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ha sempre qualche ragione, per ritornare nella stanza di suo figlio Giorgio: e vi si trattiene, talvolta, ferma, là in mezzo, parendole di essere una smemorata, di non ricordarsi più, perchè sia venuta: e si tormenta: ma, a un tratto, comprende che ella è venuta, per venirci: e si commisera, in sè stessa, dei pretesti che cerca. Ma la dimora più lunga, è quella della sera, dopo pranzo: in quelle ore in cui, quasi sempre, il suo figliuolo Giorgio preferiva restare in compagnia di sua madre, a leggere, a fumare e a sognare, mutamente, a trarre qualche armonia dal pianoforte. Marta Ardore accende la luce, in quella stanza: e si siede, accanto alla scrivania, guardandosi intorno, ogni tanto: tocca qualche libro, di suo figlio, di quelli che egli preferiva e ne fa scorrere le pagine, senza leggerle: tocca la sua grande scatola di cristallo dì rocca, ove egli aveva la sua provvista di sigarette, ella ve ne mette sempre, gittando via le disseccate: tocca un suo portasigarette di oro, che il suo Giorgio non volle portare al fronte per paura che glielo rubassero... Si leva, va al pianoforte, mette la mano sulla tastiera, traendone qualche vago suono e legge il grande ultimo grido, paisielliano: Svegliatemi Ninetta! L’ora scorre: ella si leva, assume, in un solo sguardo, tutto ciò che è in quella stanza, se ne impregna, per la millesima volta e se ne va, serrando la porta, come faceva quando Giorgio era andato a letto, ella lo aveva benedetto e poteva chiudere la sua giornata. Anche adesso, lo nomina in sè stessa, coi vezzeggiativi più dolci e più straziati e lo benedice: ma egli è stato ucciso in guerra, il suo letto è vuoto e la porta si è richiusa sovra una stanza deserta.

Prima di rientrare nella sua stanza, ove, quasi sempre, l’insonnia l’aspetta, o lo stanco dormiveglia, Marta Ardore va a vedere, in una recondita stanza del suo appartamento, che cosa faccia Antonia Scalese, il cui unico figliuolo Gianni, cresciuto senza padre, è morto in guerra, con tre palle di mitragliatrice, nel corpo. Antonia Scalese fa sem-