Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/II4
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Capitolo IV - Campagna di Montecuccoli contro Turenna
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Capitolo IV
Campagna di Montecuccoli contro Turenna (1672-73)
Era già il verno allorché, dopo avere Montecuccoli accudito a quanto occorreva pel licenziamento delle truppe, poté finalmente prendere quel riposo, del quale più che mai doveva sentire il bisogno. La guerra infatti allora cessata, per la qualità de’ paesi dove fu combattuta, mancanti pressoché ovunque d’ogni comodità della vita, tra popoli avversi, e con que’ disagi che dicemmo, era di quelle che snervano le più robuste complessioni, e lasciano spesso dolorose orme in chi, come Raimondo, che contava allora 55 anni di un’operosissima vita, doveva aver difetto di quel giovanile vigore, che a dure prove può sovente venir posto senza rimanerne accasciato. Questa guerra probabilmente svolse in Raimondo il germe di quegli incomodi di salute, che cresciutigli poscia cogli anni, se non gli tolsero di conseguire nuova e splendida gloria, lo afflissero tuttavia di non pochi dolori fisici. Ritornava egli intanto in seno alla sua famiglia, da cui s’imprometteva quelle soddisfazioni che non si godono mai più compiutamente di quello che avvenga ad uomini i quali solo di rado hanno opportunità di fruirne. Ritornò dall’Ungheria il Montecuccoli, sdegnato, come dagli scritti suoi apparisce, contro gli abitanti di essa, che noie e danni senza numero avevano procurato a lui e alle sue truppe che s’doperavano a salvarli dai turchi. Da cotali impressioni che di là ei riportò, avranno avuto origine quelle proposte di severi provvedimenti, ch’ei pose innanzi nella sua opera sull’Ungheria per tenere a freno que’ popoli. Erano state invero con esito poco felice sperimentate le repressioni, e in parte lo furono anche dopo, e suscitarono il regno a ribellione, perché reputate ostili ai diritti nazionali dell’Ungheria, e alla libertà di coscienza: l’attentare alla quale tornò sempre di gran pericolo.
Se non quietava ancora l’Ungheria, posavano nondimeno per ogni dove le armi; ond’è che il Montecuccoli nella pace della vita domestica ebbe agio di riandare le memorie delle passate guerre, e di preparare quelle opere militari che basterebbero da sole ad assicurargli l’immortalità: né egli interruppe questi suoi studii, se non per gli onorevoli incarichi che gli affidavano l’imperatore e la corte di Modena, e pei doveri impostigli dagli uffici suoi propri. Nel gennaio del 1665 troviamo nella corrispondenza diplomatica dello Stom, che desiderando la duchessa Laura, reggente del ducato di Modena, d’iniziar trattati di matrimonio tra una principessa della sua casa e un arciduca, a lui fu commesso di aprirsene segretamente col solo Montecuccoli, quale patriotta, come si legge nella lettera di quel diplomatico. Promise esso di adoperarsi per vie indirette, acciò potesse la cosa avere effetto; ed è probabile che, accettando il suggerimento dello Stom, si valesse a tal uopo del conte Dietrichstein suo cognato. Penetrata però la notizia di cotali trattati nel consiglio aulico segreto, e sdegnati que’ consiglieri che non si fosse invocata la mediazion loro (la quale con ricchi regali sarebbesi dovuta comprare), tanto si adoperarono che non poté quel progetto effettuarsi. Era la principessa proposta, o Eleonora figlia del duca Francesco I, nata nel 1643, che poi si fece monaca, ovvero Maria sorella di lei, più giovane di un anno, destinata più tardi al talamo del duca di Parma. Dell’esito infelice di quell’affare si sarà senza dubbio rammaricato il general Raimondo, e per l’affezione che sempre conservò per la casa d’Este, ed anche perché del favore di questa si trovava aver mestieri a quel tempo in pro di parenti suoi. In Modena avevano questi fiera inimicizia coi Rangoni, per differenze surte tra loro, nelle quali si sa che avesse parte la contessa Lodovica Pepoli, vedova del conte Gherardo Rangoni, morto sino dal 1659. Le cose giunsero al segno che il conte Sebastiano Montecuccoli, passando pel territorio di Spilamberto feudo de’ Rangoni, venne per mandato loro ucciso a tradimento: del qual fatto io vidi già una relazione manoscritta nell’archivio che fu dell’egregio marchese Gino Capponi in Firenze. Dalla corrispondenza di monsignor Uguccione Rangoni, agente del cardinal d’Este in Roma, ci vien chiarito, che Lotario fratello di lui, il quale ebbe precipua parte in que’ dissidii, era uomo di spiriti irrequieti, viveva in continua discordia or con l’uno or coll’altro della propria famiglia. Ma non erano men di lui proclivi a violenze, e Sebastiano e il suo fratello Felice, figli del maggiordomo marchese Francesco, che a suo luogo ci venne ricordato. Di questi si sa che, banditi una volta per mali diportamenti da Bologna, non vollero partire senz’essersi prima vendicati sui birri, uccidendo anche un uomo in odio alla giustizia, come si legge in una carta dell’archivio estense. Codesta inimicizia tra i Rangoni e i Montecuccoli da più anni durava implacabile, contenuta appena in certi limiti da severe prescrizioni del governo, con minaccia di confisca dei feudi. Ma vi furono insidie alla vita di qualcuno di loro, ed anche dello stesso monsignor Uguccione or nominato, che più mesi dovette tenersi nascosto fuori di Roma. Finalmente, nel maggio del 1666, rivolgeva Raimondo calde istanze al cardinale Rinaldo d’Este, acciò s’interponesse per la pace, avvertendo però che “sarebbe impraticabile ogni accordo che involvesse il minimo discapito nell’onore”. Consimili raccomandazioni rivolgeva egli al ministro Graziani, e perché a costui diceva: “La mia lunga absenza d’Italia e le varie mutazioni seguite costì mi fanno essere peregrino nella patria”; il ministro nell’annunziargli già fatta la pace tra le due famiglie, soggiungeva: “Non può dirsi V. E. peregrino in alcun paese, poiché tutto il mondo è patria degli eroi”. La lettera poi del cardinale, responsiva a quella di Raimondo, incominciava con queste parole, onorevoli per lui e pel parentado suo: “Diverse ragioni e motivi mi hanno portato a procurare l’aggiustamento tra la famiglia di V. E. e quella de’ Rangoni, e nell’effettuazione del medesimo si usarono tutti i riguardi dovuti a una casa così ragguardevole, che in tutti i tempi pe’ servigi prestati si rese benemerita di casa d’Este, e particolarmente per stima ed affetto per le grandi qualità di lei”. A rendere più sicuri quegli accordi, fu dato a Lotario Rangoni un incarico da eseguire in Francia. Di questa buona impresa del cardinale scriveva da Roma il Muzzarelli già per noi nominato: “Si diceva (in Roma) che il cardinal d’Este non avrebbe potuto operare con più giustizia e più gloriosamente di quanto ha fatto pei Rangoni e Montecuccoli”. Nel 1667 al ministro Graziani ricorreva di nuovo Raimondo in pro d’un altro parente, il conte Gianfrancesco Montecuccoli, che per varie peripezie era stato privato della parte de’ feudi che aveva in comune col fratello Ferrante; ma non sortirono le raccomandazioni del generale l’esito ch’ei ne sperava, imperocché solamente nel 1672 Gianfrancesco fu rimesso in grazia, senza che però gli venissero restituiti i feudi. Laura Estense Tassoni, moglie di lui, era a quel tempo in un monastero in Mantova, non avendo egli modo di mantenerla.
Ma rifacendoci all’anno 1666, ci vien veduto nella corrispondenza di Raimondo col principe Mattia, che lo incominciò esso nell’Ungheria, essendo andato sino dal novembre del precedente anno al suo governo di Giavarino. Colà la moglie sua, in conseguenza del viaggio, ebbe un aborto, che presso di lei ricondusse il marito da Vienna, dove, come or diremo, ritornò (lettera del 26 di novembre 1665 da Giavarino); ed un simile infortunio si rinnovò poi nel maggio del successivo anno. Era stato precedentemente infermo anche Raimondo, allora appunto che lo chiamava l’imperatore a Vienna per consultarlo circa alcuni movimenti di truppe in Slesia. In Ungheria ebbe ancora ad occuparsi del riordinamento dei confini verso la Turchia. Di là scriveva dei torbidi che temeva stessero per funestare la Polonia, e della incertezza in che era la corte imperiale circa la politica di alcuni stati.
Il 17 di maggio del 1666 giungeva notizia a Vienna, come si ha da una lettera di Raimondo, che in Madrid l’infanta Margherita, sorella del giovinetto re di Spagna, succeduto da breve tempo al re Filippo IV suo padre, era stata sposata per procura all’imperatore Leopoldo dal duca di Medina; e tosto veniva dato l’incarico al Montecuccoli di andare al Finale di Genova a ricevervi la sposa, la quale, non volendo passare per Francia, sarebbe sbarcata colà. Una lettera del 29 di maggio, dallo Stom indirizzata alla corte di Modena, annunziava infatti già partito a quella volta il Montecuccoli, seco conducendo il suo concittadino, conte Maurizio Masdoni. Erroneamente scrisse Priorato essere egli giunto al Finale il 4 di agosto, che fu il giorno dell’arrivo colà della infanta: a noi rimane invece una serie di lettere, che da quella città egli scriveva al principe Mattia de’ Medici, la prima delle quali è del 4 di luglio. In esse dava conto degl’indugi che soffriva per una cosa e per l’altra l’imbarco della nuova imperatrice. Colà si trovò poi egli con quel principe, suo corrispondente, mandato dal granduca di Toscana ad ossequiarvi la infanta. Scrisse il Priorato, che il giorno 22 di agosto fece Raimondo l’ambasciata dello sposo imperiale (e forse l’avrà fatta prima), la quale fu accolta “con aggradimento straordinario della civiltà del personaggio”; il che vorrà dire del modo con cui venne da Raimondo eseguita. E le presentò egli in quella circostanza un preziosissimo monile, dono dello sposo. Ma se dell’accoglienza ricevuta dalla novella imperatrice ebbe il generale a chiamarsi soddisfatto, non così fu del modo inurbano di quella turba di vanagloriosi spagnoli, ch’era al seguito di lei. Narra infatti lo storico Brusoni, che quelli tra essi di maggiore autorità nonché il governatore di Milano (Ponze de Leon) vennero meno allora a que’ riguardi cui aveva diritto, neppure “usando seco nei titoli il trattamento dovuto alle sue qualità”. E similmente mal si diportarono essi verso il principe Mattia de’ Medici, a nome del quale fece poi Montecuccoli in Vienna rimostranze all’imperatore, che disapprovò il contegno di coloro, come si ha da lettera di Raimondo al principe stesso. Della inurbanità degli spagnoli verso l’inviato dell’imperatore giunse notizia anche in Roma, come monsignor Rangoni scriveva al cardinal d’Este. Racconta poi l’Huissen che, uno di que’ cortigiani avendo ricusato di concedergli quelle onoranze che spettavano ad un ambasciatore imperiale, trovò egli un termine arguto col quale mantenere il decoro del suo grado; e che allorquando quel medesimo spagnolo si congedò da lui, l’incaricava di assicurare l’imperatore della sua amicizia. Al quale strano discorso spiritosamente rispondeva Raimondo, per usar le parole dell’Huissen: “Signor sì, questo farò io, e so che l’Imperatore mio padrone già da lungo tempo ha fatto assicurare Vossignoria de’ suoi humilissimi servigi”: risposta che lasciò scornato quel borioso hidalgo, anche pel modo ironico con cui venne proferita. In quella occasione fu conferito a Raimondo l’ordine del toson d’oro.
L’arrivo del Montecuccoli in Milano al seguito della novella sposa si trova annunziato nella relazione dell’ambasciator veneto Busenello al senato, edita dal Mutinelli . Non assistette però alle feste (che l’ambasciator medesimo disse meschine), onde quella città onorò la venuta di lei, essendoché lo spedisse ella a Vienna con lettere sue per l’imperatore, il quale le avea mandato con altri incarichi il Del Carretto marchese di Grana, che in Milano si abboccò col Montecuccoli. Lentamente procedé la sposa alla volta di Vienna, e per poco stette che non vi arrivasse vedova e vergine. Serpeggiava a quel tempo nell’Ungheria un malcontento foriero di prossima rivoluzione, ritardata poi dall’improvvisa morte del capo di quella trama, che era quel Vesseleny del quale tenemmo già parola. Cinquecento congiurati al soldo di costui e di Zrin erano convenuti in armi al castello di Puttendorf pertinente al Nadasdy, mentre altri stavano nascosti nelle vicine terre. Attendevano essi che per quelle parti passasse l’imperatore, che sapevano dovesse andare ad incontrar la sposa in Stiria, deliberati coloro di trucidarlo; se non che, avendo egli anticipata la sua partenza da Vienna, rimase il reo disegno sventato. Quel fatto, di cui tiene ricordo nella sua storia d’Ungheria il Freschot , formò più tardi uno dei motivi della condanna de’ ribelli ungheresi.
Il matrimonio dell’imperator Leopoldo colla infanta di Spagna, che lo faceva cognato di Luigi XIV, sinistramente influì sulla politica imperiale, lasciando libero il campo alle conquiste, che i francesi stavano meditando, e che appunto in quell’anno incominciavano a colorire invadendo i Paesi Bassi. Pretendeva Luigi XIV che quelle provincie spettassero a sua moglie, quantunque al tempo del suo matrimonio avesse ella rinunciato a tutti i diritti e alle pretensioni che potesse mettere innanzi. Voltaire, Bolimbroke e Coxe, ai quali consentono Rotteck, Menzel, Grossmann ed altri scrittori moderni, credono assentisse allora Leopoldo a quelle conquiste; e che anche avesse luogo un trattato segreto pel quale, se venisse a morte il giovane re Carlo II, che pareva non promettere lunga vita, il regno di Spagna colla Lombardia e collo colonie americane sarebbe dato all’imperatore, mentre avrebbe Luigi XIV i Paesi Bassi, la Navarra e Napoli: dividendosi così que’ due cognati le spoglie del terzo, che non aveva intenzione di morire. Se codesto trattato è vero, dice Rotteck, la famiglia regnante in Spagna più che di Luigi XIV avrebbe avuto motivo di lagnarsi dell’imperator Leopoldo: il che per altro non parmi esatto, essendoché avesse già stabilito il re Filippo IV, che se il figlio suo dovesse mancar senza eredi diretti, verrebbe la Spagna in podestà di Leopoldo, come, anche per ragioni di affinità, sarebbegli spettato. Suo torto era invece il consentire a quello smembramento della monarchia spagnola, dalla quale tanti sussidii in uomini e denari aveva ritratto durante la guerra dei trent’anni, e all’indebita aggressione di Luigi XIV in danno del cognato. Ben aveva ragione il Montecuccoli di dire allora “strana è la faccia delle cose”, come si legge nell’ultima lettera da lui indirizzata il 17 di settembre 1667 al principe Mattia de’ Medici, che l’avrà ricevuta negli estremi giorni del viver suo, essendo egli venuto a morte l’undici ottobre di quell’anno.
