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occhi del suo figliuolo: il largo anello di oro, l’anello di promessa, con le parole in italiano: Amor nel cor: e, infine, il libretto militare e la targhetta, nome, cognome, filiazione, età, paese, reggimento: bottino di guerra! Soria spinge questi oggetti verso Costantini, perchè li guardi, perchè li osservi: e il marchigiano fissa il viso sereno, innocente, e gli occhi traspiranti ingenua bontà, dell’ufficiale austriaco.
— È lui, non è vero, Costantini?
— È lui, sì, signor tenente — risponde l’altro, sempre preso da quel ritratto.
— Quegli occhi, Costantini, non ti pare che guardino... che guardino... che parlino? — e Guido Soria si affanna nel respiro e scuote il capo, e le due mani, persino, si agitano.
— Sì... sono parlanti — conviene, piano, il caporale, soggiogato da quella immagine.
— È a me, a me, che parlano, amico, quegli occhi, a me che l’ho ucciso! — grida, trambasciato, Guido Soria.
— Signor tenente, si calmi, si calmi!
Ma Guido Soria non ascolta, non si calma; la sua ambascia, adesso, innanzi a quell’unico memore testimonio, esplode, si dilata, invade tutto.
— Costantini, io non lo so, che dicono, quegli occhi, ma ho paura, ho vergogna, ho rimorso, ho dolore, innanzi ad essi!
— Non li guardi, tenente!
— Li veggo, anche se non li guardo. Mi seguono, dove vado... mi appariscono, ovunque... E sono così dolci, Costantini... sono così teneri...
— Doveva essere un buon ragazzo, quell’austriaco... diverso dagli altri... ve ne era, certo, qualcuno buono... chi sa... — borbotta, sconvolto, il marchigiano.
— Un fanciullo, un fanciullo ignaro di male... E io l’ho ucciso, così, barbaramente...
— Era la guerra, signor tenente!
— Parola stupida e crudele... Io l’ho ucciso...
— Era un nemico...