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— Lo credo.

— Un sol giorno, una sola ora, un sol minuto... mi basterà.

E, da capo:

— Tu sai, è vero, dove è? Tu ti ricordi la via?

— Sì.

Questo dialogo penoso, cruccioso, si è ripetuto, per tre o quattro giorni: dialogo in cui Giacomo Costantini ha risposto come un automa, incapace di contraddire il suo tenente, che egli vede in preda a un freddo delirio, un delirio senza febbre. Ma quando è solo, la sera, Costantini, nella stanza dell’alberguccio ove è alloggiato, presso la stazione, egli si mette a pensare, a riflettere, a ricordare, Valdivia. Valdivia! Era terra austriaca, era un paesello austriaco, ma era ruinato e la chiesa di santa Margherita era diruta e il cimiteretto, dietro la chiesa, aperto a tutti, un lembo di terra, con qualche croce; e adesso, adesso, che sarà accaduto, colà? Vi saranno le traccie del villaggio, della chiesetta, del piccolo camposanto? Vi avranno ricostruite le case, nella primavera, nell’estate? Valdivia! Per dove ci si arriva, adesso, che tutto è mutato, col treno, fin dove, con l’automobile, con la vettura? Non ci prende sonno, Costantini, a questi dubbii: e non si riconosce più, perchè si sente già incerto, nervoso, come il suo tenente, lui, così sano e così pacifico, nella sua dimessa vita. Qualche sera, prima di rientrare, ha passato un’oretta in una osteria di un anconetano, in via Volturno, a berci sopra un buon bicchier di vino, per potersi addormire presto, rientrando alla locanda. Non fu mai nemico del vino, Giacomo Costantini.

Adesso, prima di partire, con un’attenzione tenace, Guido Soria studia l’itinerario del suo singolare viaggio: e si consulta, ogni tanto, col suo antico caporale, tanta è la incertezza: vi è un estremo punto di arrivo, col treno, ma è ancor lontano dalla meta, che è oltre la vecchia frontiera, e il nome di Valdivia non è in nessuna carta