Costantino Beltrami da Bergamo, notizie e lettere/Viaggi e scritti
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MORONI CONTE PIETRO
DE’ VIAGGI E DEGLI SCRITTI
DI
COSTANTINO BELTRAMI
DA BERGAMO
DISSERTAZIONE LETTA ALL’ATENEO DI BERGAMO
NELL’ANNO 1856
Scrivendo di un uomo quale il Beltrami, le cui illustri memorie sono deposte ne’ di lui scritti notevoli per verità, e candore, e nei quali manifesta ad ogni tratto il bisogno di aprire alla più cordiale amicizia l’animo suo colla semplicità della epistolare corrispondenza, disfogando ogni suo dolore, e disvelando ogni più intimo senso della mente e del cuore colpiti mano mano all’aspetto di scene fisiche spesso nuove, e quando terribili, e di quelle ancora più meravigliose e strane, cui veniva presentandogli la varia e lagrimevole condizione umana, penso non poter meglio giungere alla propostami meta, che penetrando ne’ di lui pensieri, e ricordare ad ogni occasione quelle massime e quei dettati, onde la dotta e franca sua penna arricchiva ogni narrazione. Intendo con ciò sdebitarmi di ogni taccia di plagio, e di meritarmi fors’anco qualche lode da chi ben più che la vita fisica ama conoscere quella parte sempre più importante che spetta al morale di un uomo, la cui memoria già in fama, altissima oltre l’Alpi ed oltre i mari parve quasi per tempi timidi, ed ombrosi volersi da geloso destino tenere fra noi ignota, ed oscura.
Grazie devonsi intanto all’onorevole di lui nipote, che giusto estimatore di quel senso di nazionale orgoglio con cui riguardasi da noi, e s’apprezza ogni memoria, che illustri la patria, non esitava venirne recando le ultime nuove depositando preziosi monumenti, manoscritti e carte, la mercè dei quali ricostituire un edificio d’immortalità a lui ben dovuto. Non so intanto se più di meraviglia, o di rimprovero fosse fra noi meritevole tanta dimenticanza, che a dir vero a malincuore soffriva ogni buon cittadino sotto l’incubo di prudente circospezione, che morte rendeva ora vana onninamente1. Sì, oltre la tomba tace ogni umano sospetto, le ombre si dileguano, non rimane che la realtà, e gli uomini sciolti di ogni ingannevole velo, possono aspettarsi nella quiete del sepolcro dalla posterità quel giudizio imparziale, che viventi, loro contendevano civili riguardi.
Ultimo di quindici figli nati di Giovanni Battista, e di Margherita Carozzi ambi d’assai civile ed agiata famiglia, la prima dì questa Città, l’altra di Pontita, Giovanni Costantino Beltrami fra noi compiva il corso de’ studi suoi, fino a che, vestita la toga, iniziavasi alla carriera giudiziaria nella quale fatto Cancelliere della Corte Civile e Criminale nei dipartimenti Francesi della Stura e del Tanaro, otteneva l’anno 1817 il grado di Giudice della Corte di Udine. Ivi con alto senno, e con instancabile zelo meritavasi lode dai superiori, i quali gli attestavano la massima soddisfazione come rilevasi da parecchi autografi loro. E tali espressioni di superior gradimento venivano confermate dalla di lui nomina a Giudice della Corte Civile e Criminale di Macerata, mentre pella straordinaria di lui attività nel disimpegno di importanti mansioni il Gran Giudice Ministro della Giustizia con lettera direttagli correndo l’anno 1813 ne lodava lo zelo ed i lumi, preludendo alla di lui promozione alla carica di Presidente della Corte di Forlì, cui il Principe Vice Re lo proponeva alla sanzione Imperiale e Reale di Francia. Se non che il buio che nel frattempo insorse ad eclissare l’orizzonte politico di quell’Impero e del Regno Italico, impediva ogni ulteriore missione di nomine, ed il Beltrami rimaneva al suo posto, rilevandosi solo, che ne partisse in temporario congedo affetto da grave malattia, recandosi a Firenze, donde instantemente lo richiamava il Poerio allora Commissario straordinario di S. M. il Re delle due Sicilie pei Dipartimenti Italici meridionali, occupati con la Romagna dall’armi di Murat. Giova poi dire che il Beltrami bene meritasse da quel Provvisorio Governo scorgendolo insignito della medaglia d’onore del Regno di Napoli. Ma, nel vortice in cui perivano tutte le nuove istituzioni, facendo pure quella Provincia ritorno al dominio del Papa, non andava salvo il Beltrami, che notata di troppo zelo, e di calda affezione al sistema che crollava, e forse fatto segno a dubbi più gravi, vedevasi costretto ad uscire d’Italia.
