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tosto ripido, con passo più lento, il cavalluccio. Egli fa solecchio, con la mano; poi si rimette a sedere.
— Sì, lassù, sono le nostre antiche trincee. Che si fa, signor tenente?
— Andiamo alla nostra vecchia tana?
— Scendiamo dal calesse e andiamo verso Valdivia? Dica, signor tenente...
— Non so... non so nulla — è la risposta debole e scolorita dell’altro.
Costantini sogguarda Guido Soria: non lo ha mai visto così affranto, testa china, spalle curve, braccia e mani prosciolte. Il marchigiano leva gli occhi al cielo, sospira:
— Non si sente bene, tenente? Vuol fermare il calesse? Vuol discendere, un poco? Far due passi?
— Scendiamo pure.
E si leva, un po’ incerto, scende, Guido Soria, un po’ vacillante, quasi cadente addosso a Costantini, che è lì davanti, per sostenerlo. Fanno due o tre passi, insieme: è lì presso un tronco di albero, abbattuto e abbruciacchiato. Guido Soria vi si lascia cadere. Giacomo Costantini è innanzi a lui, zitto, aspettando, paziente, celando la sua inquietudine che è, addesso, grandissima.
— Il viaggio ha stancato i suoi nervi? L’abbiamo fatto con tanta furia... Ecco che lei soffre...
— Io sono un vile — dichiara, improvvisamente, l’altro, levando il capo.
— Signor tenente!
— Sono un vile, non vi è altro da dire — replica Soria.
— Signor tenente, lei fa disperare il suo povero Costantini! Mi consideri... mi compatisca... Io non so che cosa dirle... — e una sincera angoscia preme il brav’uomo.
Guido Soria non gli risponde. Adesso guarda il paesaggio silente, talvolta attraversato da un soffio di vento autunnale. Tende la mano, a indicare: