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Il capitano Camillo Moles giunge in Roma alle sette di sera. Il suo servizio militare è compiuto: ma egli indossa ancora l’uniforme, fregiata dei nastrini che rammentano la sua storia di guerra e i compensi avuti» al suo valore di soldato. Ha, con sè, due grosse valigie e una cassetta militare. Escito sul piazzale della stazione, ove vociano i conduttori degli omnibus dei piccoli alberghi, mentre quelli degli alberghi di lusso, superbi, nulla offrono, in attesa dei loro grandi clienti, l’ufficiale fa cenno a quello del Grand Hótel e gli dice il suo nome. È atteso: egli ha telegrafato due giorni prima, perchè gli si conservi una camera. Sale nell’omnibus e in pochi minuti è nel vestibolo del sontuoso albergo, ove già tutti i lumi sono accesi, in quella sera di precoce primavera. L’andirivieni è discreto, poichè il largo ritmo della vita civile, quattro mesi dopo l’armistizio, è ancora fievole, come se la gente ancora non si potesse abituare alla pace. E, sovra tutto, quelli che vanno e vengono sono militari, ufficialoni gravi e imponenti, ufficialetti brillanti e lieti, a cui, oramai, la divisa non rappresenta più un rude dovere, un latente pericolo, ma è, per alcuni, un fiero vanto e per altri, un vanitoso ornamento. Camillo Moles, mentre aspetta che il segretario gli dia il numero della sua stanza, non si guarda attorno, non cerca nessuno, ma non si nasconde, neanche, da nessuno. È in Roma, è nella sua città, dove ha vissuto, pensato, operato, sino alla chiamata in guerra: e vi ha parenti amici e clienti: ma egli sa bene che nessuno di costoro lo cercherà, e se qualcuno di costoro, tra amici e clienti, lo incontrasse, non lo riconoscerebbe. Così, avviandosi verso l’ascensore, saluta militarmente un colonnello sconosciuto con cui s’incontra, risponde al saluto di un tenentino agghindato che gli passa accanto, e se ne va, con le sue valigie e la sua cassetta militare, nella stanza che gli hanno serbata, al Grand Hótel e in uno dei lati più silenziosi della vasta casa. È solo: è nella sua città: