Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/II2

Parte seconda
Capitolo II - Guerra di Polonia e di Pomerania

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Parte seconda
Capitolo II - Guerra di Polonia e di Pomerania
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[p. 322 modifica]Silvio, che forse allora non erano in possesso dei feudi ad essi spettanti.
Del primo di essi diremo sotto l’anno 1664 come fosse investito di alcuni feudi: successe il secondo a Ferrante in quello di Sassostorno, dimenticato nell’imperfetto documento ora citato. Non trovasi poi menzione di Renno, ch’era del conte Andrea.



Capitolo II

Guerra di Polonia e di Pomerania

Col ritorno di Raimondo a Vienna avevano termine quelle che dir si potrebbero le sue vacanze, imperocché l’imperatore lo avesse richiamato per metterlo a capo della cavalleria di un corpo di truppe comandato dall’Hazfeld e destinato, quando che fosse, ad entrare nel regno di Polonia, dove strani accidenti a quel tempo accadevano. Casimiro re di quel popolo , poiché gli fu annunziata l’ascensione al trono di Svezia di Carlo Gustavo, commise l’imprudenza di recargli offesa, mettendo innanzi diritti che diceva avere come erede di quelli della famiglia Wasa (diritti ai quali rinunziò poi nel 1660). E con ciò venne egli a suscitare gli spiriti bellicosi di un principe desideroso di gloria, e circondato dai famosi generali svedesi e tedeschi che si erano resi insigni nelle precedenti guerre, o dai loro figli cupidi di emularli.

Sbarcò Carlo Gustavo nella Pomerania con 60.000 uomini in gran parte provati in guerra; e secondato da principi tedeschi, e da uno di que’ partiti di polacchi, usi lacerare colle discordie la patria loro infelice, non tardò ad avere in poter suo in meno di tre mesi quasi intera la Polonia, costringendo Casimiro a riparare ad Oppelen nella Slesia ch’era feudo suo, nel mentre che Raimondo Montecuccoli tornava dal suo viaggio d’Italia. Ad [p. 323 modifica]assicurarsi la conquista del regno di Polonia, Gustavo indusse l’elettore di Brandeburgo a stringersi con lui in alleanza, offerendogli la metà degli acquisti che si facessero. Unitesi pertanto le truppe del Brandeburg a quelle di Svezia, diedero insieme una battaglia, che incominciata il 18 di luglio 1656 durò tre giorni, e riescivano ad impadronirsi di Varsavia. Codeste imprese che agli stati vicini i fatti terribili ricordavano della guerra de’ trent’anni, e che sembravano preludere alla formazione di uno o di due vasti regni del nord, li posero tutti in sospetto; ond’è che si dessero ad armar gente e a preparar diversioni a favore della Polonia. E bastò intanto a risollevare le fortune di Casimiro l’invasione di Alessio, czar di Moscovia, in quelle terre finniche ove Pietro il grande suo figlio doveva poi fondar Pietroburgo. Né valse a pro di Gustavo l’ingresso nella Polonia di Rakoczy, principe di Transilvania, con 60.000 uomini, ovvero con 40.000, come nella sua opera: Il direttore delle ambasciate, scrisse il garfagnino Perellio, diplomatico che fu segretario del Montecuccoli; imperocché, costretto il re di Svezia ad accorrere alla difesa delle sue provincie, anche il Rakoczy retrocesse, essendogli poi stata tagliata a pezzi gran parte della sua soldatesca dai tartari, nuovi alleati dei polacchi.

Stava intanto papa Alessandro VII incitando l’imperatore ad entrare in guerra cogli svedesi, quegli aiuti impromettendogli che poi all’uopo non diede; della qual cosa ebbe poscia l’imperatore a fare dimostrazione di sdegno. Allettato però da prima dalla speranza di ottenerli, trattò esso con Casimiro, e approfittando delle circostanze in che si trovava quel re, prometter si fece la successione nel regno pel proprio figlio Carlo (che poi in breve morì); il che invero far non poteva Casimiro, imperocché, per sventura di quel paese, l’elezione dei re, era in balia de’ magnati. E ancora conceder si fece che quella parte del regno che dicevasi la gran Polonia, verrebbe, alla morte di lui, aggiunta a’ dominii della casa d’Austria: altra violazione codesta della costituzione della Polonia. Il Carlson storico svedese dice però, questi trattati esser corsi tra l’imperatore e alquanti nobili polacchi; e lo stesso avea scritto sin dal suo tempo il [p. 324 modifica]Priorato, che poi li attribuì anche a Casimiro. Checché ne fosse, decise l’imperatore di mandare in soccorso della Polonia quelle truppe che sotto il comando dell’Hazfeld e del Montecuccoli s’erano venute radunando in Slesia. Dice il Nani che queste numerassero 10.000 uomini, più altri quattro o cinque mila di un corpo staccato agli ordini del general Souches; il qual computo non differisce guari da quelli degli storici moderni, che dissero essere stati gl’imperiali sedici o diciassette mila. E questi soldati, perché i recenti trattati avevano dichiarata perpetua la pace tra l’impero e la Svezia, con ridevole sostituzione di nomi furono detti non imperiali ma ungheresi . Non entrarono però quelle soldatesche se non nel successivo anno in Polonia, e forse a quel tempo il Montecuccoli era in Vienna, consultato probabilmente dall’imperatore Ferdinando circa l’impresa che meditava fare in Italia. Qui i francesi, guidati dall’esperto senno del duca di Modena, avevano posto assedio a Valenza sul Po, che quantunque ben presidiata dagli spagnoli, si prevedeva sarebbe venuta di corto in poter loro. Allora i ministri spagnoli si fecero a rappresentare all’imperatore, che legato egli con tanti vincoli alla corte di Madrid, tollerar non doveva che un principe ch’era vassallo suo, combattesse contro la Spagna. E così bene l’intento loro conseguirono, che pretestando l’imperatore, essere incorso per tal fatto il duca in delitto di fellonia verso l’impero, ordinò che un corpo di 10.000 alemanni, o di dodici mila secondo nelle Antichità italiane ed estensi scrisse il Muratori, scendesse in Italia, dove unitosi alle truppe di Spagna procederebbe contro di lui. Né questo bastò agli spagnoli, perché ci narra il Gazzotti, storico modenese, che proponevano si levasse lo stato al duca, e si desse o alla casa estense di San Martino, o al generale Montecuccoli, “benemerito, dicevano, dell’impero e nato suddito dello stesso duca; persuadendosi che da questa risoluzione diverrebbero essi più temuti e riveriti in Italia, i cui principi non avrebbero in avvenire osato intraprendere alcuna cosa contro di loro, quando [p. 325 modifica]mirassero indeclinabili le vendette etc.” . Il marchese di San Martino, del quale fa parola il Gazzotti, sarà stato Carlo Emanuele che gli spagnoli sostituirono nel feudo di Borgomanero nella provincia allora lombarda di Novara al fratello di lui Filippo Francesco, strettamente unito al duca di Savoia, del quale aveva sposato una figlia naturale. Se non che la parentela che aveva questo ramo degli Estensi con quello regnante in Modena, e le sue aderenze colla casa di Savoia in guerra pur essa colla Spagna, dovevano fare ostacolo ad un ulteriore esaltamento di que’ marchesi; io non sono pertanto lontano dal credere che, se la cosa avesse piegato al possibile, avrebbero preferito sostenere la candidatura del Montecuccoli; e che l’altra si ponesse innanzi come più facile a venire per ragioni politiche eliminata. E forse le straordinarie onoranze che dicemmo fatte a Raimondo in Roma dall’ambasciatore di Spagna, non erano estranee ai disegni che si andavano preparando per umiliare il duca Francesco, che tanto dai ministri spagnoli in Italia era odiato. Dall’essere la storia del Gazzotti, fra le molte di quell’epoca, una delle meno conosciute, quantunque, a giudicio del Tiraboschi, meritasse di esserlo assai di più, derivò, secondo stimo, che questo grave fatto narrato da quello storico, da nessun altro degli scrittori, fra quelli da me veduti, venisse riferito: ma l’aver taciuto di questo il Muratori, che ignorar non poteva l’opera di quel suo concittadino stampata lui vivente, io l’ho per una prova negativa della verità di quanto il Gazzotti asseriva; imperocché avrebbe egli senza dubbio confutato un asserto, se era falso, che qualche disdoro arrecava alla casa d’Este tanto da lui venerata: mentre egli, posto in circostanze diverse da quelle del Gazzotti, non poteva del rimanente né riferire un tale avvenimento, né confermarlo nelle sue storie. Si ristrinse pertanto a dire negli Annali, dopo narrati altri fatti ai quali accenneremo, “che un gran pericolo [p. 326 modifica]corse allora il duca Francesco”, senza estendersi più oltre. Tredici anni prima di quella del Gazzotti veniva in luce l’Historia di Modena del Vedriani, ma troppo cauto, e troppo ossequente alla casa d’Este era quello scrittore, e non avrebbe narrato cosa che potesse ritenere sgradita alla corte, o fosse per togliergli quella “licenza de’ superiori” che brilla in fronte all’opera sua. La prova maggiore per altro, e che non teme obbiezione, della verità di quanto il Gazzotti narrava, io la scorgo nell’impossibilità ch’egli esponesse un fatto il quale risguardava il suo paese e la casa d’Este, che pochi anni innanzi era accaduto, e del quale perciò tutti sarebbersi levati a contraddirlo, se erroneo. Quanta non sarebbe stata in tal circostanza l’audacia di questo valentuomo, cui Luigi XIV aveva conferito il titolo onorifico di suo storiografo, e che dopo i lunghi suoi viaggi, s’era messo a stanza in Formigine ov’era arciprete! E suppor si potrebbe cotanta bonarietà nel duca Francesco II, da lasciarsi dedicare un’opera nella quale un avvenimento di tanto rilievo si narrasse che fosse falso? E avrebbero poi taciuto gli Estensi di San Martino, e il figlio del generale Montecuccoli, morto l’anno precedente, e gli altri della famiglia?