L’essere rimasto l’imperatore Leopoldo inoperoso spettatore di quanto accadeva, non impedì che contro la Francia si formasse la triplice alleanza di Olanda, Inghilterra e Svezia; onde per allora si contentò Luigi XIV di unire al suo regno dodici città conquistate, in luogo della Franca Contea che restituiva: e questo fu stipulato nel trattato di Aquisgrana l’anno 1668. Così, dice il Montecuccoli negli Aforismi, la gelosia de’ potentati salvò l’Olanda. Offerì quella pace una sosta all’ambizion francese per ordire nuovi intrighi, contro i quali indefessamente si adoperò, benché mal sostenuto dalla vacillante politica della corte di Vienna, quel Francesco De Lisola che vedemmo già prender parte col Montecuccoli ad alcuni trattati in Berlino. Di lui, che lo storico modenese Gazzotti disse essere “soggetto di grande intelligenza, e di potente persuasiva” scrisse, come notammo già, con senno e con amore il dottor Giulio Grossmann archivista imperiale a Berlino, valendosi di documenti raccolti negli archivii di Vienna; l’opera del quale ci tornerà opportuna nella relazione de’ casi di quest’epoca, insino al 1673 . Ma perdurando allora l’impero in pace, noi continueremo a dire di quanto pertiene all’insigne guerriero che a questo lavoro ci porse argomento, accennando da prima a due parenti suoi; a Felice cioè, uno di essi, che nel 1668 fu spedito a Vienna per officio di congratulazioni all’imperatore, a cui era nato un figlio: le quali congratulazioni si mutarono poi in condoglianze per la morte del medesimo. Era l’altro il gesuita Carlantonio, fratello di esso Felice, del quale avremo ad occuparci più oltre. Viaggiava esso allora in Germania col principe Luigi, uno di que’ figli di Borso d’Este, che il senno previdente del cardinal Rinaldo teneva lontani da Modena, acciò cogli esempi loro non inducessero il giovinetto duca Francesco II all’infingardaggine e ai vizii. Le lettere del padre Carlantonio che sono nell’archivio estense, ci fanno pessimo ritratto di quel suo allievo, al quale non mai gli riescì di fare apprendere cosa alcuna, neppure quelle buone creanze necessarie per lui ch’era mandato in giro per le varie corti della Germania. Nell’anno del quale entrammo a favellare, essendo andato il gesuita a Gratz e a Klagenfuth, il principe visitò col conte Negrelli, suo cavaliere, l’Ungheria, fermandosi anche a Giavarino, governo del Montecuccoli, il quale aveva ordinato che con speciali onoranze vi venisse accolto, se non che ciò non ebbe poi luogo, volendo egli viaggiare incognito. Contro il divieto del suo Mentore di passare per Vienna, egli vi andò ad ogni modo, alloggiando ne’ sobborghi; nella quale occasione vi fu scambio di visite tra esso e il general Montecuccoli. Di là passò a Modena, dove instava di continuo per poter ritornare; ma fu costretto a ripartirne. Propose allora Raimondo alla corte di Modena che, se si avesse ad uscire in campagna, militasse quel giovane nelle truppe imperiali, offerendosi trovargli una compagnia della quale sarebbe capitano, se pure servir non volesse come soldato venturiere. E soggiungeva non esser dubbio che, dopo una campagna o due, gli avrebbe l’imperatore conferito il comando di un reggimento. Ma essendosi preteso di aver questo su quel subito, non se ne fece altro, e l’esercito imperiale andò privo di un infingardo e di un vigliacco, dal quale non era da aspettare cosa onorata. Le molte istanze del padre Carlantonio gli fecero poi avere una compagnia ad Annover, ove a lungo dimorarono. Voleva poscia quel principe nominarlo colonnello, ma ricusò esso di fare la richiesta dichiarazione di non temere i pericoli, allegando che anzi li temeva. Diremo tra breve come, invece di lui, il suo fratello Foresto, che era il men peggio dei tre, venisse nominato capitano; ma tutti, poiché fu venuto a morte nel 1672 il cardinal Rinaldo, un dopo l’altro tornarono a Modena; ove, allontanando dal giovane ed infermiccio duca la saggia sua madre e i ministri più fidati, molta e funesta parte si arrogarono nel governo dello stato. Allorché trovavasi il principe Luigi a Vienna, corse Raimondo un grave pericolo, essendo stato colto da un colpo apopletico, che non ebbe poi le conseguenze che da prima si temettero, e che durante il viver suo più non si rinnovò. Ha pubblicato il Mailàth la lettera, colla quale l’imperatore medesimo da Neustadt ove si trovava, annunziò il 14 di marzo del 1668 al Pöttinger, suo ministro a Madrid, la disgrazia ch’ei deplorava, del suo caro e valoroso Montecuccoli, secondo si esprimeva; dicendo che non avea più speranza della salvezza sua, e che gli mandava col Dietrichstein in proprio medico. Mentre però scriveva egli quella lettera, gli veniva annunziato che Montecuccoli, scampato al pericolo, era ritornato a Vienna. Il 29 di marzo il Nigrelli or nominato, scriveva alla corte di Modena, che nella salute del general Montecuccoli era avvenuto un miracoloso miglioramento, con gran consolazione della corte cesarea, per essere cavaliere di ragguardevoli qualità. Esprimeva però il timore che non potesse continuar più nel servigio militare, la qual cosa non avvenne poi. Dedicava in tal anno Raimondo all’imperatore l’opera sua celebrata degli Aforismi dell’arte bellica, che si ha alle stampe; della quale opera sono continuazione gli Aforismi riflessi alle pratiche delle ultime guerre d’Ungheria, che ne formano la seconda parte. Diceva nella dedica di essere in età di 60 anni, che però non aveva ancora compiti, essendo nato, come a suo luogo dicemmo, il 21 di febbraio del 1609. Seguitava ricordando che da 45 anni militava nell’esercito imperiale, dall’infimo grado essendo passato successivamente per gli altri sino al supremo; se non che i disagi sofferti, i disordini, le ferite e l’età gli avevano scemato le forze; ma queste bastarongli poi a conseguire, come vedremo, novelli allori. A questo luogo non vo’ tacere di un giovane Daniele Seiter, che, fattosi più tardi valente artista, divenne primo pittore di camera della corte di Modena. Era egli stato allogato in tenera età dal padre presso Raimondo in officio di paggio da valigia, come lo dicevano, acciò avesse opportunità d’imparare il mestiere delle armi; e prese parte infatti sotto quel gran capitano a molte fazioni campali, riportando altresì alcune ferite. Gli aveva perciò promesso Raimondo una bandiera (grado di ufficiale) con sicurezza di ulteriori avanzamenti; se non che venuto esso nel 1669 a contesa con un ufficiale, lo uccise: e fuggitivo a vent’anni, riparò a Venezia. Là e a Roma avendo data opera solerte ad istruirsi nell’arte della pittura, così bene profittò che, venuto a Modena a studio delle tele del Correggio, un altro Montecuccoli che lo aveva veduto in Germania, gli procurò quell’officio al quale più sopra accennammo . Il 16 di settembre del 1669 Casimiro re di Polonia spontaneo deponeva la corona; e i polacchi, ad evitare intromettenze forestiere, s’eleggevano a re uno de’ nobili loro, che le sostanze sue aveva perdute nelle passate guerre. Era Michele Wisniowiecki, che appena sul trono, senza che di ciò, come le leggi del regno disponevano, consultasse prima il senato, richiese all’imperatore la sorella di lui Eleonora in isposa. Consentitagli la dimanda, fu dato nel successivo anno al Montecuccoli l’onorevole incarico di accompagnare la sposa a Czetakow in Polonia, ov’ebbe luogo la celebrazione del matrimonio, che solo due anni durò, essendo il re Michele venuto a morte nel 1672. Ma questo, e gli altri incarichi dall’imperatore affidatigli, solo per poco valsero a distogliere Raimondo dagli studi intrapresi sulle cose spettanti alla milizia. Egli medesimo, in una nota aggiunta all’opera sua, già terminata, degli Aforismi, dà conto di esperimenti da lui diretti sopra due mortai per gettar pietre o granate in offesa delle fortezze, de’ magazzini, del carreggio delle artiglierie; esperimenti che per poco non gli costarono la vita, imperocché una granata non bene collocata dagli artiglieri entro il mortaio, nell’uscirne scoppiò, rimanendone mortalmente ferito il suo segretario italiano Giuseppe Minucci, che gli era al fianco. Altri mortai, in forma nuova preparati da un colonnello Hulst, soggiunge in altra nota aver provati nell’anno precedente; e il medesimo dice di petriere e di cannoni, alcuni de’ quali da lui fatti fondere, che in quest’anno medesimo e nel successivo sottopose alla prova. Intorno a codesto argomento scrive il commentatore delle opere di Raimondo, il generale Turpin de Crissé, che s’incominciava al tempo del Montecuccoli a conoscere ragionatamente l’artiglieria, ma non si era trovata la giusta proporzione della medesima, come si ottenne più tardi. Quanto però fu scritto negli Aforismi su quegli stromenti bellici, gli dava ragione di persuadersi che era stato il Montecuccoli profondo conoscitore di tutte le parti che compongono l’arte della guerra: se prese abbagli circa le proporzioni, questi più che allo scrittore s’hanno ad imputare ai tempi nei quali visse. Le proporzioni esatte delle artiglierie, scrive il capitano Omodei, non si cominciarono ad avere se non nel 1732. Inoltre Montecuccoli si occupò dei moschetti, accennando sul principio degli Aforismi ad alcune novità in essi introdotte, dirigendone egli la costruzione: coi quali studi a nuove vittorie si preparava. E già il re Luigi XIV nel suo desiderio di conquiste stava disponendogli il campo ove avrebbe difeso il minacciato impero germanico, imperocché, secondo dicevamo, la pace di Acquisgrana, conclusa nell’anno 1668, non era stata se non una sosta al combattere. Premio frattanto ai meriti in tante campagne da Raimondo acquistatisi, era il grado di presidente del consiglio di guerra che, venuto a morte nell’anno 1668 il principe Gonzaga, fu a lui conferito; il quale officio importava la direzione di tutti gli affari militari della monarchia. Le prime cure che in quel nuovo posto avranno richiesto l’opera di lui, saranno state quelle che abbisognavano a portar riparo ai gravi disordini dell’Ungheria, le origini de’ quali più addietro venimmo accennando. Le vessazioni de’ soldati imperiali, comandati da Strassoldo, ravvivano colà quegli spiriti di ribellione, che bollivano negli animi di molti. Corsero trattati coi francesi, e più coi turchi, ai quali, pur di sciogliersi dai legami che li univano all’impero, non avrebbero arrossito gli ungheri di farsi tributarii, accettando le condizioni stesse di vassallaggio, alle quali la Transilvania erasi sottoposta. Tardò più tempo l’indolente imperator Leopoldo a pigliare in così difficili circostanze un partito, e solo nel 1670 fe’ iniziare processi contro i capi della rivoluzione, Nadasdi, Zrin e Frangipane (di un ramo quest’ultimo dell’antica famiglia romana di tal nome), potente il primo in Ungheria, in Croazia gli altri. Dannati costoro alla morte nel successivo anno, e con essi Tettenbach governatore della Stiria, fu sottoposta la sentenza all’esame del consiglio aulico privato, del quale faceva parte il Montecuccoli, e poiché l’ebbe questo approvata, venne eseguita . Ma né queste, né le molte condanne successive, come accade non di rado in simili circostanze, valsero a frenare gli ungheresi, tenaci mantenitori delle leggi e dei privilegi loro. Severo si mostrò Montecuccoli verso quel popolo narrando questi fatti nel suo libro intitolato: L’Ungheria nel 1673; ma ci è forza confessare che i gravi partiti da lui consigliati, per evitare all’imperatore la perdita di quel reame, anziché giovare alla salvezza di questo, avrebbero potuto porla a repentaglio. Torna infatti di grave pericolo l’attentare ad istituzioni fortemente radicate nell’animo di un popolo, fosse pur questo di così scarsa civiltà, com’era a quel tempo quello dell’Ungheria. Su quest’opera del Montecuccoli dovremo ritornare quando perverremo al tempo in cui la compose. Qui solo noterò, che forse le dure prove alle quali dagli ungheri erano stati sottoposti nella guerra contro i turchi i suoi soldati, avevano lasciato qualche amarezza nell’animo di lui contro quella nazione, come fu già da noi avvertito. Codesti torbidi dell’Ungheria, che potevano ancora trarre l’impero a nuova guerra col turco, e la scarsa propensione di Leopoldo per le armi, non poco valsero ad impedire che si prendesse qualche risoluto partito contro le ambiziose mire di Luigi XIV, che allora appunto meditava progetti esiziali all’Olanda. Vero è che i popoli austriaci, già ridotti a mal termine dalle precedenti guerre e dalle persecuzioni religiose, alienissimi si mostravano dal desiderio di nuovi conflitti. “Il popolo, scriveva al senato veneto il nunzio Morosini, è contento che Leopoldo non amasse la guerra, e che soltanto provocato avrebbe impugnato le armi, fidando nel gran nome e valore del Montecuccoli”. Nompertanto le titubanze di Leopoldo derivavano da un altro e più grave motivo, dai consigli cioè del suo primo ministro Eusebio Venceslao Lobkowitz; il quale, fattosi ligio per denaro alla Francia, suscitava ostacoli a quanto fosse per tornare in danno di essa, in ciò secondato dall’altro ministro Auersperg, intinto della stessa pece. E non è a dire, se dell’inerzia dell’imperatore si giovasse Luigi XIV, che comprava intanto con molt’oro due dei tre alleati contro di lui; il re d’Inghilterra cioè, e la Svezia, inducendoli ad osteggiare il terzo di essi, che era l’Olanda; ed inoltre induceva ad entrare in lega con lui anche l’elettore di Colonia e il vescovo di Münster, mentre altri principi tedeschi, tra i quali l’elettore di Baviera, s’obbligavano a rimaner neutrali. Invadeva Luigi XIV la Lorena, cacciandone il duca; e invano fu poi richiesta dall’imperatore la restituzione di quello stato, che era sotto la protezione dell’impero. Volle allora l’imperatore dichiarar la guerra alla Francia, ma il Lobkowitz fu così potente da persuaderlo a sottoscrivere invece un trattato di neutralità, allora appunto che l’Olanda, invasa da 130.000 francesi , era minacciata dell’ultima rovina. Quell’operoso diplomatico imperiale che era Francesco De Lisola, presentò allora all’imperatore una memoria per indurlo a soccorrere l’Olanda; e questa memoria, durante un’infermità opportunamente sopraggiunta al Lobkowitz, presentò egli stesso al consiglio segreto in un’adunanza alla quale