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— Sono senza lavoro — egli risponde, piano — ma non ho bisogno di denaro. Sono stato malato circa un anno... due volte, il tifo. E, allora, mi hanno dato una discreta somma... Ho ancora qualche lira... Non mi devi dar nulla. Non devi chieder nulla, a lui... niente di niente!

— Checco mi dà tutto quello che voglio — ella risponde, superba.

— Guadagna quello che vuole, Checco. E non abbiamo figli, grazie a Dio... E se volessi, potrei portare il cappello. Sono io, che non voglio. Minente sono e minente voglio restare — ed è superbissima, nella sua trivialità.

Oppresso, Cesare Pietrangeli, mormora:

— Io sono stato un buon marito, Mariuccia.

— È vero. Ma la guerra ti ha portato via.

— Non è colpa mia. Io ti ho voluto bene anche da lontano, anche in guerra, anche malato, Mariuccia...

E l’uomo la guarda con occhi appassionati e supplici: ella torce lo sguardo e non risponde.

— Anche tu, Mariuccia, mi hai voluto bene, tanti anni... — egli soggiunge, appassionatamente.

— Sì... — ella annuisce, riflettendo. — Poi, te ne sei andato in guerra...

— Non è colpa mia...

— ... e io mi sono messa con Checco — ella conclude, brutalmente.

— Avevi promesso... avevi giurato... ti ricordi?

— Mi ricordo, sì. Poi, ho mancato. Migliaia di donne hanno mancato e i mariti, non le hanno ritrovate più. Che vuoi? La donna è di carne...

— È di carne... — egli ripete, come una eco.

— E come si sono rassegnati gli altri mariti, ti rassegnerai tu pure. Non ti sei trovata un’amante, al fronte?

— Che dici, Mariuccia, che dici? — egli esclama, dolorante.

— Be’... te la troverai adesso...

Ma lo guarda, di nuovo, fisamente, e lo vede