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fia di crespo nero sui capelli bianchissimi, non avendo, sulla sua persona, altro oggetto di colore, che il sottil cerchio di oro, all’anulare della mano sinistra, la fede matrimoniale, curve le spalle che erano state erette, sino a che il suo ventenne partisse per il fronte, curva la testa, pendenti le labbra, spento l’occhio, con un aspetto di senilità impressionante, poichè ella non ha ancora sessantanni, Marta Ardore passa quasi tutta la sua giornata, nella camera di colui che le fu ucciso, inopinatamente, in guerra, tagliata in due la maggior vena del collo e giacque, svenato. Ella vi si reca, ogni mattina, appena levata di letto e vestita, come faceva quando era vivo: e non bussa, perchè egli non vi è più ed ella ha un gesto di solinga disperazione, nello schiudere la porta. La stanza è chiara ed è gaia: ma è anche funebre. Pare una stanza di una vezzosa e capricciosa fanciulla, o quella di un simpatico, elegante, brillante giovanotto, ma è la cappella votiva a un morto di venti anni.
— Mia creatura, mio fanciullo, mio fiore... — lo saluta, disperatamente, in sè stessa, la madre, Marta Ardore. E certe volte, si sorprende a salutarlo, ad alta voce.
Con mani esperte e caute, ella si dà a fare la pulizia di quella camera, dove nessuno più vive, ma dove entra la polvere, e mobili e oggetti si deteriorano. Ella fatica come una cameriera, anzi, più umilmente, come una domestica: ansima, ogni tanto e si deve fermare. Tutti i mobili sono spolverati e spazzolati: tutti gli oggetti sono strofinati e rilucono gli argenti e i cristalli. Ella mette dei fiori freschi nel vasello di Murano della scrivania, togliendone quegli appassiti, cambiando l’acqua, con cure minuziose. A ogni due o tre movimenti stanchi ma tenaci, della sua persona, ella s’incontra con una fotografia del suo figliuolo, tante ve ne sono, sparse, dapertutto. Ella sogguarda quel viso d’infante, di ragazzetto, di fanciullo: e gli rivolge un motto disperato di tenerezza, in sè stessa.