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pre lo stesso. Tutta vestita di nero, ma sorridente, e talvolta, ridente, è distesa, lunga, per terra. Giace sul fianco, con la guancia e l’orecchio sovra un mattone del pavimento. Antonia Scalese parla con suo figlio, e le pare che suo figlio le risponda, di sotto al mattone.

— Gianni mio.... Come va che non ho tue lettere?... Mi hai scritto ieri? Allora l’avrò domani?... È lunga, la lettera? Sei un gran buon figlio, Gianni, Gianni....

E ride, ride, Antonia Scalese. E riprende, con la guancia e l’orecchio, sul mattone:

— Ma che mi dici, di questo tuo ritorno?... Presto, dici? Che significa, presto?... Non puoi precisare.... Ma torni, è vero, torni?... Oh che risate, voglio fare, col mio Gianni!

Questa è la sua follia. Povera, abbandonata, orfana di suo figlio, Marta Ardore l’ha raccolta in sua casa, per pietà e la custodisce, e la cura, insieme alla domestica Francesca. È una folle spasimante, ma dolce e ridente, Antonia Scalese. Potrebbe guarire, dice il medico, crollando il capo, solo se rivedesse il figliuolo. Così, non guarirà mai. Ma questa pazza non dà noia, in fondo alla casa vasta e vuota, in una stanzetta modesta, in cui passa le ore, lunga per terra, chiamando suo figlio e parlandogli, e udendone le risposte, sorridente, ridente. Così, sino alla morte. Guarda, la madre folle, Marta Ardore e ha solo un gesto di rassegnata desolazione. Poi, anche più disfatta, se ne va, passo passo, verso la sua camera.

Nella camera ove si ritira Marta Ardore, e che ella abita da molti anni, non vi sono che due traccie di Giorgio Ardore. Sono sul largo comodino da notte, presso il letto di Marta, sovra una tovaglietta bianca ricamata: la prima, è una fotografia, una istantanea, presa a Viareggio, sulla spiaggia, ove Giorgio Ardore è sotto il braccio di sua madre, come aveva la infantile abitudine di andare, per la via (diceva «tu mi sostieni e io ti sostengo») e tutto è luce, luce di sole, in quella

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