto intima. Laura moglie di lui, che pel figlio Francesco assunse il governo dello stato, ebbe cura, per mezzo degli agenti suoi in Germania, di tenersi informata delle imprese militari di Raimondo. Compartì favori ai parenti di lui, e spedì tosto governatore della Garfagnana il marchese G. Battista per noi più volte nominato, che nel 1665 passò poi al governo di Carpi; e da lei, se non dal defunto marito, fu mandato al comando di Brescello il conte Andrea, compagno d’arme, come dicemmo, del duca Francesco I. Né va taciuto che molto si adoperò essa a comporre i fieri odii divampati tra i Montecuccoli e i Rangoni, quando nell’ottobre del 1663 dal marchese Guido Rangoni fu fatto uccidere nelle berlete (ossia, boscaglie) di Spilamberto il marchese Sebastiano Montecuccoli. A cotesti [p. 376 modifica]dissensi tra loro aveva dato origine l’essere stato un servo dei Rangoni ammazzato da un altro de’ Montecuccoli, dopo venuti a contesa per cagione di una corsa di cavalli. Solo dopo tre anni, durante i quali il marchese Guido rimase fuori dello stato estense, venne fatto alla duchessa d’indurre alla pace quelle due cospicue famiglie.

Non fu presa tosto dai Montecuccoli l’investitura dei feudi, intorno al possesso di una parte de’ quali vertevano contese. O per questa, o per altra ragione, solo l’8 di maggio del 1664 l’investitura dalla duchessa Laura fu conceduta al marchese Massimiliano, rappresentante una parte della famiglia. E poi il 3 di novembre il marchese Felice, dal quale i due rami derivano spartiti tra Modena e Vienna, veniva investito di Montetortore, Semelano, Montequestiolo e Montalbano colle terre che ne dipendevano: il primo e l’ultimo de’ quali castelli furono già di Sebastiano fratello suo, quello del quale or ora dicevamo. Moriva parimente a quarantatré anni di età l’arciduca Leopoldo Guglielmo, agli ordini del quale notammo già che aveva militato Raimondo, e che da lui fu chiamato a far parte di quell’accademia italiana della quale fu esso promotore e presidente. La dieta degli elettori tedeschi adunatasi, come avvisammo, nel gennaio del 1663 presiedendola Guidobaldo Thunn, della famiglia trentina dei Tono, non fornì all’imperatore quegli aiuti di truppe ch’ei le chiedeva, e de’ quali aveva tanto mestieri, e s’intrattenne invece a discutere sulle etichette e sul modo che s’aveva ad osservare nel dare i voti. Sarà pertanto da riferire all’anno successivo quanto, circa gli aiuti dati dalla dieta, si legge nell’opera: Scelta di azioni di guerra ec., e in quella del Freschot. Di proprio impulso alcuni elettori offerirono quattromila de’ lor soldati, ma non si mossero questi innanzi il novembre, ed ancora una buona parte di essi durante il viaggio fu tagliata a pezzi dai contadini ungheresi: varii principi alemanni, che condussero in Ungheria quella porzione degli scampati al ferro assassino, non tardarono poi gran tempo a far ritorno alle lor case. E forse nella mollezza [p. 377 modifica]con che alle cose dell’Ungheria si attese allora, ebbe gran parte la persuasione dell’imperatore e de’ suoi ministri, che l’aver chiesto i turchi di trattar della pace non fosse punto un’astuzia loro, ma un gran desiderio, o una necessità che avessero di cessar la guerra. La cosa giunse al punto, che si riformò l’artiglieria, e si vendetter cavalli addetti alla medesima e ai carri delle munizioni, e pressoché vuoti lasciaronsi i magazzini; né altre provvigioni se non le ordinarie si erano prese per gli alloggiamenti delle truppe e per le guardie de’ confini. Ma non partecipava Montecuccoli delle rosee speranze de’ ministri; convocava in Presburgo i capi degli ungheri, e colà, benché ostili a sé li trovasse, e perciò con poca speranza di buon esito, li ammoniva di trovarsi pronti al bisogno, “volendo ogni ragione” come al senato veneto scriveva il Federici “che non si viva trascuratamente col vicino armato, benché sia certa la pace”. Ed alla pace ostinavasi in Vienna a voler far credere il Porcia, che all’inviato imperiale a Costantinopoli, il quale lo informava dei grandi apparecchi militari dei turchi, ebbe a rispondere: non si lasciasse ingannare dalle astuzie dei turchi; quasi che l’ingannato non fosse egli stesso. Al principe Mattia de’ Medici scriveva il 21 di aprile Montecuccoli da Vienna, ove allora si trovava: “Li trattati col turco versano tuttavia nell’incertezza, poiché sin’ora non ci è conclusione alcuna. Certo è però ch’egli non rallenta punto i preparamenti alla guerra, onde ci è occasione di starsi molto avvertito”. Ed in fatti, in luogo della pace preparava il gran visir un formidabile esercito, al quale non poteva il Montecuccoli, secondo il ragguaglio che ne diede egli stesso, opporre più che 4095 soldati a cavallo, 181 dragoni e 1259 fanti disponibili pel combattimento, essendo sparsi gli altri nei diversi presidii: né più di 12 piccoli cannoni aveva seco. Non variò, secondo egli nota, il numero degli uomini durante la campagna di quell’anno, perché i rinforzi ricevuti non fecero che supplire alle perdite incontrate, e perché, potrebbe aggiungersi, una parte di quella gente o non era atta a combattere, o disertò dal campo. Il Priorato fa ascendere l’intero esercito imperiale, comprese le guarnigioni de’ luoghi forti, [p. 378 modifica]a 12 reggimenti di fanti, 11 di cavalleria, 3 di dragoni, 1 di croati (che saranno stati per avventura assai scarsi di soldati). Di 16.000 uomini, disse il Gebhardi composto quell’esercito, né forse eran tanti, esagerando poi nell’asserire che di 219.000 combattenti disponesse allora il granvisir. E con queste truppe, segue il Priorato, s’aveva a presidiare venti piazze, e a porre gente al passo de’ fiumi, e dovunque fosse da temere qualche improvviso assalto. E sembra ancora che al Montecuccoli si togliesser soldati per formarne il nucleo d’un nuovo corpo che, quando il pericolo fu manifesto, si venne ponendo insieme per mezzo di leve forzate, a difesa dell’Austria inferiore e della Stiria. Altri soldati gli si promisero invero a compenso di quelli precedentemente da lui ceduti, ma per accogliergli, posero gli ungheri lo strano patto, che non passassero per le terre loro, e però si dovettero mandare per acqua, e inoltre che non fossero impiegati a combattere in campo aperto; e si destinarono perciò a presidio delle fortezze. Non oltrepassavano poi il numero di 6000 fanti con dodici pezzi d’artiglieria. Io non so se le tante contrarietà che que’ popoli gli procacciavano, o il vedere così scarsamente provveduto al bisogno proprio, e così poco curato il decoro dell’imperatore, fossero la causa per la quale Raimondo prese la determinazione di ritirarsi a Giavarino, ch’era, come dicemmo, governo suo, e d’onde avrebbe potuto ancora vegliare sugli andamenti del turco. Ma il colorire quel disegno non gli venne consentito dall’imperatore, secondo avvisò in una lettera sua del 30 di giugno lo Stom, ove diceva volerlo l’imperatore al comando delle truppe: ond’è che, tutto disposto ad obbedire, non avrebbe dato se non un’occhiata a Giavarino, dove grandi opere di fortificazioni e batterie a fior d’acqua faceva egli costruire; de’ quali lavori, come di altri da lui ordinati a Papa e altrove, dice il Priorato che valsero ad intralciare le operazioni del nemico. Circa questa sua meritoria ubbidienza in momenti così fortunosi scrisse il Montecuccoli queste parole: “Che far doveva io? Ridurmi a fare il croato con una partita di 4000 cavalli? Al carico di maresciallo e alla mia lunga servitù mal conveniva: lamentarmi a Cesare? Giaceva egli [p. 379 modifica]infermo di vaiuolo: abbandonare il servizio? L’ossequio e la fedeltà vi ripugnavano. Protestai, ubbidiii e mi sacrificai” . La protesta alla quale qui si allude, quella sarà che dal Priorato venne inserita nella sua storia di Leopoldo Cesare, ed è la seguente: “Per l’humilissimo rispetto che porto al servizio imperiale di guerra, nel quale ho spesi 36 anni continui, senza haver mai trascurato una sola campagna, mi riduco presentemente a fare il crovato con una partita di quattromila cavalli; sacrifico tutto agli ordini clementissimi di S. M., purché mi siano dati chiari, categorici et esseguibili, e resto etc.”. Radunò il Montecuccoli da prima le genti sue a Clausemburg (donde poi si ritrasse), ivi lungamente aspettando che a lui venissero ad unirsi gli uomini della leva in massa dell’Ungheria, e a gran ventura ascriver dovette che le pioggie e il traboccare de’ fiumi e la rovina che ne derivò alle strade, impedissero per qualche tempo il passo all’esercito nemico, e che questo sempre ignorasse come allora si ritrovassero stremate di numero le truppe imperiali. Intanto qualche altro rinforzo giungevagli, ma di gente, com’ei dice, inesperta, vile e rovinata dalle malattie: e nota tra queste il Priorato, come più dannosi che utili tornassero il reggimento di Monfort e i dragoni che fuggivano a dozzine. Del difetto delle altre cose opportune alla guerra dicemmo già. Né meglio in arnese apparivano gli ungheri del Nadasdi. Questo concentramento di forze, che lasciava con poca speranza di soccorso le guarnigioni delle piazze, fece facoltà all’Abaffi di porsi in possesso di Calusemburg e di Zekelein in Transilvania cedutegli, dice il Gebhardi, dalle guarnigioni loro che dalla cancelleria imperiale erano lasciate mancar d’ogni cosa; il che, se non altro portò al Montecuccoli il vantaggio di poter incorporare nel piccolo suo esercito i tre reggimenti che tornavano da quella provincia ormai perduta. Il 4 di luglio tenne il Montecuccoli una conferenza in Komorn col general Buchaim e con varii capi influenti degli ungheri, nella quale un’insurrezione ungherese (ossia una leva di massa) [p. 380 modifica]fu decretata; e gli uomini per tal modo posti insieme, li comanderebbero il general Forgatch e il vescovo di Giavarino . Ma codesta gente raccogliticcia, quantunque da essa si scegliesser solo i più validi, appena intese che il Forgatch a capo di 6000 uomini era stato battuto, come diremo, dai turchi, senz’altro attendere si dileguò prima di aver veduto il nemico, lasciando al Forgatch e al vescovo la cura di levarsi d’impaccio come meglio potessero, o di seguitarli nella fuga, se ciò a loro meglio talentasse. Appena quattro giorni dopo la conferenza di Komorn, una spia mandata dal Montecuccoli nel campo dei turchi veniva a riferirgli che essi avevano passata la Sava, e poi la Drava, e che rapidamente si avanzavano, precedendoli il granvisir con 30.000 uomini de’ più spigliati, i quali dovevano esser giunti presso Buda, ch’era in guardia di un bascià. Il Porcia nondimeno, pur sempre ostinato, come spesso incontra agli uomini di corta intelligenza, continuava a predicare prossima la pace, e neppure dubitò di dire al Federici, che lo scrisse al senato, avere il Montecuccoli, con un secondo dispaccio, corretta la sua precedente notizia, e non trattarsi se non del pascià di Buda che da Belgrado tornava [p. 381 modifica]al suo governo; il che non era vero. Che nompertanto in gran dubbiezze si vivesse in Vienna, apparisce dall’esser stato, in momenti così fuor di proposito, colà chiamato il Montecuccoli “per consultarlo circa gli attacchi che possono sospettarsi”, come scriveva il Federici, essendoché, secondo ei diceva, fanno i turchi le cose loro con gran segretezza; né altre notizie si avevano se non le scarse e talvolta fallaci che dalle spie si ritraevano. A Vienna asserì Montecuccoli, aver lasciato l’Ungheria quando il granvisir era lontano appena tre leghe da Buda: aver esso 30.000 uomini con sé (con ciò confermando le prime notizie da lui mandate, che vennero, come dicemmo, a suo modo mutate dal Porcia) e ritenere fossero imminenti