Ecco intanto nuovo argomento di quel superno consiglio, onde per inattese vie scorgonsi gli uomini agli alti destini cui erano nati, avvegnaché chi mai al vedere il Beltrami sedere grave e pensoso sacerdote di Temi, chi mai lo avrebbe sospettato il coraggioso, intrepido esploratore di nuove terre, e di nuovi costumi? Pure così avvenne. Strappato il Beltrami alle abitudini del Foro, di cui era per sì lungo tempo singolare ornamento, seguendo l’impulso di una sana Filosofia, cerca nei viaggi quell’esperienza, e quell’istruzione che valgano a sostenerlo nelle amarezze dell’esilio, e gli consiglino una virtuosa rassegnazione. E quasi egli preludesse a quell’oblio, cui apparentemente almeno fra noi si giacque, veniva ne’ suoi scritti osservando, che dando il suo nome ad alcune selvagge contrade per lui la prima volta visitate, bella occasione gli era porta di perpetuare la sua memoria, ma di ciò si astenne, lasciando che gli uomini disponessero del suo nome, come Dio del di lui spirito secondo che bene o male avesse meritato, fidando agli amici, ed a queglino che conosciuto aveano il di lui cuore, la cura di difenderne la memoria, se mai uomini ingiusti od accecati dai pregiudizi volessero attaccarla.
Sì, mi compiaccio di essere io il primo che in Bergamo, tua patria, o generoso cittadino, mi alzi non a difendere ma a celebrare il tuo nome, nome che pur troppo ne spuntava spesso sul labbro, e ricadeva sempre muto, e senza suono, affogato nelle incertezze che sulla tua sorte ne angustiavano. Ora di lui tutto farà chiaro l’Istoria e buon per esso, che in mezzo ad alcune mende di cui voglionsi notare i suoi scritti, la somma del buono trabocca sulla bilancia anco dal lato religioso e morale, mentre per ciò che spetta a cottura ed a scienza puossi a giusto titolo locare fra gli uomini grandi del secol nostro. Col titolo — Due parole intorno le sue passeggiate da Parigi a Liverpool pubblica il Beltrami coi tipi di Filadelfia un resoconto de’ suoi viaggi d’Europa. Con celere passo trascorre egli la Francia, parte dell’Allemagna, il Belgio e l’Inghilterra, e sebbene, come egli si manifesta, la necessità di essere breve lo incalzi, mostra di tutto osservare nulla trascurando di ciò che possa rendere interessante e gradevole la narrazione. Delle nobili Città che siedono in riva alla Senna, al Reno, al Tamigi, accenna le cose più memorabili, con sì fino accorgimento, da chiarirlo versato in ogni antica e moderna istoria, ed educato al sentimento delle arti belle, ed ogni opportunità di sito adombra egli con largo e franco pennello negli avvenimenti che vi si collegano, ma con tale una delicata concisione di dettato da non vestire l’assisa di pedante maestro, evitando al lettore le noie di quella prolissità che è pur scoglio precipuo di tali produzioni. Era infatti principio da lui altamente professato che tutto dicendo non è sempre fare il meglio, giovando tal volta lasciare libero campo all’altrui immaginazione, ciò che egli rimproverava di non aver fatto al grande Fénélon nel suo pur divino Telemaco. Il giornale — Le Réveil — di Nuova York 1825 annunziava questa produzione del Beltrami con parole onorevolissime dicendola assai interessante e variata, piena di originalità e di erudizione. Ma questa rapida escursione del Beltrami data già da oltre trent’anni, e da quell’epoca a noi dopo tanti avvenimenti e mutate condizioni di popoli, male si avviserebbe chi dalla di lui narrazione conoscer volesse lo stato presente di quei grandi centri visitati e descritti da lui. Pur egli scrivendo di Londra, e di quanto vi trovava degno di esame non poteva passare il vandalismo col quale quegli Isolani avevano fratturato marmi, e spogliato venerabili monumenti, che il tempo aveva esso pure rispettato e l’antichità avrebbe desiderato di veder conservati all’ammirazione del mondo. Tolti dalle sabbiose lande d’Egitto, e dal classico suolo di Grecia gli obelischi, le statue, le membrature staccate di superbi edifici, onde ora s’abbella quella Regina dei mari, scaddero di loro principale importanza, non più circondati da quell’aureola d’ammirazione che fa dire a chi li osserva — qui furono innalzati da popoli, che più non sono, e qui stanno a dispetto de’ secoli. Basti di ciò a prova il mal governo del Partenone, e dei marmi Arondelliani, che pur erano preziosissimo monumento di Greca Cronologia.
