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È seduta, non coricata, nel suo letto, Marta Ardore, sorretta da una pila di cuscini: l’insonnia le ha pietrificato le stanche palpebre aperte ed essa guarda, nella tenebra fonda. Le riappaiono le memorie più inaspettate, più distanti, più profondate nei recessi del passato. Non ha pianto, ella, forse, in sua giovinezza, dinnanzi a un povero piccolo quadretto, ove era riprodotta una puerile scena triste? Un cielo nubiloso e basso, bigio, quasi livido: una campagna oscura: e, qui davanti, una bianca agnella che, levata la testa, bela verso il cielo: e ha, innanzi per terra, il suo agnellino, morto. Non le parve, allora, di udire il belato doloroso della bianca pecora, che aveva il suo caprettino stecchito, a sè davanti? Non somiglia, forse, ella, a quella misera agnella, a cui è morto il piccolo agnello, Giorgio, Giorgio? L’ora notturna si fa alta e il dormiveglia, infine, fa fluttuare la mente di Marta Ardore: e il suo pensiero non si cheta, e va verso Fausto che è partito, vinto, disfatto, sentendo la sua coscienza indelebilmente macchiata dal sangue di suo fratello, peccato che non si cancella, rimorso che non si prescrive, ed ella non ha tentato neppure di consolarlo, poiché era vano, poiché era inutile. Altissima notte: sonno plumbeo su Marta Ardore. E, a un tratto, un sobbalzo e un grido lacerante:

— Signore, quanto tempo ancora, ho da vivere, così? Signore, quanti anni, quanti giorni, quante ore?

Alta Engadina, estate del 1924,
Napoli, inverno del 1925.

FINE.