grandi scorrerie de’ turchi per le terre dell’Ungheria; quanto a sé, avere assicurato Giavarino con quelle fortificazioni, delle quali più sopra dicevamo. Al suo ritorno in Ungheria trovò Raimondo di pessimo animo gli abitanti, i quali, nessuna risposta avendo ricevuto alle querele e alle richieste che per mezzo di un messo speciale avevano fatte a Vienna, colà mandarono il primate d’Ungheria ad esporre, che gli ungheri non intendevano dipendere dal Montecuccoli, perché questi, come maresciallo, non aveva grado superiore a quello dei generali loro, e di più perché lo avevano preso in odio. E ancora avrebbero voluto che lo Zrin, uno de’ lor capi, facesse le veci del palatino, forzato allora dalla podagra a non levarsi di letto, e che per altro prese poi qualche parte a quella guerra. Delle quali discordie in momenti così perigliosi non sapute far tacere, faceva suo pro il visir, il quale mandò tremila giannizzeri a porre assedio a Neuheusel, piazza di molta importanza in quelle parti. Il generale Forgatch che l’aveva in governo, uscì con seimila uomini, pensando affrontarli innanzi che li raggiungesse con altre truppe il visir, ed ignorando che già 18.000 turchi s’erano ormai radunati in vicinanza della città. E questi, piombati su di lui, lo sconfissero, sicché a capo della cavalleria appena gli venne fatto di salvarsi colla fuga, lasciandosi dietro tremila morti de’ suoi: i turchi, in quella occasione, decapitarono anche i prigionieri. Grande fu la desolazione e lo spavento de’ cristiani: le milizie della leva in massa colsero il destro, come dicemmo, per ritornare alle case loro. Era perduta insino da quel momento la piazza di Neuheusel, se il granvisir avesse proceduto risolutamente contro di essa; ma esitò alcun tempo, essendoché avesse tutto in pronto per assediare Giavarino, la quale impresa poi dalle pioggie che crebbero acqua alle fosse delle fortificazioni gli venne impedita. E ancora pensò assalire le truppe del Montecuccoli; ma così bene le aveva qua e là disposte il generale, che egli, credendole in troppo gran numero, se ne intimorì, e ritornò invece a Neuheusel, dove intanto aveva avuto agio il Montecuccoli d’introdurre colla maggiore sollecitudine 500 fanti e 600 dragoni, tenuti pronti per quell’uopo in Giavarino e in Komorn, del che molto lo encomia il Priorato. Questo sussidio rinfrancò l’animo degli assediati. Afferma per altro il Freschot, storico dell’Ungheria, che coi [p. 382 modifica]rinforzi ricevuti quel presidio non contasse più che duemila soldati imperiali ed altrettanti ungheri; se poi ci atteniamo all’autore dell’opera già citata delle azioni di soldati italiani, dovevano essere 3000 fanti e 500 cavalli agli ordini del Forgathc, al quale venne aggiunto allora nel comando il marchese Pio: ed a capo di una parte de’ soldati trovavasi Del Carretto marchese di Grana, italiano valente così nelle armi come nella diplomazia. Del Pio rimangonci le istanze che allora rivolse al Montecuccoli perché alla salvezza di quella piazza provvedesse; ma questi, non vedendo la possibilità di poterlo fare, ne rimise la decisione ad un consiglio di guerra radunato a Carlsburg, al quale il Gonzaga intervenne collo Spork ed altri. Nessuno però seppe suggerire spediente valevole a disperdere con così scarso novero di soldati i turchi che erano ormai in numero di 130.000, determinati a non muoversi di là se in lor potere non cadesse quella fortezza, il conquisto della quale doveva esser la prima prova del valore del nuovo granvisir Ahmed Kuprisli, succeduto in quell’officio al padre. Erano i turchi venuti sotto la piazza il 15 di agosto, e tre giorni appresso incominciava l’assedio, intorno al quale non c’intratterremo, trovandosi descritto dal Montecuccoli stesso nel libro II de’ suoi Commentarii, e con maggiori particolari nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani. Basterà soltanto accennare, che di nuovo fece difetto al Montecuccoli la decretata leva di massa degli ungheri, e che non pertanto colla poca sua gente per quindici interi giorni impedì ai turchi il passaggio del fiume Vath, presso il quale lo Spork da loro era stato battuto. E sarebbe forse riescito a tenerli anche in appresso in rispetto, se colà lo avesse raggiunto, secondo il convenuto, lo Zrin co’ suoi croati, che nel territorio loro erano alle prese coi turchi; ma non essendo egli comparso, fecero con raddoppiate truppe gli ottomani un ultimo sforzo, e occupato il campo degli imperiali, li perseguitarono per tre leghe. Si sparsero poi essi a devastare il paese, penetrando una buona mano di loro persino in Moravia, senza che nella rapida lor corsa fossero raggiunti dallo Spork che con 2000 cavalli li seguitava, [p. 383 modifica]mentr’essi, traendosi dietro cavalli alla mano, li montavano ogni volta che i loro per istanchezza più non potessero portarli. Fu tanto in Vienna il terrore del popolo e dei governanti, che vi si spianarono i sobborghi per accrescere le fortificazioni che il provvido principe Gonzaga, presidente del consiglio di guerra, aveva fatto costruire, secondo narra il Priorato, intorno alla città dal celebre ingegner militare italiano Giacomo Tensini, colà appostatamente chiamato nel 1661. Né forse sarebbe andata immune quella città dall’umiliazione di essere da que’ barbari occupata, se non li avesse richiamati il visir, al quale nel ritorno condussero buon numero di schiavi; trentamila, disse il Gazzotti, quarantamila il Mailàth. Più città dell’Ungheria al tempo medesimo, e talora senza che opponessero resistenza (ond’è che diversi comandanti di esse venissero per ciò decapitati), cadevano in potere dei turchi coi magazzini de’ viveri per gl’imperiali, oltre a ciò che dicemmo avvenuto in Transilvania. Ad opporsi a maggiori progressi del nemico, Zrin e Souches con varia fortuna allora si adoperavano, e celatamente lo stesso Abaffi, che credendosi minacciato di perdere il principato se vincitori riescissero i turchi, mandava al Montecuccoli, secondo scrisse il Gebhardi, segreti avvisi sulle mosse loro, come faceva il Ghika, ospodaro di Valacchia. Non è a dire quanti lamenti nelle provincie invase sorgessero contro il Montecuccoli, quasi fosse stato in facoltà di lui, dopo avere con sì poca gente contrastato per tanto tempo il passo ai turchi, il difendere altresì le altre provincie che l’imperatore lasciava sguernite di soldati. E crebbero le doglianze allora che reputò opportuno di ritirare le truppe di là dal Danubio, quando ebbe dal Ghika l’avviso che i turchi miravano a circuirlo: e scrisse lo Stom che quel suo partito fu disapprovato dalla corte, ov’era chi per iscusar sé riversava la colpa d’ogni cosa sul Montecuccoli; colle quali parole alluderà probabilmente lo Stom a qualcuno dei generali ungheresi o alemanni, se non pure al Porcia. Checché ne fosse, da Vienna fu mandato ordine al Montecuccoli di ripassare sull’altra sponda del fiume; il che da lui venne eseguito, ponendosi a guardia [p. 384 modifica]di Presburgo che finalmente acconciossi ad accogliere una guarnigione imperiale, da lei insino allora rifiutata. A questo aiuto da lui concesso a quella città, allude il Montecuccoli negli Aforismi, là dove parla dei soccorsi da prestare alle piazze assediate prima che il nemico le serri, accampando presso di esse. Più volte tentarono allora di avere i turchi con isforzo d’armi Presburgo, ma ributtolli sempre il generale imperiale, che moltiplicando le industrie, e trovandosi sempre dove maggiore appariva il pericolo, a tutto provvedeva . Fu questo il tempo che la guarnigione di Neuheusel, disperata d’ogni salvezza dopo che ben 18.000 palle di cannone avevano distrutto le fortificazioni, e reputando inutile ogni ulterior difesa, si levò a tumulto. E dice il Priorato, crebbe lo sgomento per una lettera del palatino Vesseleni trovata nelle vesti di un turco ucciso, nella quale dava egli conto ad un bascià di ogni movimento degl’imperiali. Ma non so se bene informato intorno a ciò fosse quello storico, molto autorevole del resto, trovandosi invece in una lettera del 30 di settembre annunziare il residente veneto a Vienna, esser colà arrivati quel palatino e il Montecuccoli “per divisare il modo di dare qualche calore e coraggio agli assediati, giacché soccorrerli era impossibile”. Di più aggiunge egli come il Vesseleni aveva imposto ad ogni unghero, pena la vita, che armato e a cavallo andar dovesse al campo dello Zrin, il quale dalla Croazia, ove stava raccogliendo soldati, aveva promesso venire in soccorso della fortezza, e poi dichiarò invece non sarebbe venuto, se non ai primi d’ottobre: rinnovando così il celebrato soccorso di Pisa. Si agiva, cred’io, di mala fede; mentre a Vienna, come il Federici diceva, ritenevasi che tutti i magnati si desser moto per soccorrer la piazza, e che avrebbe luogo la decretata leva in massa, questa non si effettuava mai; e strano ancora doveva apparire che le truppe irregolari venissero sottoposte allo Zrin lontano anziché al Nadasdi, solito di [p. 385 modifica]capitanarle, o ad altri. Del rimanente, non è da porre in dubbio l’avversione de’ magnati all’imperatore e ai tedeschi, e di ciò fece testimonianza anche il Montecuccoli negli Aforismi. Afferma poi nella sua Storia dell’Ungheria il Freschot, essere stati gli ungheri della guarnigione di Neuheusel compri dal turco, che a ciascuno di essi fece sborsare 40 scudi: e da loro sarà derivato quel tumulto che si levò nella fortezza per costringere ad arrendersi i difensori fedeli, e di cui scrissero gli storici. Invano a mantenere in fede quella gente si adoperarono il marchese Pio, balzato dal letto, ove lo riteneva una ferita riportata combattendo, e il Del Carretto marchese di Grana pur esso ferito; ché tutto fu indarno, e il Forgatch, comandante la fortezza, la rese al turco. Sottoposto per ciò a processo, in questo fu giudicato innocente. Di ciò non convinto l’imperatore, al Montecuccoli delegò la revisione di quella causa, ma credo che nulla in danno del Forgatch dalle nuove investigazioni risultasse . Appena fu la città in potere de’ turchi, diedero essi opera solerte ad accrescervi le fortificazioni; la qual cosa già aveva voluto fare l’imperatore altresì, ma i denari a tal uopo apprestati furono, come narra il Montecuccoli, goduti da chi n’ebbe l’incarico. Era questi, secondo ei dice in nota, l’arcivescovo di Strigonia della famiglia Lipai, lo stesso del quale scrisse Mailàth che, avendo assunta l’impresa delle fornitura de’ viveri di quella fortezza, glieli lasciava mancare, in aspettazione che intanto il prezzo de’ grani aumentasse: immemore troppo codesto pubblicano degli esempi che tanti virtuosi prelati, astenutisi dai negozi mondani e politici, gli avevano porti. A minorare il danno della perdita di una fortezza di tanto rilievo, s’imprese poi due anni appresso a fabbricare quella di Leopoldstadt a 22 miglia di là sul medesimo fiume Vath. Fu solo nel 1685 che un altro italiano, il maresciallo Enea Caprara, presa d’assalto Neuheusel, la restituì all’impero. Ma intanto l’essere in man de’ turchi questa fortezza e alcune altre minori, “tanto diede [p. 386 modifica]apprensione, come scrive il Montecuccoli, ad alcuni del regno (che furono, come aggiunge in nota, l’arcivescovo di Presburgo e il palatino) che già meditavano di farsegli (al turco) tributarii, e con esso tennero corrispondenza”. Egli invece (e modestamente dice, i capi dell’esercito), da questo infortunio trasse incitamento a raddoppiare quelle cautele che già avevano fatto sì, come nota il Federici, che il visir si dovesse co’ suoi 130.000 uomini indugiare per un mese dinanzi ad una piazza che mancava di fortificazioni