Posta in sodo, siccome stimo, la verità del racconto del Gazzotti, sarebbe da investigare, se si lasciasse il Montecuccoli sedurre dall’ambizione di dominare come sovrano sul proprio paese. Nessun documento soccorrendoci a scoprir lume intorno a ciò, noi amiamo congetturare che, se fu egli, com’è troppo probabile, informato di tali progetti, non venissero questi da lui secondati e nemmanco approvati. A così comportarsi lo doveva indurre la gratitudine al suo sovrano che di speciale benevolenza l’onorava, e che di favori fa largo alla famiglia di lui. Dedito egli, del rimanente, a ciò solo che alla profession sua militare si riferisse, così che nessuna cura neppur si prendesse de’ proprii feudi che lasciava amministrare da altri, riesce difficile il credere che volentieri avrebbe veduto troncarsi non lungi dalla meta la sua gloriosa carriera, per assumere il nuovo carico di governar popoli, e quelli specialmente i quali [p. 327 modifica]non ostante gli straordinarii aggravi che loro il duca Francesco I imponeva, se troppo non amavano lui, erano pur sempre affezionati alla casa d’Este. Le quali ragioni, e il pensare all’instabilità delle dinastie nuove, e al pericolo d’incorrere nell’avversione degli altri sovrani d’Italia che lo potevano abbandonar in balia della Spagna, dovevano senz’altro indurlo, se stato ve ne fosse bisogno, a respingere qualunque proposta che a tale scopo mirasse. Ma più che altro a questo lo avrebbero consigliato la lealtà e la magnanimità che furono doti precipue di quel gran generale.

Dicevamo di un corpo di truppe che l’imperatore aveva designato di mandare in Italia contro il duca di Modena; ed ora, seguitando, trarremo intorno a queste alquanti ragguagli dalla corrispondenza diplomatica di monsignor Muzzarelli, ministro estense in Roma. E innanzi tratto troviamo che da lui si facessero ascendere que’ soldati a 10.500 fanti e 3500 cavalli, laddove altri a minor numero dicemmo averli computati. Lor generale il maresciallo di campo Ungherfurt, che condur li doveva a presidio forzato nel modenese, e farli mantenere mercé contribuzioni di guerra. Invano protestò il papa per mezzo del suo nunzio a Vienna contro l’invio di que’ soldati in Italia, e contro l’occupazione di una città così prossima agli stati suoi: e già era venuto a Milano il generale della lor cavalleria, se non che un indugio alla discesa di quella gente bastò a disordinarla sino a trasmodare ad atti di ribellione, reputati opera del duca di Modena, il quale aveva mandato in Carinzia un cavaliere che largamente sparse fra essa “bollettini e anche denari” (lettera del 16 di ottobre). E l’opera di quel cavaliere sarà stata resa più agevole dall’avversione, accennata dal Nani, che avevano i soldati imperiali a combattere per la Spagna, odiata molto ne’ paesi loro. Né meglio si diportarono quelli che poterono allora venir tratti in Italia, i quali con molte angherie si tirarono addosso l’odio delle popolazioni. I Rimasti in Carinzia (o in Tirolo, come dice Muratori), di nuovo tumultuarono, e in gran parte, allora che s’apprestava l’imperatore a mandare contro di essi truppe fidate, fuggirono dal [p. 328 modifica]campo. Di quel forte nucleo di gente destinata contro il ducato di Modena, non giunsero in Italia se non 3500 uomini o poco più, coi quali l’imperatore, dice il diplomatico ora citato, “ebbe per grazia di poter difendere il milanese”, non che pensar potesse ad invadere le terre altrui. La morte dell’imperatore Ferdinando III, avvenuta nell’aprile del 1657, fece poi che in abbandono andassero i disegni che in danno del duca Francesco aveva egli concepiti. Codesto imperatore che da più tempo per malattie incontrare era ridotto quasi immobile, e s’era dato ad attendere con maggiore alacrità agli affari di stato, morì di spavento per un incendio appiccatosi al suo palazzo. Lasciò scritto il Nani, che così depauperato alla sua morte trovossi l’erario, che non v’eran denari per seppellirlo, e che a voler vestire a lutto la famiglia, fu mestieri s’adunasse il parentado a consiglio per suggerire il modo di sopperire a quel dispendio. E pure, dice il Nani, si decretavano sussidii per gli spagnoli e per la Polonia, giacché in troppe cose voleva egli mescolarsi; ond’è che il Carlson avesse a scrivere, che la sua morte fece l’effetto in un temporale che avesse purificata l’atmosfera carica di nubi. L’ultimo fu esso degl’imperatori ad esercitare influenza sopra una porzione almeno della Germania insino alla pace di Vestfalia; imperocché sotto il suo successore (l’elezione del quale col dispendio di molti milioni in comprar voti aveva cercato assicurare) andò perduta quella parte che ancora glien’era rimasta.

Al tempo che queste cose accadevano, gl’imperiali, nel numero che dicemmo, guidati dall’Hazfeld entravano nella Polonia; e perché, come avverte il Priorato, non era ancora il Montecuccoli ritornato in Slesia, fu il comando della cavalleria provvigionalmente assunto dallo Spork. Dell’assenza del Montecuccoli fu cagione, oltre la sua andata a Vienna, l’incarico che a lui, al ministro Auersperg, e al barone Taun fu affidato, di dar opera presso i varii elettori acciò venisse chiamato a succedere all’imperator Ferdinando il figlio di lui, Leopoldo re d’Ungheria. Ciò si rileva da una lettera che da Francfort scriveva [p. 329 modifica]il 24 di aprile del 1657 un barone di Stom, che era un agente estense in Germania, la corrispondenza del quale, altre notizie sarà per somministrarci. Lunghe furono le pratiche che successivamente a quelle prime occorsero per ottenere che Leopoldo, il quale non aveva allora l’età prescritta per cingere la corona imperiale, conseguir la potesse, essendoché, come scrive il Carlson, il Mazzarino proponeva per imperatore il re Carlo Gustavo, al quale larghi sussidii avrebbe egli dato; ma esso re a sua volta aveva proposto o l’elettore di Brandeburgo, o il duca di Savoia: il primo di questi due ricusò, dice il Nani, quell’offerta, preferendo di restare principe ricco piuttosto che povero imperatore . Di un altro e più lieto motivo del ritardo del Montecuccoli a muovere pel campo, ci facciamo ora a tener parola. Poiché non erano riusciti i disegni da lui meditati di rimettersi a ferma stanza in Italia, ed ivi ammogliarsi, ed attendere alle cose sue e al servigio del suo principe; non altro a fare gli restava, se non quello che già aveva pensato pel caso che rimaner dovesse in Germania, sposarvi cioè una tedesca, con che si sarebbe procacciato alcune buone aderenze da poter giovarsene nelle mutabili circostanze della sua vita militare, o quando il crescere degli anni gli avrebbe consigliato un onorato riposo.

Dicemmo già di un trattato ch’egli ebbe di matrimonio, che poi non sortì effetto; ed ora verremo a dire che, essendo, stato in relazione col maggiordomo principe Dietrichstein, s’elesse, lui morto, a compagna de’ suoi giorni Margherita, figlia [p. 330 modifica]di lui e di una principessa Lichtenstein, giovane dai contemporanei lodata di bellezza e di virtù, allevata alla corte dell’imperatrice Eleonora, come dice l’Hussein, e che da lui fu veramente amata in sin ch’ella visse. Di lei scrisse la vita l’abate Filippo Maria Bonini, opera questa che non piacque al Foscolo, e che non mi fu dato di ritrovare in luogo alcuno; di essa si ha un esemplare nella biblioteca imperiale di Vienna, nella qual città fu stampata da Paolo Viviani nel 1667.

Ci rimane la lettera colla quale il 10 di marzo 1657 dava parte Raimondo al duca di Modena della contratta promessa di matrimonio; e il duca, quantunque vedesse per queste nozze vie più indebolirsi la speranza del ritorno di lui ne’ suoi stati, non mancò di seco congratularsi per un avvenimento a lui così fausto. A Modena un tal Bernardino Bianchi, secondo è costume in Italia, per quelle nozze dettò due sonetti, che manoscritti vidi nell’archivio di stato degli Estensi, e che saranno stati posti a stampa, come se n’ha indizio nel nome dello stampatore che si legge in fine. In questi sonetti che riprodurrò in appendice , la falsa scuola che guastava allora pressoché tutte le poetiche produzioni italiane, appena lascia che si possano lodare alcuni buoni concetti che in essi pur si trovano; tra i quali tuttavia non porremo quello della margherita da Raimondo pescata in mare (e poteva almen dire nel Danubio). Che poi la valentia dello sposo nello scrivere, di cui il poeta vien lodando, fosse anche in Vienna pregiata a dovere, ritrar si può dal veder che l’arciduca Leopoldo Guglielmo lo ammise a far parte di quell’accademia italiana da esso, nel decembre dell’anno prima, fondata nel suo palazzo in Vienna, e che era composta di dieci italiani (il general Mattei, Francesco Piccolomini, Giberto Pio di Savoia, Orazio Buccelleni ecc.). E su questo particolare dello studio della lingua italiana in Vienna non va passato sotto silenzio l’avere gli ambasciatori veneti Zeno e Contarini lasciato memoria, che dell’idioma nostro abitualmente l’imperatore Ferdinando facesse uso; ché anzi [p. 331 modifica]il Napione scrisse che una traduzione in italiano delle Filippiche di Cicerone ebbe egli a vedere a stampa, opera questa del medesimo imperatore .

