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Un alto grido sgorga dal petto di Guido Soria, innanzi a questa rivelazione:
— È questo, è questo, che dicono! Che mi aveva fatto? Egli non mi aveva fatto niente! Niente... niente... niente...
E cade col capo convulso sulla scrivania, e piange, e singhiozza su quel ritratto di ucciso: Giacomo Costantini cerca di sollevarlo, lo prende fra le braccia, gli asciuga le lacrime, con un grosso fazzoletto bianco, di cotone. Fra i più lenti singhiozzi, a occhi socchiusi, Guido Soria ripete, con una strana voce, che non pare la sua:
— «Che ti avevo fatto? Io non ti avevo fatto niente...»
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Preoccupata, Carmela Soria, non risponde più a Giacomo Costantini, dopo la breve perorazione che egli ha fatta, un po’ impacciato nelle parole e nelle frasi, nascondendo appena una certa ansia. Rispettoso, il marchigiano rigira nelle mani il suo cappello moscio.
— Voi credete — rompe il suo silenzio, la piccola madre — che questo viaggio possa far bene a mio figlio Guido?
— Signora, i viaggi fanno sempre bene ai malati di nervi... Il mio caro tenente è sofferente...
— Sempre più sofferente... — osserva, pensosa, la madre.
— Non solo lui, signora, tanti, tanti altri! Chi si è salvato dalla morte, chi non è stato ferito o malato di tifo, è malato di nervi... Alcuni malatissimi... Se sapesse, signora cara...
— Che volete dire, Costantini? — ella balbetta, tremante.
— Nulla, nulla, non si allarmi, non è il caso... Il mio tenente è vigoroso, risanerà... Lo lasci partire...
— Ma perchè poi, io dico, andare nell’antica zona di guerra? Perchè andare dove ha patito, dove ha preso il suo malore?
— Forse, è il solo modo di guarire. Più di un