esteriori. Meglio munironsi i passi men sicuri e le fortezze; e delle opere intorno a Presburg e all’isola di Schutt che offrì un asilo agl’imperiali contro le irruenti torme mussulmane, così si compiacque il Montecuccoli, da farne egli stesso menzione nelle sue opere. Komorn si dette in guardia agli ungheri e ai croati dello Zrin, allorché ebbero finalmente trovata la via del campo. “Il Montecuccoli”, dice l’autore della Scelta d’azioni militari tante volte citata, “scorreva da tutte le parti, incoraggiava gli abbattuti, scuoteva gl’infingardi, occupava tutte le strade e siti angusti”. Se non che poco innanzi la resa di Neuheusel, una lettera dello Stom, agente estense, ci svela che lo stesso Montecuccoli, sdegnato perché a’ suoi soldati si lasciassero mancare le paghe e i viveri, e infastidito forse ancora dalle critiche degli emuli suoi circa le operazioni della guerra, aveva di nuovo chiesto all’imperatore lo lasciasse andare al suo governo di Giavarino: il che si vede che non gli venne consentito. Allora, fatta di necessità virtù, ei dispiegò quell’operosità di che dicevamo, e per cui a ragione uno storico de’ turchi ebbe a dire che ad essi “un ostacolo maggiore che non era Neuheusel restava da superare, 20.000 imperiali cioè comandati da uno dei migliori capitani del suo secolo: né fu quell’ostacolo da loro potuto superare” . Ito in questo frattempo il granvisir a Costantinopoli a raccorvi encomii e donativi, trovò al suo ritorno che poco da’ suoi luogotenenti s’era fatto, ond’è che si risolvesse a condurre le sue genti ai quartieri d’inverno. Fu allora il Montecuccoli [p. 387 modifica]chiamato a Vienna insieme coi capi dei diversi corpi del suo piccolo esercito, e là, come con lettera del 4 di dicembre annunziava il Federici, in consiglio fu discusso sul modo di provvedere ai gravi casi di quella guerra. Venne primamente proposto s’avesse a ricercare la cristianità intera di soccorso, contro la cresciuta baldanza degli ottomani; ma si dovette poi all’insistenza dell’imperatore se il suo ministro Porcia, sempre timoroso che si suscitassero impedimenti alla pace da lui agognata, si risolse di dar corso a quelle lettere ai diversi reggitori di popoli. Poscia l’imperatore il 25 di dicembre, seguitandolo i diplomatici accreditati presso di lui, andò a Ratisbona, ove aveva intimato la dieta de’ principi germanici, i quali con molta lentezza andarono a raggiungerlo colà, ed alcuni anzi per gare di precedenza non si mossero dalle case loro: tanto dopo la guerra de’ trent’anni era venuto meno il prestigio dell’autorità imperiale! Decretò la dieta un sussidio di soldati, che alcuni stimarono di 40.000 fanti e di 8000 cavalli, ma che in effetto, dice l’autore delle Azioni dei soldati italiani, riescì ad un terzo appena di quanto era stato promesso; qui però devesi notare che il Coxe, storico della casa d’Austria, a soli 6500 uomini fece ascendere il sussidio allora accordato. Essendo alla dieta intervenuto l’ambasciatore di Francia, offrì esso il concorso alla guerra di seimila soldati francesi. Denaro si ebbe dalla Spagna e da alquanti principi tedeschi ed italiani, ai quali ultimi l’imperatore aveva spedito speciali ambasciatori. Concesse Alessandro VII la facoltà di riscuotere una tassa sopra i beni ecclesiastici negli stati ereditarii dell’imperatore, e 700 scudi d’oro sui banchi. Questi però o non potevano riscuotersi, o solo con largo sconto, come narrò il Priorato, che insieme con altri contemporanei accusa papa Alessandro di aver rivolto in pro della sua famiglia (Ghigi) una parte delle decime da lui imposte per la guerra contro degl’infedeli, nonché i 200.000 scudi che per l’uopo medesimo aveva lasciati per testamento il cardinal Mazzarini. Non pertanto negli Annali d’Italia il Muratori, dice, questa essere stata una calunnia. L’impulso a quel sussidio fu dal Montecuc[p. 388 modifica]coli, che era stato chiamato alla dieta di Ratisbona, attribuito al granduca di Toscana, il quale diede polvere da guerra e 50.000 fiorini. Aveva il papa promesso 8000 soldati altresì, di quelli arrolati per le sue differenze con Francia, ma tardando l’imperatore a chiamarli presso di sé, il papa, a risparmio di spesa, li licenziò; ond’è che l’inglese Leslie, ministro imperiale, giunto in Venezia col denaro per le spese di quelle genti, intese che solo alquanti tedeschi ch’erano tra esse, si conservavano tuttavia in assetto militare sotto il comando di un conte Braida. Più efficace soccorso conseguì dalla Francia il conte Pietro Strozzi, sergente generale di battaglia e capitano della guardia de’ trabanti dell’imperatore, alle istanze del quale fu dovuto se venne sollecitata la spedizione dei sei mila uomini promessi, come or dicevamo. A generale delle truppe dell’impero, ossia de’ confederati alemanni, fu dalla dieta dichiarato il marchese di Baden, distintosi già nella guerra de’ trent’anni; il principe Ulrico di Würtemberg (lo stesso, credo, che ci venne più addietro con onore nominato) ebbe il comando della cavalleria; ma poi con deliberazione infelice il governo delle cose militari fu deputato ad un consiglio di guerra, a ciascun membro del quale dice Priorato che si assegnassero 800 talleri mensili, che più utilmente si sarebbero spesi, se fossero stati mandati al campo del Montecuccoli. Ma un altro corpo di alemanni della lega del Reno, il medesimo forse al quale accennammo più addietro, che per avventura si era accresciuto con gente venuta a militare in esso, perché lo diceva il Montecuccoli “un corpo considerabile”, si trovava allora in Ungheria. Lo comandava un conte Hohenlohe che il Montecuccoli e gli altri italiani suoi contemporanei chiamavano Hollach , e che era stato col Souches, collo Zrin, col Montecuccoli e con altri generali a quel consiglio di guerra che dicemmo adunatosi in Vienna. Codeste truppe desiderò lo Zrin, bano allora della Croazia, di unire a [p. 389 modifica]quelle che in buon numero aveva egli raccolte in quella provincia e nell’Ungheria, tentar volendo una campagna d’inverno contro i turchi; i quali, secondo il Federici scrisse, stavano attendendo l’agghiacciamento de’ fiumi per invadere l’isola di Schutt, ed intanto dai loro quartieri facevano scorrerie in Croazia e in Ungheria. Biasimò altamente Montecuccoli codesto progetto, pel quale l’esercito veniva disgregato allora appunto che, accresciuto di gente nuova, qualche bella impresa a stagione opportuna avrebbe potuto intraprendere; laddove, affaticandolo in disastrosa guerra invernale, sarebbesi in breve ridotto inabile al combattere. Né meno avversò egli l’altra proposta di devastare un buon tratto dell’Ungheria, acciò né rifugio né viveri vi trovassero i turchi. Questi però avrebbero continuato ad accampare, com’era lor costume, sotto le tende, e sarebbersi fatte venire le vettovaglie dai paesi vicini, finché altre terre non conquistassero. E diceva che anche i turchi avevano discusso tale idea nell’antecedente anno, abbandonandola poscia come inopportuna e rovinosa per le genti loro, che sole avrebbero portato la pena di quelle rovine. Mutò poi avviso più tardi il Montecuccoli, e nell’ultima sua opera: L’Ungheria nel 1673, si fece a proporre la devastazione di un tratto di territorio sui confini dell’Ungheria. Opinione costante del Montecuccoli era allora, come per l’innanzi, che le truppe dovessero tenersi unite presso il Danubio, e pronte a cogliere a primavera ogni occasione che si presentasse di ripigliare le offese contro il nemico; ed inoltre che si dovesse occupare ad ogni costo Strigonia. Ma il consiglio di guerra in Vienna, che avrebbe senza dubbio rigettato il disegno dello Zrin, se liberamente avesse potuto farlo, lo accettò invece per non irritare viemaggiormente il bano che in Ungheria e in Croazia aveva molti fautori; e più tardi gli consentì ancora un corpo di truppe imperiali, comandato dal tenente maresciallo Pietro Strozzi. Numerò allora quell’esercito 23 o 24.000 uomini, due terzi de’ quali erano ungheri e croati; ma tranne l’occupazione di due città che si arresero senza combattere, e che si dovette abbandonare, e l’incendio del ponte di Essek, onde [p. 390 modifica]erroneamente stimavasi impedirsi il passo al nemico, null’altro far poterono que’ generali, anche per la discordia che in tutte le imprese alle quali si posero, regnò sovrana tra loro. Poiché la prova di occupare la fortezza di Fünfkirchen (Cinque chiese) dopo avuta la città, era venuta a mal fine, propose lo Zrin di assalir Kanissa, dove comandava un rinnegato (o come altri disse, discendente da un rinnegato) col quale esso Zrin aveva pratiche: ma costui dai turchi, venuti in sospetto del vero, fu fatto strozzare. Il prendere quella città era stato allora dal Gonzaga e dal Montecuccoli dichiarato impossibile, tanto più che colà erano attesi 50.000 turchi; e infatti le cose presto volsero al peggio, ed invano Raimondo, per ordine espresso dell’imperatore, inviò lo Spaar, maresciallo generale di campo con truppe fresche venute da Altemburg a prendere la direzione dell’assedio. L’imperatore poi chiamava presso di sé il Montecuccoli per essere ragguagliato da lui circa le mosse dei turchi, che si temeva mirassero a Vienna, e che Raimondo invece asserì dirette a conquistar Giavarino . Formidabili, del rimanente, diceva esso gli apprestamenti militari del granvisir, che in breve sarebbesi trovato a capo di 150.000 uomini, 80.000 de’ quali a cavallo. Che se questi in quel tempo non negava ascolto alle interminabili proposte di pace del Porcia con ciò non altro scopo aveva, se non quello di far dormire, per usare le parole del Federici, mentre, come avvertimmo, un altro nunzio veneto ebbe a dire addormentato lo stesso Porcia. Intanto i turchi facevano cessare con grande sforzo d’armi l’assedio di Kanissa, il quale, come il Montecuccoli lasciò scritto, “costò un milione di fiorini, molte vite umane, e materiale di guerra lasciato sul luogo”: e di ciò dando conto lo stesso imperatore il 4 di giugno da Linz a Raimondo, diceva, essergli stato predetto da lui . Necessarissima affermava poi [p. 391 modifica]la presenza di lui in Ungheria per difenderla da invasioni, e per frenare coll’autorità sua le discordie di tanti capi: lo invitava pertanto a partire al più presto, e a regolare le cose della guerra pigliando norma dall’esperienza e dal valor suo. Alla lettera imperiale rispondeva egli colla seguente, conservataci dal Priorato nella sua Vita di Leopoldo Cesare:

Di tutte le mie volontà la suprema in cui ogni altra si risolve, si è di obbedire ciecamente a quella della Maestà Vostra, onde in ossequio del Clementissimo ordine della mano della V. S. C. Maestà partirò per le poste a Gratz, e più oltre subito che avrò dati gli ordini necessarii per l’esercito e per il governo di Raab, che spero, sarà post dimani. Non risparmierò né l’applicazione, né le fatiche, né il sangue, né la vita per l’Imperial servigio della Maestà Vostra. Sotto i cui auspici Cesarei avria a sperare ogni prospera fortuna, se l’esser questa figlia del buon ordine, e delle buone disposizioni, ch’adesso ancora non ci sono, non obbligasse a starne con qualche dubbietà: e spero che la benignissima giustizia di V. S. M. non vorrà in avvenire obbligarmi a render conto dei successi che sono trame degli orditi altrui, e fabbriche sopra fondamenti et effetti di cause aliene. V. M. si degnerà di considerare il parallelo qui annesso delle forze nostre e del Turco, e la grande disproporzione tra loro , il che servirà alle ulteriori sue clementissime deliberazioni, concorrendo io intieramente nell’umilissimo parere di questi deputati: e ai piedi di V. S. Maestà m’inchino etc.
Vienna, 6 giugno 1664.