Crucciato l’animo inverso il bel paese da cui suo malgrado migrava, accomiatavasi il Beltrami da’ suoi amici promettendo dal nuovo mondo suoi scritti, e pregando il conforto di loro notizie. Ed egli ben tenne sue promesse indirizzando una serie di lettere alla contessa Compagnoni, lettere pubblicate con le stampe alla Nuova Orleans sotto il titolo — Scoperte delle sorgenti del Mississipì e della Riviera Sanguigna. — Io non vorrò seguirlo nel lungo suo cammino; quella costanza dell’animo, di cui faceva prova recando ad atto la divisata impresa, a me verrebbe meno solo a descriverla. Essa compivasi nel periodo di nove mesi, correndo il lungo di tre mila e duecento miglia per lande immense, e per foreste di prima creazione. A’ suoi viaggi comunque immensi, pieni di pericoli e di privazioni, alla cui narrazione ogni fibra si risente e si scuote, gli piace dare il titolo modesto di Passeggiate. Muove egli da Pittsburg, Città della Pensilvania, che per la sua industria paragona a Birmingam d’Inghilterra, posta al confluente di due fiumi, che uniti prendono il nome di Ohio. Scende egli il bel fiume, che tale suona l’appellativo di Ohio, meravigliando di sue ridenti sponde le cui adiacenti campagne scorgeva ricche di ogni dono di Cerere e di Pomona, e non meno abbellite da quelli di Flora. Esse da un solo lustro venivano elevate al grado di Stato dell’Unione, e già primeggiavano per industria e per agricoltura. Le prime corse eseguite su questo fiume datano dal 1773 per opera del dottore Wood, e di Simone Kenton. Ma l’istoria dei popoli in America invecchia ogni giorno, e l’ultimo straniero che vi giunge trova sempre cambiata la scena in presenza di materiali affatto nuovi. Era così incantevole vista, che il Beltrami esclamava: Per quale mai superno consiglio queste terre predilette dalla natura, su cui si accumularono i sughi vegetabili di tanti secoli, giacquero per anni sì lunghi sconosciute ed incolte; ah! così soggiungeva, la Provvidenza le serbava alle vittime del dispotismo e della tirannide (Beltr. lett. pag. 94.) rifugio e conforto di mal compresse, o troppo avventate brame, e di sognate utopie. Giunto al suo confluente altro sorprendente spettacolo di natura lo colpiva con le acque, che versandosi nel Mississipì tengonsi per ben venti miglia distinte di colore e di corso da quelle del grande fiume che le riceve, argomento gravissimo alle principali teorie del movimento loro. Colà egli stava in aspettativa di opportuna occasione d’imbarco per alla Nuova Orleans, quando giungeva a ritroso la nave a vapore il Calhoun al cui bordo erano il generale Clark ed il maggior Tagliawar ambi inviati dal loro governo ai Forti del nord, onde sopraintendere agli Indiani. Sebbene a 400 leghe dall’Atlantico, ove sbocca ingrossato da mille e più suoi tributarj, questo fiume del Mississipì, o di S. Luigi che dir si voglia, presentavasi maestoso, imponente, tale da eccitare nel Beltrami il desiderio più vivo di conoscerne le sorgenti che sapeva tuttavia ignote, lieto di proporsi una meta propria del fuoco, onde ardeva l’animo suo per tutto che fosse grande e peregrino. Il capitano De la Salle era il primo che nell’anno seicento ottantadue dopo il mille, ne scoprisse il corso: fallito sempre anche con grave perdita di navigli ogni di lui tentativo di determinarne le foci in mezzo all’incerta lor Baia, ciò che pochi anni dopo riusciva al sig. D’Albarville spingendosi sopra a cento leghe fra la tribù dei Natches, che Chateaubriand rendeva celebre col racconto degli amori di Atala e di Cachtas; ma tali imprese vanno sempre congiunte a fieri disastri, e l’intrepido La Salle cadeva vittima del ferro traditore de’ suoi.
Accolto assai cortesemente montava il Beltrami il Calhoun salendo il fiume fino a S. Luigi, (S. Louis) oltre il quale esso raddoppia di corso, indizio delle acque, che in lui si versano dal Missouri, le cui sorgenti, afferma il Beltrami, ancora ignote, e di cui la fluida massa tiene forse eguale a quella del fiume che le riceve. A quella stazione era il Virginia, che proseguiva fino a S. Antonio (S. Antony) a 2200 miglia dal golfo Messicano, segnando un’epoca memorabile nella storia di quella navigazione, avvegnaché fosse il primo vapore, che innoltrasse così animoso fra tanti intricati meandri e raggiri di mezzo a mille pericoli di vortici e di secche. Lungo la via, in cui impiegavansi ben quaranta giorni, visitava il Beltrami il campo della tribù dei Saukis, il cui capo dopo Montezuma e gli Incas, vuole essere ricordato fra i più valorosi. Eppure il nome di Pontiak giace quasi dimenticato. Era in queste sue prime rapide escursioni, che abbattutosi in mostruoso serpente nero macchiato di giallo e in altro a sonagli li uccideva, il primo animale terribile come suona il nome datogli di Piacoiba temuto più del secondo, avvegnaché strisci in silenzio, ed insidioso fra i rovi e nell’erba, mentre quello a sonagli si annunci col suono di quella sostanza con la quale la natura ha munito provvidenzialmente la sua coda. Di tali prede, di cui conservava le spoglie, ora dal nepote donate a questa Comunale Biblioteca, menavangli gran festa i selvaggi, i quali per la solita nudità e vita loro errante temono altamente di ogni rettile, che riguardano siccome Manitou, o divinità di maligna tempra, e non osano offenderli onde non provocarne lo sdegno. Pochi scritti siccome quelli del Beltrami potrebbero dare una così giusta e chiara idea di quelle tribù Indiane, che nelle terre più settentrionali dell’Unione traggono vita tutta nomade e selvaggia. Esse abitavano quelle deserte contrade seguendo solo il sentiero loro segnato dai buffali, dagli orsi, e dalle altre fiere, e cessero mano mano il campo ma non domate, parte perite di ferro, parte addentrandosi maggiormente. Fu nell’anno 1803 che per trattato con Napoleone I.° gli Stati Uniti aggiunsero al loro grande territorio tutto quanto dopo la pace dell’indipendenza ancora possedevano la Francia e la Spagna. E sebbene quelle vaste regioni, che ora distinguonsi col nome di Savanne del nord, da soli trent’anni fossero state da popoli civilizzati visitate allora che scriveva il Beltrami, pure in così breve spazio di tempo quanta coltura e quanto lavoro! Colà, abbattendo foreste e squarciando il seno alla terra, si rinvennero quegli scheletri colossali, che il Beltrami osservava nei musei di Filadelfia, Baltimora, e Cincinnati, somiglianti alle forme degli Elefanti, dai moderni naturalisti distinti col nome di Mammouth. Tali resti di animali, riscontrati anche da Cuvier simili a quelli discoperti in Siberia e nell’Asia orientale di specie diverse da quelli dell’Africa, congiunti all’uso dei geroglifici de’ popoli, starebbero in appoggio all’opinione, che i primi abitatori delle Americhe vi penetrassero dalle regioni polari artiche, il che sarebbe ora meglio confermato dalle recenti scoperte di Maecher, il quale penetrando avventuroso dallo stretto di Behring ai paraggi prima percorsi dai navigli venuti dalla Baia di Baffin, accertava del famoso passaggio del nord, oggetto di tante ricerche, e causa di tanti disastri.