Stampò quell’accademia l’anno medesimo un libro di poesie italiane intitolato: Diporti dell’accademico Crescente, venuto in luce in Brusselles dopo la partenza da quella città di Raimondo, che forse ne preparò l’impressione . Alcune di queste sono dell’arciduca, che al modo degli accademici italiani assunse il nome bizzarro che ora accennavamo, di Crescente: altre sono di Raimondo che aveva preso il nome accademico di Distillato. Fra le poesie dell’arciduca è un sonetto acrostico indirizzato “Ad un guerriero insigne nelle armi e nelle lettere”, che è poi indicato nelle iniziali di ciascun verso, le quali riunite dicono: Al conte Raimond; onore che pochi certo ebbero in sorte, di essere lodati in versi da personaggio collocato così presso al trono. E a sua volta scrisse Raimondo un sonetto in lode di quell’arciduca, che fu stampato tra le Rime oneste raccolte dal Mazzoleni, e che riproduciamo nell’appendice . Quest’accademia che si occupava di letteratura italiana, e che precedé d’un anno la più celebre fiorentina del Cimento, per la morte dell’arciduca e dell’imperator Ferdinando che nelle sue stanze ogni domenica la radunava, non che per le successive guerre, venne poi meno; ma l’imperatrice Eleonora Gonzaga la ripristinò. Partiva finalmente Raimondo per la Polonia, ove non si peritò di accompagnarlo la novella sposa che colà gli partorì l’anno seguente una figlia; alla quale dalla regina Maria Luigia, che insieme con suo marito Casimiro la tenne al sacro fonte, fu imposto il nome di Luigia. A Raimondo, allorché era [p. 332 modifica]in sul muovere per la guerra, narra lo Stom che facesse l’imperatore un donativo di seimila fiorini per aumentare il suo equipaggio, secondo ei scriveva; ed egual somma gli fu data, forse durante quella guerra, per accrescimento allo stipendio (che dicemmo essere stato diminuito all’epoca della pace generale) come mastro di campo generale. E qui mi sia lecito avvertire la strana condizione di cose che toglieva Raimondo dal fianco di una regina di Svezia, per mandarlo a combattere gli antichi sudditi di lei e lo stesso suo cugino. Caso non al tutto dissimile da quello di tanti capitani e soldati italiani combattenti a quel tempo ora contro o francesi o alemanni o spagnoli, ed ora insieme con essi, a norma della mutabile volontà dei deboli loro principi, o secondo il genio loro li portava ad accorrere colà ove fosse da menare le mani e da acquistar gloria. Del resto, la vita militare, che tante nobili soddisfazioni ai cuori generosi procura, impone pur anche sacrifici che è debito tollerare senza lamento. Ed è anche da notare, che circa quel tempo Cristina era ospite della corte di Modena ; ma forse l’ammirazione che aveva per lei Raimondo, poté, momentaneamente almeno, in quell’anno medesimo affievolirsi, allorché gli sarà giunta notizia dell’uccisione da lei ordinata del conte Monaldeschi, già confidente suo : ma vedremo più tardi che andò poi egli a visitarla ad Amburgo. Desideratissima disse il Priorato esser giunta la venuta del Montecuccoli in Polonia, perché da lui ch’era stimato non meno avveduto che animoso capitano, s’impromettevano que’ popoli, che darebbe opera a cessare le lentezze onde l’Hazfeld faceva procedere le cose della guerra, e sovra di sé attirava molti e gravi sospetti; quindi è che si fossero fatte istanze alla corte [p. 333 modifica]di Vienna, acciò la partenza di Raimondo venisse affrettata. Il qual desiderio dei polacchi di trattare con vigore la guerra, se fu vero, renderebbe meno probabile ciò che negli Aforismi si legge: aver cioè quel popolo lasciato appositamente scorazzare l’esercito svedese pel regno, affinché (e intenderà pei disagi che infatti incontrò) si disfacesse, come in gran parte accadde. A noi per altro torna difficile il credere che uno scrittore così coscienzioso e sagace qual era il Montecuccoli, venisse circa questi particolari indotto in errore. Trovò Raimondo al suo arrivo, che lo Spork con 6000 uomini aveva posto assedio a Cracovia: ed egli, preso il luogo di quel suo luogotenente, si dié tosto a serrare più da vicino la città, la quale non tardò gran fatto, con sommo contento del re, ad arrendersi, uscendone primi tremila transilvano del Rakoczy, i quali, a norma di precedenti accordi, furono rimandati alla patria loro, e poscia il general Würtz con tremila svedesi. Per non privarsi di troppi soldati non volle Raimondo porre guarnigione imperiale nel castello di Cracovia, come Casimiro avrebbe bramato, ma lasciò presidiata solamente la città: e tosto altra impresa meditando, passò la Vistola a Polesco, e con soli 1500 cavalli e 300 dragoni corse difilato a Turonia (ossia Torun). Gettava da prima il 15 di ottobre un ponte sulla Druenza presso Plovitisch, espugnava poscia il castello di Galup ov’erano 200 svedesi, lasciando che i soldati suoi dessero il sacco alla terra; ed altri ridotti del nemico occupava, giungendo finalmente a Turonia, ove sorprese alcuni corpi avanzati, che lasciarono 200 morti sul campo. Ma la stagione troppo inoltrata, e l’avere il nemico bruciati i borghi della città acciò non trovassero gl’imperiali ove posare, impedirono ai cesarei di porre l’assedio a quella piazza. Insistevano a quel tempo i polacchi presso l’Hazfeld che con una porzione delle truppe marciava verso la Prussia, acciò concorresse ad effettuare quell’assedio, da essi molto desiderato, ma ciò non volendo egli fare, andò momentaneamente in Slesia; e ritornato di là più che mai [p. 334 modifica]mal disposto contro i polacchi, che incolpava di malevolenza verso l’esercito imperiale cui lasciavano mancare i viveri, ordinò al general Souches di gettare un ponte sulla Vistola, dichiarandogli a voce che per quello intendeva retrocedessero le truppe, reputando impossibile in quella stagione il tentar quell’impresa. E scelto aveva per ciò fare il Souches, affidandogli ancora l’incarico di ricondurre i soldati, perché facea stima che mal volentieri, così il Montecuccoli come lo Spork, si sarebbero prestati a secondarlo. Ed entrambi que’ generali chiamò allora presso di sé. Ma il Souches alla sua volta, sapendo mutabili spesso le determinazioni del generale supremo, indugiò a porre in esecuzione quanto gli era stato commesso, e non tardò infatti a ricevere un contrordine dall’Hazfeld, il quale aveva ceduto intanto alle istanze del re Casimiro, che rinnovava la promessa di provvederlo di viveri: ma ciò non avendo poi fatto, e i rigori della stagione aumentando, fu mestieri condurre le truppe ai quartieri d’inverno, che al Montecuccoli vennero assegnati a Galup, dove non so se andasse, essendo noi per vederlo tra breve altrove. Grandi furono i disagi patiti dagli imperiali in que’ duri climi; ed i polacchi continuavano ancora a lasciare ad essi mancare i viveri, avversissima a loro essendo specialmente la regina che avrebbe voluto assicurare, mercé un matrimonio, la successione al trono della Polonia ad un figlio del principe di Condé: ai quali disegni si opponeva Mazzarino che proponeva invece di lui il principe Almerico d’Este (Priorato, Vita di Leopoldo Cesare). Il re Casimiro all’opposto era tutto devoto alla casa d’Austria, e di lui perciò i partiti che quella avevano in odio, stavano sempre in sospetto. Questi mali trattamenti alle truppe cesaree avevano intanto viemaggiormente irritato l’Hazfeld, che di nuovo abbandonò la Polonia, andando ad una sua casa che aveva a Trachenberg in Slesia. Fu detto allora, secondo lo Stom scriveva, che a lui sarebbe data la carica che ebbe già un Echenvert, la quale altri diceva potesse venir conferita al Montecuccoli; ma l’Hazfeld dopo breve tempo infermatosi, venne a morte il 6 di gennaio del successivo anno 1658 in età di 65 anni, uomo di animo non buono e di pochi ta[p. 335 modifica]lenti militari. Il comando supremo delle truppe cesaree in Polonia passò al Montecuccoli, che era allora ai confini verso la Slesia, dove avea dato alle sue truppe i quartieri d’inverno, come da una sua lettera scritta in Posna (Posen?) il 15 di decembre del precedente anno 1657 impariamo. Codesto generale pertanto, che vedemmo aver già comandato un corpo speciale di truppe in Slesia, si trovò allora a capo di un piccolo esercito, non ad altri sottoposto che all’imperatore e al consiglio aulico di guerra. Ed erano queste truppe le sole che militassero a que’ giorni fuori dei confini dell’impero, se quelle si eccettuano in scarso numero mandate a sussidio degli spagnoli in Italia. Contava allora Raimondo 49 anni di età, e di lui, a quel tempo, il nunzio veneto Nani dava un giudicio che ci piace riferire in Appendice nella traduzione francese che si ha alle stampe, non avendo sott’occhio il testo originale . Dal Priorato abbiamo poi notizia dei generali che sotto di lui militarono allora in Polonia: ed erano il principe Guglielmo di Baden comandante l’artiglieria, i due tenenti marescialli di cavalleria principe Roberto palatino del Reno, e Spork, il conte Ghetz sergente generale di cavalleria, e un Bonfit che lo stesso grado aveva nella fanteria. I polacchi ascritti al suo corpo in numero di tremila erano guidati dal general Czarneki. Dallo Stom, che da Francfort dava conto alla corte di Modena degli avvenimenti di quel tempo, ci vien saputo che andò Raimondo a riverire in Varsavia il re Casimiro, e che la sua scorta batté lungo la via un centinaio di cavalli svedesi, facendo prigione con molti de’ suoi il capitano. Erano mutate, allorché successe Raimondo all’Hazfeld, le condizioni de’ belligeranti, essendoché Federico Guglielmo, detto il grande elettore di Brandeburgo, alleato del re di Svezia,. avesse concluso pace separata coi polacchi con patti per essi onerosi, e tra gli altri quello di rinunziare all’alto dominio della Polonia sul ducato di Prussia. Obbligavasi invece l’elettore a somministrar loro per quella guerra contro gli svedesi seimila [p. 336 modifica]soldati, e nelle successive che incontrar potessero, duemila . Erano stati quegli accordi ratificati nel novembre del precedente anno 1657; e altri se ne presero colla Russia che invase la Livonia; e perché il re di Svezia s’era posto a far guerra alla Danimarca, non lasciandosi dietro se non forti stuoli di truppe nelle terre che gli premeva conservare, parve ai polacchi non aver più mestieri delle truppe imperiali, e chiesero venissero richiamate. Ma essendo scopo degli alleati di combattere la Svezia e d’impedirle nuove conquiste, non fu a quelle istanze prestato orecchio. Appena investito Raimondo del comando delle truppe cesaree, mosse per Berlino, avendo ricevuto ordine di trattare colà delle cose della guerra con quell’elettore, nuovo alleato, come dicevamo, de’ nemici della Svezia. E con lui andò, secondo il Priorato racconta, quel barone De Lisola nativo della Franca Contea, l’attività diplomatica del quale nello scorcio della sua vita, e l’odio suo verso i francesi, porsero argomento al dotto archivista imperiale, dottor Grossmann di Breslavia, ad un’opera, della quale avremo occasione di giovarci più tardi. L’Huissen attribuisce a quel diplomatico e al Montecuccoli l’aver indotto in Berlino quell’elettore ad abbandonare definitivamente l’alleanza di Svezia. L’ufficio del Montecuccoli fu tenuto dal Souches insino al suo ritorno, che ebbe luogo il 3 di marzo (1658), venendo accolto collo sparo delle artiglierie, e colle maggiori onoranze militari dalle truppe che lui acclamavano nuovo lor comandante supremo. A Posen si adunarono poi a consiglio col re Casimiro il Montecuccoli, il Souches e in inviato dell’elettore; e fu deciso che, mentre terrebbe Souches bloccata Turonia con 10.000 uomini intervenendo a quell’impresa il re, dodicimila tra imperiali e polacchi darebber opera a combattere in Prussia gli svedesi. Ma arrivato Raimondo con quelle genti a quindici leghe da Turonia, ebbe avviso che gli svedesi, i quali avevano prima mirato alla Prussia, si erano poi voltati verso la [p. 337 modifica]Danimarca. Fermossi pertanto a Volstein in Polonia, ed essendo a quel tempo stato assunto l’elettore al comando generale della lega, non ricusò egli di porsi agli ordini di lui in Custrin nel Brandeburg, ove l’esercito intero de’ collegati si radunò . Trovavasi questo annoverare 8000 imperiali, altrettanti soldati dell’elettore e 3000 polacchi, mentre altro corpo dicemmo lasciato al re Casimiro, col quale poté finalmente avere in poter suo il 30 di decembre l’ambita Turonia. Io non so se dai rigori della stagione e dalla necessità di dar riposo alle truppe, o da altri cagione derivasse l’essere rimaste inattive quelle degli alleati, mentre gli svedesi s’impadronivano di pressoché tutta la Danimarca, avendo il durissimo inverno fatto facoltà a loro di assalire le isole, procedendo sul mare ghiacciato: né senza cession di provincie ottenne pace il re danese. Guari non durò poi questa, perché, surte nuove cagioni di contese, quel re si trovò assediato nella stessa sua capitale. Fu allora che, o fosse la pietà che i casi suoi destavano, o perché agli stati vicini riuscivano pericolose le fortune di Carlo Gustavo, che mirava a comporsi uno stato troppo potente e minaccioso all’altrui sicurezza; ai danni di lui si venne formando una lega, che alle ambiziose sue mire oppose valida resistenza. L’Olanda, vigile sempre alla difesa de’ proprii commerci, inviò nel Baltico il celebre ammiraglio Ruyter, che sconfisse sotto gli occhi di Gustavo la sua armata navale nello stretto del Sund, sei navi affondando e le altre cacciando in fuga, e viveri e truppe e munizioni introdusse nell’assediata Copenhagen. Allora l’elettore e il Montecuccoli valicarono sopra un ponte di barche il fiume Oder, passarono pel Meklemburg ed entrarono nell’Holstein, alcune squadre di cavalieri nemici sconfiggendo lungo il cammino. Il Montecuccoli, poiché fu entrato nell’Holstein, per assicurarsi della fede di quel duca consegnar si fece il castello di [p. 338 modifica]Gottorp , dove fu posta guarnigione cesarea e brandeburghese, ed a Tonningen si mandarono sotto scorta, come avvisa in una sua lettera Raimondo, i soldati che ivi erano. E in quelle parti, impose grosse contribuzioni per mantenere le sue truppe. Queste condusse egli stesso, seguitandolo ancora brandeburghesi e polacchi, all’acquisto della ferace isola d’Alsen: impresa non facile pel braccio di mare che s’aveva a passare sotto il fuoco dei cannoni nemici, e perché l’isola era difesa dal generale svedese Aschenberg, che sotto di sé aveva tre reggimenti di cavalleria, uno di dragoni ed uno di fanti. Avvedutamente approfittò il generale cesareo della circostanza che dalla parte dell’Holstein erano le sponde più elevate di quelle dell’isola ; ond’è che le artiglierie da lui ben collocate, fulminando i difensori dell’opposta sponda, li costrinsero ad abbandonarla, ed a ritrarsi più addietro. Allora, i fanti entro barche, e a nuoto la cavalleria polacca comandata da Czarneki, passando quel tratto di mare, penetrarono nell’isola, ed un conte Strozzi, che ci verrà più oltre nominato, fu primo a prender terra a capo di un battaglione, come riferì l’autore dell’opera più volte citata delle Azioni di generali e soldati italiani. E tosto quelle truppe si azzuffarono cogli svedesi che si ritraevano, e n’ebbero vittoria, rifugiandosi gli scampati nel castello di Sonderburg, al quale fu subito posto assedio. Ma invano si aspettò che tragittassero nell’isola le artiglierie, il ritardo delle quali fu allora attribuito a tradimento di un ufficiale, di nome Lauffing, stato già al servigio della Svezia. Giunsero invece di quei cannoni quindici navi svedesi che tentarono uno sbarco; ma a ciò non riescendo per la gagliarda resistenza che incontrarono dagli imperiali, quantunque assaliti questi anche alle spalle dagli svedesi usciti da Sonderburg, reputandosi dall’ammiraglio disperata la sorte delle truppe rinchiuse nella fortezza, per una porta segreta che metteva al mare, le fece scendere sulle sue navi. Venne per tal modo la piazza in potere del Montecuccoli, che ivi trovò il bagaglio dei fuggiti, e, secondo egli scrisse, duemila cavalli che non