intervenne Montecuccoli con Swarzemberg e Lambert. Secondo il parere da loro significato, fu deciso senza più si farebbe lega cogli olandesi. E tosto Lisola a proporre alla città di Amsterdam, tutta propensa alla continuazione della resistenza, che si votasse un sussidio in denaro, per fornire alle truppe imperiali i mezzi d’entrar in guerra. Fu a quel tempo che gli olandesi, ridotti alla disperazione, si disfecero dei deboli lor capi repubblicani, i quali a qualunque prezzo volevano comprar la pace, e affidarono il governo col titolo di statouder a Guglielmo d’Orange. Vennero poscia atterrate le dighe, onde le innondazioni costrinsero i francesi a ritirarsi più addietro. Incominciò allora un nuovo periodo di quella guerra che poi così a lungo doveva durare. Nella bell’opera del dottor Giulio Grossmann, si espongono per disteso le fasi per le quali passarono i trattati dell’alleanza dell’imperatore coll’Olanda, resi difficili dalle due correnti d’idee che si contendevano il campo ne’ consigli imperiali, troppo presto essendo venuta a cessare l’infermità del compro Lobkowitz. Si finì nondimeno col concludere, che avrebbero dato gli olandesi 45.000 talleri mensili per le truppe imperiali, quantunque non fossero riesciti ad ottenere che s’obbligasse l’imperatore ad attaccare i francesi, e ricusassero i ministri di Vienna la diversione nella Sciampagna che loro si chiedeva. Soluzione ibrida cotesta che la disperazione indusse gli olandesi ad accettare, ma che era una di quelle, per le quali, in tempo di guerra questa si prolunga, e con essa le rovine egli eccidi; e di ciò avremo tosto le prove. I preliminari di una tale alleanza non furono poi potuti sottoscrivere innanzi il 28 di giugno. Un tempo prezioso andava intanto perduto, e con esso una parte della stagione opportuna al combattere. Il 25 di agosto di quell’anno 1672 ponevasi in marcia colle sue truppe l’elettore di Brandeburg, per unirsi agl’imperiali, che da Egra, ove avevano formato un campo, si mossero il 29, guidati dal Montecuccoli, in numero di 17.000; tra i quali, come scrisse da Vienna il conte Francesco Dragoni, v’erano 500 volontari e molti nobili. Militava tra loro il principe Foresto d’Este, fratello di Luigi già da noi nominato, in officio di capitano della compagnia colonnella di un reggimento di cavalleria, gli emolumenti della quale, dice il marchese Foschieri che era con lui, furono distribuiti dal Montecuccoli tra officiali riformati di quella compagnia. Ad essa non soleva soprastare un capitano, e fu pertanto uno special favore del Montecuccoli il conferimento a lui di quel grado . Era da prima intenzione dell’imperatore di non mandare più che 11.000 uomini ad unirsi ai brandeburghesi, ma riescirono le istanze del Lisola a far raggiungere il numero più sopra indicato: e non pare sia da credere al Dragoni che a soli 11.000 li pone. Scrive quest’ultimo che era partito il Montecuccoli, senza sapere chi tra lui e l’elettore di Brandeburg avrebbe avuto la direzione di entrambi gli eserciti: onde si fermò ad Alberstadt, per attendere su di questo gli ordini dell’imperatore, che finì col consentire un grado di preminenza all’elettore. Ma fu un’autorità illusoria, come scrive nelle sue Memorie di Brandeburg il re Federico II, giacché l’imperatore non si fidava d’altri se non de’ suoi generali; e noi siamo infatti per vedere che non s’attenne egli punto ai disegni strategici che l’elettore proponeva. Si congiunsero i due eserciti il 12 di settembre nel vescovado d’Hildesheim, formando insieme un corpo di 40.000 uomini. Nessun principe tedesco mandò soldati ad unirsi a loro a difesa del territorio dell’impero, ove già erano entrate truppe francesi; le quali, se Olanda fosse stata vinta, avrebbero senz’altro invaso un più gran tratto di paese. Alcuni di essi militavano invece coi francesi, o a questi promettevano di rimaner neutrali. Mentre erano in marcia quegli eserciti, l’infaticabile diplomatico ch’or nominammo, disponeva i luoghi ove meglio sarebbe tornato a loro, e con più danno de’ francesi, il rivolgersi: e indicava Liegi ove, quantunque il vescovo fosse di opinioni francesi, sapeva gli abitanti favorevoli agl’imperiali; ovvero Colonia che conveniva staccare dall’alleanza di Francia. Allo scopo medesimo procurava egli, coll’opera di agenti fidati, d’inimicare al re Luigi l’Inghilterra e il vescovo di Münster; il che più tardi si ottenne. Adoperava poi maggiori industrie a mantenere in fede la corte di Vienna, quando questa incominciò a vacillare ne’ suoi propositi, per la facilità con cui i ministri accettavano per buone le ragioni che, a difesa propria, mandavan loro il re e i ministri di Francia, con grandi proteste di non aver in animo di recar danni all’impero. Restava da altra parte da indurre gli olandesi a firmare il trattato di alleanza, del quale non si avevano che i preliminari; ma questo non si poté conseguire innanzi il 13 di ottobre. Le quali perplessità, e il non avere nei trattati una base sicura per le operazioni di guerra, inceppavano non mediocremente l’azione militare del Montecuccoli. Ma il maggior ostacolo all’energia dell’operare, procedeva senz’altro dalla tiepida inclinazione che sentiva alla guerra l’imperatore, essendoché aveva egli scelto il peggiore de’ partiti ai quali potesse appigliarsi, quello cioè di far mostra delle sue forze, senza volere che venissero adoperate; e di mirare a contentar gli alleati senza inimicarsi gli avversarii, ai quali, come riferisce il Wagner suo biografo, fu detto ch’ei promettesse non avrebbero combattuto per quell’anno le sue truppe contro quelle di loro. A mantenere l’imperatore in tali infelici irresolutezze erano rivolte le industrie dei fautori della Francia che gli stavano intorno (tra i quali il Menzel annovera i gesuiti), e più specialmente quelle del Lobkowitz, dalla segreteria del quale, dice il biografo ora citato, andava al campo francese una copia di tutte le lettere che l’imperatore faceva scrivere al Montecuccoli. Desta poi meraviglia che i generali francesi, i quali sapevano inibito al general cesareo di dar battaglia, tanto pensiero si dessero di tenerglisi sempre a fronte, anziché seguitare le conquiste loro in Olanda, e mantenersi almeno in possesso delle piazze, che colà avevano occupato, e che invece abbandonarono. Converrà credere pertanto li agitasse il dubbio che quel generale, infastidito dei ceppi in cui lo tenevano, operasse di suo capo, e invadesse la Francia; ovvero che ciò potesse fare, da lui aiutato, l’elettore di Brandeburg; o ancora, che venendo a cadere Lobkowitz, si mutasse d’un tratto la politica imperiale. E invero, se questo fosse accaduto, e l’imperatore avesse accettato il piano di Lisola, che invece ei ricusò, non solo que’ due eserciti, ma anche quelli di Spagna e del duca di Lorena avrebbero al tempo medesimo da varie parti invasa la Francia. Come poi avvenisse che abbandonassero i francesi le terre occupate nell’Olanda, siamo ora per dire. In un consiglio di guerra tenuto dagli alleati in Alberstadt, propose l’elettore di Brandeburg che si conducesse l’esercito in Vestfalia; ma non potendosi ciò fare senza dar battaglia, la qual cosa dicevamo inibita al Montecuccoli, questo generale dichiarò come partito migliore l’indirizzarsi al Reno. Così facendo, lascierebbero i francesi l’Olanda, per accorrer alla difesa de’ loro confini; come in effetto accadde. Parve buono il consiglio, e per due strade diverse mossero gli alleati verso Treveri. Negò il vescovo di quella città i passi della Mosella e del Reno, allegando la neutralità convenuta; e lo stesso fece il vescovo elettore di Magonza, al quale, come raccontano più storici, tra cui il Mailàth, aveva scritto Lobkowitz di non permettere il passaggio pel suo ponte né ai soldati di Montecuccoli, né a quelli di Brandeburg; essendoché non di sua volontà, ma per le istanze altrui, aveva l’imperatore inviate colà le sue truppe. E dai francesi veniva intanto bruciato il ponte di Strasburg. Nondimeno il Montecuccoli, checché fosse per dirne Lobkowitz, fece passare il Reno a Niderstein a sei mila uomini; e allora, dice il Menzel, temendo Turenna un’invasione in Francia, con tanta furia ripasso quel fiume ad Andernach, che mille de’ suoi soldati ch’erano a foraggiare per la campagna, non potuti avvertire in tempo, e rimasti dispersi, vennero trucidati dai contadini di Westerwald. Ma Federico II nelle sue Memorie di Brandeburg, ascrive ad una mossa de’ brandeburghesi verso Francfort il passaggio del Reno di Turenna, e il richiamo di altri 30.000 uomini dall’Olanda. Vien chiaro però che il passaggio degl’imperiali di là dal Reno tornava di più pericolo alla Francia che non il volgersi de’ brandeburghesi verso Francfort. Dall’Olanda pertanto il campo della guerra fu tramutato al medio Reno, dove poi i piccoli principi che colà dominavano, tenevano, più o meno scopertamente, le parti dei francesi. Erano inoltre desolati que’ paesi in modo, che a lungo non avrebbe potuto durarvi un esercito. Se fosse stato libero Montecuccoli di agire a sua posta, ben può credersi che avrebbe tenuto dietro egli stesso a quei seimila uomini che aveva mandato di là dal Reno, e si sarebbe risolutamente avanzato per attaccare i francesi; e veramente temevasi a Vienna che lo facesse. Il conte Bartolomeo Arese, presidente del senato di Milano, che apparteneva allora alla Spagna, e uomo devotissimo alla casa d’Austria, indirizzava una serie di lettere a quell’abate Domenico Federici, che vedemmo segretario del nunzio veneto a Vienna, e che a questo tempo s’era mutato in residente imperiale a Venezia; e in quelle lettere, che furono dal Polidori pubblicate nell’Archivio storico italiano, troviamo un riflesso delle preoccupazioni che agitavano allora i ministri imperiali, pel timore che non si tenesse il Montecuccoli dal venire alle mani coi francesi. Di queste preoccupazioni partecipava anche l’Arese, e scriveva pertanto il 12 di ottobre al Federici: “Piaccia a Dio che la misurata circospezione del signor conte Montecuccoli non sia tirata per li capegli al cimento della battaglia, che pure dovrebbe scansare quanto si possa, mentre le truppe di Turena sono superiori nel numero”; il che da prima non era certamente, ma fu solo allora che giunsero a Turenna quei 30.000 uomini ai quali accennammo. Erra poi ad ogni modo il Ramsay quando dice che in tutto quell’anno resisté Turenna a 40.000 uomini; tacendo inoltre che i generali cesarei avevano divieto di combattere. Seguitando l’Arese sull’argomento medesimo in una lettera posteriore, diceva: “Ha ben di bisogno il signor conte Montecuccoli di esercitare nel frangente in cui si trova riposto, quella gran perizia militare e circospetta antivedenza di cui egli rimane dottato per svilupparsi dal Turena, e raddolcire l’agitazione riscaldata del Brandeburgo. Il punto sta ch’esso signor conte s’aggira in un paese nemico ed infedele, e che s’intende col Turena per amplificare anche colle proprie ruine la soverchia grandezza della Francia”. Quant’è per altro all’agitazione dell’elettore, pensano invece gli storici francesi che non inclinasse egli punto alla guerra colla Francia, la quale avendo per alleato l’elettor di Colonia confinante co’ suoi stati, poteva in questi (come poi accadde) penetrare; e che non ad altro mirasse con quella mostra delle sue forze, se non ad ottenere di essere eletto mediatore della pace. E questo gli lasciava sperare, a patto di neutralità, il re Luigi, che, invece aveva destinato quell’officio alla Svezia.
Chiese a quel tempo Raimondo, siccome troviamo in una lettera dell’Arese, uomini e denari a Vienna; la qual cosa porse occasione allo scrittore della lettera di ripetere che non era il caso di tentar imprese in pro d’altri (degli olandesi) con soldati che potrebbero divenir necessarii all’imperatore; il qual dove troverebbe un altro esercito, se perdesse quello del Montecuccoli? Ma rispondere gli si poteva che non sarebbe stato troppo ardua cosa il ritrovarlo, essendo scarso quello mandato in campo, né tale da esaurire le forze degli stati imperiali; ed inoltre, che quel piccolo esercito non era per altro pagato dagli olandesi, se non perché a scampo loro si adoperasse. E questo in effetto rappresentava al Montecuccoli un Ameronge, commissario loro presso di lui, lamentando che non conducesse le sue truppe più presso all’Olanda. Se non che avrebbe dovuto quel generale, per ciò fare, cimentarsi in battaglia co’ francesi, contro gli ordini ricevuti. Pertanto egli si ristrinse a rispondere, che era tornato di grande giovamento all’Olanda l’aver richiamato al Reno una buona porzione de’ soldati francesi che l’avevano invasa, e con questi il Turenna e il Condé, dai quali più non avevano molestia. Onde aveva potuto l’Orange uscire in campagna, e fortezze erano state sgombrate, ed era cessato l’assedio di Groninga; grande sollievo questo alle depresse fortune di quel paese. E tali cose erano infatti conformi al vero, benché nel suo segreto ben sapesse il Montecuccoli, che era un’aquila alla quale s’eran tarpate le ali; che se fosse egli stato libero di operare a sua posta, ben altro avrebbe saputo fare in pro di quegli alleati dell’impero. Noi lasciammo questo generale in aspettazione di Turenna e di Condé, che si avanzavano verso il Reno, e diremo ora che, per evitar conflitti, venne egli richiamato dai ministri, o corrotti o deboli, di Vienna. Fece adunque ripassare il fiume a quell’antiguardia alla quale aveva pensato di congiungersi per proceder oltre, e s’avviò verso l’Assia Darmstad, paese men desolato di quello che abbandonava. Di là andò per pochi giorni a Vienna, come ci avvisa una lettera del cinque di dicembre scritta dal Dragoni. Da altra del 20 di quel mese appare poi che, durante la breve assenza di lui, fossero dissidii tra il Bournonville, che aveva lasciato in suo luogo, e l’elettore di Brandeburg, per cagion forse di quegli 80.000 talleri, pagati, dice il Dragoni, a quest’ultimo dagli olandesi, aggiungendo che ciò era stato dissimulato, colla solita sua prudenza dal Montecuccoli; non imitato in questo, come sembra, dal Bournonville. Al suo ritorno venivano fatte a lui e al Brandeburg dall’elettor palatino e da quello di Magonza proposte di pace, che non ebbero poi seguito.