Due giorni appresso ponevasi il generale in viaggio per Gratz; e di questa prontezza nell’eseguire l’incarico ricevuto, lodavalo con altra sua l’imperatore, il quale, dopo aver reiterate le dimostrazioni della gran fiducia che aveva in lui, [p. 392 modifica]soggiungeva: “né crederò mai a quelli che forse vorrebbero fare da (di?) Voi altre impressioni, come ne ancora all’anno passato mai ho fatto, anzi che molte volte sgridati tali; quali volevano fare di queste false impressioni. Così habbiate buon animo, et assicuratevi della mia gratia. Spero si vinca... molto sarà il vostro valore e la vostra condotta etc.”. Nella qual lettera dall’imperatore medesimo ricevono conferma le mene incessanti che presso di lui si faceva da’ nemici del nostro grande italiano. E qui va notato ciò che scriveva il Federici, cioè che, se si fosse rimandato prima il Montecuccoli in Ungheria, forse il conquisto di Kanissa non sarebbe fallito, come avvenne per la lentezza delle operazioni, e per le discordie tra Zrin, Hohenlohe e Strozzi, nessuno de’ quali voleva esser secondo nel comandare, mentre che nessuno aveva esperienza di assedi: ma qui, così terminava il Federici, non si costuma dare i buoni rimedii all’infermo, se non quando è passato all’altra vita. E tal giudizio sul Montecuccoli recava Federici, il quale vivendo tra ministri e cortigiani imperiali, fece sue alcuna volta le opinioni, spesso erronee, dei nemici di lui, come gli accadde allora che mostrò crederlo invido della gloria dello Zrin, e inferiore di meriti al Souches; la quale ultima opinione egli stesso in altra circostanza rettificò . Dopo avere il Montecuccoli conferito in Gratz coi ministri, continuò il viaggio, giungendo al campo il giorno 15 di giugno, accolto ed acclamato, scriveva il Federici, dai reggimenti dell’imperatore, avvezzi ad essere diretti dalla sua consumata esperienza, e pieni di speranza che togliesse egli di mezzo le discordie tra i capi inferiori, quelli cioè che più sopra nominammo. Ma Raimondo, secondo narra egli stesso, trovò quell’esercito in pessima condizione. Venuti meno in gran parte i soldati più esperti, non era da far molto a fidanza coi rimanenti, facendosi sempre più numerose ed agguerrite le truppe del nemico. I magazzini sprovveduti, le strade rovinate, danno a danno [p. 393 modifica]aggiungevano: e di più stavano gl’imperiali retrocedendo, inseguiti dai turchi. Premeva allo Zrin di salvare un forte lui eretto, al quale avea dato il suo nome (Zrinivar), e che, per essere fondato in terreno che s’internava nel territorio dei turchi, era stato per questi il principale impulso a dichiarare la guerra. Ma indarno fu esso strenuamente difeso così dalla scarsa guarnigione, come dall’esercito in ritirata, essendovi anche rimasto ucciso il bravo tenente maresciallo Strozzi, o nella difesa di certa isoletta da lui conquistata, o meglio, per attenerci al racconto del Montecuccoli, combattendo per impedire ai turchi l’ingresso nel forte. Questi era amatissimo dai soldati per la benevolenza che loro dimostrava, specialmente se infermi, o bisognosi di cibo e di vesti: ond’è che lo chiamassero il padre del soldato. Ma era ne’ turchi il fermo proposito di levarsi quella spina dagli occhi, e vennero a capo di conquistare Zrinivar; abbattendolo poscia, come siamo per dire, perché, per la sua difettosa costruzione, lo riconobbero inutile . Questo avrebbero dovuto fare prima d’allora gli imperiali, secondo notava il Priorato, essendoché per la posizion sua, in tempo di guerra non si poteva lungamente sostenere; ma, per usare le parole di quello storico, si volle esso per riputazione conservare, e il medesimo disse il Montecuccoli, facendo notare la cattiva disposizione delle sue parti e l’impossibilità delle difese. Osservava per altro, che l’aver tenuto colà a bada i turchi lasciò campo ai diversi corpi dell’esercito di congiungersi, e di riprender vigore. Fu infatti per raggiungere codesto fine che tutti gli argomenti da lui furono posti in opera per prolungare la difesa; ma finalmente dopo aver respinto il 27 di giugno un furioso assalto, e dopo che la resistenza fu dichiarata ormai inutile, una mina accesa dai turchi poco stette che sotto le rovine che fece, non seppellisse lui e il general Spaar. Ordinò allora al colonnello Tasso, comandante di quel [p. 394 modifica]forte, di bruciar ogni cosa, tostoché vedesse non altro rimanergli a fare che mettere in salvo le sue genti: e fu deciso che ciò avrebbe luogo il giorno successivo. Erasi appena di là allontanato il Montecuccoli per ritornare al suo accampamento, che rinnovato dai turchi l’assalto, dovette la guarnigione cercar salvezza nel campo imperiale di là dalla Mura, o pel ponte che vi era, o a nuoto, poiché questo si ruppe. Grande fu la perdita di gente così in quel fatto, come durante l’assedio, e nella precedente malaugurata campagna invernale: ferito nel capo il Tasso, ucciso il conte Della Torre suo tenente colonnello, e più altri ufficiali italiani, per non dire de’ soldati. Di quelli della guarnigione, che erano 1500 e mutavansi ogni dì, 300 appena scamparono, traendo seco il ferito lor comandante. Avuto il forte, assalirono i turchi il campo del Montecuccoli; la difesa per altro, per usare le parole del Priorato, così eccellentemente fu da lui disposta, che “dopo due hore di gagliardo et atroce contrasto restarono i turchi ributtati con morte di molti di loro” (Historia di Leopoldo Cesare). Invano ritornarono poi essi all’assalto, ché ben trincerato dal generale imperiale trovarono il campo di lui, e in posizione vantaggiosa; ond’è che, disperando rimoverlo di là, dato fuoco alle mine che gl’imperiali avevano preparato, lasciarono ogni cosa in preda alle fiamme. La perdita di quel forte da lui innalzato fu sentita con amarezza dallo Zrin, già insino dal precedente anno mal disposto dell’animo verso la causa imperiale, secondo scrisse il Freschot, quando con bel modo gli venne ricusato il grado supremo nelle truppe della Croazia, ov’era governatore. Un dispaccio del Federici al senato veneto ci dà notizia delle aspre parole passate, innanzi la caduta di Zrinivar, tra costui e il Montecuccoli, al quale osò egli rimproverare mancanza di coraggio e soverchia stima del numero e del valore dei turchi. Pacatamente rispondevagli il generale, che era stato egli medesimo testimonio di quanto fu fatto per la conservazione del forte, e da soldati che la mal riescita impresa di Kanissa aveva ridotti in condizioni deplorabili, era, del rimanente, indifendibile contro un assalto quel debole arnese di guerra. Sog[p. 395 modifica]giungeva poi che il venire ad una battaglia decisiva, secondo ei consigliava, sarebbe stato un porre a repentaglio la monarchia e l’intera cristianità. Spiccata apparisce da queste parole dei due capitani l’indole peculiare di ciascuno di loro: dedicatosi l’uno con tutto il vigore dell’animo al trionfo della causa alla quale serviva, circospetto perciò in ogni impresa sua per timore di recarle nocumento, pronto invece a menar le mani a dovere, quando la pugna offerisse probabilità di esito felice; audace l’altro, uso a combattere da partigiano, e indifferente, quando non fu avverso, a ciò che potesse tornar di utilità al proprio principe, essendo anzi, e l’accennammo, implicato in trame contro di lui. Era esso uno di quegli uomini de’ quali neppure l’età nostra ha difetto, e che pur di far trionfare un’idea, metterebbero a soqquadro la patria loro, che molto hanno sulle labbra, e poco nel cuore. In seguito al colloquio del quale dicevamo, o dal medesimo traendone il pretesto, avvenne che lo Zrin, rimasto quasi senza soldati, essendosi sbandati i suoi, né potendone avere dal Nadasdi e da Hohenlohe, che dipendevano più specialmente dal Montecuccoli, fece risoluzione di abbandonare il campo, andando ad un suo castello, indicato dal Federici col nome di Chincheturno (Cinque torri?), e negando poi agl’imperiali i viveri ch’erano ne’ magazzini del suo territorio. Avendo il Montecuccoli, per mezzo di un conte Miglio, reso informato di questo il consiglio di guerra in Vienna, fu probabilmente deliberato di chiamare colà lo Zrin, essendoché c’informi lo Stom che vi andasse, e vi movesse lagnanze contro il Montecuccoli, non dubitando di attribuirgli la colpa della perdita del suo forte. A codeste accuse allude senz’altro un passo degli Aforismi che dice: “Chimerizzarono alcuni che il forte si fosse a bello studio lasciato perdere... Di gran rettorica avrebbe mestiere a persuadere a tante e sì diverse persone di lasciarsi tagliare a pezzi per nulla”. Nella sua Historia di Leopoldo Cesare, c’informa poi il Priorato, che a Vienna richiese lo Zrin un comando indipendente, e che veniva tenuto a bada, non volendosi per avventura né contentarlo né scontentarlo, anche perché s’era [p. 396 modifica]fatti amici i francesi, i quali dovendo prender parte alla guerra in Ungheria, cercavano ingraziarsi i più potenti in quel reame. Non si farà guari torto allo Zrin, se a lui si attribuisca quell’accrescimento di rancori e di accuse de’ nemici del Montecuccoli che allora si manifestò, dandosi colpa a lui dei falli ch’erano d’altri, come venimmo dicendo, e che s’imputavano alla freddezza con cui conduceva la guerra. Alle quali censure opponeva egli, nulla essersi fatto che non l’avessero consentito i generali chiamati a consiglio, nel quale non era mancato il voto favorevole di chi facevasi allora suo accusatore: del rimanente, l’imperatore aveva approvato ogni operazione di guerra. Quant’è a sé, biasimò già il piano della campagna che gli fu imposto, e del quale predisse l’esito infelice. Queste differenze tra i capi dell’esercito furono sottoposte dall’imperatore al voto di un consiglio di generali; ma il non esser venuta meno la fiducia nei talenti e nella lealtà del Montecuccoli, fece poscia dimostrazione che a nulla avevano approdato le calunnie de’ suoi nemici. Non durò per altro a lungo nell’animo generoso del Montecuccoli lo sdegno per lo strano e colpevole procedere dello Zrin, leggendosi nelle storie del Priorato che egli, il quale “con soavità solea tenersi ben affetti universalmente tutti li suoi officiali e capi di guerra, sentì dispiacere di così improvvisa ritirata” dello Zrin, e giunse poi ad ottenere che ritornasse al campo. Ma che allora, come trovo notato nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani, si offerisse egli di divider seco il comando delle truppe, se ciò dovesse tornare a maggior pro della causa per la quale entrambi combattevano, è tal cosa che parmi ecceda i limiti del verosimile, vie più per la poca fiducia che nella lealtà di lui doveva egli riporre. E poca invero ve ne ripose il Montecuccoli, non solo in riguardo a lui, ma ancora circa gli altri magnati ungheresi, come negli scritti suoi lasciò intendere, adducendo le ragioni de’ suoi sospetti. Il granvisir intanto, inanimito dai recenti vantaggi ottenuti, mirava ad invadere la Stiria; se non che, dice il Gebhardi, così trovò dal Montecuccoli fortificati i passi verso quella provincia, che neppure osò tentare quell’impresa. [p. 397 modifica]

Bene si diportava frattanto nell’Ungheria superiore il general Souches, al quale settemila uomini di nuove leve avea mandato l’imperatore, con lui trovandosi altresì un sei o sette centinaia di ungheri. Il 4 di maggio prese egli Neitra, e il 13 di giugno Levenz; e quando si provò il nemico a racquistare quest’ultima città, egli, il maresciallo Heister e il conte Enea Caprara lo batterono a Czernowitz (a Szent Benedeck, dice il Mailàth), non perdendo essi de’ lor soldati se non 500 uomini tra morti e feriti, mentre di 6000 cadaveri di turchi andò coperto il campo, rimastovi ferito anche il bascià di Buda. Questa battaglia fu iniziata dal Caprara, che era a capo allora di 800 corazze e di altrettanti ungheri, nel computo de’ quali, se colse nel segno l’autore dell’opera delle Azioni de’ generali italiani, converrà correggere quanto da altra parte traemmo circa il numero degli ungheri che erano col Souches. A quest’ultimo generale spettando buona parte della gloria derivata da quella battaglia all’esercito imperiale, e perché esso, come avvertimmo solesse fare, ostentava indipendenza dal Montecuccoli, del quale i fautori suoi lo dicevano emulo; ne trassero argomento i nemici del nostro italiano a rinnovare le insidie loro contro di lui. Odasi intorno a ciò quello che al suo governo scriveva da Vienna il 27 di luglio il Federici, dopo che tre mesi innanzi aveva quasi giudicato da più del Montecuccoli il Souches: “Quanto s’applaude al Susa tanto si bestemmia il Montecuccoli che con 50.000 persone niente opera in Croazia, onde gode pasquinate continue con odio del popolo. Chi lo dice più uomo da penna che da spada, più poeta che soldato. La verità però e che non è così facile combattere l’armata del visir, come quella dei Valacchi e Moldavi che stanno saldi perché servono il Turco per forza”. Segue poi dicendo, che sarebbe grande sventura se il Montecuccoli per disperazione offerisse battaglia al visir; il quale, vincendo, occuperebbe tutto il paese, “onde i più prudenti pregan Dio che non si venga a questo cimento; essendo la cavalleria del visir [p. 398 modifica]superiore al doppio della cristiana, e i Giannizzeri bravi al possibile”. Appare da questa lettera che il Souches s’era trovato a combattere, non contro molti turchi, ma più specialmente contro de’ tributarii loro, di religione cristiana i più, i quali di mal animo trattavan l’armi contro altri cristiani, ché anzi più volte nelle opere del Montecuccoli si trova ricordo d’intelligenze che tra gli uni e gli altri ebbero luogo. Che più? il Montecuccoli avendo avuto a tener parola di questa battaglia, asserì avere dichiarato allora Giorgio Ghika, ospodaro di Valacchia, come fossero da lui disposte le cose in modo che i cinque o seicento turchi ch’erano seco, si trovassero in luogo da non poter sfuggire ai colpi del nemico, ai quali abbandonò pur anche quattromila tartari, facendo ritirare i suoi valacchi, che dovevano combattere al fianco loro. Venne egli per questo dal sultano levato di seggio, e visse poscia pensionato dall’imperatore ne’ dominii di lui. Le quali cose sfrondano gli allori del vincitore di Czernowitz. Ad altra parte però del campo della guerra era rivolta l’attenzione di tutta l’Europa, all’esercito cioè del visir, che deliberato ad entrare nel cuore dei dominii austriaci, faceva i maggiori sforzi per passare il fiume Mura, fiero contrasto incontrando nelle truppe del Montecuccoli, il quale con pazienti manovre molto saggie, per usar le parole di un suo biografo, sventava i progetti di lui. A guardarsi dalle sorprese, aveva posto a guardia dell’isola di Schutt cinquemila uomini; e che v’andasse egli medesimo, l’abbiamo dal Federici, il quale, narra che quasi vi morì di fame. Così potendo trattenere, senza combattere, la foga dei turchi, alle truppe della lega del Reno e ai francesi che erano in viaggio, e che il 22 di luglio s’unirono a lui, porse agio di prender parte a quella battaglia ormai divenuta inevitabile. Vi furono capitani, i quali per l’ambizione di non dividere con altri la gloria che speravano conseguire vincendo la battaglia, la iniziarono prima che altri condottieri con nuove truppe venissero a crescer forza alle loro schiere, dure sconfitte perciò incontrando: e di questo anche noi ponemmo [p. 399 modifica]innanzi alcun esempio nel corso di questa storia. Tra costoro non fu mai il Montecuccoli che, nuovo Fabio indugiatore, sapeva assicurarsi la vittoria, nessuna cosa lasciando addietro che stimasse opportuna a conseguirla, come ancora in quest’epoca per noi discorsa intervenne. Aveva il turco vantaggiosa posizione sulla Mura, riparato com’era da boschi e in luoghi alti, mentre gl’imperiali, che erano nella pianura (difesi appena da qualche opera campale), si trovavano esposti ai colpi delle artiglierie nemiche. Per dodici interi giorni dall’una e dall’altra sponda del fiume fu un continuo trarre di cannoni e di moschetti: nel tredicesimo i turchi levaronsi finalmente di là, marciando verso Kanissa. Congetturando allora il generale cesareo che mirassero i turchi a porre assedio a Giavarino o a qualche altra piazza, lasciati tre reggimenti a guardia della Mura, e 400 uomini in un castello del Nadasdi, si pose tra quel fiume e la Raab, pronto ad accorrere ove il bisogno lo richiedesse. Così mandava egli a vuoto quello che il Priorato crede fosse il disegno del visir, di procurare cioè che il Montecuccoli, per tenergli dietro, lasciasse sguerniti i passi della Mura, de’ quali intendeva valersi: e il Montecuccoli medesimo disse già, quello poter esser stato lo scopo della mossa dei turchi. Era poi il luogo da lui occupato il più opportuno per piombar sul nemico, se si ponesse ad assediar fortezze, tanto più che allora a lui s’univano le truppe dell’impero germanico. Nota il Foscolo, come fosse degno della gran mente di Raimondo il piano di guerra concepito in quella occasione, e che puntualmente venne da lui eseguito. Mutò la sede della guerra per mandar a vuoto i disegni del nemico, e per acquistare un’altra base di operazione, e una linea certa di comunicazioni: mosse continuamente l’esercito dinanzi al nemico, ed ogni progetto suo prevedendo, lo accompagnò contemporaneamente dalla riva opposta della Raab in ogni marcia e contromarcia: evitò le piccole fazioni e il far bottino, per conservar intatte le forze sue, e seppe scegliere tal posizione che gli dette il sopravvento sul nemico. Descrisse egli stesso, il Montecuccoli, la marcia da’ suoi intrapresa, e l’ansia [p. 400 modifica]di lui pel timore, troppo fondato, d’esser prevenuto dalla cavalleria nemica al passo del fiume Raab, donde poteva dipendere l’esito della guerra. A Kesment più grave appariva il pericolo, dubbio essendo se ungheri e croati, ch’erano a guardia di quei passi, potessero a lungo difenderli; ma giunto colà con altre truppe il Montecuccoli, dovette il nemico desistere da ulteriori tentativi. A Vienna intanto, come scrivevano gli agenti diplomatici di Venezia e di Modena, ora dicevasi volesse il visir assalire la città di Papa, ove aveva il Montecuccoli introdotti quattrocento moschettieri , ed ora che, superati tutti gli ostacoli, fosse già arrivato a Gratz. La qual ultima notizia se trovò chi la credesse, farebbe fede dello sbigottimento che provarono gli abitanti della capitale, essendoché non sarebbe mancato modo di avere sopra un fatto di cotanta gravità precisi ragguagli. La verità era invece, che né la mala condizione delle strade, alle quali facevano anche ingombro soldati, che sfiniti per stanchezza e per fame più non potevano andare innanzi, né altre avversità bastarono ad impedire il passo al Montecuccoli, che si trovò dovunque presentavasi il nemico; il quale finalmente si vide astretto a cimentarsi in quella battaglia di San Gottardo, rimasta famosa nelle storie, e che se a bene gli fosse riescita, avrebbe potuto proceder sino a Vienna e dettarvi all’imperatore la pace.

