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acerba. Il tempo passa. È notte. Alcune parole, più salienti, di quel dialogo, si fissane nelle mente di Cesare. Non ne partiranno più. Adesso, egli si accorge di esser solo e fermo, a quel parapetto: si accorge del Tevere che viene dalla campagna e va alla città e al mare. Egli si ricorda, a un tratto che, laggiù, laggiù, in aperta campagna, dove la via Angelica sbocca verso ponte Milvio, la sponda del Tevere, terra e sabbia, è in un molle declivio, tanto che, monello, talvolta, egli scivolava in acqua, ridendo, risalendo subito, a terra, poco più lontano, perchè non ha mai saputo nuotare. Egli si avvia, passo passo, solo, nella notte, verso quel molle declivio, donde così bene ci si lascia andare nel fiume.


Non è più verso un assente, verso un lontano, che Guido Soria tende le braccia, chiamando con ansia segreta: Costantini, Costantini! Colui che gli fu accanto, per lunga pezza, in guerra, e divise, con lui, i pericoli, le insidie e ogni privazione e ogni stento, il caporale Costantini, venuto dalla Marca di Ancona, colui che servì Guido Soria con zelo e con fedeltà, dandogli prova di un umile attaccamento, è giunto al suo urgente e misterioso richiamo: ed è nelle sue braccia. Come a un amico, come a un fratello, vedendolo apparire, Guido è corso a lui, gli ha buttato le braccia al collo, e Giacomo Costantini è impacciato, ma sorridente, ma ridente e seguita a dire:

— Signor tenente, che onore.... che piacere, signor tenente....

— Sei qui, infine, Costantini....

E Guido si stacca da lui e lo squadra, nel grosso volto sano e rubizzo, nella persona massiccia, atticciata, pulitamente vestita, con una bianca camicia di bucato.