Importanti e diligenti sono le annotazioni del Beltrami, perchè fatte sulla faccia dei luoghi medesimi, dai quali non lo ritrassero mai consigli o timori. Alto della persona con incesso nobile e franco, armato di fucile e di punta, e generoso di doni, dei quali vanno quegli aborigeni desiderosissimi, seppe egli aprirsi ogni via, penetrando pur anco fra le tribù dei Sioux e dei Cypowais, rivali fra loro irreconciliabili, sospettose, avide solo di sangue e di vendetta. Sedette alle lor mense fumando il Calumet dell’amicizia, prese parte alle loro cacce, fu spettatore ai giuochi, alle danze, alle funeree cerimonie, e nuziali, in una parola visse della lor vita medesima. Gli istrumenti musicali e regole delle cadenze nei balli erano tamburri, cimbali, globuli di pelle contenenti semi di grano, castagnette ed ossa di animali, od a conchiglia, il che tutto ora si vede in questa Biblioteca Comunale con altri molti arnesi d’ornamento e di guerra, come piume, cintura, smaniglie, archi, frecce e silici accoltellanti, fra quali richiamano particolare attenzione una mazza detta in loro lingua tomahawk, terribile istromento di morte, ed alcune armille stranamente composte a denti ed artigli d’animali, cose tutte pregevolissime perchè raccolte sulla scena dell’uso loro. Ricorda il Beltrami come quei selvaggi s’imbrattassero di mille colori, ed a scemarne le meraviglie osserva essere stato un tale costume proprio di ogni tempo. Enoc dice dell’angelo Azaliele, il quale avanti il diluvio insegnava alle figlie l’arte di pingersi, Isaia ne parla a riguardo di quelle di Sion, le donne greche e romane l’appresero dall’Asia, e Giovenale raffigura tinti di rosso e di bianco i sacerdoti effeminati di Atene. S. Ambrogio e il celebre Papa Ildebrando alzano la voce contro di tale usanza. I moscoviti prima di Pietro il Grande tingevansi il volto di più colori. Che più? anche dei giorni nostri donzelle gentili lisciano di belletto la nivea pelle.
Parecchie infatti delle costumanze proprie dei popoli antichi del vecchio continente ebbero a riscontrarsi conformi fra quelle tribù selvagge del nuovo mondo. Le idee di trasmigrazione, quelle dei funerali piramidali, del modo ingannevole onde consultare dai tripodi gli oracoli e di ricorrere agli oroscopi ed agli auguri senza alcun dettato di possibile imitazione ne condurrebbero a dirle se non innate almeno istintive.
Come a quelle orde selvagge, spinte dal bisogno di procurarsi le cose di prima necessità col cambio delle pelli e delle carni disseccate, avvegnachè non coltivino la terra vivendo solo di caccia e di guerra, era mestieri di convenire in appositi siti lunghesso il fiume, ove deposta ogni selvatichezza discendere ai necessarii baratti, così esse medesime piegavano alla forza di quella legge, che meglio direbbesi necessità delle cose, alla quale l’umanità obbedisce, germe di ogni di lei sviluppo e perfezionamento. Lo stato di selvaggio, in onta ad ogni filosofico vaneggiamento del secolo scorso, è pur sempre contro natura, avvegnachè l’uomo non basti a sè medesimo, e la varietà dei suoi bisogni gli imponga la società, come la debolezza del proprio organismo rende a lui indispensabile la famiglia. Questo scambio sociale di servigi, l’acquisto di ciò che manca con quanto abbonda, questa unione degli uomini, che l’interesse in una disgiunge e riunisce, queste relazioni di commercio finalmente necessarie, universali stabiliscono fra gli uomini una specie di eguaglianza, che assolutismo veruno non può distruggere, poichè la comunione dei bisogni è così reale, come chimerica è quella dei beni. Così nell’estasi della propria immaginazione, nell’applicazione materiale di sue dottrine scorgeva il Beltrami fra quell’infanzia del mondo la conferma delle verità da lui apprese e francamente professate.
