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la faccian tale che meriti esser onorata, e che ogni sua operazion sia di quelle composta.

X. Maravigliomi pur, disse allora ridendo il signor Gaspar, che poichè date alle donne e le lettere e la continenza e la magnanimità e la temperanza, che non vogliate ancor che esse governino le città, e faccian le leggi, e conducano gli eserciti; e gli uomini si stiano in cucina o a filare. — Rispose il Magnifico, pur ridendo: Forse che questo ancora non sarebbe male; — poi soggiunse: Non sapete voi che Platone, il quale in vero non era molto amico delle donne, dà loro la custodia della città; e tutti gli altri officii marziali dà agli uomini? Non credete voi che molte se ne trovassero, che saprebbon così ben governar le città e gli eserciti, come si faccian gli uomini? Ma io non ho lor dati questi officii, perchè formo una Donna di Palazzo, non una Regina. Conosco ben che voi vorreste tacitamente rinovar quella falsa calunnia, che jeri diede il signor Ottaviano alle donne; cioè, che siano animali imperfettissimi, e non capaci di far atto alcun virtuoso, e di pochissimo valore e di niuna dignità, a rispetto degli uomini: ma in vero ed esso e voi sareste in grandissimo errore se pensaste questo.

XI. Disse allora il signor Gaspar: Io non voglio rinovar le cose già dette, ma voi ben vorreste indurmi a dir qualche parola che offendesse l’animo di queste signore, per farmele nemiche, così come voi col lusingarle falsamente volete guadagnar la loro grazia. Ma esse sono tanto discrete sopra le altre, che amano più la verità, ancora che non sia tanto in suo favore, che le laudi false; nè hanno a male, che altri dica che gli uomini siano di maggior dignità, e confessaranno che voi avete detto gran miracoli, ed attribuito alla Donna di Palazzo alcune impossibilità ridicole, e tante virtù, che Socrate e Catone e tutti i filosofi del mondo vi sono per niente; chè, a dir pur il vero, maravigliomi che non abbiate avuto vergogna a passar i termini di tanto. Chè ben bastar vi dovea far questa Donna di Palazzo bella, discreta, onesta, affabile, e che sapesse intertenere, senza incorrere in infamia, con danze, musiche, giochi, risi, motti, e l’altre cose che ogni di vedemo che s’usano in corte; ma il vo-