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copertamente alludeva, secondo credo, nell’opera già citata il Montecuccoli, ove dice, che dei turchi non rimase morta sul campo “milizia imbelle, ausiliaria e fugace, ma la propria più agguerrita e feroce, que’ Giannizzeri, quegli Albanesi, quegli Spahi e que’ principali capi di Costantinopoli, che sono scudo e spada dell’impero ottomano”. Fecero più onorevole la vittoria le molte bandiere che insieme con gli stendardi furono spedite a Vienna, e, come dicemmo, anche a Parigi, e i cannoni che si poterono trasportare, essendoché la maggior parte di quelli conquistati, non altro potendosi fare, vennero o inchiodati o sommersi nel fiume . Assai pingue fu il bottino che si ottenne in armi, in denaro, in gioie, in preziose vesti, essendo soliti i turchi porsi addosso nelle battaglie quanto di meglio possedessero: e ne ebbero la parte loro i soldati, i quali poi fecero mercato a vil prezzo di ciò che loro si diede. Vergognoso il visir per cotanta disfatta, come scrive Priorato, ne piangeva di rabbia; lamentava fra i tanti perduti un Ismail bascià, che gli era caro; e parevagli che l’onta sua gli venisse accresciuta dall’esserne stati testimonii il residente cesareo a Costantinopoli, e il compagno suo, che gli fu poi successore, e che era G. B. Casanova milanese. Cagione prima di questa vittoria, scrive il Freschot, fu l’indefessa assistenza del generalissimo Montecuccoli, che stancò sei cavalli (cinque de’ quali gli furono uccisi sotto), per trovarsi di persona ove maggiore era il pericolo. E a questo luogo esalta lo storico medesimo “la non mai lodata abbastanza soavità di maniere” con cui tenne concordi così svariati corpi di truppe; e lo dice padre de’ soldati, e modello de’ perfetti comandati di eserciti. Qui non staremo a riferire le lodi tributate per questa impresa dal Foscolo al nostro generale, le quali si ponno leggere nella dissertazione che intorno alla medesima ei pose a stampa; basterà il notare col Cantù che questa fu la maggior battaglia in campo aperto data da 300 anni agli otto-