Destò meraviglia, dice Ramsay biografo di Turenna, il vedere che un così gran generale, qual era Montecuccoli, non aveva, durante quella campagna, dato battaglie; ma avverte egli pure che si diceva averne divieto da Lobkowitz, con ordini, com’ei soggiunge, ne’ quali aveva falsificato il sigillo imperiale. Grandi furono i disagi e le infermità, che funestarono le truppe imperiali in quel rigidissimo inverno, mentre vagavano qua e colà in cerca di quartieri ove riposarsi. Il Dragoni, che insieme col Gazzotti è quello che, più che altri, circa quell’epoca funesta ci porge qualche ragguaglio, scriveva il 1° di gennaio del 1673 che il vescovo d’Hildesheim non aveva voluto lasciar passare que’ poveri soldati per le sue terre, nondimeno una porzione di loro vi poté qualche giorno sostare, come a quel tempo facevano altri in quel di Paderborn. Di là passarono poi tutti a congiungersi ai brandeburghesi in Bilefeld. Intimava allora Montecuccoli al vescovo di Münster di deporre le armi, e di consegnargli le piazze, che aveva tolte agli olandesi. Una ne offerì questi intanto, ma quando andarono gl’imperiali per occuparla dichiarò il comandante che aveva ordine di difenderla. I rigori crescenti della stagione, e un’infermità sopraggiunta in Paderborn al Montecuccoli impedirono poi che di quell’insulto si prendesse vendetta. Passarono poscia gl’imperiali in Franconia, e i brandeburghesi nel principato di Alberstadt. Le istanze dei principi tedeschi, che temevano conflitti sulle terre loro tra gl’imperiali e i francesi che s’avanzavano, indussero più tardi l’imperatore a richiamare le affrante sue truppe in Boemia. Ordinò esso a quel tempo si coscrivesser soldati ovunque si potesse, e instava presso i principi tedeschi acciò a lui s’unissero per espellere gli stranieri dal suolo germanico: ma alquanti di loro eran compri dall’oro di Luigi XIV, che intanto faceva dichiarare alla dieta di Ratisbona che richiamerebbe le sue truppe dalla Germania, se si obbligasse l’imperatore a non soc correre l’Olanda. Montecuccoli a quel tempo, lasciato ad altri il comando delle truppe, come si ha dall’autore dell’opera delle Azioni di soldati italiani, andò a Vienna, “chi dice per malattia, chi perché fosse annoiato di continuare una scena poco decorosa, né potesse più soffrire quel doversi governare secondo i comandi impartitigli dal primo ministro”, cioè da Lobkowitz. Sembra che, o non chiedesse la facoltà di lasciare il campo, o non aspettasse che gli pervenisse, come congetturar si potrebbe da questo passo di una lettera dell’Arese, scritta il 15 di marzo del 1673. “La partenza poi del Montecuccoli dall’esercito cesareo non la può essere che di molto pregiudizio; e nella corte di Vienna la fu appresa con qualche sentimento”. Quando per altro queste cose scriveva l’Arese, non gli era noto che il Montecuccoli da più tempo era tornato al campo, breve essendo stata la sua dimora in Vienna, che venne annunziata dal Dragoni con lettera del 12 di febbraio, mentre con altra del 26 diceva che era caduto infermo a Norimberga, ma che avrebbe in breve raggiunto l’esercito. E’ da lamentare che nessuna notizia ci soccorra circa quanto accadde in Vienna al Montecuccoli, e circa l’esposizione che avrà egli fatta della condizion delle cose, seguita per la sconsigliata politica imperiale. Avrà egli trovato i ministri che nominammo, intenti allora ad impedire una dichiarazion di guerra alla Francia, alla quale pareva finalmente disposto l’imperatore: e con questo mutamento suo di opinione potrebbe aver avuto relazione l’improvvisa venuta a Vienna del Montecuccoli. Ben altrimenti che con quei ministri si sarebbe inteso quel generale con l’audace diplomatico Lisola, che allora appunto rimetteva innanzi il suo disegno prediletto di un’invasione in Francia degli eserciti dell’imperatore, della Spagna e della Lorena. De’ quali progetti non faceva esso parola con Lobkowitz e con Auersperg, che sapeva li avrebbero palesati al re Luigi, ma solo col ministro Hocher confidente suo, che li comunicava all’imperatore. E già, senz’altro attendere, disponeva le cose in modo, che entrando, siccome suggeriva, gl’imperiali su quel di Liegi, vi trovassero preparati e viveri e provvigioni d’ogni qualità. Sappiamo del rimanente che trattò col Montecuccoli per avere uno de’ suoi reggimenti e 500 uomini della guarnigione di Colonia, per presidiar tosto Liegi. Ma di ciò non ne fu nulla, essendo anche tenuto a bada l’imperatore dalle istanze della Svezia, che s’adoperava a cercar modo d’impor fine alla guerra. Era questo il desiderio dei popoli stanchi e rovinati da così lunghi conflitti, ma non quello dei principi: lo stesso imperatore sembrava personalmente alieno da una pace, che nelle circostanze d’allora non poteva tornar profittevole che alla Francia, alla quale non si sarebbe potuto togliere una gran parte delle fatte conquiste. Nessuno per altro osò negare di prender parte ad un congresso, che si adunò poi, dopo lungo contrasto, in Colonia, tenendo la prima sua seduta il 25 di giungo del 1673. I negoziati preliminari di questo congresso sconcertarono i disegni del Lisola; e più di questi lo amareggiò forse la pace separata tra la Francia e l’elettore di Brandeburg. Nondimeno quel diplomatico visse tanto, da vedere meglio avviati gli affari che sì gli stavano a cuore: ma solo quattro anni dopo la sua morte, cioè nel 1678, le sorti dell’Olanda, ad assicurar le quali tanto si era adoperato, acquistarono stabilità, mercé il trattato di Nimega. Si discuteva a Colonia delle condizioni colle quali si potesse venire ad accordi, ma a nulla si approdò; e l’atto inconsulto dell’imperatore che, a suggerimento di Lisola, fece colà rapire da’ suoi soldati e prigioniero ne’ suoi stati condurre Guglielmo Fürstemberg, ministro confidente di quell’elettore, ch’egli, tutto ligio a Francia, manteneva a lui avverso, cagionò la rottura del congresso; avendo i legati di Francia e di Svezia dichiarato di non volervi più prender parte (27 di marzo 1674). Non s’erano durante il congresso intralasciate pratiche diplomatiche d’altra natura, che poi nel luglio di quell’anno si recarono in atto con un’alleanza offensiva e difensiva tra l’Olanda, la Spagna, l’imperatore e l’espulso duca di Lorena, sotto la direzione del quale gli eserciti de’ collegati opererebbero ad un tempo contro la Francia. All’imperatore assicurava l’Olanda un sussidio mensile di 45.000 talleri per 30.000 uomini, che egli somministrerebbe alla lega. E questi sotto il comando di Montecuccoli, non ostante gl’impedimenti che ebbero a vincere, egregie cose operarono, benché non valessero a disarmar l’invidia e l’odio degli emuli del nostro italiano, a difesa del quale più scritture furono divulgate, colla narrazione dei fatti di quell’anno, che dai nemici a lui, a sfogo di bile, venivano travisati. Due di codeste scritture (una delle quali molto estesa e di molto rilievo) furono dal Polidori pubblicate in quell’appendice dell’Archivio storico italiano, nella quale dicemmo aver egli inserito più lettere, che si riferiscono alla carriera militare del Montecuccoli. Una terza di queste relazioni, che inedita io trovai nell’archivio estense, mandata alla corte di Modena dal padre Carlantonio Montecuccoli, e che fu scritta da un Kanon, ministro dello spodestato duca di Lorena, stimo opportuno riprodurla in appendice . Ma prima di entrare in argomento, accennerò a tre Montecuccoli che in quell’anno furono a Vienna. Era uno di essi l’or nominato padre Carlantonio, che fu, come già dicemmo, compagno ne’ suoi viaggi al principe Luigi d’Este. Ritornato esso da poco tempo a Modena, urgenti inviti di Raimondo lo chiamarono a Vienna per gravi affari che gli voleva confidare. E perché troppo tempo sarebbe occorso per ottenere a quest’uopo il permesso da’ suoi superiori di Roma, indusse egli il duca a fingere di mandarlo con commissione sue a Vienna. Sembra poi che ad ogni modo quel suo viaggio venisse disapprovato dal generale dei gesuiti. Rimase nondimeno in Germania (salvo il tempo di una corsa a Modena nel maggio dell’anno successivo) sino all’anno 1676, abitando nel collegio dei gesuiti. Ebbe egli, secondo ogni probabilità, l’officio che sappiamo aver richiesto, di agente estense in Vienna, senza assumerne il titolo, che diceva gli avrebbe procurato contrarietà da Roma; e gli saranno state per avventura consentite le venti doppie mensili, ch’ei dimandò. Di lui infatti rimangono le lettere, colle quali dava conto dell’esito delle commissioni che riceveva: e mandava altresì alla corte di Modena le notizie della Germania. Tre affari propose ancora, nessuno de’ quali riescì a bene: di maritare cioè una principessa estense all’imperatore, o anche al figlio dell’elettore di Brandeburg, se non spiacesse alla reggente duchessa Laura darla in moglie ad un protestante; di procurare la corona di Polonia o al principe Rinaldo, o al duca di Modena: negozio questo che ad altri poi, non senza suo rammarico, venne affidato, come diremo; e da ultimo, di procacciare al medesimo principe Rinaldo il cardinalato, che, per altro mezzo, più tardi conseguì. Del rimanente il trattare a quel tempo affari per la corte di Modena in Vienna era, a suo avviso, cosa di molta difficoltà, perché quella veniva reputata fautrice della Francia, perocché la duchessa reggente era nipote al cardinal Mazzarino. Quanto a sé, dichiaravasi austriaco sino all’ultima goccia del sangue: cosa che non sarà tornata troppo in grado alla duchessa, della quale però dichiaravasi suddito fedele. E ancora si occupò in provveder picche per le truppe ducali, e in altri minori negozi, nonché nel dare le indicazioni opportune ai Montecuccoli, che in que’ tempi furono mandati a Vienna. Così ebbe a fare per gli altri due ai quali accennavamo, il conte Giuseppe cioè, della linea di Polinago, già governatore di Reggio, e il conte Carlo, figli entrambi del conte Giulio ; che erano mandati con offici di condoglianza all’imperatore per la morte di Margherita di Spagna sua moglie, i quali mutaronsi in congratulazioni per un nuovo matrimonio di lui. Una lettera del padre Carlantonio ci dà contezza che allorquando scriveva, cioè il 26 di maggio, erano pronti per l’imminente campagna 30.000 soldati dell’imperatore, ma che per anco non sapevasi per sicuro se li avrebbe comandati Raimondo, perché quantunque si fosse rimesso nella pristina robustezza, avrebbe voluto l’imperatore esser certo che andar potesse alla guerra senza provarne nocumento. In me per altro nasce sospetto che fosse più presto i nemici di lui, e singolarmente il Souches, che s’adoperassero ad impedire il conferimento di quel comando. Ma solo il 27 di luglio scriver poté il gesuita alla duchessa Laura, che Raimondo sarebbe senz’altro andato alla guerra “havendolo l’imperatore incaricato di farlo, con dirgli che non saprebbe confidare ad altri un’armata da cui dipende tutto il corpo, anzi l’anima de’ suoi Stati”. Del padre Carlantonio sappiamo poi che accompagnò nell’autunno il figlio di Raimondo ad una terra di lui, che sarà stata Hohenegg. Veniamo ora a tener parola dei fatti di guerra avvenuti in quell’anno. In quella che noi diremo la più importante fra le relazioni di essi edite dal Polidori, abbiamo i nomi dei reggimenti di fanteria, parte completi e parte non interi, che si trovarono alla rassegna fattane dall’imperatore ad Egra. Fra essi, che erano otto, uno ve n’era del quale aveva la proprietà il tenente maresciallo principe Pio; d’un altro era colonnello il Del Carretto, marchese di Grana. Tredici erano i reggimenti di cavalleria, tra grave e leggera, annoverandosi fra essi quelli del Montecuccoli, e degli altri italiani Caprara e Galasso. L’artiglieria che metteva in mostra 36 cannoni, era agli ordini del principe di Baden. E a queste truppe s’unirono poi altri reggimenti. Il Bournonville ebbe officio di maresciallo di campo generale dell’esercito, e avevano parziali comandi il principe di Lorena, lo Spork generale di cavalleria, i tenenti marescialli principe Pio, Caprara, Wertmüller, i generali Porcia, Leslie e Cavaignac, sergente generale. Quartiermastro era il barone di Vismes: italiani gl’ingegneri militari, Taddei cioè e Nodara, il quale ultimo restò ucciso mentre dirigeva un assedio; e italiano era pur anche il commissario generale conte Giovanelli di Verona, fattosi ricco con imprese di miniere in Ungheria: dopo resi grandi servigi nell’approvigionamento dell’esercito: questi poi, alla fine di quell’anno, morì di febbre maligna a Limburg. Quella parte delle truppe che intervenne alla rassegna, numerò 10,000 uomini della cavalleria grave, 1000 dragoni, 16,000 fanti. Ma durante la campagna si giunse ad avere 32,000 combattenti.
