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— Là, là, in alto, in fondo, a sinistra, i tre alberi, ti rammenti, Costantini? I tre alberi nostri, dietro ai quali noi spiavamo il nemico? I tre alberi, donde, sotto le pietre, scaturiva la piccola sorgente?

Adesso, parla forte, concitato. Si alza in piedi, quasi si dirige dove indica.

— Andiamoci, andiamoci... — dice Costantini, un po’ rincorato.

— È ad uno di questi tre alberi, che egli è stato poggiato: aveva la testa alta contro il tronco, la mano aperta sull’erba: e l’anello, al dito... Come era pesante, quella mano... e rigido, quel dito! Ma io ho avuto l’anello...

Parla come allucinato, in una lugubre allucinazione. Ed è più che pallido, è esangue, come se tutto il suo sangue fosse corso al cuore. Il suo compagno frena a stento le lacrime: gli sembra, anche lui, di vivere in un sogno pauroso, lui, l’onesto merciaio di Corinaldo, in quella campagna deserta, solo, con quel suo antico ufficiale, che è malato, che è malato di non si sa quale malattia, che dice e fa cose paurose... Poco distante, sulla serpa del calessino, il giovane cocchiere sonnecchia e il cavalluccio bruca l’erba ancora fresca.

— Vogliamo andar via, signor tenente? Tornare a casa?

— Conducimi al cimitero — comanda, nettamente, Soria, con un occhiata cattiva.

— Non le farà male? Ha la forza di andarvi? — è la timida osservazione dell’altro.

— Non sono un vile, Costantini — dice Soria, a denti stretti.

Costantini si sente preso da una vertigine. La sua semplice mente non resiste a quella sconcertante altalena di pensieri, di parole e di gesti, per cui sobbalza in aria e precipita a terra, lo spirito di Guido Soria. È già pentito di aver assunto quel così difficile incarico di Carmela Soria, accompagnare il figliuolo in questo periglioso viaggio, di cui la buona e ingenua madre non

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