A S. Antonio il maggiore Tagliawar, come già fatto aveva a S. Luigi il generale Clark, cessava di essere compagno al Beltrami, il quale, fermo in suo pensiero di toccare alle sorgenti del grande fiume, divisava innoltrarsi animoso in onta a mille crescenti difficoltà, ed a pericoli sempre maggiori.
Ma a magnanima impresa soccorre sovente propizio destino d’inattesa fortuna. Mentre l’intrepido nostro viaggiatore pensava in qualche guisa riporsi in via, ecco giungere improvviso il maggiore Long a capo di una spedizione diretta a riconoscere i paesi limitrofi verso il nord di quel grande Stato. Acconciatosi col medesimo partiva il Beltrami salendo la Riviera S. Peter a destra il corso d’acqua del Mississipì sino al lago la Grosse o Traverse presso alle di lei sorgenti, ed a 300 miglia circa da S. Antonio, ove dettava la sesta lettera dicendola da un luogo non ancora dalla Carta indicato.
Ricche praterie e pascoli ubertosissimi si allargano sui lati di quelle acque quali vagamente interrotti da cespugli, e da boschi, quali perdentisi nell’orizzonte. Tutto è solitudine e silenzio, ed alcuni geroglifici incisi sui tronchi degli alberi ricordano solo il passaggio di tribù selvaggie fattovi cacciando, il numero loro, e quello della raccoltavi preda. Quivi potè il Beltrami godere dell’imponente spettacolo di una caccia di buffali cui prendeva parte egli stesso col favore di un capo Indiano, che poco lungi dal lago Traverse stava accampato co’ suoi. L’aspetto di questo animale è sorprendente e terribile, esso è il più grosso quadrupede dopo l’elefante e l’ippopotamo. Vive a torme di più centinaia e pare esclusivo a quelle settentrionali regioni. I naturalisti lo dicono il Bue Bisonte d’America e Buffon lo confuse coll’Uro, e tutti ne tennero discorso con parole ancora alquanto incerte, onde è che ciò, che ne scrive il Beltrami oculare testimonio, riesce interessante e degno della maggiore credenza. Sopra un immenso piano, su cui soltanto i quattro punti cardinali segnar potrebbero una via, scorgevansi da lungi frotte di buffali a guisa di moventesi oscure macchie, che raggiunte al corso di presti cavalli vennero divise e ripiegate in parte. Allora colpite dalle freccie dei selvaggi grossa preda lasciarono sul terreno, che posta sopra carrette venne trascinata al campo onde abbrustolirne le carni, e porne a concia le pelli. Fece il Beltrami prova di molta perizia nell’armi abbattendo alcuni degli enormi animali. I lupi figuravano sulla scena, ed ebbero parte alla straordinaria rappresentazione. Tali fiere vanno ghiotte della carne di buffali, e cercano soddisfare alle voraci loro voglie o pascendosi de’ resti lasciati sul terreno finita la cacciagione, od inseguendo i feriti che non possono dai selvaggi raggiungersi. Ora però caricando i lupi essi medesimi la banda, mentre intente alla fuga le buffale abbandonavano i loro nati, ne ghermirono parecchi internandosi nella foresta. Assai diligentemente viene poi il Beltrami narrando ciò che fanno codesti animali per istinto di natura e per abitudine, e dei modi industriosissimi onde i selvaggi li prendono, cose tutte importanti alla storia, ed in parte nuove, ma che escono dal campo del biografo.
Testimone di veduta ed osservatore sagace, viene egli ancora narrando degli usi del castoro, pei quali si procaccia ogni cosa che gli giovi e provvede in modo più incredibile che strano alle varie bisogna sue e della famiglia. E sebbene ciò tutto vada già scritto per altri non ha dubbio che il racconto del Beltrami aggiunga nuovo peso e credenza.
La spedizione intanto del maggiore Long con pochi dei suoi, rimandati gli altri per manco di viveri, giungeva a Pembenar, Colonia Inglese sulla Riviera Rossa, come la dicono i selvaggi Riviera Sanguigna, avvegnachè spesso cruenta per le guerre che a quei confini si combattono dalle tribù rivali dei Sioux e dei Cypowais.
Questa Riviera Sanguigna pel lago Winipeg e pel canale di Nelson scorrendo verso nord est a capo di circa 500 miglia si versa nella Baia di Hudson scolo famoso, e tomba dell’intrepido viaggiatore che le diede il nome. Era su questi paraggi medesimi della Baia di Hudson che Sebastiano Cabot figlio ad un commerciante veneto spingevasi animoso verso l’oceano Indiano, ove senza la sedizione de’ suoi avrebbe forse contemporaneo a Colombo raggiunto la meta. Ma la posterità è quasi dimentica di così ardito navigatore, poichè la storia spesso ingiusta non registra il più delle volte che gli ottenuti successi. Tali geografici cenni valgano a meglio rilevare l’importanza dei luoghi dal Beltrami ricerchi.