Prese le mosse quell’esercito diviso in tre corpi, che presso Wisheim si ricongiunsero, essendosi avuto notizia che Turenna, venendo da Aschaffenburg, dopo tentato invano d’impadronirsi di Brennsburg, muoveva a provocar battaglia. In un consiglio di guerra a Wisheim espose Raimondo i vantaggi e i pericoli che, accettando la sfida, si sarebbero incontrati, e il modo con cui questi ultimi potrebbersi evitare: e tutti chiesero di combattere. Ordinò allora Montecuccoli si continuasse la marcia alla volta di Uffenheim, dove si sarebbero forse ritrovati i francesi, e dove darebbesi la battaglia. Colà giunti però gl’imperiali, intesero che Turenna, in luogo di avanzarsi, erasi fermato di là dal Tauber; onde dopo aver sostato ivi la notte, vedendo che i francesi non facevan mostra di avanzarsi, ricevuto un rinforzo di tre reggimenti, continuarono la loro via, disposti però in modo da trovarsi pronti, se assaliti, a combattere. Quando infatti si mise Turenna sulle orme degli imperiali, schieraronsi essi in ordine di battaglia; ma anche allora quel generale schivò la pugna, piegando verso Uffenheim. Era probabilmente intenzione del Turenna di allettar gl’imperiali ad andare ad attaccarlo al Tauber, ove occupava una fortissima posizione; ma apparirà naturale che Montecuccoli non volesse deviare dalla sua strada per compiacerlo di ciò. Narra infatti Ramsay, biografo di Turenna, che cercò quel generale di trarlo a battaglia in luogo per sé opportuno, e che l’altro finse di accettare; ma allorché riuniva a tal uopo Turenna le genti sue, egli si ritirò pel vuoto lasciato dai francesi che si concentravano. Cavaignac nell’Abrégé de la vie de Turenne, e Napoleone I nelle sue Memorie, affermano parimente sfuggiti gli imperiali a Turenna quando volea trarli a battaglia. Tutta questa guerra, nella quale, sino alla morte di Turenna, i due più grandi capitano di quel tempo (terzo ne era il Condé) si trovarono a fronte, fu detta già una continua scuola di strategia, una ricerca assidua de’ luoghi acconci al combattimento, evitando le glie se di questi non si era in possesso; l’arte infine di danneggiare il nemico, anche senza venire alle mani. Bastò adunque a Montecuccoli l’avere aspettato i francesi in ordine di battaglia dove, se avessero continuato a procedere contro di lui, avrebbero dovuto trovarlo. E di nuovo ciò fece egli allorquando, veduto di non poter attrarlo a sé, si levò Turenna dal suo campo per tenergli dietro; ma anche in quella occasione ricusarono i francesi la sfida, ritornando verso Uffenheim. Una valle divise allora i due eserciti nemici, e ne seguirono scaramuccie con danno dei francesi, ai quali fu anche tolta a forza un’altura che avevano occupato. Di questi fatti d’arme diede ragguagli il Montecuccoli al Federici per noi nominato, con lettera del 15 di settembre dal campo tra Ochsenfurth e Risingen al Meno, accennando al gran valore mostrato dalle sue truppe nell’assalto di quell’altura di che dicevamo, e alle vantaggiose scaramuccie. Questo chiamava egli: “preludio felice a maggiori progressi, che ha mirabilmente acuito l’animo della nostra soldatesca allettata anco dal bottino del denaro ch’ella ritrova sopra le persone dei morti e dei prigionieri”. E doveva esser quello veramente il preludio di grandi cose; imperocché nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani si racconta, dietro l’autorità del Wagner biografo dell’imperator Leopoldo, che si trovò allora Turenna in circostanze oltremodo difficili, mancandogli i viveri che attendeva dalla Baviera, dalla quale lo avevano separato gl’imperiali, che stavano per dargli battaglia. Non gli era poi riescito di fare un ponte, che gli assicurasse la ritirata. Se non che questa volta ancora il traditore Lobkowitz mandò ordine espresso al Montecuccoli di non attaccare i francesi: e per tal modo Turenna ebbe comodità di scampare ad uno de’ maggiori pericoli, ne’ quali durante la sua vita militare fosse mai incorso. Per questa battaglia non data, gran romore levarono in Vienna i nemici del Montecuccoli, che poi non poteva mettere in pubblico gli ordini ricevuti dal ministro; i quali l’or nominato biografo imperiale asserisce essere stati veduti da persona degna di fede, che più tardi a lui medesimo porse quella notizia. Certi versi satirici contro il Montecuccoli furono allora posti in giro, e il padre Carlantonio li diceva fatti “da uno che sta in casa Giovanelli, ne’ quali, secondo egli si esprime, si esponeva il bene e il male”. Ma questi versi, ch’erano inclusi nella sua lettera, ora nell’archivio estense più non si trovano. L’imperatore poi sarà stato informato, almeno in parte, del divieto di dar battaglia mandato a Montecuccoli, e che il Lobkowitz avrà cercato di far credere necessario, perché né mandaronsi per questo rimproveri al generale, né cadde per allora in disfavore il ministro. Gran virtù del rimanente occorse al Montecuccoli per tollerare, senza poter esporre sue ragioni, offese che lo ferivano nell’onore. Del divieto mandato da Lobkowitz parlarono, senz’ombra di dubbio, gli storici moderni, tra i quali anche Mailàth, che dice non avrebbe mai potuto salvarsi Turenna, se quel ministro non avesse ordinato a Montecuccoli di non combattere. Ecco ora come vengono esposti codesti fatti dal padre Carlantonio (ignaro forse del segreto, o che non voleva affidarlo a lettere) in una sua del 26 di ottobre da Hohenegg: “Il Turenna si provò di forzare con tutta la sua armata allhora più numerosa della nostra Oxenfurt, furono incontrate le sue prime partite dalle nostre così vigorosamente che ristettero dall’intrapresa con danno e poca gloria: poi egli si è sempre trattenuto in luoghi vantaggiosi, e finalmente vedendo di non poter impedire il progresso dell’armata cesarea si ritirò a’ suoi posti nel Miltemburg, et Schlossenburg. L’armata imperiale proseguì il suo viaggio e costrusse un ponte di barche sul Reno (Meno) dirimpetto a Lohr, restandovi pur libero l’altro ad Oxenfurth... Questo è quanto è successo sino al primo del corrente di cui ho lettere da S. E. (sua eccellenza). Ecco detto il vero, senza poi quello che sa e non sa la bugia, la leggierezza e la malignità”. Ed ora chi può dire qual piega avrebbe preso la guerra, se Turenna, com’era probabile, fosse stato allora sconfitto in modo da non poter impedire a Montecuccoli di entrare in Francia, se ciò fosse stato ne’ suoi disegni? Ma perché non è da noi il mettere in campo congetture, seguiteremo dicendo che Montecuccoli stesso affermò in una sua lettera del 26 di settembre che Turenna, dopo esser stato molto vigorosamente ricevuto quando si presentò in battaglia presso Ochsenfurth, non era più tanto avido di combattere; e che accampava anzi in luoghi vantaggiosi e sicuri, senza mai dargli l’occasione, ch’ei desiderava, di venire a battaglia. Otto giorni, come da altra lettera di Raimondo si ritrae, stettero accampati i due eserciti in vista l’uno dell’altro; nel qual tempo distaccò Raimondo un corpo di 1000 cavalli, condotti dal colonnello Doneval , il quale fece magnifica impresa. Piombò da prima sopra un corpo di francesi, molti de’ quali rimasero uccisi, e distrusse poscia a Wertheim i magazzini del loro esercito, predando i viveri che in nove barche a loro si mandavano; e ancora s’impadronì di cinquantadue carri di lor provvigioni (lettera del Montecuccoli al Federici). E questo fu che, insieme con l’evoluzioni de’ cesarei, ridusse il Turenna in quelle angustie che dicemmo, e dalle quali Lobkowitz lo liberò. L’acquisto di quelle così opportune prede dal Feuquiéres nelle sue Memorie viene reputato un fatto molto importante, vie più perché, a conseguirlo, dovette prima Montecuccoli rivolgere alla causa imperiale il vescovo di Würzburg, che aveva un trattato coi francesi, pel quale consentiva tenessero nella sua città i forni per provvedersi di pane. Diede egli invece comodità agl’imperiali di togliere cotali agevolezze ai francesi che, a non morir di fame, si videro astretti a levarsi di là, andando presso Philisburg: rimase libero perciò a Montecuccoli di toccare il fine al quale mirava, e che era la sua congiunzione cogli ispano-batavi. Si vede, dice Feuquiéres, da questo errore di Turenna (di non aver fatto scortare i viveri) quanto occorra vegliare sulla sicurezza dei convogli. Avendo Turenna levato il campo pel primo, si pose a disertare i paesi pe’ quali passava, per rendere più disagiata la marcia degli imperiali, che gli tenevan dietro. Si fermò poscia a Wertheim, che dopo la scorreria fattavi da Doneval, si veniva fortificando; ma durante il viaggio più centinaia de’ suoi caddero sotto il ferro della cavalleria dello Spork, che li inseguiva. Montecuccoli, con una marcia durata un giorno e una notte, andò a Würzburg; e là, dopo inteso il parere de’ generali radunati a consiglio, decise che, ad assicurare la Franconia, la quale faceva istanza per esser difesa da un’irruzione nemica, vi si lasciassero alcuni reggimenti, e che cercando sforzare ogni ostacolo, il rimanente dell’esercito, risolutamente procedesse verso Bonn nell’elettorato di Colonia, paese ligio ai francesi. Per quella strada raggiungerebbesi lo scopo di quella campagna, che era, come dicevamo, la congiunzione degli imperiali cogli spagnoli e gli olandesi. Insieme muoverebbero poscia contro i francesi, ai quali si toglierebbe la via per entrare nelle provincie dell’impero, e verrebbero forzati, pel timore di un’invasione in Francia, a sgombrare le piazze, che tuttavia occupavano in Fiandra e in Olanda. Difficile annunziò Raimondo a’ suoi generali che riescita sarebbe quell’impresa, per la vicinanza del nemico, nonché per la qualità dei luoghi impervii, pei quali s’avrebbe a passare. Fu l’esercito diviso in due parti, una delle quali, guidata da Bournonville, prese la via più lunga, ma più comoda, e andò l’altra col Montecuccoli per la più breve, ma che era insieme la più vicina al nemico, e la più difficile. Ebbero infatti a passare que’ soldati per la Spesshart, dove boschi e montagne non offerivano che fanghi ed acque continue. E ancora si patì colà penuria di pane, come è detto in una Relazione che già citammo. I quali disagi, più che ad altri, dovevano tornar gravi al Montecuccoli, la salute del quale, come dicevamo, da più tempo erasi fatta malferma, e che pure, durante quest’anno, miracolosamente le maggiori fatiche poté tollerare, salvo poi a risentirne più tardi le conseguenze. Sembra in effetto che l’uomo, in circostanze difficili e allora che si trova gravato da una grave responsabilità, com’era il caso del nostro valoroso italiano, con uno sforzo morale che tiene dell’orgasmo fisico, pervenga ad accrescere momentaneamente le proprie forze, o a non provare almeno gli effetti di cause, che ad altri tornerebbero disastrose. Avvenne ancora che in quei malaugurati luoghi si avesse a sostare, essendosi dovuto provvedere dal generale a mandar nuove truppe in Franconia, a grande istanza richieste dal vescovo di Würzburg, che temeva gli venisser sopra i francesi. Da Lohr scriveva poi Montecuccoli al Federici, che giuntovi finalmente l’esercito, dava opera a fare un ponte per passare il Meno, coll’intenzione di tirar la guerra fuori del circolo di Franconia, e di avvicinarsi al Reno. Ma, o incontrasse egli qualche difficoltà, o mutasse avviso, certa cosa è, come si legge nella relazione del Kanon, che fece egli ripassare alle sue truppe il fiume già traghettato. E questo suo intento di voler trarre la guerra altrove, lo ripeteva dodici giorni appresso in una sua lettera dal campo di Hanau, aggiungendo che mirava a prendere il nemico alle spalle. In questa lettera, come in altre, narrava parziali scontri di alcun suo corpo coi francesi, che tornavano sempre in danno di costoro, molti morti lasciando sul terreno: e perché questo più volte accadde, si può reputare che Turenna più gente perdesse allora, che se avesse dato una battaglia. Ciò non impediva per altro all’ambasciator francese presso la corte di Savoia, come leggesi in una lettera del conte Arese, di vantare “una rotta e quasi strage fatta da Turenna delle armi cesaree: follia però non creduta e quasi riputata per impossibile”. Soggiungeva poi andare il Montecuccoli insegnando “che la perizia militare vera consiste più nella prudenza e nella finezza del giudizio per cogliere gli avvantaggi sul nemico che nel precipitare a genio di chi non intende la professione”. Narrava in altra sua che quell’ambasciatore medesimo, al quale non faceva difetto l’audacia, propria della sua nazione, andava asserendo che 300 francesi avevano fatto deporre le armi ad 800 imperiali. Queste e consimili novelle venivano disseminando i connazionali suoi per le corti d’Italia, “non avvedendosi, dice l’Arese, che le menzogne svaniscono all’istante, e che maggiore è lo scorno di chi le andò divulgando”. In una lettera successiva, diceva poi che Montecuccoli, togliendo i viveri a Turenna ed obbligandolo a ritirarsi, “aveva dato un gran tracollo al concetto che di lui e dell’armata francese si aveva”. Neppure ad Hanau fu passato il fiume, per le ragioni forse che vengono addotte in una relazione manoscritta di quella campagna, cioè che accadeva al Montecuccoli di dover talvolta mutare i piani meditati, per le difficoltà che sui luoghi gli si presentavano, per la mancanza o dei viveri o de’ foraggi, alla quale sarebbe andato incontro tenendo una via piuttosto che un’altra, o per la condizione del paese ove s’avrebbe ad entrare, favorevole, o avverso agli imperiali, e per altre consimili ragioni. E ancora alcuna volta fece mostra di voler occupare un luogo, e vi cominciò anche la costruzione di ponti, per attirar colà il nemico, mentre invece ad altra parte si volgeva. Fu adunque a Francfort sul Meno, e non altrove, che passò Montecuccoli quel fiume, facendo al tempo medesimo assalire da una parte de’ suoi la cittadella di Fridburg, che da non guari tempo era stata occupata dai francesi. Quelli di loro che v’erano a guardia, dopo non molta resistenza, si arresero a discrezione, e rimasero prigionieri di guerra, salvo il comandante, che fu lasciato tornare a’ suoi. Turenna, che si era contentato di mandar in giro qualche corpo volante de’ suoi, ma era rimasto sempre nella forte sua posizione di Wertheim, di là allora finalmente si levò; liberando così dal timore de’ francesi la Franconia, come tanto aveva desiderato Montecuccoli, che sapeva devota quella provincia alla causa nazionale. Né prima d’allora il Turenna aveva abbandonato Wertheim perché, dice il suo