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— Non ho badato — risponde Costantini, avvilito dalle funebri domande.

— Molto piccolo, il cimitero — mormora Guido Soria, senza badare all’altro. — Può essere scomparso.

Va, va, il treno, sale in collina, traversa le rocce traforate, si eleva, tutto cangia, intorno, altri volti, altra parlata, nelle stazioni. Soria di nulla si accorge, sommerso nella sua vita interiore.

— Come hai scritto, sulla croce? — chiede, improvvisamente, a Costantini.

Costui si scuote, si smarrisce, un momento.

— Volevo sapere quello che hai scritto, sulla croce — replica, ostitato, Guido.

— Quello che lei mi ha dato, sovra una carta. Ho copiato parola per parola.

— Sovra una targhetta di legno? Era solida? Hai scritto con un inchiostro indelebile?

— Era solida e ho scritto con un inchiostro indelebile.

— Bene attaccata alla croce?

— Con doppio fil di ferro.

— Ah!

In un’alba autunnale, già un po’ fredda, il treno sta per giungere all’ultimo suo limite ferroviario. Guido Soria è pallidissimo, perchè non ha chiuso occhio, tutta la notte, sul cuscino da viaggio, sotto il suo plaid: ma i suoi occhi sono vivaci e guardano, fuori, impazienti. Lentamente, il marchigiano si sveglia da un sonno pieno, in cui ha dormito, tutta la notte, anche russando un poco.

— Troveremo, troveremo Valdivia? — è, ancora, l’assillante inchiesta di Guido Soria.

Costantini riflette, un istante:

— Avremmo dovuto condurre con noi Franceschi.

Soria trasalisce, si arretra come se avesse visto uno spettro ed esclama, fra la paura e il disgusto:

— Franceschi, no... Franceschi, mai... è un complice, capisci? Mi ha detto, quel giorno, di guardarmi... mi ha gridato di sparare... mi ha dato il fucile...