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nè a Magda Falcone, sua sorella, in via Giulia. Ed esse nulla sanno, in quella sera di aprile, del suo arrivo. Egli è solo, passeggiero ignoto, in quel grande albergo, come uno straniero venuto di molto lontano e che, domani, ripartirà, solo ed ignoto, per un paese lontano: egli apre appena una delle sue valigie, tirandone fuori quanto serve a chi, arrivato da un viaggio lungo, resterà soltanto un giorno, o, forse, solo una notte, in quel paese, mettendosi, poi, di nuovo in viaggio, non accolto al suo arrivo da nessun volto amato, non salutato, alla sua novella dipartita, da un volto amico.... E tutti i suoi gesti successivi, l’escire di camera e di albergo, per recarsi, dirimpetto, a un restaurant, per pranzare, per fumare, per leggere un giornale, per rientrare in albergo, nella sua camera, sono quelli del viandante sconosciuto, che è avvezzo alla solitudine e al silenzio. Egli passeggia, avanti e indietro, in quella stanza che è lunga e stretta; ma non pare agitato: è, piuttosto un esercizio solito, che l’ufficiale ha, forse, appreso nel tempo di guerra, al fronte, ove, spesso, le lunghe serate erano vuote e le ore della notte sembravano troppo lunghe. Prima di andare a letto, egli apre la cassetta militare, ove sono raccolti indumenti e oggetti, che gli sono serviti in guerra: egli ne prende due lettere, che vi sono deposte, sovra le vesti e la biancheria. Seduto presso il tavolino egli legge, con lentezza, queste due lettere. O, piuttosto, le rilegge. Sono due lettere di Barberina Moles, sua moglie, a Mario Falcone, suo cognato, che è morto in guerra. Tutte le altre lettere consimili, le ha portate via e le ha generosamente bruciate, la sua santa sorella Magda, senza accorgersi che due di esse erano rimaste nelle mani di Camillo. Questa novella lettura, in quella tacita stanza di albergo, dura qualche minuto: giacchè il lettore si ferma, ogni tanto e pensa. Ma nessuna espressione è nel viso di Camillo Moles, anche quando ha riposte le lettere nelle buste e le ha posate sul comodino, ac-