biografo Ramsay, indovinar non poteva dove Montecuccoli, con tante marce e contromarce, volesse andare; né mai gli cadde in mente che mirasse a congiungersi cogli ispano-olandesi, già forti per loro stessi, né bisognosi d’aiuti. Sospettò sempre che tendesse all’Alsazia, per rafforzarsi a Strasburg, città libera imperiale, laddove Breisach, e le altre fortezze occupate dai francesi erano deboli, e poco munite; lo confermavano vie più in questo suo pensiero i ponti che Montecuccoli costruiva. E ancora andava pensando che per la Lorena penetrar volesse in Francia. Questa fissazione del Turenna acremente gli venne rimproverata da Napoleone I nelle sue Memorie, giungendo a dire: “La faute de Turenne est un nuage pour sa gloire; c’est la plus grand faute qu’ait commise ce grand capitaine”. E dice che mai non era da supporre che volesse Montecuccoli andare a dar di cozzo nei due eserciti di Turenna e di Condé; e che in ogni caso il francese doveva regolare le sue mosse a norma di quelle degl’imperiali, e non tenendo dietro a congetture. E’ questa marcia, continua a dire Napoleone, che ha fatto la gran riputazione di Montecuccoli: “il a joué Turenne, lui a donné la change; il s’est débarassé de lui, l’a fait marcher en Alsace pendant qu’il se portait à Cologne”. Montecuccoli, poiché Turenna si fu allontanato, fatto disfare il ponte sul Meno, s’incamminò alla volta di Magonza per passare il Reno; ma ciò non poté fare, o perché quell’elettore aveva guastato il suo ponte, com’è detto nella Relazione citata, o meglio, come lo stesso Montecuccoli scrisse al Federici, perché negava il passo del suo ponte, e consentiva solamente che un altro appositamente se ne costruisse; al qual uopo mancavano poi i materiali occorrenti. E questa sosta involontaria fu giudicata dai francesi, come racconta Ramsay, una nuova astuzia di Montecuccoli. Imaginandosi allora Turenna che l’avversario potesse rivolgersi a Treveri, poiché ebbe ricevuto un rinforzo di truppe condottogli da Vaubrun, a quella volta s’indirizzò, con moltissima soddisfazione del general cesareo, che a tutt’altra parte avea rivolto la mira. E tosto Raimondo, dopo consigliatosi coi suoi generali in Wisbaden, ove aveva il suo quartiere, mandò su di un ponte volante e per barca 2000 fanti e 1000 cavalli di là dal Reno, e fece imbarcare la fanteria e l’artiglieria grave, ordinando alla cavalleria che per terra andasse ai ponti di Nassau e di Dies sulla Lona. Costeggiò poscia egli stesso il Reno a capo di due reggimenti di cavalleria, e di uno di dragoni, tenendosi in vista dei corpi, che marciavano sull’altra sponda del fiume. Meta alla marcia Coblenz: l’elettore di Treveri, che staccato si era dall’alleanza co’ francesi, offriva i passi del Reno e della Mosella, senza de’ quali, crede Ramsay che gl’imperiali sarebbero stati divisi in due da Turenna, andato, come dicevamo, nel paese di Treveri. Innanzi di mettersi in via da Wisbaden, aveva scritto Raimondo il 28 di ottobre al Federici, che mirava, colla mossa che stava per fare, ad “assicurare la linea di comunicazione, ricoprire l’operazione de’ collegati e tentare tutto (che) verrà più acconcio: intanto, soggiungeva, si è tratta la guerra fuori dell’Imperio Cisrenano, e sempre ottenutosi vantaggio in qualunque riscontro s’è avuto coll’inimico”. Lungo il viaggio intrapreso, Raimondo spediva il marchese di Grana (Kanon aggiunge anche il principe Pio) ad impadronirsi come avvenne, di Andernach, ed altri drappelli di truppe ad occupar terre circostanti abbandonate dai francesi, e Noremberg, che s’ebbe per sorpresa. Giunto poi esso a Coblenz, e avuta nuova dell’avvicinarsi degli spagnoli, andò loro incontro con la cavalleria, non senza correre qualche pericolo nel guadare un fiumicello chiamato Ahr, tanto cresciuto per le pioggie, che l’acqua giungeva sopra le selle dei cavalli. Incontratosi poscia col marchese di Assentar, comandante le truppe spagnole, insieme fermarono di assediar Bonn, residenza di quell’elettor di Colonia, che punir volevano del suo parteggiar pe’ francesi, ai quali altresì sarebbe tornata perniciosissima la perdita di quella città. E tosto ai due eserciti vennero a congiungersi gli olandesi, condotti dal principe d’Orange. E così, mentre erasi lusingato Turenna di poter ricacciare Montecuccoli in Boemia, questi raggiungeva invece lo scopo che si era proposto; e molta lode gliene venne, come si legge nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani “per havere coll’arte, col consiglio, col valore schernita la raffinata prudenza e il valore del più rinomato guerriero d’Europa”; parole che concordano con quelle di Napoleone già da noi riferite. Convien confessare senza esitazione che nella campagna di quest’anno fu Turenna inferiore alla sua fama, come agevolmente dedurre si può da quanto venimmo dicendo; e questa lotta, senza l’intromettenza del Lobkowitz, avrebbe potuto avere per lui conseguenze più disastrose. Che Turenna fosse poi caduto nel laccio che Montecuccoli colle sue finte mosse gli tese, sembra convenirne anche un aiutante di lui; il quale in certe sue Memorie, stampate a Colonia nel 1692, dice che il generale Montecuccoli non era un pazzo, e se ne avvidero i francesi quando egli, fingendo di volere attaccar da un lato, gettossi invece sopra Bonn, che ad essi fu impossibile di difendere. “Vogliono, scriveva l’Arese, che il Cristianissimo abbia redarguito esso Turenna perché non si sia cimentato in battaglia aperta con Montecuccoli, ma ch’egli rispondesse che trovò li soldati alemanni con braccia, mani, gambe, buoni cavalli, coraggio e valorosi capi” . Sfogò Turenna il molto sdegno che il mal’esito di quella campagna aveva in lui suscitato, con quella orribile devastazione del Palatinato rimasta famosa nella storia , benché la scusi il Grassi, che reputava lecita in guerra ogni cosa a danno del nemico: opinione eccessiva, e da non aversi, a mio credere, per la migliore. Ma veniamo ora all’assedio di Bonn. A ciascuna nazione fu assegnata la parte della città contro la quale doveva operare, indicandosi ciò che avesse a fare per tenere in rispetto la guarnigione, che, tra francesi ed elettorali, si componeva di 1500 uomini con 100 cavalli, comandati gli elettorali dal generale Lamsberg, governatore della città, i francesi dal conte di Revillon. Abbondavano cannoni, munizioni e viveri. Dell’esercito francese scriveva intanto Montecuccoli il 3 di novembre che, “usciti (i francesi) dall’Olanda e dai Paesi Bassi coll’Humières e col Luxemburg per unirsi a Turenna stanno giornalmente per tentare il soccorso”. Diceva poi pessima la stagione per accampare, e per lavorare alle trincere; ma non fu mestieri, come il Kanon asserisce, di tracciar linee di circonvallazione, giacché il lungo viaggio che dovevano fare i francesi per giungere colà, li avrebbe ad ogni modo fatti arrivare troppo tardi. Aveva deliberato Montecuccoli di andare egli medesimo con cinque o seimila cavalli contro il general d’Humières, che primo si avanzava, e di batterlo in aperta campagna; ma venendogli rappresentato, che avanzandosi esso a marce forzate, non si sarebbe saputo ove trovarlo, e che intanto le truppe assedianti s’indebolivano, se ne astenne. Contro la piazza, dietro le norme date dall’ingegner militare Taddei, procedevasi per via d’approcci; sotto il fuoco incessante de’ cannoni e de’ moschetti degli assediati, onde fu colpito ancora un conte di Königsmark sergente generale degli olandesi, e più altri rimasero morti o feriti: il Montecuccoli stesso e i capi degli altri due eserciti incontrarono pericolo nel visitare i lavori. Ma essendo questi molto avanzati, il nemico si decise alla resa a buoni patti di guerra. L’ultima lettera del Montecuccoli al Federici tra quelle che abbiamo a stampa, che fu scritta il 12 di novembre, gli partecipava appunto questa notizia colle seguenti parole: “Finalmente dopo un assedio di sette giorni si è resa per accordo la città di Bonna alle armi di S. M. Cesarea, le quali si sono impadronite questa sera di una porta della città e di tre baloardi, dovendo la guarnigione tedesca e francese uscire domani mattina”. Quasi tutti i soldati dell’elettor di Colonia si arrolarono allora tra gl’imperiali, come pur fecero quelli ch’erano a guardia della terra di Kempen, presa dallo Spork e dal marchese di Baden. A Bonn il Montecuccoli pose per governatore il marchese di Grana, e non consentì agli alleati che in essa stanziassero truppe loro, essendo la città entro i confini dell’impero germanico. “Turenne (dice Napoleone I) fort humilié de s’être laissé tromper, descendit le Rhin, et traversa l’Hundruk: mais déjà Bonn avait capitulè”. L’Humières, giunto pel primo presso Bonn, la seppe in mano dei nemici: i suoi soldati, narra Voltaire, nella Vita di Luigi XIV, furono tagliati a pezzi. Pertanto l’esito della guerra del 1673 era tornato favorevole alla causa imperiale e a quella degli alleati; onde l’autore della Relazione dal Polidori inserita nell’Archivio storico italiano, a ragione poté dire che il Montecuccoli in quella campagna si era mostrato superiore a Turenna, al quale aveva fatto perdere quel prestigio che tanto terrore incuteva nei principi tedeschi, e tratteneva gli spagnoli dal dichiararsi apertamente nemici della Francia. Né valse poi esso ad impedire a Montecuccoli l’eseguimento del piano che si era proposto, né che in paesi favorevoli alla Francia, svernassero le truppe di lui, reso oramai più forte colla sua congiunzione agli alleati, le fortune de’ quali ricondussero diversi principi alemanni all’alleanza coll’imperatore. Né a questo tardò guari ad offerire il concorso delle sue truppe anche l’elettore di Brandeburgo, che non reputava, così operando, di far contro al trattato che aveva colla Francia, essendo egli tenuto di cooperare alla difesa del territorio germanico. La Francia vide allora sfuggirsi di mano la Germania, dice un biografo di Turenna. Ma ciò che maggiormente offese l’amor proprio del re di Francia, fu l’essersi voltata contro di lui l’Inghilterra. In quel paese il re Carlo II trovavasi quasi solo a secondare i disegni di lui, che a questo lo aveva indotto mercé una pensione che gli passava. Ma quando il duca di Yorch suo fratello, che non avendo egli figlioli doveva succedergli sul trono, sposò Maria d’Este, sorella del duca Francesco II di Modena , il parlamento da que’ due, ch’erano cattolici, stimò minacciata la religion del paese. Allora fu imposto al re di disdire l’alleanza Francese, e di collegarsi coi protestanti olandesi. Fra tante jatture che ad un tempo venivano ad offuscare l’astro, già così splendido, delle fortune di Luigi XIV, questo re avrà accolto con soddisfazione la notizia che Montecuccoli, il quale aveva tenuto in iscacco le truppe di lui, si ritirava dall’esercito, potendosi perciò sperare che avrebbe arriso di nuovo la vittoria, siccome accadde, alle armi sue. Erasi infatti riserbato Raimondo, allorché uscì in campagna, di poter tornare a Vienna all’aprirsi del verno; la quale stagione da alcun tempo soleva essergli apportatrice di una recrudescenza dei mali, che i disagi incontrati in tanti anni di guerre gli avevano, col progredire nell’età, procacciati, e che erano dolori di podagra e di chiragra. E già i rigori della stagione facevansi sentire, allorché la presa di Bonn e di qualche altra terra circostante poneva fine per quell’anno alle fazioni di guerra, impedendo si mettesse mano all’impresa di liberar Treveri dai francesi, com’era ne’ desiderii del Montecuccoli. Non stimava egli pertanto che fosse necessaria come per l’innanzi, la sua presenza al campo. Partiva senza dubbio coll’intenzione di ritornarvi a primavera, se non l’impediva la salute; ma tale non era, come siamo per dire, il disegno de’ nemici e degli emuli suoi. Vi fu chi asserì che Raimondo non fosse partito spontaneo da Bonn, ma che venisse richiamato; la qual cosa, se avesse ad intendersi come dimostrazione di biasimo a lui, sarebbe falsa: il padre Carlantonio, cugino suo, c’insegna che fu egli chiamato a Vienna, per esser consultato circa la nuova campagna; e che l’imperatore gli mandò incontro una staffetta per accelerarne la venuta. Che dire poi dei giornalisti di Trévoux, che scrissero gli alleati dell’imperatore essere stati quelli che procurarono il richiamo di lui, coll’allegare che si sarebbero da quella campagna potuti conseguire vantaggi maggiori? Fu invece a Vienna, poi che vi giunse, che contro di lui uscirono in campo i nemici suoi, tra cui non esiterò a porre il Souches; il quale, non avendo voluto intervenire all’ultima guerra, forse per non avere a sottostare al Montecuccoli, dirigeva in Vienna le cose della milizia. Un caustico diplomatico toscano, il conte Magalotti, coi giudizii del quale dicemmo già non esser sempre da fare a fidanza, in uno di quei ritratti degli uomini di guerra del suo tempo, che mandava alla sua corte e de’ quali porgemmo un saggio, diceva del Souches che era “poverissimo uomo, che né sa, né ha mai saputo niente. Bravo della sua persona, di nessuna intelligenza militare, e dotato di tutte le cattive qualità di rapina, d’invidia, di vendetta e di tutte quelle che possono concorrere in un cuore avvelenato”. Quant’è per altro alla rapina, quel diplomatico la diceva vizio comune di tutti i generali imperiali, scordando, a questo luogo, di fare eccezione se non altro pel Montecuccoli, al quale tal pecca non affibbiò poi, allorché ebbe a scrivere di lui. Avarissimi diceva altresì molti di que’ generali. Dal giudicio del Magalotti sopra il Souches levando il soperchio, rimarrà sempre vero, per quanto più addietro venimmo esponendo, che non andava fornito di grandi talenti militari, che all’ambizione, da cospicue imprese non avvalorata, di primeggiare sugli altri avrebbe sacrificato qualsia cosa più rispettabile, e che capital suo vizio era l’invidia, in riguardo singolarmente del gran nome che si era venuto acquistando il Montecuccoli. Vedremo in breve com’egli riescito a porsi momentaneamente nel luogo di quel gran capitano, si vedesse indecorosamente troncata la sua carriera militare. Nato francese, sembra che siccome mostra credere Mailàth, si stringesse al Lobkowitz, il quale per denaro favoriva la Francia ai danni del proprio sovrano; e creder puossi che avrà avuto parte nelle disposizioni date da quel ministro per impedire al Montecuccoli di trarre, come dicevamo, a ruina il Turenna. Né cosa alcuna nella condizione in che i francesi allora si ritrovavano, poteva riescire di maggiore utilità