«Figliolino mio.... mio fiorellino.... mio bianco agnello....» E soggiunge, gridando: «Agnello mio sgozzato....» E, sempre, si ode sfuggire questo, a gran voce. Con le sue mani, ella stira la coltre di seta sul letto rifatto, guarda l’origliere di fine tela bianca, come se ancora vi potesse scorgere, addormentata nel pacifico sonno, la testa di Giorgio, dai capelli arruffati, o come se la testa del figliuolo sveglio, si levasse, fresca, ridente, a salutarla: quell’origliere l’allucina ed ella talvolta vi cade sopra, col capo, vi affonda il viso, vi soffoca la sua voce e il suo respiro, qualche rara e bruciante lacrima sgorga dai suoi occhi e bagna l’origliere. Quando si leva, decide di mutarlo, poichè essa lo ha intriso del suo scarso pianto. E si allontana, per poco, da quella funebre stanza, chiudendone bene la porta alle sue spalle. Marta Ardore compie tutte le altre funzioni della sua vita di donna e di padrona di casa, in un ordine lento e preciso e in un continuo silenzio. Ella è sola, nella sua casa di Roma: e per parlare ai suoi familiari o ad altri, adopera il minor numero di parole possibili. Si scorge subito che il suo spirito è altrove, mentre ella è presente e parla e agisce. Subito si comprende che tutto è automatico, in lei, nella sua vita esteriore e che vive in lei un portentoso segreto di amore e di disperazione, di cui solo le gramaglie, solo la sua precoce senilità, solo il suo sguardo fisso a terra, come sovra una tomba, quella di suo figlio o la sua, solo il suo profondo silenzio, sono i documenti palesi. Anche questo amore e questa disperazione, sono custoditi gelosamente. E questa custodia gelosa, è da tutti rispettata: e se un estraneo, per caso, nomina colui che è morto, in guerra, vede le palpebre di Marta Ardore abbassarsi sul suo sguardo, non altro: e farsi marmoree le linee di quel volto: e, in lei, senza parole, tutto chiede il silenzio, intorno alla sciagura incomparabile che l’ha colpita. Colui che ha parlato vorrebbe, quasi, scusarsi di averlo fatto. Nella giornata, Marta Ardore,