Opportune all’uopo raggiunsero allora il Montecuccoli, come poco fa accennammo, le truppe dell’impero germanico comandante dal marchese di Baden, e quei 6000 francesi che dicemmo dal loro re mandati a combattere contro il turco, ai quali s’erano uniti non pochi volontarii. Condottier loro era il Coligny: i fanti sotto gli ordini del La Feuillade, i cavalli guidati dal Gassion, valenti tutti tre. Plauditi i francesi dal popolo [p. 401 modifica]ne’ paesi pe’ quali passavano, li faceva per altro l’imperatore sorvegliare, narra il Cantù, perché, come scrisse già lo storico ungherese Gebhardi, temeva s’unissero ai turchi. Ai quali sospetti accennò il Montecuccoli in quella relazione della battaglia di San Gottardo, edita recentemente nell’Archivio storico italiano (anno 1847), nella quale queste parole si leggono “... I Francesi han contribuito molto a questa vittoria; né so come gli Alemanni potranno più dubitare della loro sincerità”. Aveva cercato il Montecuccoli di far soldati anche in Italia, ove molti erano a quel tempo vaghi di avventure e di guerre, colà mandando Max (Massimiliano) Piccolomini, quello per avventura (se non fu Silvio, altro nipote del generale), al quale lo Schiller con felice invenzione poetica assegnò, come dicemmo altrove, nel suo poema drammatico Wallenstein, una parte così nobile e commovente.

E’ bello tener dietro al Montecuccoli, allorché negli Aforismi, giorno per giorno, racconta i tentativi che venivano facendo i turchi per passare quel fiume Raab, il varco del quale riesciva sempre ad impedire. Finalmente il dì 30 di luglio entrambi gli eserciti l’uno a fronte dell’altro ristettero, occupando gl’imperiali Moggendorf e San Gottardo , dividendoli dal nemico il fiume; e turchi e cristiani dettero opera ad offendersi colle artiglierie. Assegnò Montecuccoli a ciascun corpo il luogo che nella battaglia occupar doveva; sulla destra le truppe cesaree, delle quali il marchese Pio generale di battaglia comandava l’ala sinistra; i collegati a sinistra coi francesi: le soldatesche dell’impero, come più deboli ed inesperte, furono collocate al centro. Un’istruzione divisa in 14 capi e che venne distribuita agli ufficiali superiori, indicava le norme che seguitar si dovevano se si venisse a battaglia campale, come era ormai inevitabile; la quale istruzione il Montecuccoli inserì ne’ suoi Aforismi. La pena di morte era indetta a chi, al momento della battaglia, non si ritrovasse nel luogo assegnatogli, e a chi [p. 402 modifica]si desse a far bottino innanzi che l’esercito fosse padrone del campo. E su questo particolare dell’appropriarsi le cose altrui e della disciplina (ove qualche grande necessità, e specialmente la mancanza dei viveri non scusava il soldato) fu sempre severissimo il Montecuccoli. Narrasi di lui, che durante questa guerra d’Ungheria facesse consegnare al profosso un soldato, che, contro l’ordine espresso di lui, era entrato in un campo di biade. Non ancora colui disarmato, avendo invano allegato ignorare quel divieto, esclamò: non son reo, ma lo divengo; e sparò il fucile contro Montecuccoli, che rimasto illeso, ebbe la generosità di perdonargli. In quella sua istruzione che dicemmo, veniva inculcato ai capitani d’infiammare con animate parole l’animo dei soldati, ed altre disposizioni si davano per assicurare il buon esito della battaglia. Giungeva frattanto al campo, secondo narra Priorato, un tal capitano Gallo pistoiese (forse della famiglia di quel colonnello Gallo da noi nominato, che nel 1646 rimase ucciso nella battaglia di Frankenberg); il quale, caduto già in man dei turchi a Vesprim, e fattosi maomettano, veniva allora dal quartier generale del gran visir. Costui, che non altro attendeva forse se non l’occasione di poter tornare tra cristiani, allorché si trovò averli vicino, passò il fiume, e volò a dar conto al Montecuccoli di quanto designava fare il gran visir; e gli narrava che questi era più che mai risoluto a voler correre sopra Vienna, dopo avere colla moltitudine della sua gente schiacciato l’esercito di Montecuccoli , di gran lunga inferiore al suo, trovandosi scritto essere stati i turchi a San Gottardo circa novantamila contro trentamila cristiani . Di questi erano più specialmente soggetti al generale supremo gl’imperiali dei due corpi, che in provincie di[p. 403 modifica]verse avevano operato insino allora sotto lo stesso Montecuccoli, e col Souches luogotenente suo; il quale non credo già che intervenisse alla battaglia di San Gottardo, essendoché avverta lo Stom che si ricusasse di sottostare al Montecuccoli, e già lo dicemmo altra volta. Sarà rimasto senz’altro a Komorn, la qual fortezza aveva in governo, e dove si ha contezza che poco di poi si ritrovasse. Noveravano insieme i due corpi or nominati, secondo il Priorato, tredici reggimenti di fanti, uno di croati, due di dragoni; gente veterana, dic’egli, e così negli Aforismi il Montecuccoli, che prima aveva scritto essergli venuti meno i veterani delle precedenti guerre, e non rimanergli che gente nuova. A levar di mezzo cotale contraddizione, converrà pensare o che una parte de’ vecchi soldati suoi, ristoratasi dalle fatiche sofferte, fosse ritornata alle bandiere, o che altra gente esperta gli avesse mandato l’imperatore, o l’una cosa e l’altra insieme. Molti antichi soldati erano probabilmente tra quelli del Souches, onde è che le nuove leve potevano tenersi in retroguardia, o al centro. Le genti dell’impero germanico, alle quali presiedeva con titolo di maresciallo generale il marchese di Baden, avendo un Fugger per generale d’artiglieria, numeravano otto reggimenti. All’Hohenlohe (o Hollach come lo dicevano) obbedivano sette deboli reggimenti della lega renana; de’ francesi nominammo già i comandanti: essi che erano seimila, e i novemila degli ausiliarii formavano la metà delle truppe delle quali poteva disporre il generale italiano. E qui cade in acconcio riferire quanto nella sua Storia Universale avvisava il Cantù, circa la decadenza che man mano si era resa manifesta dopo la guerra dei trent’anni nella potenza della casa imperiale. Aveva potuto Ferdinando II tener in piede sino a 150.000 uomini: sotto di lui cominciarono a sminuire i mezzi per fare la guerra, e perciò gli eserciti: continuarono a decrescere sotto Ferdinando III le forze dell’impero, ed ora Leopoldo, nel maggior pericolo che avesse mai corso il suo stato, non aveva da opporre ai turchi più che 30.000 uomini, in gran parte non sudditi suoi. E la cagione di questo fatto sarà, io stimo, da ricercare nella guerra de’ trent’anni, e nelle persecuzioni religiose che più provincie [p. 404 modifica]desolarono e spopolarono: né poi le successive guerre permisero che in qualche modo a que’ disastri si ponesse riparo. Il primo di agosto (1664 ), che era il giorno in cui ricorreva l’anniversario dell’incoronazione dell’imperator Leopoldo, un buon polso di turchi, ributtato già nel giorno precedente dagli imperiali, riescì a passare il Raab, facendo dimostrazione di voler assalire l’ala destra dell’esercito cristiano. Pretende il Salaberry, storico degli ottomani, che non potessero a que’ primi passati congiungersi gli altri, salvo pochi spahis e giannizzeri, a cagione dell’essersi aumentate le acque del fiume, che ancora traboccarono sul terreno circostante; e Basnage, nella sua Storia delle provincie unite, la stessa cosa asserendo, dice grave errore essere stato quello del bascià di non far passare il fiume se non alla metà della sua gente, la quale poi, per le acque cresciute durante la notte, non fu potuta da lui raggiungere coll’altra metà, siccome si era proposto di fare. Ma io stimo che ciò non si possa menar buono a quegli scrittori, perché lo Spork, mandato contro di coloro dal Montecuccoli, non solo cacciò essi di là dal fiume, ma questo passò egli co’ suoi, rivalicandolo poscia colla preda fatta di salmerie e di cavalli. Stiamo poi per dire, che altri turchi ancora lo varcarono, non avendolo fatto prima perché non era quella se non una diversione, ordinata per trarre in inganno i cristiani, e per la quale i capitani turchi speravano di richiamare da quella parte il maggior nerbo di loro; imperocché mentre que’ primi fuggivano, altri, molto più numerosi, sotto gli occhi stessi del visir passavano il fiume in luogo per essi più opportuno. Sapevano infatti trovarsi colà le soldatesche più deboli ed inesperte, quelle cioè che il Montecuccoli diceva collettizie, e che furono somministrate dagli elettori dell’impero: più agevole pertanto reputavano che ad essi sarebbe riescito il farsi strada di mezzo a loro. E ancora si erano avveduti della scarsa vigilanza di quella gente: sappiamo infatti dal Montecuccoli, che rimproverò egli un Valdek preposto al comando di quelle tra esse che guardar dovevano [p. 405 modifica]il fiume, perché neppure avesse fortificato il suo campo; la qual mancanza delle fortificazioni campali da lui ordinate fu la sola cosa, come notò negli Aforismi, in cui non vennero eseguite le disposizioni da lui date per quella battaglia. Ebbero pertanto buon giuoco i turchi per passare il fiume, con subitaneo sbigottimento di que’ soldati novellini, bersagliati ancora dalle artiglierie collocate sulla sponda opposta, più elevata di quella ov’essi erano: fuggirono dunque, lasciando che i turchi s’impadronissero di Moggendorf, ch’era il centro delle operazioni dei cristiani. Accorsero i compagni loro, ma non fecero miglior prova, e dice il Priorato che i soldati di uno di quei corpi, al quale era stato ucciso il colonnello, gettate le armi innanzi ai turchi, chiedevan loro la vita in dono; ma furono invece passati per le armi. Né meglio si comportarono i tre reggimenti cesarei dal Montecuccoli mandati al soccorso, poiché ebbe contezza della condizione delle cose. Nassau e Schmid, erano capi di due di que’ reggimenti, e l’uno fu ucciso, l’altro rimase ferito, mentre il reggimento di lui andava disperso. E si ha dalle storie che molti di codesti soldati fuggirono sino in Stiria, annunziandovi la totale disfatta de’ cristiani: la qual notizia di là passò a Vienna. Accadde allora, narra il Montecuccoli “che taluno in atto d’uom disperato colla spada nuda in pugno verso di me rivolto esclamò: operare indegnamente i soldati: tutto essere irremediabilmente perduto. Al che io, ch’egli si confortasse risposi: non avere io ancora tratto fuori la spada; non giungere impremeditato il caso; che ogni cosa andria bene”. Serenità d’animo codesta e fiducia nel proprio valore da reputarsi ammirabile in così terribili momenti quali eran quelli del suo esercito a fronte dei turchi. Presi allora con sé tre de’ suoi reggimenti di fanti e due di cavalli, facendosi poi raggiungere dal marchese di Baden con quegli sbandati che poté raccogliere, andò egli stesso ad assalire il fianco dell’esercito nemico. E tosto con alquanti squadroni di cavalli, e con 400 uomini del reggimento Tasso, avendo presso il principe di Sulzbach, dié di cozzo in quelle schiere turche che stavano combattendo coll’animoso principe di Lorena, slanciatosi in mezzo a loro per ven[p. 406 modifica]dicare l’onta de’ suoi soldati che fuggivano . E perché il Montecuccoli ruppe e fugò que’ turchi, a lui si deve se quel principe venne allora liberato da un pericolo ben grave. Un altro nucleo di gente veniva ad unirsi al Montecuccoli, se non che reggimenti interi di turchi mandava a’ suoi il visir; ma con tal impeto con due reggimenti di fanti ed uno di cavalli si slanciò l’eroico generale italiano contro di loro, che arrestati da prima e poi percossi, furono in breve astretti alla fuga. Sino a tredici volte i corazzieri di Sneidau ributtarono gli squadroni nemici, e i fanti che dar non si volevano per vinti, giannizzeri ed albanesi i più. Questo fortunato ed audace assalto del Montecuccoli porse agio di ricomporsi ai reggimenti che avevano piegato dinanzi ai turchi, e quelli di Hohenlohe che avevano tenuto il fermo insino allora, poterono riprendere Moggendorf, abbruciandolo coi giannizzeri che l’occupavano, e che ricusarono di arrendersi: “ostinazione, dice il Montecuccoli, degna di riflessione ed ammirazione”. Continuava intanto il visir a spedir truppe fresche in aiuto ai suoi; ond’è che dall’altra parte il Montecuccoli mandava al campo dei francesi, che ancora non avevano combattuto, richiedendo che, a norma de’ patti convenuti, venissero a prender parte alla battaglia, indicando ad essi