L’uomo, essere nobile e perfettibile dotato di quel lume sovrano che lo innalza eminente e distingue dai bruti, oh! come giace egli pure dimentico de’ suoi preziosi attributi, ove l’opera non lo soccorra della civiltà e della religione. Tale era il miserando spettacolo che allo sguardo del Beltrami presentava una famiglia Indiana, confusa di sesso, coperta di ruvide pelli a seconda del variante clima, accovacciata sotto di angusta volta di corteccie intessute di vimini, comune il letto e la mensa al cane ovunque fedele, ed all’orso addimesticato, pronta solo ed obbediente allo stimolo della fame e della vendetta. Le due compagnie di commercianti e barattieri inglesi, abusando de’ privilegi concessi loro dalla Carta di Carlo II, carta foggiata sulla troppo famosa bolla d’Alessandro VI., immaginavano lo strano partito di frapporre alla civiltà loro un terzo stato d’uomini venduti e vili, che sposandosi a donne selvaggie inselvatichissero essi medesimi, onde essere mediatori nei cambi e barriera ad un tempo ad ogni civilizzato costume. Tale ibrida razza portava nome di Bois Brulè dal colore più fosco di sua carnagione. A Pembenar la spedizione del maggiore Long compiva ogni sua missione, ed il Beltrami onde proseguire alla difficile meta affidarsi doveva ad uno di quella abbietta gente e sospetta dei Bois Brulè quale ad interprete dei due selvaggi, che soli potevano guidarlo ove orma di uomo bianco ancora non era segnata.
Ma sin ora alcuna troppo strana ventura non lo aveva colpito, od avvenimento fuori della sfera solita a consimili imprese. Da qui però incominciano le dure prove che dovette l’intrepido nostro viaggiatore sostenere a cagione degli uomini e della natura. Trascorsi brevi giorni di viaggio d’ogni maniera travagliato su per la Riviera Rossa, l’interprete se ne partiva, e poco dopo i due selvaggi sorpresi da una banda di Sioux, dalle cui fucilate uno di essi veniva ferito, lo abbandonavano egualmente non saprei dire se per tema di nuove aggressioni, o per desiderio di raccogliersi a vendetta presso de’ suoi, certo dando prova di animo sleale e malvagio. Quale si rimanesse il Beltrami all’inatteso abbandono udiamolo da lui medesimo: Eccomi, egli scrive, tutto solo in onta alle più fervorose insinuazioni, in mezzo al silenzio di una deserta solitudine, rotto soltanto dal grido di sconosciuti augelli e dagli urli ferini, senza una guida che mi indichi un sentiero, incontro a folte boscaglie nido a rettili velenosi, o lungo il corso di un fiume di tortuoso incerto letto quando quasi stagnante, quando precipite, od avvallato in gorghi vorticosi e profondi con l’incessante timore di abbattermi in orde selvaggie, e colla speranza di pure incontrarne onde avere in esse l’ajuto indispensabile alla meta fissami indeclinabile in mente.
Ma in così spaventevole situazione, in così supremi momenti l’animo suo non si smarrisce, una perfetta calma lo rassicura, e vede con generosa compiacenza giunto l'istante di potere senza vanità sentire stima di sè medesimo e di mostrarsene degno. Alcuni doni indispensabili a quei viaggi ed un fucile con bastevole munizione a difesa d’ogni nemico assalto, ed a sopperire con la caccia alle scarse provvigioni, aggiuntovi un canotto di cortecca di betulla (Pinus canadensis) fragile, ristretto e leggero, era tutto ciò che gli rimaneva in tanto frangente. Ma la Riviera gli segnava una via che doveva guidarlo al lago donde scorreva, e questa divenne l’ineluttabile sua impresa. Lungo ora sarebbe l’enumerare gli stenti, i disagi, i pericoli che egli dovette indurare contro gli elementi tutti, i quali parvero allora congiurare a suo danno. Basti l’immaginarlo là fra quelle inospiti lande ora sorpreso da fieri uragani, che selve intiere schiantavano, ora dal sibilo di serpenti e dagli urli degli orsi e dei lupi d’ogni intorno minacciato, posto nel bivio di risalire la corrente sopra fragile legno, inesperto al remo, o di penetrare fra cupe boscaglie, che dai lati la cingevano, le cui tenebre eterne non valeva a rompere raggio di sole o chiarore di luna. La di lui condiziono appariva sempre più terribile, onde i rumori che di sua morte già correvano alle più vicine stazioni non erano incredibili nè infondati. Ma lungi d’abbattersi infiammavasi anzi a non so quale sentimento patetico e sublime, quale ogni grand’anima saprebbe più facilmente provare che descrivere.