[p. 340 modifica] [p. 341 modifica]italiana coi francesi per togliere il milanese alla Spagna, si legge: “Il duca di Modena ha fatto conoscere il suo gran giuditio in molte parti d’Europa dov’è stato, e niun principe l’ha veduto che non l’abbia ammirato. S’è guadagnato l’affetto di quanti l’hanno praticato. Governa il suo stato con prudenza e amorevolezza”. Ma circa quest’ultimo particolare saranno da fare alquante riserve, essendoché le continue guerre alle quali prese egli parte, stremassero, e già l’avvisammo, le sostanze de’ sudditi suoi, in quella provincia specialmente dove avevano i Montecuccoli i feudi loro, astretta di continuo a dar uomini e denari. Accenneremo ancora ad un passo della relazione del Nani, nel quale è detto che, non ostante del malvolere verso cotesto duca della corte e dei ministri di Vienna, che con parole ingiuriose si manifestava, non gli mancarono né il favore, né l’assistenza di più elettori alla dieta di Francfort.

Delle relazioni di Raimondo col duca Francesco I in questi ultimi anni, nei quali militavano essi in servigio di potentati in guerra tra loro, poco potemmo sapere; ma forse più rare, e senza dubbio più fredde, saranno state che per l’addietro. Ciò tuttavia non avrà impedito a Raimondo di sentir con dolore mancato alla vita il principe suo, statogli lungamente benevolo, e che in speciale predilezione ebbe la famiglia Montecuccoli, dei membri della quale in più occasioni si valse, come più addietro ci venne veduto. Fra quelli che alle sue guerre, o a talune di esse, l’accompagnarono, noterò Andrea Montecuccoli della linea feudale di Renno, Girolamo di Luigi, appartenente alla casa militare del principe Alfonso, e Giambattista, che tutti tre alcune memorie lasciaronci sulle fazioni alle quali intervennero; anzi l’ultimo di essi tenne anche un diario di quanto accadeva durante l’assedio di Pavia, e lo mandava al principe Alfonso. Militò per lui anche il giovane Raimondo della linea di Polinago, che dicemmo venuto di Germania a prender parte alla guerra contro le genti del papa, e che in quest’anno appunto veniva a morte in Brescello, ov’era colle truppe che a difender quella terra dagli spagnoli vi aveva posto il duca Francesco: così troviamo annunziato nel carteggio da noi citato del [p. 342 modifica]marchese Massimiliano, appartenente pur esso alla Corte estense e diplomatico. Il marchese Giuseppe, della linea di Polinago, era primo cameriere (gran ciambellano); ed il marchese Sebastiano in quell’anno medesimo, insieme col conte di Warwick che militava nelle truppe estensi, fu mandato ad incontrare Cristina di Svezia a Castelnovo di Garfagnana, e condurla al palazzo ducale di Sassuolo, ove alcun poco si soffermò.

Era stata la morte del duca preceduta da quella del principe Borso suo zio, da noi più volte ricordato. A lui e alla prima sua moglie fu dedicata un’opera postuma di Giacomo Castagnini modenese, che porta questo titolo singolare: Amor nudo, vestito di varietà; ov’è parola di tre battaglie generali, e di venticinque assedii ai quali quel principe prese parte, di fortezze conquistate, e di altri fatti di guerra mentre o nelle truppe del suo paese militava, o in quelle dell’impero, di Spagna o di Francia.