ad essi e alle mire particolari del Souches, che l’allontanamento del duce supremo dell’esercito imperiale dai campi di battaglia. Il Montecuccoli pertanto al suo giungere in Vienna così trovò minato il terreno sotto di sé, che in luogo degli encomii che gli erano dovuti pei vantaggi conseguiti, non incontrò in sulle prime che freddezza da un lato, e accuse dall’altro, perché, per le soverchie sue circospezioni non avesse conseguito maggiori trionfi. Né mancò chi gli rimproverasse di non aver osato ad Ochsenfurth, dove vedemmo come le cose procedessero, dar battaglia a Turenna, ben sapendo che non avrebbe egli potuto produrre in pubblico gli ordini ricevuti da Lobkowitz. Sarà per avventura in quella circostanza tornato alla mente del Montecuccoli questo passo de’ suoi Aforismi, che ai casi suoi così bene si attagliava: “A quante e quali censure, calunnie e giudizii degl’imperiti e del volgo degl’invidi e degli emuli non è egli (un generale) sottoposto? Mutano il nome alle cose; chiamano il generoso temerario; il cauto irresoluto; il prudente prolungatore della guerra; il vincitore orgoglioso: ognun vuol fare del guerriero e del giudice ec.”; e più oltre ammoniva, il generale dovere “esser costante scoglio contro il flutto delle maldicenze, star fermo contro le satire, far bene e udir male, ridersi di que’ delirii, disprezzar que’ demonii, e soddisfarsi dell’approvazione de’ buoni”. Così avrà egli fatto allora, e certamente si valse poi del consiglio che, nel capitolo medesimo, ei dava ai generali calunniati, e che anche ai giorni nostri tornerebbe opportunissimo, di non porre cioè in pubblico a lor difesa i segreti di stato, i difetti dell’esercito, e la debolezza e la negligenza di qualche ministro, il che porta più danno che utile. E soggiungeva: “Ma tutti non hanno il dono della beatitudine di san Matteo”, citando ivi il passo del Vangelo che dice: “Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam”. Agl’indugi che, sebbene a torto, anche nella spedizione dell’Ungheria gli si rimproverarono, aveva egli nel cap. III, del primo libro degli Aforismi dato risposta, citando l’esempio di Fabio Massimo, del quale infatti qualche storico lo disse imitatore. Delle opposizioni incontrate da Montecuccoli tenendo parola il Foscolo, scriveva: “La ragione e l’equità non sarebbero forse state bastevoli a giustificarlo, se l’esito non lo avesse fatto trionfare a malgrado degli emuli”. Coloro intanto che avevano più a cuore le fortune dell’impero, vivevano in ansietà per questo scatenarsi delle passioni contro il solo uomo che potesse competere con Turenna e salvare la Germania. Il conte Arese, uno di questi, scriveva il 10 di gennaio del 1674: “Per quiete e buona regola dell’esercito cesareo sarebbe di gran vaglia il ritorno del conte Montecuccoli all’esercito”; e il 14 di febbraio, quasi profetizzando, diceva: “Se Montecuccoli non assisterà all’esercito questo caderà in languidezza, e il far mercede ad un signore di tanto merito egli è un atto di tutta giustizia”, e questo vie più per aver esso precedentemente annunziato, che si era il Montecuccoli con molta sodezza giustificato intorno a quanto i nemici suoi gli apponevano a colpa. Ma non si dettero questi per vinti, e molta amarezza lasciò quella controversia dietro di sé, e fu probabilmente una delle cagioni che indussero, come diremo, quel generale a non accettare di riprendere il comando, insino a che la futura campagna non avesse posto in mostra ciò che altri sapesse fare. Riprese egli invece la presidenza del consiglio aulico di guerra; e l’autor francese dell’opera Estat présent des affaires d’Allemagne, edita l’anno a questo successivo in Lione, scriveva allora che egli vi godeva molto credito, e che la grande estimazione in cui l’imperatore teneva i consigli di lui, così negli affari di guerra come in quelli della pace, molta autorità gli procacciava. Notava esso altresì che saggiamente approfittavano gl’italiani del suo favore, ed occupavano buone cariche civili e militari, citando ad esempio il Del Carretto, il marchese Pio e il conte Caprara (pag. 88, 89). Anche il valente scrittore alemanno dottor Grossmann, da me già ricordato, in un articolo, troppo per me benevolo, inserito in una Rivista di Berlino, acconciamente notò, che rese Raimondo alla casa d’Austria servigi forse più grandi che non si crede generalmente, non solo in guerra, ma altresì negli affari politici. “Né era raro il caso che, mentre il Montecuccoli trovavasi al campo, gli giungessero direttamente da Vienna, e all’insaputa dei ministri, ordini imperiali, e richieste di pareri e di consigli... aveva egli come Presidente del Consiglio aulico di guerra voto definitivo. Tutto sommato, in una parola, il grado tenuto da Raimondo sotto l’imperatore Leopoldo non fu guari dissimile da quello che ebbe già il principe Eugenio durante il regno di Carlo III” . Al Montecuccoli come presidente del consiglio aulico di guerra, è dovuto il buon avviamento dato allora alle cose della milizia e, al dire del Mailàth, la riforma dell’esercito imperiale, o, come scrisse il nunzio veneto Contarini, la fermezza e il mantenimento delle linee in quelle truppe. A ragione pertanto asseriva lo spagnolo don Giacinto Vera (come si ha da una relazione che citeremo d’un cavalier Borgognone) che quando si trovava Montecuccoli in consiglio, era come una lucerna che dirada il buio delle cose. Quanto tempo rimanevagli libero impiegò egli allora nello stendere quel dotto e bellissimo suo libro: L’Ungheria nel 1673, il quale rimasto inedito sino ai giorni nostri, fu dal Grassi nel 1831 posto in luce, insiem con altre opere di lui. Lo trasse egli dal pregevole manoscritto delle opere di quell’illustre modenese, che appartenne al pittor Bossi, e che ora è da me posseduto; ma prese errore reputandolo da lui scritto nel 1673, quando era esso, come vedemmo, in altro occupato; ed erra ancora nell’attribuire a quell’anno avvenimenti accaduti nel 1672 e nel 1674, dai quali ultimi appunto si ritrae il tempo in cui egli attendeva a quell’opera. In essa trovasi incidentalmente nominato il 1677, e sarà da credere, col Grassi, ad una giunta fatta in quell’anno, quando, forse per la prima volta, presentava il suo lavoro all’imperatore; non altro infatti ivi è ricordato circa cose accadute dopo il 1674. In quell’opera, tessuta la storia delle molte rivoluzioni alle quali andò soggetto quel reame, insino a quella che costò la vita al Nadasdi e a’ suoi complici, da esse deduce, che a tener a freno quel popolo turbolento, occorrono severe norme: ed appunto in questo libro, come altrove notammo , le vien egli proponendo. Tra queste, seguendo l’esempio che ne lasciarono i romani, proponeva si facesse un deserto tra l’Ungheria e le terre dei turchi, per tor modo a questi ultimi di mescolarsi nelle cose di quel regno, e agli ungheri di ricorrere ad essi, come più volte avevano fatto. Poneva però come condizione, che si fosse ridotti al punto “o di lasciar il paese all’accrescimento delle forze nemiche, o di disertarlo”. A questa opinione tardi si accostò, avendo noi esposto più addietro, che, allorquando combatteva egli in Ungheria, la reputava dannosa, anziché utile. Il mutamento d’idee lo trasse allora a scusare le recenti devastazioni, con un scopo consimile, da Turenna ordinate; non avvertendo per altro, che con quelle i francesi miravano ad assicurarsi il possesso dei territorii alemanni d’oltre Reno, alcuni de’ quali, come Strasburg, erano tuttavia liberi; e che invece i turchi, da lui medesimo detti sobrii, e sempre ben provveduti di viveri dal loro governo, e usati del rimanente a passar deserti ne’ viaggi loro in Asia, e a valersi di cammelli, non sarebbero stati, come i cristiani, trattenuti dal venire in Ungheria da deserti europei, non privi di acque come quelli di loro, né arsi dai soli orientali. Avrebbero poi i turchi rimesso a coltura quel tratto di paese, annettendolo al proprio impero; indi i pericoli ch’evitar si volevano, sarebbersi aumentati. Torna per altro in acconcio a questo punto una bella osservazione che fece il generale Gabriele Pepe in un dotto, se non sempre esatto, apprezzamento della carriera militare del Montecuccoli, da lui inserito nel giornale l’Antologia (n. 139). Parlando delle devastazioni di territorii fatte da Wallenstein e da Turenna, scriveva: “Il nostro Raimondo non lasciò di sé nonché il menomo, ma veruno di sì tristi ricordi. Ed in ciò pare che in lui non fosse d’accordo o il cuore coll’intelletto, o la pratica con la teorica”. E per ultima prova di questo aggiungeva, che egli non aveva fatto uso di ciò che in certuni de’ suoi Aforismi consigliava, perché “forse in lui verificavasi il fatto generale degli uomini, i quali mentre son severissimi legislatori in istatuire le pene, non lo sono poi tanto in applicarle”. Venuta meno la tanto paventata potenza dei turchi, e mutatisi i costumi e le norme ancora della guerra, e, mercé la vaporiera, tolte di mezzo le distanze, ogni valore andò perduto per gli espedienti de’ quali dicevamo. Turpin de Crissé, traduttore e commentatore delle opere del Montecuccoli, lamentò già che da lui non fosse stato mai in quelle nominato il Turenna, e ciò attribuiva ad invidia: ma quel francese non conosceva l’opera sull’Ungheria, nella quale è menzione di Turenna. La altre opere di lui, come osservò il Grassi, per essere elementari, o rivolte a dar norme per la guerra contro i turchi, non gli offrivano occasione di trarre in campo il nome del grand’emulo suo. A questo potrebbesi nondimeno opporre, che gli assiomi proposti dall’autore sono assai spesso confortati dagli esempi di casi occorsi nelle guerre antiche e recenti. Ma si potrebbe dire invece, che, al tempo nel quale dettava Raimondo gli Aforismi, non era ancora Turenna venuto in quella gran fama che le guerre posteriori gli meritarono; e ancora, che non se gli sarà presentata alla mente nessuna delle imprese di lui, che all’argomento suo si attagliasse. Piacevole ed istruttivo riesce alla lettura il libro sull’Ungheria, per le belle considerazioni, che, con stile stringato e succoso, l’autore vi svolge. Ma oltre alle occupazioni alle quali accennammo, anche gli affari proprii e la famiglia avranno richiesto le cure sue. Nel precedente anno, la Luisa sua primogenita, che dicemmo nata nel 1658, e che non aveva perciò raggiunto l’anno suo sedicesimo, fu da lui maritata al conte di Berquin (o Werkin com’altri scrisse) consigliere imperiale: e si venivano nella sua casa educando le altre figlie, e Leopoldo, destinato alla carriera militare. A lui credo che negli studi delle lettere fosse guida il gesuita Carlo Antonio Montecuccoli per noi nominato; imperocché nel precedente anno chiedeva alla reggente il ducato di Modena, dalla quale aveva incarichi diplomatici, facoltà di assentarsi per alquanti giorni da Vienna, dovendo accompagnarlo ad una terra del padre (forse Hohenegg). In quest’anno più specialmente dié opera il gesuita alle pratiche per procurare, come più addietro ci venne detto, il trono di Polonia, da prima al principe Rinaldo d’Este , e poscia allo stesso duca di Modena; il quale, tolta allora la reggenza alla saggia sua madre, aveva preso a governare lo stato. I suggerimenti per altro che il gesuita porgeva, possono talvolta reputarsi inspirati da quella massima attribuita all’ordine al quale apparteneva, cioè che il fine giustifica i mezzi. Così, per acquistar favore dal nunzio pontificio, gli si dovea promettere di fargli avere il cappello cardinalizio, come faceva allora un altro degli aspiranti a quel trono, il duca di Lorena: e ancora s’avrebbero a mandargli cento mila scudi per comprar voti. Voleva inoltre che un agente segreto si spedisse in Polonia con un buon gruzzolo di quattro mila ungheri, da spendere in pranzi e bevute, com’egli esprimevasi, ai più popolari della dieta, e in regali a quelli che già ne avevano avuti dal lorenese, se pure le circostanze non consentissero che bastasse il prometterli soltanto. Una commissione segreta per la Polonia fu allora affidata a Gualdo Priorato, e venne poscia colà spedito con molto denaro, come dice Muratori, monsignor Alessandro Bellentani, arciprete di Carpi, grave disgusto provandone il padre Carlo Antonio, il quale aveva chiesto per sé quell’incarico. Il marchese Giambattista, fratello di lui, da Vienna dirigeva le mosse di quegli agenti, che a nulla poi approdarono, essendosi i polacchi eletto a re il celebre Sobieski. E fece allora il padre Carlantonio nuove proposte di adoperarsi in favore del principe Rinaldo, acciò ottenesse il cardinalato. Sarà stato senza dubbio tenuto informato Raimondo da que’ due parenti suoi delle pratiche da loro intraprese, e avrà per avventura porti consigli all’uopo, per la conoscenza che aveva di quel paese; ma di più non è probabile che potesse fare, per ossequio all’imperatore, il quale aveva preso partito per uno degli aspiranti a quel trono, cioè il duca di Lorena. E qui da ultimo, poiché ebbi altrove a far cenno di un altare di proprietà di Raimondo nella chiesa di Santa Margherita di Modena, farò memoria che nell’anno intorno al quale c’interteniamo (il 1674), dette egli incarico al conte Giulio Montecuccoli di spendere in ornamenti pel medesimo, o 25 scudi d’oro come è detto in un documento, o il doppio come un altro reca: il denaro gli verrebbe sborsato dalla monaca, sorella di Raimondo, che già ci venne nominata. Ringraziamento forse, o voto fatto pel buon esito della passata campagna. Sarà ora da ritornare ai casi della guerra. Nella relazione da noi già citata, di quelli del 1673 troviamo che, partito dal campo il Montecuccoli, il Bournonville, al quale era stato lasciato il comando delle truppe, entrò in discordia cogli alleati, pretendendo che ritornassero ai paesi loro, mentre allegavano essi di aver convenuto col Montecuccoli che i tre eserciti rimarrebbero uniti. Si finì col lasciare a Montecuccoli la decisione di que’ piati; ed egli mandò per risposta, si conciliassero le cose in modo, che troppa disgiunzione non intercedesse tra gli accampamenti dei collegati, per quanto lo comportasse la necessità che le vettovaglie non avessero a mancare. Si cercò pertanto di ottener quartieri dal duca di Neuburg, e in conseguenza del rifiuto di lui, si decisero spagnoli ed olandesi a levarsi di là, a loro facendo scorta sino alla Mosa la cavalleria imperiale. Prendevano alla lor volta i francesi i quartieri d’inverno, parte in Francia, e parte nella Lorena, andando Turenna a Parigi.