un luogo che per la fuga di certi soldati era rimasto dischiuso al nemico. Rispose da prima il Coligny lor generale, che a lui fu commessa la difesa dell’ala sinistra dell’esercito, e non voleva abbandonare il posto affidatogli: quasi non fosse lo stesso Montecuccoli che là lo aveva mandato, e che ora de’ suoi soldati in altra parte aveva mestieri. Ito a lui il Montecuccoli, con calde parole gli espose la necessità di quella mossa che gli chiedeva. Si fece allora il generale La Feuillade a rappresentare al Coligny la vergogna che ricadrebbe sulla Francia se rimanessero i soldati suoi spettatori inoperosi di una battaglia, dalla quale dipendevano [p. 407 modifica]forse i destini della cristianità, e che del rimanente, se andasse perduta, si trarrebbe dietro la rovina di quel piccolo nucleo di truppe francesi. Da codeste ragioni persuaso il Coligny, consentiva che il La Feuillade medesimo con mille de’ suoi fanti e seicento cavalli comandati da un Beauvèze e i volontarii, andasse dove fosse per ordinargli il Montecuccoli. Li schierò quest’ultimo a fianco di tre reggimenti imperiali. Fu questo soccorso non meno efficace pel valore di que’ soldati, che opportuno, per esser giunto al general supremo allora appunto che tentavano i turchi accerchiare l’esercito cristiano passandogli al fianco, dove accortamente aveva collocato il Montecuccoli stesso le migliori fra le truppe imperiali, e assalendolo al tempo medesimo di fronte; il che se loro fosse riescito a bene, afferma negli Aforismi il Montecuccoli che sarebbero senza fallo rimasti vincitori. Ad essi mandò a vuoto nondimeno l’ardita impresa, lanciando da un lato contro di loro le ultime sue riserve, guidate dal principe di Lorena, e dall’altro lo Spork, con gran rovina de’ turchi; mentre opportune mosse eseguivano così i francesi, come i collegati, nella parte inferiore del fiume. Ma se veniva rimosso allora il sovrastante pericolo, difficile pur sempre rimaneva la condizione dell’esercito cristiano pel continuo accrescersi del numero degli avversarii; onde un panico si diffuse pel campo, come se inutil fosse il combattere contro così gran turba di gente. I francesi e le truppe dell’impero già caricavano lor salmerie con animo di ritirarsi, mentre molti senz’altro attendere già s’erano posti in salvo. Per questo procedere di una parte de’ suoi gravemente impensierito il general supremo, né trovando altro riparo tranne l’impedire che prendesse radice la mala disposizione degli animi; chiamatisi intorno i generali, efficacemente concionando li fe’ persuasi non esservi allora altra via di salute se non l’assalire con intero l’esercito il nemico, e fare l’estremo sforzo per cacciarlo nel fiume. Se poi a tanto non si riuscisse, non si doveva indietreggiare, ma fermarsi sul luogo col proposito di vincere o di morire. Voltosi poi al colonnello Miglio che gli era presso, dicevagli: “oggi appunto sono sei anni che Cesare ha ricevuta la corona dell’impero, ed oggi [p. 408 modifica]con una gloriosa vittoria gliela confermeremo in capo”. Afferma il Montecuccoli, essere state le sue parole accolte meglio che non sperava; qui non è però da intendere che fossero venuti tutti nell’avviso di lui, ma solo che aveva egli trovato chi seconderebbe i virili propositi suoi, e coll’esempio una buona parte degli altri si trarrebbe dietro. Leggiamo infatti nelle storie del Priorato, che da prima obbiettarono i generali non doversi esporre a così gran rovina l’unico esercito che avesse la cristianità in quelle parti: in troppi essere i turchi, perché fosse ragionevole sperare di vincerli con gente stanca, e in parte già stata battuta. Replicava Montecuccoli, che andrebbe egli co’ migliori: non permetterebbe ad alcuno di ritirarsi, e chi se ne andasse, sarebbe tenuto a rispondere del suo atto. Queste risolute parole scossero le fibre ne’ cuori titubanti, ed indussero i tedeschi a seguitar l’esempio de’ capitani francesi; i quali vinti ed accesi dalle efficaci ragioni prodotte dal Montecuccoli, protestavano che, dovunque li conducesse, sarebbero per tenergli dietro. Dispose tosto il generale l’esercito in forma di mezza luna, colle fanterie tutte da un lato, e la cavalleria dall’altro, e un micidial fuoco aprì contro il nemico, slanciandosi poscia tutti all’arma bianca con feroci grida sopra di esso, che veniva bersagliato al tempo medesimo da quattro cannoni, opportunamente da Raimondo collocati su di un colle. Invano furore a furore opponevano i mussulmani, ché vennero essi finalmente astretti a cedere palmo a palmo il terreno, che con ostinata tenacità avevano difeso, molti di loro lasciandovi la vita. Sospinti dai vincitori fin presso al fiume, non altro rimase loro se non gettarvisi dentro, per cercare di raggiungere a nuoto l’opposta sponda; se non che, urtandosi gli uni gli altri nella foga di sfuggire ai colpi de’ cristiani, in quelle acque un buon numero di loro ed alquanti bascià trovarono la morte. Mirabil fatto questo disperato sforzo de’ cristiani, al quale nessun generale che non avesse avuto il vigor d’animo e l’ardimento del grande italiano, avrebbe mai potuto indurli, e al quale dovette la cristianità il suo scampo. Con fortuna non minore da un altro lato combatteva lo [p. 409 modifica]Spork contro la cavalleria nemica, della quale fece macello ; ed egual sorte incontrarono per opera dei dragoni cesarei altri turchi che più sopra tentavano un guado del fiume per venire a mescolarsi nella battaglia; impresa quest’ultima diretta senz’altro dal duca di Lorena, al quale attribuisce appunto il Priorato il buon esito della medesima . Compiuta per ogni parte riescì pertanto la vittoria. Fecero prova in quel giorno i francesi di molto valore; il La Feuillade sovra tutti, del quale racconta Montecuccoli che, dopo aver condotta la cavalleria all’attacco, sembrandogli che la sua fanteria non incalzasse a bastanza il nemico, balzò da cavallo, e ponendosi alla sua testa, seco la trasse a dar dentro nelle schiere nemiche: e corse voce che sino a venti turchi da lui stesso venissero uccisi. Non è pertanto a meravigliarsi che dal Montecuccoli, testimonio di queste imprese, venisse scritto, che molto avevano i francesi contribuito a quella vittoria. Alquanti cannoni e cinquanta bandiere mussulmane, conquistate da loro, mandarono essi a Parigi. Confessarono poi per mezzo del La Feuillade (del quale è inserito negli Aforismi un brano della lettera da lui diretta al Montecuccoli), che della gloria procacciatasi andassero debitori alla consumata prudenza di Raimondo, non altro avendo essi fatto se non eseguire gli ordini che dalla stessa bocca di così gran capitano avevano ricevuti; documento codesto che gli autori del Dictionnaire des siéges et batailles avranno per avventura ignorato, se osarono scrivere, esser stata la battaglia di [p. 410 modifica]San Gottardo una vittoria francese, in luogo di dire che alla sconfitta dei turchi avevano contribuito anche i francesi. Più meravigliosa fu poi l’audacia di uno scrittore tedesco, il Pfeffel, il quale nel suo: Abrégé chronologique de l’Histoire et du Droit public d’Allemagne, citato dal Napione in una sua dissertazione sulle edizioni dell’opere di Montecuccoli, non solo asserì che furono i confederati (quelle genti cioè de’ principi tedeschi che poco bene vedemmo essersi condotte) che vinsero a San Gottardo, ma neppur fece menzione del Montecuccoli. Noi però di tali ubbie non tenendo conto, seguiteremo dicendo, che valorosamente le truppe cesaree altresì si comportarono. Degli ungheri dice il Montecuccoli nel libro L’Ungheria nel 1673: “Si venne a giornata (a San Gottardo), nessun unghero vi comparve: anzi cospirarono tra loro, condottiero il Nadasdi, d’assalir gli alemanni alle spalle e trucidarli”. Queste cose il Montecuccoli scriveva alcun tempo dopo, e poté perciò far parola del tradimento degli ungheri, del quale altri fatti posteriori avran porto le prove, ma che forse nel 1664 era o ignoto, o dubbio. Vediamo infatti narrato da lui medesimo che si valse egli del Nadasdi e de’ suoi dopo la battaglia per tener dietro al nemico (essendo le truppe, che sì a lungo avevano combattuto, affrante dalla fatica), e per osservarne le mosse; e ad essi diede egli per rinforzo i croati, e i dragoni con sei piccoli pezzi d’artiglieria. Avversissimo, del rimanente, anche allora il Nadasdi agli alemanni, fu poi tra i quattro che l’anno 1671 vennero, come diremo, per fellonia dannati al taglio della testa. Convien pensare che a Vienna sarà corsa voce che anche gli ungheri avessero preso parte alla battaglia, perché riferendo Federici, il giorno cinque di quel mese di agosto, le prime notizie circa la medesima, scriveva che il Montecuccoli, avvertito dai fuggitivi del passaggio del Raab operato dai turchi, “balzò a spron battuto con tutta la cavalleria consistente con gli ungheri a (sic) diciotto mila cavalli ec.”. Le quali notizie, del rimanente, erano in parte false e in parte esagerate, avendo il Montecuccoli scritto, secondo dicemmo, che da due soli reggimenti di cavalli, che non erano ungheresi, e da tre di fanti s’era fatto seguitare. [p. 411 modifica]

Variano gli storici nel novero dei turchi rimasti morti o sul campo o nelle acque del fiume, durante quella zuffa sanguinosa, fiera, dubbiosa, per dirlo colle parole del generale che vi riescì vincitore; la quale sette ore durò, dalle 9 del mattino alle 4 del pomeriggio di quel giorno che fu il 1° di agosto del 1664. Gli ottomani, scrive lo storico loro Salaberry, perdettero 21 mila uomini, e il fiore de’ giannizzeri inutilmente sacrificato: il Montecuccoli invece pose il numero de’ morti loro a 16.000, soggiungendo: “la migliore e la più scelta gente che avesse a piedi e a cavallo vi rimasero estinti”. Al qual passo se avesse posto mente il Muratori, o se l’avesse conosciuto, non avrebbe mostrato qualche dubbiezza, scrivendo negli Annali d’Italia, ove dice di que’ 16.000 uccisi: “seppur dicono il vero le relazioni d’allora”. Furono tra i morti anche il figlio del Kan di Crimea, e il bascià di Buda, secondo narra il Coxe. Qui però è da notare che probabilmente il novero dei morti comprenderà quelli ancora rimasti uccisi dopo la battaglia, nella quale scrisse nel primo suo rapporto il Montecuccoli ch’erano morti cinque mila turchi, fatti crescere da ulteriori notizie, coi caduti successivamente, a sedici mila. Mancarono ai cristiani, secondo il primo rapporto ora citato, più di 1000 uomini, numero che dagli storici è portato a 1500, ed anche a 1800: e forse lo stesso Montecuccoli da posteriori ragguagli ricevuti sarà stato indotto a rettificare i computi fatti. Tra le perdite de’ cristiani riescì grave all’imperatore quella del general Fugger, e vennero lamentate quelle del conte di Nassau, e di alcuni altri prestanti capitani: fu parimente tra i morti un conte Trautmannsdorf, ch’era capitano della guardia a cavallo del general Montecuccoli . Settecento, scrive il Priorato, furono i cristiani feriti nella battaglia. Appartenevano i più tra i caduti a que’ corpi alemanni, che dicemmo aver fatto mala prova di fronte al nemico. A costoro [p. 412 modifica]copertamente alludeva, secondo credo, nell’opera già citata il Montecuccoli, ove dice, che dei turchi non rimase morta sul campo “milizia imbelle, ausiliaria e fugace, ma la propria più agguerrita e feroce, que’ Giannizzeri, quegli Albanesi, quegli Spahi e que’ principali capi di Costantinopoli, che sono scudo e spada dell’impero ottomano”. Fecero più onorevole la vittoria le molte bandiere che insieme con gli stendardi furono spedite a Vienna, e, come dicemmo, anche a Parigi, e i cannoni che si poterono trasportare, essendoché la maggior parte di quelli conquistati, non altro potendosi fare, vennero o inchiodati o sommersi nel fiume . Assai pingue fu il bottino che si ottenne in armi, in denaro, in gioie, in preziose vesti, essendo soliti i turchi porsi addosso nelle battaglie quanto di meglio possedessero: e ne ebbero la parte loro i soldati, i quali poi fecero mercato a vil prezzo di ciò che loro si diede. Vergognoso il visir per cotanta disfatta, come scrive Priorato, ne piangeva di rabbia; lamentava fra i tanti perduti un Ismail bascià, che gli era caro; e parevagli che l’onta sua gli venisse accresciuta dall’esserne stati testimonii il residente cesareo a Costantinopoli, e il compagno suo, che gli fu poi successore, e che era G. B. Casanova milanese. Cagione prima di