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— Certissimo! Ghita, mia moglie, è brava assai, lavora volentieri, è capace... Ha sofferto zitta, zitta, poverina, durante la guerra...
— E vi ha lasciato venir via, ora, senza lagnarsi?
— Lagnarsi? Se sono stato chiamato dal mio tenente? Ma Ghita lo ama, quanto me, il tenente! La sua fotografia è sul canterano, vicino alla statuetta della Madonna...
— Costantini, io lo lascio andare, con voi, il mio Guido — conclude, sospirando, la piccola madre. — Se è per la sua salute... Me lo custodirete bene, è vero?
— Non dubiti, signora. Io lo riporto, qui, guarito, guaritissimo.
— Starete molto?
— Non so... non so bene... vedrà il tenente — è la vaga risposta.
— Dove andate?
— Là... dove fummo in trincea... — è sempre più vaga la risposta.
— Siete stati in varii posti, in trincea...
— Sì. Dove vorrà andare il tenente — e non soggiunge altro.
Ancora, congedando Giacomo Costantini, Carmela Soria gli raccomanda suo figlio, Guido: ancora il marchigiano risponde che lo riporterà a casa guarito. Ma, quando è solo, Costantini crolla il capo, malinconicamente. La settimana che egli ha trascorsa, in Roma, accanto al suo antico ufficiale, lo ha profondamente turbato: e non gli riesce di vincere la sua agitazione, poichè egli assiste, ogni volta, al triste disordine dello spirito di Guido Soria, ora in preda a una pesante tristezza, ora in un eccitamento volubile, ora in un languore morboso. Col suo grosso buon senso e con la sua sensibilità primitiva, Giacomo Costantini tenta combattere, volta a volta, tutte queste espressioni di un cocente tormento d’anima: e, forse, vi arriva, in qualche momento, con un breve miracolo, che compie il suo affetto: ma,