Montato sul canotto volle tentare di vincere la corrente, ma essa lo trasportava a seconda fino a che fatta forza inesperta di remo rovesciavasi nelle acque. Fu allora che si vide costretto camminare sui bassi fondi trascinando attaccata ad una fune la navicella, risalendovi solo quando gorghi profondi impedivano fare altrimenti. Ma ogni sua possa riusciva vana a più resistere, onde fu, che salutasse con lieto animo l’incontro di due canotti d’Indiani che scendevano il fiume, preferendo porsi in loro balia, che rimanere incontro ad inevitabile morte. Fu buona ventura che quei selvaggi all’aspetto improvviso di un uomo solitario, che sorgeva a mezzo della persona dall’onde, ai modi suoi franchi, alla nave protetta da grande ombrello rosso a guisa di palanchino, più presto ne rimanessero sorpresi che ad altro mal fare incitati. Avvicinatosi loro il Beltrami dimostrando una superiore sicurezza li presentava di quanto egli aveva, e così ne otteneva un abile remigante che lo guidava assai presto al Lago Rosso, ove ancora una volta ebbe ricorso all’opera di interprete d’uno dei Bois Brulè che sopra accennammo, sparsi in quei remoti siti dalla immoralità delle Compagnie Inglesi.
La riviera rossa o sanguigna uscendo dal lago fluisce fra canne e riso selvatico: e non fu che per errore dietro vaghe informazioni dei selvaggi, che i geografi le assegnarono a sorgenti il lago medesimo. Perlustrando i contorni trovava il Beltraml otto piccoli laghi senza nome tutti fra loro in comunicazione, che egli sacrava alla memoria di una famiglia a lui carissima denominandoli dai figli suoi. Quelle limpide acque gli erano immagine delle anime loro, come l’unione dei laghi quella dell’affetto che li stringeva.
Innoltrando sempre doveva il Beltrami con l’ajuto di un Indiano e della sua guida caricarsi d’ogni sua roba, e del canotto medesimo onde superare parecchi tratti d’interrotta navigazione. Tutto quel vasto piano era a quando a quando sparso di laghi, e solcato da riviere scorrenti per ogni verso, e variato da macchie di aceri, ed alberi da sugaro. Così passati i laghi dei pesci dorati, dei pini, e delle terre tremolanti giungeva il Beltrami sull’altipiano dell’America settentrionale, parte la più elevata di quelle nordiche regioni.
Ivi all’intorno di piccola collinetta zampillavano gorgogliando in un bacino di fiori recinto di poche canne le sorgenti della Riviera Sanguigna, e dall’altro lato quelle del Mississipì. Salito il Beltrami sull’eminente piano vi scorgeva uno specchio di limpidissime acque senza alcun apparente deflusso il cui fondo scandagliato misurava ad alta profondità, per cui argomentava ne scaturissero le vene delle sottoposte fonti. Colà seduto all’ombra di annoso platano, siccome da un osservatorio dalla natura disposto, tutta in giro abbracciava la linea di lontano orizzonte, che nulla opponevasi al libero suo sguardo. Mirava a’ suoi piedi divise scorrere le acque in opposta direzione quali al mar Glaciale ed all’Atlantico, quali al golfo Messicano ed al Pacifico. E sovrastando della persona a un mondo intero, nell’estasi dell’ammirazione tutto con lo spirito elevato all’Autore di tanto meraviglie esclamava: oh! come bella è l’opera del Creatore, oh! come sublime lo spettacolo di questi luoghi, la cui maestosa solitudine inspira sentimenti di un’indicibile emozione, di una fede la più viva! Quindi quasi sciogliendo un voto denominava dalla donna del suo cuore Giulia il lago soprastante alle discoperte sorgenti dicendole egualmente sorgenti Giulie della Riviera sanguigna, sorgenti Giulie del Mississipì che in lingua algonchina suona padre dei fiumi. Penso alla grande cerimonia assistessero le ombre di Marco Polo, di Colombo, di Vespucci, di Cabot, di Verazzano, dei Zeno, felicitandosi di vedere nella scoperta di un altro italiano rinnovata la memoria delle antiche lor glorie. Ma è tempo che il Beltrami si riscuota dalla profonda impressione che sull’animo suo operava l’idea di un velo per lui squarciato a tante meraviglie della natura, avvegnachè molto ancora gli resti de’ suoi vasti concetti, e importi che noi ci affrettiamo a seguirlo nel corso che egli primo imprendeva e compiva intero per circa 1200 leghe dalle sorgenti di questo gran fiume sino alle lontane sue foci. Presto sarà, il nostro viaggio, come celere il moto delle acque su cui si compiva.
Una sorprendente rassomiglianza ci è dato di scorgere fra il carattere e le imprese di questi illustri connazionali. Lo stesso genio intrepido, la stessa generosità senza calcolo, lo stesso coraggio senza esitanza. E tanto debito di riconoscenza che essi imponevano ai lori contemporanei, oh! come tardi venne pagato dalla posterità. Colombo non raccolse da’ suoi immensi sacrifici, da una abnegazione senza pari che persecuzioni e disprezzo. Beltrami finiva una vita lunga, lungi dalla patria, confortata solo dal sentimento di sua coscienza, e dalla speranza di una postuma riconoscenza.