Ed ora, per non avere ad interrompere nuovamente la serie dei fatti pertinenti alla famiglia Montecuccoli, accenneremo qui con brevità, che il nuovo duca di Modena Alfonso IV, poiché per consiglio del Mazzarino, zio della moglie di lui, si fu pacificato colla Spagna e coll’imperatore che gl’imprometteva l’investitura del principato di Correggio, spedì a Vienna per ottenerla il marchese G. B. Montecuccoli poc’anzi nominato. E’ nell’archivio estense l’orazione che questi doveva recitare all’imperatore, presentandogli, per dirlo colle parole del diplomatico estense Pierelli nel suo libro, Il direttore delle ambasciate, “alcuni cavalli, ottimamente disciplinati e reggiamente guarniti, con diverse pitture del divino Correggio ed altre cose, tutte di altissimo prezzo” . Giambattista nel suo carteggio fa ricordo dei cavalli che dice molto graditi all’imperatore, il [p. 343 modifica]quale volle altresì un cavallo leardo, dal duca destinato in dono al general Raimondo, avendo non so che jattura patita nel viaggio uno di quelli che ad esso imperatore si dovevano presentare. Quant’è ai quadri, nel suo carteggio accenna soltanto il Montecuccoli ad uno di essi che non dice da chi dipinto, il quale, “per esser stato male collocato nella cassa”, giunse rovinato a Vienna, né si trovava colà chi sapesse restaurarlo. Aveva poi esso l’incarico di acquistare un quadro del Durer. Da Vienna mandava Giambattista al duca una di quelle consuete notizie false che vedemmo esser corse altre volte colà, di disgrazie incontrate da Raimondo: e questa volta era la moglie di lui che dicevano morta di parto. Insisteva poi esso per ottenere di sollecitamente ritornare in Italia, a cagione del dispendio grave che gli procurava il titolo di ambasciatore, e non di semplice inviato, ond’era rivestito perché troppo lentamente procedevano le trattative dell’investitura, e infine per una lite che aveva col fratello Felice, per cagione della primogenitura istituita in favore della famiglia loro dal ministro Laderchi; circa la quale scriveva egli al duca da Vienna, essere “risoluto di perder tutto anziché cedere un palmo di terreno” della medesima. Per tutte codeste ragioni, presa che ebbe l’investitura per Modena e Reggio, e lasciata la cura delle trattative per Correggio al Pierelli, ministro residente del duca a Vienna, andò a Presburgo a congedarsi dall’imperatore; ponendosi poscia in viaggio per Modena, lungo la via sostando ad Hohenegg, castello di Raimondo. Spiacque al duca avesse lasciato in sospeso un negozio che tanto gli stava a cuore, e lo privò della sua grazia che egli non ricuperò innanzi al 1661, invano offerendosi di ritornare a Vienna, ma con grado minore per non avere ad incontrare spesa troppo grave. Da una lettera di Massimiliano Montecuccoli ad Onofrio Campori sappiamo aver il duca affidato i trattati interrotti al barone Stom, il quale poté poi, con corriere giunto a Modena il 2 di aprile 1660, annunziare condotto finalmente a termine un affare che a così lunghi negoziati aveva dato lungo. Andò allora a Vienna pel consueto omaggio un altro Montecuccoli, cioè Fran[p. 344 modifica]cesco, della linea di Polinago , come era forse Gian-Francesco che gli fu dato a compagno. Facevano parte dell’ambasceria il conte Luigi Coccapani e il conte Guglielmo Codebò, incaricato di scrivere e di recitare l’orazione all’imperatore, e come consultore legale il dottor Attolini. Non si trovò Raimondo con que’ parenti suoi, quantunque avesse bramato di adoperarsi in aiuto di Giambattista, il quale gli era stato raccomandato dal nuovo duca, che conosciuto lo aveva in Modena ove, come narrammo, giostrarono insieme; ma non gli consentì l’imperatore di assentarsi dal campo, dove voleva che aspettasse quei rinforzi di truppe che il Souches gli doveva condurre. Lo chiamò in seguito lo stesso imperatore a Vienna, lasciando per altro al giudizio di lui se non potesse il suo allontanarsi dai soldati recare alcun danno; ed opportuno avrà egli stimato di non muoversi, giacché non trovo che andasse a Vienna. Ci rimane poi una lettera che il 5 di agosto 1659 dal campo di Curlandia inviava egli al duca di Modena, scusandosi di non aver avuto modo di rendersi utile al suo parente Giambattista.

La prima impresa che nel maggio del 1659, lasciati i quartieri d’inverno, assunse il Montecuccoli, quella fu di assalire la fortezza di Friderichöde, essendo stata la città al suo avvicinarsi abbandonata dagli svedesi. Tre giorni bastarono al Montecuccoli per fare gli approcci e stringere da vicino la fortezza; ond’è che, disperando il general Wrangel di potere là dentro durare a lungo, su piccole barche colle sue genti si pose in salvo, abbandonando il forte colle artiglierie e colle provvigioni che raccolto vi aveva, al fortunato suo avversario. Di questa conquista tien parola il Montecuccoli negli Aforismi parlando delle piazze che per blocco o per assedio si prendono, nel caso cioè che siano molto forti, assai popolate e di tal estensione da contenere numeroso presidio. Accenna ivi che quella piazza avrebbe potuto venir soccorsa dal lato del mare. L’essere il re di Svezia Carlo X riescito poco prima ad im[p. 345 modifica]padronirsi della medesima dopo una battaglia vinta sui danesi, veniva reputata, dice il Carlson, una delle sue più belle imprese di guerra. Ecco ora la lettera colla quale annunziò Raimondo al principe De’ Medici quel fausto avvenimento:

Ser.mo Principe, mio signor Pr.one Col.mo
Serva d’avviso a V. A. Ser.ma che alli 24 giunsero qua gl’esserciti e si camporono. Alli 25 presero posto sotto il forte et apersero trinciera, facendo però l’inimico gagliarda diffesa, sì dal forte come dalle navi e dall’altro lito del mare, dove egli avea molte batterie in pronto e facea vedere la sua cavalleria e fanteria in battaglia et udire il suono de’ timballi, delle trombe e de’ tamburi. Alli 26 si avvanzarono e perfezionarono i travagli, e mentre che verso la mezza notte si travagliava alla batteria, l’inimico al favore delle sue barche tacitamente se n’andò, e lasciando artiglieria, munizione e ciò che vi era, messe fuoco nel forte e passò all’altro lito del mare in furia.
Con l’occasione di tal ragguaglio riconfermo a V. A. Ser.ma la mia umilissima divozione et le faccio riverenza.
Dal Campo Imperiale a Fridricsöde, li 28 maggio 1659.
Di V. A. S.ma Umiliss.mo divotiss.mo servitore Montecuccoli

Pochi giorni appresso quel glorioso acquisto, c’informa il Pierelli che Raimondo fu eletto dall’imperatore consiglier di stato.

Da Friderichöde, al di là di un braccio di mare, potevasi scorgere la Fionia, e colà divisò Raimondo di condurre le sue genti. Gualdo Priorato inserì nella sua Storia di Leopoldo Cesare un documento officiale intitolato: “Esposizione dell’attacco di Fionia fatto il 1° agosto 1659 per ordine del generale conte Montecuccoli”. Si contengono in essa le disposizioni da lui date per quell’impresa, che compier dovevasi da mille fanti e quattrocento cavalli dell’esercito imperiale, da altrettanti fanti e da duecento cavalli che così i danesi come i brandeburghesi avrebbero fornito: tutti sotto gli ordini di un generale di bri[p. 346 modifica]gata imperiale. Starebbero Montecuccoli e gli altri capi dei corpi sui bastimenti di guerra che, precedendo la partenza de’ soldati, coll’artiglieria loro ne dovevano proteggere la discesa sul suolo nemico. Porterebbe ciascuno con sé quante più provvigioni potesse. I fanti si posterebbero in un bosco che era sulla destra, usando le picche a difesa contro la cavalleria nemica, intanto che sbarcassero i cavalli. Nuove truppe ed altre artiglierie terrebber dietro a quelle prime, i polacchi, dall’isola di Feroe, dovevano secondare la impresa comune. E fu questa l’unica parte di quel disegno che riescisse a bene, essendo la guarnigione di quell’isola al primo assalto sgombrata di là, passando ad unirsi all’esercito di Wrangel in Fionia. Ma in quella provincia riescì impossibile lo sbarcare, giacché il vento contrario alle navi impedì d’innoltrarsi, lasciandole al tempo medesimo esposte ai colpi dell’artiglieria nemica: gran delusione cotesta pe’ novellieri di Vienna, dai quali come di là scriveva G. B. Montecuccoli, si stava in grande espettazione dell’esito di quell’impresa. Una palla di cannone che colpì la nave sulla quale era Raimondo, gli passò tra le gambe, e gli portò via il bastone del comando, rompendo la tavola sulla quale ei si trovava. Le scheggie di legname balzategli contro gli cagionarono molto dolore e una ferita che lo costrinse al letto, fino al 5 di agosto, come in quel giorno scriveva al principe Mattia. Ma Antonio Vicenzi, agente diplomatico modenese, notò che tardava la ferita a rimarginarsi, e da quella credevasi originata una febbre che allora lo molestò, e che poi si seppe invece derivata da un colpo d’aria preso durante una visita dell’elettore di Brandeburgo. Radunò Raimondo in quel tempo un consiglio di generali, ed ottima parve a tutti la proposta di lui, essere cioè il modo più sicuro d’impadronirsi della Fionia quello non di assalirla allora che in troppo numero v’erano gli svedesi, ma sì quando di là una buona parte di loro si fosse ritirata. E a conseguir questo fine, era mestier portar la guerra in casa loro; ché allora essi, senza più, sarebbero accorsi a difenderla. Ottimo partito questo, pel quale si ottenne l’intento cui gli alleati miravano. E’ invero sapienza [p. 347 modifica]nelle cose di guerra il non ostinarsi a voler cozzare di fronte con difficoltà che in altra guisa più agevolmente possono venir superate, e il trovare d’un tratto i progetti da sostituire a quelli che da prima si erano divisati .

