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più spesso, non è che un muto e pietoso testimone di quella crisi morale, in cui pare che naufraghi l’anima di Guido Soria. È una doppia malattia, forse, quella, cioè un urto nervoso che ha squilibrato quei nervi giovanili e un ribrezzo spirituale dell’atto commesso, in un istante di furore bellico, di furore sanguinario? Non sa dirselo, quel buon diavolaccio di Giacomo Costantini: egli vede che il male è potente, che questo male vibra e palpita in ogni moto di Guido Soria: e che la sua presenza lo ha fatto tutto riversare nelle parole e nei gesti. Accanto al suo tenente, egli almanacca quale mirabile rimedio possa ridare la pace a quella coscienza trafitta dal rimorso, ridare l’equilibrio a quell’organismo, uscito dai suoi cardini naturali. E un giorno, a un tratto, egli ha avuto un senso di viva repulsione: Guido Soria gli ha detto che vuole andare all’antico fronte, all’antica trincea, di estrema avanguardia, a ritrovare il piccolo cimitero di Valdivia, ove è sepolto, da due anni, il luogotenente austriaco Hans Flugy. Repulsione di creatura buona e onesta: ma il suo tenente ha così insistito, ora esclamando, ora supplicando, ha avuto, negli occhi, una espressione così delirante di desiderio, ha tante volte ripetuto che solo quella visita potrebbe salvarlo, che Giacomo Costantini ha superato il suo ribrezzo e ha acconsentito a questo singolare viaggio.

— Senza di te, non vado, Costantini: e se non vado, che ne sarà, di me?

— Vengo, vengo con lei....

— Tu solo sai dove è....

— Sì.

— Tu solo ti rammenti la strada; tu solo puoi condurmi.

— Sì.

— Tu devi convincere mia madre.... Non sa nulla. Ma mi lascerà andare.

— Lo farò, signor tenente.

— Credi, che il ritornare, colà, mi ridarà la pace...?