questa vittoria, scrive il Freschot, fu l’indefessa assistenza del generalissimo Montecuccoli, che stancò sei cavalli (cinque de’ quali gli furono uccisi sotto), per trovarsi di persona ove maggiore era il pericolo. E a questo luogo esalta lo storico medesimo “la non mai lodata abbastanza soavità di maniere” con cui tenne concordi così svariati corpi di truppe; e lo dice padre de’ soldati, e modello de’ perfetti comandati di eserciti. Qui non staremo a riferire le lodi tributate per questa impresa dal Foscolo al nostro generale, le quali si ponno leggere nella dissertazione che intorno alla medesima ei pose a stampa; basterà il notare col Cantù che questa fu la maggior battaglia in campo aperto data da 300 anni agli otto[p. 413 modifica]mani; e che infinite congratulazioni, di molti generali francesi ancora, giunsero al Montecuccoli . Il più grande elogio per altro che gli fu fatto, quello mi sembra che a lui derivò dall’attestazione del visir; il quale, a scusare la patita sconfitta, asserì essere andato a combattere un uomo, e non un demonio, quale gli era sembrato il generale cristiano, che i suoi si trovavano sempre a fronte, qualunque fosse il tentativo ch’ei facessero. E questo concorda con un’osservazione che nella prima parte di questa storia dicemmo aver fatta gli svedesi. Da alcune citazioni negli Aforismi del Montecuccoli desume il Grassi, che qualcuno vi fu tra gli emuli suoi che tentò sminuirgli la gloria acquistata; e invero sarebbe da fare le meraviglie se ciò non fosse avvenuto. Pochi forse allora avran dato retta a cotal gente, e meno che altri l’imperatore Leopoldo; il quale, poiché per mezzo del colonnello Maschuré, speditogli dal Montecuccoli, ebbe ricevuto quella succinta narrazione della battaglia che venne tra i dispacci del Federici stampata nell’Archivio storico italiano, e che merita di venir riprodotta nell’appendice , celebrò con feste religiose e militari una tanta vittoria, e all’autore di essa senza frapporre indugio concedette la più alta dignità nella milizia, quella cioè di tenente generale. Solevasi questa conferire ad una sola persona nell’impero, e appena, dopo molte battaglie, fu data a Piccolomini, come scriveva il Federici. La carica di generalissimo sovrastava invero ad ogni altra, ma non si dava di consueto che a principi. E lo stesso imperatore partecipava al suo generale l’onorificenza compartitagli con due sue lettere, che Montecuccoli notò con compiacenza dettate in lingua italiana, molte grazie riferendogli per quanto in servigio suo aveva operato: i quali documenti Montecuccoli affermò essere un tesoro che trasmetterebbe a’ suoi posteri. Inseriva il Foscolo nella sua splendida edizione delle opere del Montecuccoli una [p. 414 modifica]di queste lettere nella traduzione latina che gli venne veduta, reputandone smarrito l’originale italiano, che invece era già stato messo in luce dal Priorato in appendice alla sua vita dell’imperatore Leopoldo, insieme con altra che contiene le stesse cose della precedente, se non che in più particolari si estende. Con successiva lettera dava contezza l’imperatore Leopoldo a tutto lo stato maggiore del suo esercito, che il conte Raimondo Montecuccoli, suo cameriere (ossia ciambellano), consigliere di stato e di guerra, maresciallo di campo e colonnello, supremo governatore di Giavarino, suo caro e fedele, pel suo gran valore nei maneggi di guerra, e per la singolare fedeltà da lui sperimentata per tanti anni, era stato, per la confidenza che aveva nella sua persona, da lui dichiarato suo tenente generale dei regni e provincie ereditarie, e di tutti gli eserciti che si trovassero in qualsivoglia parte del S. R. I. Le quali parole, se fanno dimostrazione della gratitudine del monarca verso lo strenuo suo capitano, attestano altresì che di tal qualità fu il grado conferitogli, da elevarlo al disopra degli altri generali . Fu lo Spork nominato generale di cavalleria; Giberto Pio, da colonnello di fanti e capitano della guardia imperiale dei trabanti, passò ad essere sergente generale di battaglia. Quelli tra gli officiali inferiori che si erano distinti, e non poterono essere avanzati di grado, ebbero collane d’oro; un mese di paga fu concesso a tutti i soldati: e codesta insolita larghezza di premii provava l’importanza del servigio reso da quell’esercito alla cristianità. Volendo far palese Raimondo l’animo suo riverente e grato a Dio, dal quale ripeteva la vittoria conseguita, mandò al santuario di Loreto un quadretto, di quelli che dir si sogliono ex voto, nel quale la B. V. è rappresentata con sotto i piedi [p. 415 modifica]la mezza luna: stanno intorno la cornice trofei militari. E non s’andrà forse lungi dal vero, congetturando che abbia egli a quel tempo fatto costruire (se non lo ereditò) l’altare dedicato a sant’Antonio nella chiesa (ora soppressa) di Santa Margherita in Modena, già officiata dai francescani, il quale troviamo che fu in proprietà di Raimondo. In un libretto di preghiere stampato a Vienna nel 1672, una ve n’ha del Montecuccoli, che si riferisce alla battaglia di San Gottardo . A por riparo alle perdite fatte, e a dare elle truppe affaticate un rinforzo resosi necessario, ordinò l’imperatore che il duca di Würtemberg con 4000 fanti, con artiglierie e provvigioni andasse a raggiungere l’esercito di Montecuccoli. E a quest’epoca riferisce il Priorato l’istituzione di un direttorio di guerra, composto di delegati de’ principi alemanni, che aveva a sorvegliare l’uso che venisse fatto delle truppe loro, le quali non si dovevano adoperare se non contro il turco. Ma perché di una consimile istituzione, biasimata da molti, come egli stesso asserì, aveva tenuto parola altra volta, come per noi venne riferito; io penso che alluda quello storico ad un solo fatto in entrambi i casi, ovvero che quello ch’ei chiama direttorio, nuove attribuzioni ricevesse allora, per le cose attinenti alle truppe de’ varii principi alemanni. La gioia per una così insigne vittoria fece pensare, dice il Coxe nella sua storia, che si sarebbero per sempre cacciati i turchi dall’Ungheria: ma per conseguir questo scopo, sarebbe stato necessario che le diverse nazioni alle quali appartenenvano le genti dell’esercito cristiano, si fossero trovate d’accordo nel volerlo, il che non avvenne. E qui l’autore più sopra citato si fa ad accusare i francesi, che se l’intendessero coi malcontenti, cogli ungheri singolarmente, e persino che segrete intelligenze mantenessero coi turchi. Ciò che intorno a questo argomento havvi [p. 416 modifica]di sicuro, è la diffidenza grande con cui i francesi, nemici perpetui della casa d’Austria, furono dalle autorità imperiali accolti e sorvegliati, come più addietro dicemmo, notando al tempo medesimo che que’ sospetti non erano divisi dal Montecuccoli. Checché ne sia, sapevasi venuti i francesi per combattere un nemico comune, e non per tenerezza alcuna che avessero per la casa imperiale: ond’è che conseguito lo scopo, e cessato il pericolo che potesse l’Europa centrale venir invasa dai mussulmani, ben si poteva temere di ritrovare in essi un alleato poco sicuro. Più fondati ad ogni modo erano i sospetti originati dal procedere degli ungheri, l’avversione de’ quali verso gli alemanni era cosa già antica. Essi che sovente avevano posto ostacolo alle operazioni di guerra del Montecuccoli, appena seguita la battaglia di San Gottardo protestarono che l’Ungheria doveva essere sgombrata dalle truppe straniere, quasi che non avessero i turchi stabil sede in molte città loro. I tedeschi alla lor volta non altro desideravano, stanchi com’erano di tollerare tanti disagi, se non di levarsi da un paese ad essi ostile, e sul quale erano disseminate le ossa di tanti loro commilitoni, il minor numero de’ quali era stato colto da ferro ottomano. Con un esercito da cotali umori dominato, sarebbe ad ogni modo tornato difficile al Montecuccoli il trar profitto dalla vittoria ottenuta, come si era proposto di fare assalendo di nuovo le scomposte schiere de’ turchi, che sotto la protezione di 30.000 uomini a cavallo che non avevano combattuto, cercavano riordinarsi nelle colline oltre il Raab. Ma il tentar ciò gli fu reso impossibile anche dalle dirotte pioggie cadute dopo la battaglia, le quali ingrossarono il fiume, e così impedirono che questo potesse guadarsi; né altra lieve difficoltà veniva dalla stanchezza delle truppe, la quale il Montecuccoli notò essere stata tanta, che non s’aveva sempre pronto il numero sufficiente di uomini per le consuete guardie, laddove ai turchi giungevano quelle truppe fresche alle quali poc’anzi fu da noi accennato. Più che altro facevagli incaglio la mancanza de’ viveri, tanto da lui lamentata negli Aforismi (in gran parte dovuta alle malversazioni de’ commissarii), la quale a tal segno [p. 417 modifica]era giunta, che, se crediamo al Federici, 2000 uomini del Montecuccoli eran morti di fame! E facevano difetto le munizioni, finite, dicono gli Aforismi, colle ultime scariche a San Gottardo. Pensi ognuno di che animo dovesse star quel generale, vedendosi strappar di mano il conseguimento di ulteriori vantaggi, trovandosi anzi costretto ad esser testimonio dei patimenti dei proprii soldati, egli sensitivo tanto alle sofferenze loro! Del suo sdegno ci lasciò memoria negli Aforismi, dove con amare parole lamenta l’infame procedere de’ commissarii, ed altresì la debolezza de’ ministri, che non li sottoponevano a processo. Il riposo che si dovette concedere ai soldati, fu un indugio di pochi giorni, durante i quali alquanti cannoni de’ turchi si presero e s’inchiodarono; ma ebbe agio in quel tempo il nemico di por riparo, come meglio venivagli fatto, ai danni patiti, riordinandosi per poter retrocedere verso Kerment, alla volta del qual luogo s’incamminò il 5 o il 6 di agosto. Si pose allora il Montecuccoli sulle orme di lui, marciando i due eserciti nemici sulle opposte sponde del Raab, per terreni che dalla parte degli imperiali erano inondati. Giunto Montecuccoli presso Kerment il 9 di agosto, un ultimo tentativo fece egli nel consiglio de’ generali, proponendo un vigoroso assalto alla retroguardia de’ turchi; ma gli fu opposto che con gente così affranta ed affamata, e con quella rovina di strade, ciò non era possibile: doversi invece far sosta presso Oedemburg, ed ingrossar l’esercito coi presidii delle vicine città. Al quale avviso gli fu forza accostarsi, anche perché dalla corte, che aveva trattenuto un messo da lui spedito, non gli perveniva risposta ad un altro progetto del quale chiedeva l’approvazione. Fu ad Oedemburg che venne raggiunto da que’ soldati e da quelle salmerie, che dicemmo avergli spedito l’imperatore. All’aprirsi del settembre giungeva notizia a Montecuccoli che i turchi, ricevuto un altro rinforzo di dieci o dodicimila uomini, movevano alla volta di Strigonia. Raggranellata perciò quanta più gente poté, chiamandone anche dall’isola di Schutt, passò il Danubio a Presburg, ed andò al Vago, ove schierò il suo esercito di fronte a quello del nemico, che non accettò bat[p. 418 modifica]taglia, e proseguì per la sua via. Falsa era pertanto la voce che corse per Vienna, e venne riferita alla corte di Modena dallo Stom, di uno scontro allora avvenuto tra i due eserciti. Si era profferto in quel tempo il Souches, come il 24 di agosto scriveva il Federici, di espugnare Neuheusel, purché Montecuccoli impedisse ai turchi di soccorrer quella piazza. Quel progetto era molto caldeggiato dal ministro Porcia nella speranza che riescendo a bene, agevolerebbe la pace, diuturno desiderio di lui vecchio e infermiccio, il quale paventava ancora che il soverchio indebolirsi delle forze dell’imperatore avrebbe potuto tornare di danno alla Spagna, verso cui gli manteneva ben propenso l’animo una pensione di 40.000 scudi annui che da essa ritraeva un suo figlio, come lasciò scritto Domenico Zane, nunzio veneto a Madrid . E la corte si sarebbe acconciata a consentire quell’impresa, ma la voleva diretta dal Montecuccoli, anche perché con minor difficoltà avrebbero consentito gli ungheri a secondarla. Quel generale però, insofferente, come dicemmo, di soggezione ad altri, e che colla sua proposta mirava per avventura ad umiliare il Montecuccoli, che avrebbe dovuto fare una parte secondaria, mentre a lui sarebbe toccata la gloria d’un acquisto molto ambito dall’imperatore; intesa la volontà di lui, disdisse quella proposta. Del