Un sufficiente numero di soldati si lasciò nell’Holstein, ed erano quattro reggimenti imperiali ed altrettanti brandeburghesi, con ottomila polacchi (14.000 uomini in tutti, secondo il Priorato). Nel Iutland rimase la moglie di Raimondo, la quale, il giorno stesso in cui s’impadroniva egli di Friderichöde, partoriva colà una seconda figlia, che nomossi Carlotta, e che dal re di Danimarca fu tenuta al sacro fonte. L’elettore di Brandeburgo e il Montecuccoli presero via colla maggior parte dell’esercito per la Pomerania, passando pel Meklemburg. In Pomerania li aveva preceduto il general Souches che stava allora assediando Stettino, capitale di quella provincia, la quale nella sua parte maggiore era stata alla pace di Vestfalia ceduta alla Svezia. In quella provincia accorse allora, siccome erasi preveduto, il Wrangel che aveva lasciato nella Fionia appena 3000 cavalli e 1800 fanti comandati dal palatino di Sulzbach. Agevol cosa riescì pertanto al Ruyter, ammiraglio olandese, dopo tratto il nemico in inganno accennando ora ad un luogo ed ora ad un altro, di sbarcare il 31 di ottobre a Kiaterminde nella Fionia le truppe che aveva condotte da Kiel, mentre quelle che erano nell’Holstein, sotto gli ordini del generale Hebenstein, passavano il piccolo Belt, i fanti in battelli, la cavalleria polacca a nuoto, prendendo terra a Middelfart. Ai primi fu la cavalleria svedese che ricusò di far resistenza, ai secondi lo stesso Sulzbach, che n’ebbe rimproveri da Carlo Gustavo. In Odensee si riunirono pertanto gli alleati in numero di 9000 uomini tra imperiali, brandeburghesi, polacchi e da[p. 348 modifica]nesi, e a Nyborg ebbe luogo una battaglia il 14 di novembre, nella quale ottennero da prima vantaggi sulla cavalleria degli alleati gli svedesi, che furono battuti poscia dalle fanterie e più specialmente dalle olandesi. Meritò lode, al dire di Priorato, in quella battaglia il conte Enea Caprara che vi comandava il reggimento di cavalli del general Mattei. Il re di Svezia, al quale le flotte nemiche impedivano di recar soccorso alla Fionia, consigliò si facesse resistenza solo a Nyborg; ma indifendibile essendo la terra, il general Horn con tutti i suoi, che erano 3000 soldati di cavalleria, dovette rendersi a discrezione. Solo Sulzbach col generale Stenbock, che di sua mano aveva ucciso un generale de’ polacchi (che non era Czarnecki, morto più tardi), trovò scampo, passando su di un battello in mezzo alle flotte nemiche. Rimasero prigionieri di guerra i generali Horn, Königsmark, il principe Giovanni Adolfo di Sassonia Weimar e due altri con dieci colonnelli, gli ufficiali minori e i soldati: morti due mila uomini col general Böttiger. Il Priorato, nella sua Vita di Leopoldo Cesare, pubblicò due relazioni, da due comandanti di cavalleria imperiale indirizzate al Montecuccoli, che dicono micidiale anche per l’esercito loro quella battaglia: in un reggimento tutti i capitani rimasero uccisi, uno soltanto eccettuato; morti quattro colonnelli e un tenente colonnello, feriti col general Guast tre altri colonnelli, tra i quali il napoletano Carafa. Durò la pugna due ore e mezzo: cento cannoni, le munizioni, i viveri restarono in potere degli alleati coll’isola intera: spartiti i soldati prigionieri nelle truppe de’ vincitori. Alle sventure degli svedesi, non riesciti neppure a riavere Sonderburg nell’isola d’Alsen, sarà stato bene scarso compenso l’acquisto, narrato dal Priorato, di una terra da lui chiamata Nascau. E invero in questa guerra volse contraria la fortuna agli svedesi, e i generali loro parvero da meno della fama conseguita nelle precedenti imprese; ma troppi erano i nemici che contro di loro in diverse parti del nord combattevano.

Avrebbero voluto gli alleati, dopo impadronitisi dell’isola, passar tosto a liberar Copenhagen dall’assedio, ma ad essi negò Ruyter le navi. Aveva egli infatti dal suo governo istruzioni, [p. 349 modifica]le quali mentre favorivano la Danimarca, a lui non consentivano di cooperare ad un soverchio abbassamento della Svezia, o di secondare l’imperatore se mirasse al conquisto di Brema e della Pomerania, con che non lieve danno sarebbe derivato ai commerci degli olandesi da quelle parti. Da ciò i lamenti che, secondo ebbe a scrivere il diplomatico Vicenzi, mosse Raimondo per l’inazione del Ruyter, il quale agli svedesi non impediva di predar le navi degli imperiali ne’ porti; ed egli medesimo negli Aforismi lasciava ricordo di questa freddezza mostrata verso gli alemanni dall’ammiraglio e dagli olandesi, che disse mal fidi, e pel loro proprio interesse desiderosi di mandare a mal termine l’impresa degl’imperiali. E andò più oltre lo storico Puffendorf, asserendo che i cannoni di Ruyter alcuna volta erano caricati a sola polvere. Cotale condotta degli olandesi non sarà per altro giunta impreveduta a Vienna, come congetturar si può da quanto il 9 di agosto di quell’anno scriveva di là Giambattista Montecuccoli circa il sospetto in che si viveva, non fossero per mancare in qualche duro frangente alla fede data: il che dieci giorni appresso scriveva egli essersi infatti avverato. D’altra parte il veneto Nani asseriva, che mal si soffriva a Vienna questa momentanea alleanza cogli olandesi, e l’aver dovuto trattar con loro per affari di commercio, essendosi anche a tale effetto mandato in Olanda un agente diplomatico: ma tornava necessario l’averli alleati per riguardo alla potenza loro sul mare, imperocché il campo della guerra in quelle parti, a cagione delle molte isole, il Carlson lo paragonava ad un giuoco di scacchi, del quale le navi regolavano le mosse; né sempre passar potevano sul mare agghiacciato fanti e cavalli, come riescì una volta al re Carlo Gustavo allorché assalì Copenhagen. Intanto l’elettore e Montecuccoli, siccome si erano proposto, erano entrati in Pomerania. Dalla corrispondenza del Pierelli ci vien riferito, che in mala parte prendesse il general Souches l’ingresso in quella provincia del Montecuccoli, al quale sapeva di dover ubbidire: ed anche temeva gli rapisse la gloria di prendere Stettino, che stava egli assediando; la qual città del rimanente, perché le si lasciaron liberi due accessi per prov[p. 350 modifica]vedersi di viveri, e fu detto per ragion politica (nella quale potrebbe vedersi un’opposizione degli olandesi), non fu potuta prendere . Tentò a quel tempo il Souches, che presso l’imperatore aveva persone che lo favorivano, di ottener colà un comando indipendente; ma la risposta ch’ei ne ebbe, gliene tolse ogni speranza. Riferiva per altro non guari dopo il Pierelli, correr voce potesse venir destinato il Montecuccoli all’assedio di Wismar, dove avevano gli svedesi con quindici navi introdotto molti soldati veterani (e questo si verificò infatti più tardi), con che più libero nelle operazioni sue sarebbe rimasto il Souches. Ma, come in altra sua lettera si legge, la mancanza di fanterie e le intemperie precorritrici del verno, aspro in quelle regioni, distolsero Raimondo dal porsi ad assediare Wismar, e si fermò in vicinanza di Stettino, con vivissimo dispetto del bilioso Souches, il quale si lasciò sfuggire parole irriverenti verso di lui, e ricusò di assumere il comando delle truppe ch’erano nell’Holstein, dov’egli mandar lo voleva. Questo procedere di lui dispiacque oltremodo all’imperatore, che prese nondimeno il partito di dissimulare pel momento, affinché non rimanessero intralciate le operazioni militari, ma fece proposito di dare a suo tempo soddisfazione al Montecuccoli per l’offesa ricevuta, il che non so poi se avesse effetto; e noi vedremo durata l’emulazione del Souches verso Montecuccoli sin che gli bastò la vita. Stettino, del rimanente, dicemmo già che non fu preso, essendovi anzi entrato dentro con buon nerbo di truppe il Wrangel; onde gli alleati furono costretti a levarsi da quell’assedio il 19 di novembre di quell’anno 1659, dopo che invano fu tentato l’assalto della piazza, come sembra apparire da un passo degli Aforismi che dice: “non potute prendere Stettino nel 1659 e Kanissa nel 64 tentate ambedue colla forza”. Delle quali due fortezze affermava che, per esser grandi, con molto popolo e molta guar[p. 351 modifica]nigione, sarebbe stato più facile l’averle mercé un blocco: osservazione che dicemmo aver egli fatto anche a proposito di Friderichöde.

In Pomerania occupò Raimondo, come narra egli stesso, Damgarten, Ribnitz, Treptow e altre terre ; ma quello che maggior gloria gli arrecò, fu l’avere in pochi giorni, mercé l’opera indefessa nell’alzar trincee e nel disporre le artiglierie, stretta così la piazza di Demnim nel ducato di Stettino, che dovette arrendersi, quantunque saldissimo arnese di guerra, afforzato con più ordini di mura, e circondato da paludi che da una parte soltanto concedevano l’accesso. Assediò anche Grippwald, ma quella fortezza fu salvata da Wrangel mercé frequenti sortite da Stralsund che davano luogo a micidiali conflitti, ne’ quali perdette Montecuccoli seicento uomini, nonché il generale delle truppe di Brandeburg con molti ufficiali. Continuava nondimeno il general cesareo a bombardare quella piazza, entro la quale ben trentadue case rimasero incendiate; ma il 15 di novembre il Pierelli scriveva, che un’inondazione lo aveva costretto a ritirarsi a due leghe di distanza, ove s’impadronì del castello di Rechtemberg; e che mentre marciavano a quella volta le sue truppe, s’avvennero in 500 soldati di cavalleria svedese usciti di Stralsund in cerca di foraggi, e di questi neppur uno sfuggì loro essendoché chi non fu ucciso rimanesse prigioniero. Narra poi Raimondo stesso negli Aforismi ove dice delle sorprese da farsi al nemico in paese coperto e in tempo di nebbia, che andando a riconoscere nottetempo la fortezza di Friderust, sortirono di là gli svedesi con fior d’armata e d’ufficiali, secondo ei si esprime; ma sorpresi dal tenente colonnello che comandava la sua vanguardia, e poi da lui medesimo investiti, rimasero sconfitti.

