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geografica, in nessuna guida, nè, italiana, nè di prima, tedesca. E cresce, in lui, un sospetto triste che quanto era il paesaggio di guerra, quello in cui egli ha vissuto, tanto tempo, e in cui l’ira felina ha reso omicida la sua mano, paesaggio mutato dagli eventi, dagli elementi, dalla mano dell’uomo, sia diventato irriconoscibile... Ha udito, da qualche suo compagno di armi, che è stato all’antico fronte, che ne è tornato, questa impressione curiosa e dolorosa, il non ritrovare, il non riconoscere, stupirsi, rammaricarsi, tornare indietro, deluso...

— Troveremo Valdivia, Costantini? — egli domanda, talvolta, uscendo dal suo lungo silenzio, nel treno che va, che va, verso la meta nota e adesso ignota, meta che era reale e che forse, ora, non esiste più.

— Speriamo, speriamo, signor tenente!

Non voleva viaggiare, Costantini, in prima classe, col suo ufficiale: voleva andare in terza classe, dove è sempre andato, per non esservene una quarta, egli soggiunge, scherzando: ma Guido Soria lo ha costretto, prima con breve parola, poi con uno sguardo quasi supplice, a tenergli compagnia. Le ore del treno sono molto lunghe: Soria tace, fuma guarda dal cristallo dello sportello, la campagna che fugge, avendo dirimpetto Costantini, che non apre bocca, se non è interrogato, che è molto imbarazzato, in quella prima classe, che non osa fumare, che sonnecchia e, poi, si scuote, vergognoso di essersi addormentato.

— Vi sarà, ancora, il piccolo cimitero? Era molto piccolo: potrà essere sparito, coi suoi morti, Costantini. Dimmi, ti ricordi, era molto piccolo?

— Eh sì, sì, era molto piccolo...

— Mi dicesti... allora, mi dicesti, che vi erano sepolti altri morti, dei nostri?

— Sì, varii...

— Quanti, quanti? Quante croci?

— Otto o dieci, mi pare...

— Le nuove? Quelle militari? Poichè vi dovevano essere le croci vecchie, dei paesani di Valdivia...