Souches si sa che fece appiccar fuoco alla terra di Baccan (o forse Barkam), dal visir fatta poscia risarcire munendola di più solide mura, e che, come scriveva Federici, quando il Montecuccoli da Freistadt spiava gli andamenti dei turchi, il medesimo faceva egli da Gutta, passando poscia nel campo trincerato di Komorn, della qual fortezza aveva il governo. Una lettera che lo Stom scriveva il 30 di settembre da Vienna c’informa che Raimondo congiunse alle proprie le truppe del Souches, quelle per avventura che rimaste gli erano dopo la prima sottrazione che di esse fu fatta, siccome avvisammo già: e s’intenderà ancora che un [p. 419 modifica]sufficiente presidio sarà rimasto in Komorn con quel generale, che, dice lo Stom, “ricusava di operare e di servire sotto il Montecuccoli”, continuando così sino alla fine quell’ambizioso vecchio ad osteggiare il duce supremo dell’esercito. Seguitavano i turchi a ritrarsi sempre più addietro; e trovo notato un altro fatto cavalleresco, che altri tempi, altri costumi ricordava. Narrasi adunque, che quando il visir passò vicin di Vesprim colle sue truppe, fece un accordo col comandante cristiano di quella piazza di non offendersi reciprocamente: la qual cosa non solo venne eseguita, ma quel comandante vendette ai turchi i viveri che ad essi occorrevano. Ed è singolare che allora appunto avesse dovuto Montecuccoli sostare dall’inseguimento, per attendere a procacciarsi le vettovaglie, delle quali pativa difetto. Stava egli per rimettersi in via, allorché gli pervenne un messaggio dell’internunzio imperiale a Costantinopoli, che annunziava prossimi al compimento i trattati per la pace. Questa era desiderata da quello stesso visir, che ebbe già a ricusarla nella speranza d’acquistar gloria, allorquando, al detto di Priorato, gli fu offerta dopo la perdita del forte di Zrinivar. E questo mutamento di propositi del superbo visir, che fu chiamato dal Montecuccoli negli Aforismi “umiliazione insolita al fasto barbaro”, proveniva dalla mala condizione delle sue truppe, nelle quali la battaglia di San Gottardo avea smorzato la nativa baldanza, nonché dal timore che appunto quella vittoria invogliasse gli stati della cristianità a collegarsi (come prima, benché inutilmente, aveva proposto il papa), affin di scacciare per sempre dall’Europa i mussulmani. Non tardò pertanto a giungere sicura notizia al general cesareo di una tregua di 20 anni convenuta a Costantinopoli da Walter Leslie, in nome dell’imperatore: e gli venivano per cotal cagione con offici di complimento rimandati dal visir i prigionieri, rimasti insino allora in poter suo. Sciolse perciò Raimondo la compagine del suo esercito, ordinando che ciascun corpo da sé retrocedesse sino al Danubio, ove alle necessità dei soldati, che molte e gravi erano, si sarebbe meglio provveduto. I patti di questa tregua, che si disse la pace di Vasvar dal [p. 420 modifica]luogo dove venne sottoscritta, furono svantaggiosi all’impero, essendo che ai turchi si lasciassero le città che possedevano in Ungheria, alcune delle quali di molta importanza, e con esse Varadino e Neuheusel acquisti nuovi, e le città di Transilvania da essi tolte a Rakocsi allorché colà era principe. Libera questa provincia sotto l’Abaffi, che mai non era stato dall’imperatore riconosciuto per principe, e poscia sotto i successori di lui che il popolo eleggerebbe: sgombrerebbero di là entrambi gli eserciti, nonché dall’Ungheria, per darle modo, dopo i danni patiti, di riacquistar vigore.

Alla dieta germanica di Ratisbona seppe male che questa pace fosse stata conclusa senza consultarla, come, pei sussidi dati, ne aveva il diritto: e per la ragione medesima, e per più altre, disapprovaronla gli ungheri, quantunque da un lato almeno venisse il territorio loro ampliato, e quantunque alla lor condotta durante la guerra si dovesse attribuire se non era questa in miglior modo terminata. Giunsero essi sino ad arrestare il corriere che portava a Vienna il trattato, levandoglielo di mano. Ma perché per l’esecuzione di quel trattato occorreva l’assenso loro, l’imperatore, anziché mostrare di risentirsi dell’offesa, per mezzo del Lobkowitz, uno dei suoi ministri, chiese venia per non averlo richiesto. E ciò non bastando, egli dovette promettere di edificare, con suo proprio dispendio le fortezze occorrenti a difesa del territorio, e delle quali, come delle truppe unghere, sarebbe ad essi lasciato il comando; né stanzierebbe nel regno ungarico soldatesca imperiale. Ma anche dopo accettata la pace, il torbido animo di coloro ad ogni tratto continuava a provocare i turchi con ruberie e con invasioni: né mai cessarono dal molestare le truppe imperiali, che erano rimaste nelle città e nelle fortezze di recente restituite dai turchi. La repressione di cotali violenze, alla quale venne finalmente astretto l’imperatore, generò poscia una palese rivolta degli ungheri, con offerta di vassallaggio alla Porta, se consentiva a sostenere l’impresa loro, al che non aderì: né mancarono d’insidiare la vita dell’imperatore, con quegli altri conati di ribellione de’ quali diremo a suo luogo. A prova del livore che bolliva nell’animo [p. 421 modifica]de’ magnati ungheresi, narrò il Montecuccoli che il Leslie, che or nominammo, ripassando per Presburgo dopo conclusa la tregua, e avendo voluto visitare quell’arcivescovo, questi ricusò di riceverlo. Ma ritornando alla tregua di 20 anni coi turchi, fu l’imperatore indotto ad accettarla per timore di veder sopra di sé ricadere l’intero peso della guerra, potendo venire abbandonato, non che dai francesi, dai principi tedeschi ancora, impacciati com’erano ne’ dominii loro da discordie di varia natura. E ancora poteva temersi che gli svedesi, a vendicare recenti danni patiti, non cogliessero l’occasione dell’affievolimento delle forze dell’impero, per assalirlo. E pensar doveva l’imperatore a porre con un matrimonio le fondamenta alla conservazione della famiglia sua, e gli conveniva aver l’occhio a ciò che fosse per accadere in Spagna alla morte, che si reputava prossima, del re Filippo IV. Aggiungasi la mancanza del denaro, e poi la misera condizione in cui erano ridotte le truppe, che avevano perduta tra le virtù militari la disciplina singolarmente, come è detto negli Aforismi. Le cagioni di debolezza alle quali accennavamo, non essendo per altro conosciute se non in minima parte dai turchi, che nello stato in cui si trovavano, desiderando la pace, molto avrebbero conceduto di ciò che loro si chiedesse; a ragione disse Voltaire negli Annali dell’impero, che quel trattato fu vergognoso per l’imperatore. A ben altro, scriveva il Mailàth, dava diritto la vittoria di San Gottardo! A dettar la legge, continua il Salaberry, non a riceverla. Fu veduto invece accolto in trionfo il vinto visir ad Adrianopoli, perché due altre città avea conquistato all’impero ottomano! Due articoli segreti del trattato di tregua, de’ quali abbiamo notizia dalla relazione di Giovanni Sagredo al senato veneto, davano facoltà all’imperatore di reprimere colla forza le sedizioni degli ungheri, senza che i turchi potessero immischiarsene; e dicemmo già non aver poi voluto i turchi aiutare nella progettata ribellion loro gli ungheresi. A titolo di compenso, concedevasi agli ottomani di passare in Italia a danno del Friuli; concessione per ogni riguardo iniqua. Questa pace, del [p. 422 modifica]rimanente, porse agio ai turchi di volgere tutte le forze loro contro l’isola di Candia, la quale dallo stesso gran visir Koprili fu due anni appresso tolta ai veneti.

Checché ne sia degli errori della diplomazia imperiale, aveva il Montecuccoli condotto a fine egregiamente, in frangenti terribili, quanto a lui spettava, salvando la cristianità da una invasione lungamente paventata, e rintuzzando negli ottomani quell’audacia e quella fiducia nella vittoria, che già li facevano sfidare qual si fosse cimento. Gente senza dubbio ardimentosa, e forte così da tornare di molta gloria il superarla in battaglia; e per questo in più luoghi delle sue opere lodata dal Montecuccoli. Sappiamo anzi da Girolamo Venier, il quale fu nunzio veneto a Vienna dal 1689 al 92, usasse dire quel generale: “che l’imperatore dovea guardarsi di fare una lunga guerra contro i turchi, mentre venti vittorie non potevano abbassare la loro potenza, e all’incontro in una sola battaglia perduta poteva Cesare tutto perdere. S’aggiunge che la durazione della guerra insegna ad un nemico ch’era inesperto, l’arti e i modi di farla con vantaggio”. Porremo fine alla narrazione dei fatti di questa guerra, dando contezza di una Memoria presentata all’imperatore da Raimondo, al tempo della stipulazione della pace, per proporgli, come altra volta aveva fatto, di conservare stabilmente un corpo di truppe che, bene ammaestrato, e nelle arti della milizia di continuo esercitato, potesse trovarsi pronto ad ogni necessità anche improvvisa che se ne avesse. Esponeva come, dietro l’usbergo di un esercito stabile, più sicuri si sentirebbero i popoli, più liberi nell’esercizio delle industrie, aumentandosi per tal modo la prosperità e la ricchezza dello stato; mentre si asterrebbero gli stranieri dall’assalirlo, se lo sapessero apparecchiato a rintuzzare le offese. Le precedenti guerre avevano mostrato che scarsa utilità si traeva da milizie accozzate all’occasione, e inesperte del combattere; laddove, se le nuove leve si ripartissero tra i reggimenti veterani, s’avrebbe in breve tempo da esse una buona accolta di soldati. Essere destino, ei diceva, della casa d’Austria non trovarsi mai sicura della pace, per la vicinanza [p. 423 modifica]sua colle bellicose nazioni de’ turchi e dei francesi, provvedute di eserciti stabili. Consigliava si obbligasse la nobiltà a servire in guerra, e s’introducessero le primogeniture, acciò i cadetti di famiglie nobili si trovassero in necessità di procacciarsi stipendi militari, per vivere con qualche decoro. L’aggravio che dal nuovo sistema verrebbe sulle provincie, non supererebbe quello cui sottostavano pe’ subitanei armamenti; a non dire dei danni che seguivano dalle invasioni in paesi disarmati: queste, e le guerre pur anche, più rare di gran lunga si farebbero.

I quali ammonimenti ch’ei porgeva, lasciavano intravedere quella rinnovazione della scienza militare, della quali ai giorni nostri vediamo lo svolgimento. Vengono ora le vittorie preparate durante la pace coll’addestrare gran numero di uomini alle armi, e col provvederli di qual sia cosa occorrente ad entrare improvvisamente in campagna. Accade per ciò, che tra due comandanti supremi di merito non molto dissimile, e a capo di soldati egualmente valorosi, preveder si possa sin da principio, che quello di loro il quale meglio predispose le genti sue alle operazioni campali, con tutta probabilità in corto volgere di tempo otterrà sull’altro il sopravvento. Brevi riescono e micidiali le guerre odierne, quanto a lungo duravano allorché il Montecuccoli usciva in campo con uomini in gran parte di nuova leva, che gli conveniva venir dirozzando nel tempo medesimo che li conduceva contro il nemico, trovandosi così astretto alle continue cautele che ai giorni nostri sono meno necessarie; per tacere inoltre di quel difetto delle munizioni e dei viveri in cui vedemmo lasciati allora i soldati, la qual cosa in eserciti ben ordinati non può oggi accadere. Truppe esperte e ben provvedute, liberamente procedono anche di mezzo a popolazioni ostili: la qual cosa tornava malagevole in Ungheria a quelle raccogliticce, lacere e smunte del Montecuccoli, al senno del quale è unicamente dovuto se pur riescirono a sconfiggere i turchi, cui nessuna cosa mancava che loro procacciar potesse la vittoria.

Ma a Vienna allora null’altro avevasi in mira, se non le necessità del momento; i saggi avvisi del Montecuccoli, che nel [p. 424 modifica]libro III degli Aforismi vennero poi da lui ripetuti, non trovarono pertanto accoglienza. Non altro poté egli conseguire, se non che alcuni de’ migliori reggimenti per allora non si scioglierebbero, mentre, innanzi ancora che fossero sottoscritti i patti della tregua, venivano tutti gli altri licenziati.

  1. «I più intimi de' miei familiari, paggi, camerieri, mastro di stalla, cuochi, cappellano, segretario e simili nella medesima ora trapassarono.» (Aforismi riflessi alle pratiche delle ultime guerre d'Ungheria, edizione del Grassi, in nota a pag. 27, vol. II.)