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caporale Giacomo Costantini ha avuto il suo compenso, L’austriaco, il nemico, in nome della fraternità umana, della carità umana, dorme, lì sotto, il suo ultimo sonno, col segno di Cristo sulla zolla che lo ricovre. E senza dire una parola, Guido Soria crolla, di tutta la sua persona, su quella fossa e vi resta tramortito.

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Bussa alla porta Costantini, con dita leggiere: teme di svegliare Guido Soria, che ha passata la notte nella stanzuccia del lindo albergo di Bassano, dopo un viaggio lento, penoso, nel più denso silenzio. Ma, entrando, si avvede subito, che il suo tenente non ha toccato il letto: pure il giovine è in piedi, in mezzo alla stanza, ha l’occhio limpido, i lineamenti composti.

— Buongiorno, Costantini. Hai preso il tuo caffè?

— Grazie: l’ho preso — risponde l’altro, un po’ meravigliato.

— Siedi, amico mio. Ti debbo parlare. È tempo che ci separiamo. Ti ho trattenuto e tu hai la tua casa e il tuo lavoro che ti aspettano. So quello che ti debbo. La vita ti debbo, Costantini: poichè se fossi stato solo, l’altro giorno, a Valdivia, sarei morto sulla fossa di Hans Flugy. Tu mi hai salvato. Io voglio abbracciarti e baciarti, come il mio salvatore.

E abbraccia e bacia lo stupefatto suo compagno.

— Credilo, non dimenticherò mai il tuo affetto e il tuo sacrificio. Farò per te quello che mi chiederai: e se nulla mi chiedi, penserò io alla tua miglior sorte. Ma, ora, Costantini, dobbiamo separarci.

— A Roma, ci separeremo, mio signor tenente.

— No, qui.

— Io debbo riaccompagnarla a Roma.

— Andrai tu, a Roma e poi a casa tua. Io, no.

— Ho promesso di ricondurla a sua madre.

— Non mi ricondurrai. Mancherai alla tua promessa.

— Signor tenente!