Da quanto nelle storie si legge, sembra che il Montecuccoli non venisse richiesto di riprendere il comando nella campagna che aprir si doveva alla primavera di quell’anno 1674: ma le corrispondenze inedite ch’io ebbi alle mani, mi danno prova certa del contrario. Il conte Dragoni, addetto allora ai servigi del principe Luigi d’Este già da noi nominato, scriveva il 18 di aprile alla corte di Modena che il Montecuccoli, il principe di Lorena e il Souches comanderebbero ciascuno un corpo di truppe nell’imminente campagna. Soggiungeva però che molti opinavano che Montecuccoli non avrebbe accettato, e che addurrebbe a scusa l’età e la salute; e noi aggiungeremo, che un generale, il quale aveva comandato con autorità suprema l’esercito imperiale in guerra, non poteva, senza disdoro, ad una simile proposta acconsentire; e che avrà egli intraveduto senz’altro le conseguenze che poi rampollarono da quella strana determinazione di un comando tripartito. Fu creduto nondimeno che finirebbe coll’assumere l’incarico, che gli si voleva addossare, a segno che, come lo stesso Dragoni il 24 di quel mese annunziò, le truppe a lui destinate vennero ad Hemfeld per attendere colà il suo arrivo, quantunque si credesse, com’ei soggiungeva, che non si sarebbe mosso da Vienna. Dovette infatti egli medesimo il 3 di maggio informare la sua corte che Montecuccoli non interverrebbe a quella guerra. Non cessò per altro l’imperatore dalle istanze acciò mutasse avviso, come ritraggo da una lettera del padre Carlantonio, che è in data del 24 di giugno, nella quale si legge: “La corte insiste col conte Montecuccoli acciò torni alla guerra, ma la sua età non può più sostenere un peso così grave, e perciò se ne scusa”; noi vedremo però, che nel successivo anno non gli fece ostacolo l’età a riprendere le armi.
Fu dunque diviso l’esercito imperiale in tre corpi, ad ognuno de’ quali era affidato un incarico speciale. Quello destinato al Montecuccoli, e che era su quel di Bonn, l’ebbe il Souches, che doveva congiungerlo con quello degli alleati ispano-olandesi. Comandò Bournonville i soldati ch’erano al Reno, e il duca di Lorena quelli che oppor si dovevano a Luigi XIV, il quale con buon nerbo di truppe aveva invaso la Franca-Contea; e in pro di questa provincia, che allora fu annessa alla Francia, nulla poté fare il Lorena, avendogli negato gli svizzeri il passo pel proprio territorio. Pessimo principio era questo di una guerra infelice, della quale a noi non spetta se non indicare in modo sommario i principali avvenimenti. Per una strana combinazione i due maggiori eserciti, che dovevano opporsi a quelli di Francia, erano affidati ad un francese e ad un belga, che da più anni militavano tra gl’imperiali; il terzo condottiero, che non era suddito dell’imperatore, aveva allora il suo stato in balia dei francesi: il solo fra i tre al quale tornasse utile una vittoria sulla Francia. Degli altri due da molti si dubitava. Di Bournonville dice Menzel che si lasciò battere ad Ensisheim da Turenna, non avendo aspettato che a lui s’unisse l’elettore di Brandeburg, il quale aveva rinnovato la lega coll’imperatore; e che non aderendo alle istanze del Lorena acciò co’ suoi e coi brandeburghesi accorresse a difesa de’ confini, aspettò presso Mülhausen che sopra gli venisse Turenna, il quale lo respinse al campo brandeburghese. Gli errori, volontarii o no, ch’ei commise, tanti furono poi da suscitare gravi lagnanze tra le truppe, e proteste de’ generali di non più voler servire sotto di lui; onde il re di Spagna, del quale era suddito, al fine della guerra di quell’anno, si vide costretto a levarlo di là, affidandogli il comando del presidio di Barcellona. Più manifesto apparve il mal animo del Souches e l’insubordinazione, vizio suo consueto. Di lui è detto nell’opera della Azioni di generali e soldati italiani, che “o avesse in orrore il nuocere a quel sovrano del quale era nato suddito, oppure non fosse egli capace di quel carico per la tenuità de’ suoi talenti, come altro di lui nazionale (Cavaignac forse) l’ha pubblicato per le stampe... la sua condotta non potette essere più infelice per gl’interessi di Leopoldo”. Doveva egli sottostare al principe d’Orange nelle operazioni da fare in comune cogli alleati; ma sdegnoso, come fu sempre, di soggezione ad altri, andò prima errando qua e colà, e solamente ai primi di agosto si unì cogli ispano-batavi, che stavano a fronte di Condé. Si venne presso Senef ad una sanguinosa battaglia, nella quale entrambe le parti si proclamarono vincitrici. Ma dopo quel fatto, più non fu possibile agli alleati di tener a freno il Souches; e la cosa giunse al segno che, avendo l’Orange assediato Oudenarde, e volendo dar battaglia al Condé accorso a soccorrerla, Souches d’un tratto si allontanò colle sue truppe, rendendo impossibile non la battaglia soltanto, ma ancora l’assedio iniziato. Da questo fatto rimase scossa persino l’indolenza dell’imperator Leopoldo, del quale il gesuita Carlantonio, in una lettera in cifra del 29 di agosto 1674 (con poca reverenza invero), scriveva, che non si curava di affari, e che “bastava dargli buone parole, e pascere il camaleonte di vento con pompa di cerimonie”. Ma non si tenne allora dal prendere un partito risoluto: tolse il comando al Souches, e lo relegò ne’ suoi beni in Moravia; la qual determinazione più utile ancora sarebbe riescita, se presa molti anni prima. Lasciò il vecchio generale sbollire gli sdegni suscitatisi contro di lui; ma nel successivo anno fece presentare all’imperatore, e portò egli stesso a tutti i ministri, una sua giustificazione, della quale negli Avvisi di Vienna, gazzetta che ci verrà più oltre nominata, è detto che pareva avesse addotte ragioni plausibili, allegando aver soltanto eseguito ordini venutigli dalla corte (e forse erano del Lobkowitz). Il padre Carlantonio a sua volta scriveva che i parziali di lui s’adoperavano a procurare che quelle sue difese venissero esaminate dal consiglio aulico di guerra, al quale erano state sottoposte, temendo forse non ne derivasse a lui nocumento maggiore. Dagli Avvisi sopra citati impariamo poi, che l’imperatore, non solamente non gli menò buone le sue difese, ma che lo relegò definitivamente nel suo governo di Komorn. E qui a sé stesso chiede il Mailàth, se la condanna del Souches non sia stata in relazione colla punizione non guari appresso inflitta a Lobkowitz; né questo è punto improbabile. Era da poco tempo venuto meno il favore imperiale al ministro Auersperg, fautore de’ francesi, al pari del suo collega; ne fu cagione l’essere trapelato che avesse invocato il favore di Luigi XIV per ottenere il cappello cardinalizio, al quale aveva finito per aspirare: onde si congetturò che avesse colla Francia relazioni pericolose per l’impero. Fu allora allontanato dalla corte e dal ministero, senza che incorresse in altro danno. Il nunzio veneto Nani lo disse già superbo e nemico degli stranieri, devoto solamente agli spagnoli, che lo avevano fatto rimettere in officio, allorché l’imperator Leopoldo, alla sua assunzione al trono, lo pose in disparte. Era sua cura principale quella di allontanare dagli uffici maggiori i più capaci, affidandoli invece a creature sue. Ma né la caduta del complice, né la voce pubblica che lui pure accusava di tradire la patria, valsero ad aprir gli occhi al Lobkowitz sull’abisso che gli stava innanzi: continuò esso nelle sue pratiche col Gremonville ministro di Francia a Vienna, e a porre in derisione lo stesso imperatore, ch’ei paragonò una volta ad una statua cui si può mettere ove si vuole. Pare altresì che dall’elettor di Magonza fosse posta sotto gli occhi dell’imperatore la lettera, colla quale, come già dicemmo, gli vietava di concedere al Montecuccoli il suo ponte sul Reno, ed un’altra del Montecuccoli stesso che diceva: che più sollecitamente sarebbergli giunti gli ordini che gli si mandavano, se loro si facesse prendere la strada di Parigi . Di altra lettera di quel generale fa pur menzione il Wagner, biografo di Leopoldo, nella quale lagnavasi andasse copia in Francia dei dispacci confidenziali a lui diretti. Nominò finalmente l’imperatore una commissione composta di cinque dignitarii dello stato, tra cui il Montecuccoli; il quale dopo i fatti dell’ultima guerra, se non anche precedentemente, avrà senz’altro troncata quell’amicizia che un tempo mantenne col Lobkowitz, e che il Bolognesi nel 1644 diceva già antica. Trovò la commissione indizii di tradimento nelle relazioni di lui con Luigi XIV, ed ebbe notizia di molti discorsi ch’ei tenne col suo segretario italiano Petri in dispregio dell’imperatore. Propose perciò un regolare processo: l’imperatore per altro che già lo aveva fatto arrestare, non sofferente d’indugi, ordinò alla commissione stessa di portargli entro due giorni un giudicio definitivo; e questa, messa così alle strette, senza che le si lasciasse tempo per procedere alle indagini necessarie, prudentemente si ristrinse a consigliare venisse trattato come Auersperg, deposto cioè dalle cariche che occupava. Un solo voto fu per la prigionia di lui a Radowitz, ed era quello del conte Lambert; e al voto suo l’imperatore si attenne, lui nominando al posto del Lobkowitz, con autorità nondimeno più piccola di quella ch’egli ebbe. Così scomparve dalla scena del mondo un uomo già tanto potente, che tra le angustie di un carcere venne poi a morte nel 1677; non però per veleno, come taluno scrisse, giacché non si sarebbe aspettato tre anni, se altri avesse voluto disfarsi di lui. E neppure è vero che gl’impetrasse il nunzio pontificio un castigo minore di quello destinatogli, perché in effetto egli ebbe quello che aveva consigliato il Lambert. Accennerò da ultimo che in una scrittura di un aiutante di Turenna, la quale ci venne già ricordata, è fatta menzione della voce che correva di una pensione pagata dalla Francia al Lobkowitz; dalla persona del quale volentieri prendo ora congedo. Rimaneva intanto in seggio un altro de’ ministri di Leopoldo, destinato pur esso ad ignominiosa caduta. Era il conte di Zinzendorf, che sino dall’innalzamento al trono di Leopoldo amministrava le finanze dell’impero; a queste più funesto che tutte le guerre precedenti, come si legge nella relazione presentata da quelli cui fu dato incarico di prendere ad esame i conti di quel ministro. Oltre quanto si trovò essersi egli appropriato, furono le ruberie de’ suoi sottoposti valutate un milione. Giudicato nel 1680, convinto, e confesso, fu multato di un milione e novecentosettantamila fiorini, privato delle cariche, e relegato nel luogo che l’imperatore gli destinò, e dove morì l’anno appresso. Ma d’egual passo di quella delle finanze, procedevano, al dire del Mailàth, le altre amministrazioni dello stato; e riferisce il cavalier Borgognone che una volta il ministro Porcia, il quale vedemmo spesso porre ostacoli alle operazioni militari del Montecuccoli, e che si stimava non gli fosse amico, così si espresse con un ecclesiastico: “dopo la mia morte, salvo il Montecuccoli, faranno gli altri ogni strazio del mio padrone”: e avrebbe potuto aggiungere de’ sudditi suoi, colle sostanze dei quali impinguavansi i frodatori. Da noi più volte venne, ad esempio, accennato a ciò che si riferiva alle milizie, e come le enormi somme in tempo di guerra ad esse destinate giungessero in troppo scarsa misura sino ai soldati, che sovente pativano difetto di viveri e di vestiario. Largo nello spendere era anche l’imperatore, ed incurante di furti domestici ; né i divertimenti e le caccie che predilegeva, gli lasciavan agio d’investigare ciò che facessero i ministri: onde avvenne, che se alcuno di loro fu punito, fu troppo tardi.
Noi chiuderemo ora il presente capitolo dicendo delle ultime mutazioni della guerra del 1674. Al Souches era stato dato per successore lo Spork, che, senza contrasto, si sottopose all’Orange; e così procedendo di accordo, riescirono ad impadronirsi della piazza di Grave. Ma da altra parte il duca di Lorena veniva sconfitto da Turenna: e quando agli imperiali s’unirono i brandeburghesi, formando insieme un esercito di 60.000 uomini, schivava il general francese la battaglia che gli offerivano. L’accettò poi, ma solo dopo ricevuto un rinforzo di 10.000 uomini, e li batté, costringendoli a ritirarsi, e a levare ancora il blocco che avevano posto a Breisach. Dopo di ciò non altro rimase ad essi da fare se non ripassare il Reno a Strasburgo. E così miseramente chiudevasi quella campagna che a Turenna procacciò quegli allori, che Montecuccoli non gli avrebbe lasciato cogliere, e alla Francia crebbe le conquiste. L’imperatore invece, che aveva mandato in campo un numero di truppe maggiore di quello de’ precedenti anni, fiancheggiate ancora dai brandeburghesi, trovava i soldati suoi ridotti, come si disse, a soli 20.000 uomini. E da quella guerra usciva con perdita di riputazione e di alleanze faticosamente acquistategli dal Montecuccoli; il nome del quale andò allora per le bocche di tutti, come del solo che potesse risollevare le cadenti sorti dell’impero.