De’ varii fatti d’arme in quella campagna intervenuti, e dei quali così utili risultati si erano conseguiti, mostrò compiacersi il Montecuccoli, che negli Aforismi lasciò scritto: “In Pomerania essendo noi padroni della campagna, quanti luoghi forti [p. 352 modifica]espugnammo è cosa notoria”. E aggiunger poteva, che la necessità di tener disseminate in più luoghi le sue genti, e il non aver agio perciò di disporre di un forte nucleo di soldati, cresceva gloria a quelle imprese di guerra. Tuttavia, secondo che scrive il Pierelli, nell’ottobre un buon rinforzo di seimila uomini gli condusse Roberto, conte palatino. Dal diplomatico medesimo impariamo, che il 29 di novembre avea presi Raimondo i quartieri d’inverno a Port nel Meklemburg, dopo che gli si fu reso il castello di Wehermünde, restando prigionieri un tenente colonnello e i 400 uomini della guarnigione. Ma anche negli alloggiamenti andarono a molestarlo gli svedesi, ed egli 900 de’ lor soldati batté, rimanendo morti sul campo i principali lor capi, come all’imperatore lo stesso Montecuccoli ebbe ad annunziare.

Non termineremo il racconto delle cose in quest’anno 1659 accadute al generale, senza far cenno di ciò che in una sua giustificazione scritta in Praga nel 1680 da lui viene narrato, circa un’offerta di 30.000 fiorini fattagli dall’elettore di Brandeburgo sulle rendite della parte della Pomerania a lui soggetta, in ricompensa delle imprese sue e dei consigli portigli, che di tanto sussidio gli erano tornati, com’ei diceva, per ben condurre la guerra. Per due volte chiese Raimondo all’imperatore facoltà di accettare quel donativo, tanto onorevole per lui; ma o che le sue lettere andassero smarrite, come altra volta dicemmo essere avvenuto, o qual’altra ne fosse la cagione, non ricevette egli risposta alcuna: e per delicatezza d’animo volendo il silenzio imperiale interpretare per un rifiuto, ricusò il donativo. E qui torna in acconcio l’osservare che, se a codesta dimostrazione di riconoscenza del grande elettore avesse posto mente il re Federico il Grande, di un ingrato silenzio non avrebbe nelle sue Memorie rimeritato, siccome avemmo a lamentare, i servigi in questa guerra resi al suo predecessore dal nostro italiano. Di delicatezza non minore di quella ora accennata faceva prova al tempo medesimo il Montecuccoli, allorquando Amburgo, Lubecca ed altre città prossime al campo della guerra gli offersero tre o quattrocentomila fiorini, come avevano fatto cogli svedesi, coi danesi e co’ bran[p. 353 modifica]deburghesi stati da quelle parti, senza dubbio perché loro evitasse angherie militari. Assevera egli che nulla volle per sé, ma accettò il denaro per la cassa di guerra sempre malamente provveduta dai ministri imperiali, mentre soleva egli dire: tre cose a far la guerra occorrevano, denaro, denaro, e poi denaro: sentenza riferita anche dal Menzel nella sua Storia della Germania, aggiungendo che Montecuccoli sapeva poi usar quel denaro per riportar vittorie. Opinò invece Machiavelli, non il denaro, ma il ferro procacciare in paese straniero la vittoria: sentenza troppo assoluta, e ancora crudele, essendoché soldati d’ogni cosa sprovveduti tornerebbero doppiamente infesti ai paesi ove entrassero. Né poi senza il denaro le cose occorrenti per uscire in campagna si potrebbero provvedere. Di denaro e di ferro è mestieri e questo intendeva dire il Montecuccoli.

Coll’animo affranto per veder sfuggirsi dinanzi lo sperato ingrandimento del suo regno, e per le patite sconfitte, e con abbattute le forze per le durate fatiche, infermavasi all’aprirsi del 1660 il re Carlo Gustavo, e la notte fra il 21 e il 22 di febbraio, secondo scrisse Montecuccoli da Parchaim al principe Mattia (il 13 di febbraio disse il Carlson, e il 7 Voltaire nella Storia di Luigi XIV) terminava i suoi giorni. Con esso finiva quel glorioso periodo di Gustavo Adolfo, di Cristina e di lui, che ad una monarchia né ricca, né dominante sopra numerosi popoli, aveva dato fama superiore a quella di alquante più floride nazioni . Non lasciando egli se non un figlio di quattro anni, cercò Cristina di riprendere lo scettro volontariamente abbandonato, ma il suo mutamento di religione le fece ostacolo. E qui ci narra lo Stom, che, trovandosi Raimondo nel settembre a non molta distanza da lei che era allora in Amburgo, andò a visitarla; e di lei scriveva poi da Brome il 7 di ottobre: “La regina Cristina è stata ricevuta a Copenhagen con grandi onori [p. 354 modifica]e civiltà. Piaccia a Dio che così anche le succeda in Svezia” . Fu governata la Svezia per molti anni da una reggenza, la quale sin da principio aprì trattati di pace; ma perché non erano questi accompagnati da un armistizio, qualche ostilità ebbe luogo ancora quando a primavera lasciarono le truppe i quartieri invernali: e di queste abbiamo ricordo nel carteggio del Pierelli. Durante il verno, anziché gli svedesi, fu il turbolento general Souches che non lasciò pace al Montecuccoli, insofferente com’era della soggezione che gli doveva. Nel febbraio andò quel generale a Vienna per render conto di ciò che aveva operato nell’assedio di Stettino; vi ebbe per altro la mortificazione di vedersi negata udienza dall’arciduca al quale erasi per ciò rivolto, che gli fece rispondere: volere, prima di ascoltarlo, interpellare Montecuccoli che tra non guari sarebbe venuto a Vienna. Non so poi se colà andasse Raimondo, che in quel tempo trattava con gli svedesi per riavere il conte Lodovico Caprara prigioniero di guerra, dando in cambio un colonnello loro; trovo soltanto che al cadere del maggio, per levar di mezzo la cagione di nuovi dissidii, si pensò mandare con alquante truppe il Souches in Ungheria.

Nel febbraio del 1660 Montecuccoli fu a Berlino per conferire circa le cose pertinenti alla guerra coll’elettore, il quale aveva fatto conoscere che con lui, più volentieri che con Annibale Gonzaga, cui quell’incarico era stato dato, avrebbe voluto trattare . Al suo ritorno di là trovò che, approfittando gli sve[p. 355 modifica]desi dell’assenza di lui, s’erano mossi per tentare alcuna cosa in danno del suo accampamento; ma senza perder tempo, piombò egli su di loro, e li costrinse a riparare in Wismar ove li tenne bloccati, non potendo assalire quella piazza perché un grosso corpo di cavalli, per l’impresa che dicevamo aver essi meditato, era dentro e intorno di essa adunato. S’impadronì tuttavia di un forte, eretto dagli svedesi non lungi da quella piazza, ed altri forti che i suoi occupavano, più validamente munì. Negli Aforismi poi il Montecuccoli parla di quattro batterie, in quell’anno da lui fatte costruire a Pasheim nel Meklemburg, le quali eran disposte una più alta dell’altra, secondo il sistema di Prués; e queste affermava avergli fatto buona prova, senza che impedimento alcuno apportassero alle sue truppe. Di un buon acquisto fatto da Raimondo, e del quale è parola in una lettera del Pierelli, dava conto con queste parole egli medesimo al principe Mattia: “... il forte di Warnemunde in vicinanza di Rostock, situato sulla bocca del mare dove li svedesi avevano un gran dazio, si rese a discrezione dopo poco combattimento il 17 del corrente agl’imperiali. V’erano dentro il presidio, un tenente colonnello, quaranta soldati, otto pezzi di cannone, et vi erano appresso due gran barconi” (da Parchaim, 21 di marzo 1660). S’era quindi posto Montecuccoli a stringere viemaggiormente Wismar, rinforzando i luoghi precedentemente conquistati: ma intanto la pace, che si disse di Oliva, venne a impor fine a quella guerra, forse con soddisfazione del Montecuccoli, perché, come il Pierelli allora avvertiva, una grande mortalità s’era messa ne’ suoi soldati, che di qualche disastro poteva esser cagione. Da questo fatto apprendiamo, come la fortuna delle cose della guerra si prenda giuoco dei disegni più abilmente orditi da insigni capitani. Ecco infatti un gran generale talvolta procedere minaccioso contro una piazza nemica, circuirla, e a quegli [p. 356 modifica]argomenti ricorrere che valgano all’espugnazione delle fortezze; e poi d’un tratto venirgli a mancare quelle forze, sulle quali aveva fatto disegno: e se di ciò si avvegga il nemico, di quant’arte non avrà egli mestieri per trarsi dai mali passi ai quali il desiderio di gloria, o il compimento di un dovere lo aveva tratto? Al Montecuccoli invece fu l’annunzio della pace che da nuovi pericoli lo liberò, benché non sia da tacere che, confidando gli venisse porto modo di rinvigorire le forze del suo esercito, fosse allora in isperanza di conquistare tutta la Pomerania: il che dette egli per sicuro, parlando di quella guerra nel libro I degli Aforismi. Quella del Montecuccoli in tutta questa guerra, il Nani la diceva una condizione molto arrischiata, pur lodandone e il molto sapere e le belle qualità dell’animo: e ciò specialmente appariva per aver avuto a combattere contro Carlo Gustavo, che era gran politico, e soldato come la spada ch’ei portava, per valermi della strana, ma efficace comparazione da esso adoperata. Onorevolissima poi pel Montecuccoli quella guerra nella quale, come disse il Paradisi elogista suo, salvò, egli privato, la corona a due monarchi, e a due reami la libertà. Il 9 di luglio di quell’anno 1660 dava conto il Pierelli al duca di Modena di una scrittura mandata già da Raimondo all’imperatore, mentre si discutevano gli articoli della pace, che solo nel settembre venne ratificata. In questa scrittura, che si stendeva per 35 fogli, con argomenti politici veniva egli esortando l’imperatore a cogliere l’opportunità che gli si offeriva per migliorare le condizioni dell’impero, ottenendo che Wratislaw fosse riunita alla Slesia, e rendendo ereditario nella sua casa il regno d’Ungheria. Soggiungeva infine che l’imperatore altre imprese avrebbe potuto tentare allorché la pace rendesse disponibili tutte le forze dello stato suo. E forse fu per essere consultato circa i progetti da lui proposti, che venne egli, all’aprirsi del giugno, chiamato a Gratz, dove a quel tempo era la corte. E là senz’altro si discusse ancora il disegno della guerra che si meditava fare ai turchi. Ma intanto molte truppe si licenziarono, e molti ufficiali si riformavano dimezzando loro il soldo, com’esso Montecuccoli scriveva. Ritornato il generale [p. 357 modifica]cesareo nel Meklemburg dove tuttavia stanziavano i suoi soldati, si fece a richiamarli dai diversi luoghi che occupavano e li raccolse in un sol corpo, per avviarsi poscia con loro verso i confini della Transilvania, il che accadde in agosto, prima cioè che fossero scambiate le ratificazioni della pace già convenuta. Ebbe però Raimondo a vincere le difficoltà che al passaggio degli imperiali pe’ loro stati opposero i duchi di Brunswick e di Luneburg, e che esso era deliberato a toglier di mezzo anche colla forza, come da una sua lettera si ritrae. Non però verso la Transilvania, perché gli ungheresi si erano ricusati di accogliere nelle terre loro soldati imperiali, ma in Boemia dal Meklemburg condusse egli la maggior parte delle sue truppe, intanto che le altre collo Spork muovevano verso la Slesia. Lungo la via soffermossi Raimondo nella Sassonia inferiore, ove la riforma incominciò delle sue soldatesche, compreso il reggimento che aveva in proprio, dovendosi, dice lo Stom, rinnovare que’ reggimenti mercé uomini di leva: e quel diplomatico consigliava al duca di Modena di arrolar esso una parte de’ soldati che si congedavano. Un caso singolare racconta poi avvenuto a quel tempo a Raimondo, la fuga cioè, e l’apostasia del confessore di lui, che noi esporremo colle parole stesse di una lettera del generale medesimo. “Un certo Fremellio della Società del Gesù ch’era qui coll’esercito, superiore della Missione castrense, datosi fortemente al bevere et agli amori d’una certa giovane figliuola d’un pellicciaio se ne fuggì nella settimana passata, et n’è ito con essa a Stralsund dove si pensa che la sposerà et apostatarà” (da Parchaim, 28 settembre 1660).

Non consentendo la stagione che altro per quell’anno si facesse, rimasero le truppe nei quartieri d’inverno, prendendo stanza il generale in Praga, dove lo aveva preceduto la moglie gravida di otto mesi, che ivi nel novembre, come Pierelli e Stom annunziarono, gli partorì Ernestina, terza sua figlia, nella quale riproduceva Raimondo il nome del generale Ernesto. Le fu padrino, benché protestante, l’elettore di Brandeburgo. Sola questa fanciulla a portare un nome della sua famiglia, laddove le altre e il fratello ricevettero il nome di chi li tenne al battesimo. [p. 358 modifica]

Dalle lettere di un Giuseppe Acerbotti, agente estense pur esso in Germania, impariamo che una determinazione imperiale avendo disposto che i generali, allorché erano ai quartieri d’inverno, non altro salario riscuotessero se non quello che davasi ai colonnelli, non volle l’imperatore che da questo provvedimento economico derivasse danno al Montecuccoli, troppo benemerito della sua casa. Nel dicembre pertanto, senza che istanza alcuna ei n’avesse fatto, lo nominò, in premio de’ servigi resi anche nell’ultima guerra, governatore di Giavarino (ossia Raab sul fiume d’ugual nome in Ungheria); il quale officio rendeva annualmente 10.000 scudi, o 20.000 fiorini, come dice Priorato nella Vita di Leopoldo Cesare, ed appunto allora, per la morte del generale Luigi Gonzaga, era rimasto vacante . L’Acerbotti, nel dar conto di questa carica conferita a Raimondo, soggiungeva che quello era il principale dei governi degli stati imperiali, e che a lui fu data facoltà di porre colà un luogotenente che lo rappresentasse, allorché specialmente il dover prender parte a guerre gl’impedisse di dimorarvi. Andò tosto il Montecuccoli a mettersi in possesso del suo governo, come si ha da lettera del 29 di gennaio 1661. Passò poscia a Vienna, chiamatovi dall’imperatore insieme col Souches per consultarli circa le novità dai turchi introdotte in Transilvania, le quali, specialmente dopo che questi ebbero occupato Varadino, erano divenute intollerabili . E sin d’allora si stabilirono le norme per ciò che a primavera s’avesse da fare.

Del breve soggiorno che fece allora Raimondo in Vienna, approfittò lo Stom, il quale in difficili condizioni si trovava, essendoché la corte imperiale era in discordia col duca di Modena aderente a Francia, per la qual potenza il cardinal Rinaldo d’Este, suo zio, sosteneva l’officio di protettore in Roma. E per [p. 359 modifica]questo dal primo ministro Porcia era stata rifiutata un’udienza che lo Stom per affari del duca avevagli richiesta. Ricorse allora quel diplomatico al Montecuccoli che ogni dì vedeva il Porcia nell’anticamera dell’imperatore, acciò si assumesse di riferire al ministro le cose delle quali aveva incarico dal duca: la qual proposta annunziò poscia che da esso “era stata accettata di mala voglia”. Allorché poi venne richiesto di sostenere la dimanda del duca, il quale desiderava che la corte imperiale, quando trattava con lui, adoperasse il titolo di serenissimo che gli competeva, si scusò egli dall’entrare in codesta briga, allegando i riguardi che aver doveva per gli spagnoli e per l’imperatore, ed insieme affermando che, in quanto a sé, sarebbe stato propenso ad accettare l’incarico. E neppur in altra occasione trovò grazia presso il Montecuccoli quel diplomatico. Vediamo infatti che, venuto a morte nel luglio del 1662 il duca di Modena Alfonso IV, e succedutagli nel governo dello stato come reggente la vedova di lui, nipote, come dicemmo, del cardinal Mazzarino, ed essendo in Roma avvenuto quel tumulto de’ corsi contro i francesi, pel quale Luigi XIV pretese dal papa esorbitanti soddisfazioni, amare cose si dissero in Vienna contro il cardinal d’Este, protettore della Francia. Ed essendosi adoperato allora lo Stom presso il Montecuccoli, acciò aiutar lo volesse a dissipare quelle male impressioni che non avevano fondamento nel vero, ritrovò in lui, secondo ei scrisse, molta freddezza. E parve anzi allo Stom che cercasse di sfuggirlo ogni volta che gli si avvicinava nell’anticamera dell’imperatore. Sembra poi che lo Stom attribuisse quel contegno del Montecuccoli all’aver esso in quella circostanza prese le parti del papa col facilitare le leve che il nunzio pontificio faceva in Germania, per adoperarle, occorrendo, contro i francesi, i quali erano venuti, come in paese amico, nel parmigiano e nel modenese, sui confini degli stati pontifici (lettera del 17 di febbraio 1663 dello Stom).

Dalle cose insin qui toccate apparisce pertanto, che il seguitarsi dalla casa d’Este una politica diversa da quella dell’impero, aveva allentato i vincoli che tennero in addietro te[p. 360 modifica]nacemente avvinto alla medesima il general modenese, che più volte abbiamo veduto adoperarsi in servigio de’ suoi principi e del suo paese. Il matrimonio poi con una tedesca, e i cospicui gradi ai quali, gravi ostacoli superando, la sua virtù lo innalzò, avevano fatto di lui altr’uomo da quello che era un tempo, allora che, stanco delle lotte quotidiane che aveva a sopportare, agognava a ritornare in patria, appena il potesse, per vivervi tranquilla vita ed onorata. Condottiero supremo di eserciti imperiali, la sorte sua era congiunta a quella dell’impero, e il lungo soggiorno in Germania lo aveva quasi assimilato ai nativi del luogo. Non è già che venissero a cessare le relazioni di lui colla patria, che anzi buon italiano si conservò egli, e tenne poi sempre informati delle sue imprese i principi estensi, anche per mezzo di segretarii; e noi lo vedremo sino alla morte porre l’opera sua, secondo consentivano le circostanze, in servigio degli Estensi e de’ concittadini, nonché di altri italiani. Curarono alla lor volta i principi di Modena, come per l’innanzi, affinché gli agenti diplomatici che tenevano a Vienna, dessero loro notizia de’ fatti di guerra coi quali nuovo decoro a sé e al suo paese veniva egli procacciando.

In quel tempo ebbe Raimondo dall’imperatore una novella dimostrazione di stima e di affetto; imperocché essendogli nel 1662 nato in Vienna l’unico figlio maschio ch’egli avesse, quel monarca lo fece tenere in suo nome a battesimo dal principe Dietrichstein; e al fanciullo fu imposto il nome di Leopoldo.



Capitolo III

Guerra contro i turchi

Poiché Raimondo Montecuccoli fu ritornato dall’Ungheria, ove, secondo dicemmo, era andato a prender possesso della carica di governatore di Giavarino, un consiglio di guerra venne convocato in Vienna, nel quale si doveva decidere, se si aves-