Dalla Nuova Orleans, non ancora riposatosi dal lungo suo cammino alle solventi del Mississipì e della riviera sanguigna, s’attenta ancor tutto solo il Beltrami a nuove pellegrinazioni, che egli veniva poi descrivendo sempre in forma di lettere alla contessa Compagnoni edite a Parigi sotto titolo Il Messico correndo l’anno 1830. In esse egli esordisce con prefazione filosofica manifestando teorie e principj che rivelano in lui un’anima franca, amante della giustizia e del vero, e che lo chiariscono sempre propugnatore dell’ordine, conoscitore profondo dell’umano cuore ed apprezzatore imparziale delle basi migliori sulle quali vorrebbe essere innalzato ogni morale edilizio di civil società.
Pellegrino solitario senza mecenati e senza doveri verso chi gli prestasse protezione e ajuto, protesta egli di non avere altra missione che quella della propria coscienza, altra religione che quella dell’Evangelo, altra causa a propugnare che quella della grande famiglia del genere umano, ascoltando solo il bisogno di prestare omaggio alla ragione ed alla verità.
Vero è che inoltrando sul suolo del Messico sulla scena di tanti scandali e di tante concussioni, ove ad ogni tratto si incontravano monumenti di una brutale conquista e di un governo geloso di conservare un potere da tre secoli esercitato con tiranniche leggi, e dove le più venerande istituzioni ed i riti più santi di nostre religiose credenze furono avviliti dalle più volgari superstizioni e dai più vituperevoli abusi a favorire sordide avarizie e vergognose libidini, vero è, io diceva, non essere ciò proprio a risvegliare i sentimenti i più miti, ed a consigliare parole le più circospette segnatamente quando vivi sieno ancora i crucci dell’esilio e di una forzata migrazione in mezzo ad un popolo, che tronfio di riuscite imprese e il cuore incitato dal tumulto confuso di veementi passioni, ondeggia inebriato dalla seduzione di mutate sue sorti. Tale era la condizione del Beltrami quando, piena la mente di dolorose memorie e di fervidi desideri, scendeva a visitare la Nuova Spagna, il cui regime era di fresco rivolto a stato federativo caldo ancora e grondante del sangue delle vittime cadute, disteso ancora sulla piazza di Padilla il cadavere d’Iturbide.
Disceso abbastanza prosperamente l’ultimo tratto del Mississipì, trovasi il Beltrami alle di lui foci, ove penso, che all’aspetto di nuove fortunose vicende anco una volta raccogliesse in suo pensiero le memorabili impressioni ricevute nell’animo suo, nell’impresa di discoprirne le sorgenti e di percorrerne l’immenso corso non senza un intimo senso di giusta compiacenza, scorgendo finito il primo compito suo di far conoscere un punto importante della terra, in fondo a regioni fin allora sconosciute al mondo civilizzato. Colà gli era forza sostare alquanti giorni aspettando che propizio vento ne spingesse in alto la nave, contrariata sempre dalla pressione che le oppongono l’acque più elevate del mare. Uno spettacolo intanto assai triste colpiva il di lui sguardo fatto ancora più triste dalla memoria di quegli incantevoli quadri che il paese dei Natchez gli presentava, ove quanto vi ha mai di grande, di maestoso, d’amabile parve natura riunisse onde abbellirlo, giardino mirabile, ove le magnolie, le catalpe e mille altre specie d’alberi fiorenti e propri di un cielo tropicale intrecciano loro rami frondosi, dai quali a guisa di vaghi festoni pendono le liane e si attortigliano miste agli arbusti, tutto impregnando l’aere intorno di soavissimi odori. Ed oh quale scoraggiante ed improvvisa mutazione di scena! Qui un soggiorno selvaggio, una solitudine mortale circondata da un orizzonte sterile e monotono ove cupi pensieri e meditazioni affliggenti non incontrano che un vuoto desolante per riprodursi sempre più tristi e dolenti ad ogni vicendevole giro della luce e dell’ombra. L’umanità è in preda ad ogni sorta di miserie cui solo l’avidità del guadagno fa sopportare. Direbbesi, che il creatore volesse frapporre la maggiore distanza fra lui e l’opera sua. Il guizzo de’ pesci, il ronzio di folti sciami di pungenti mosche, il soffio dei coccodrilli, il sibilo dei serpenti sono gli unici suoni che possano udirsi, aggiuntavi la febbre gialla che per nove mesi dell’anno vi mena orribili stragi. Fu colà che il Beltrami sosteneva la vista degli infermi colti dal pestifero male. Porta egli opinione che non sia esso contagioso, ma la profonda impressione che opera sugli astanti, l’aspetto tremendo del morbo ne faciliti il dominio, ond’è che ad evitarlo ed a vincerlo consiglia fuga di ogni timore ed imperturbato coraggio. Del che faceva egli prova fortunata quando due anni dopo standosi alla caccia dei coccodrilli nell’isola di S. Domingo, ne guariva portentosamente privo di ogni medico soccorso coi mezzi più semplici che l’esperienza, quasi panacea d’ogni male, ovunque suggerisce. Stavano soprastanti a quei limosi stagni piccole aeree case a guisa di nidi sorrette da impalcature appoggiate ai rami di annose palme traendovi i meschini, che le abitano, vita di stenti ricolma di mali. Forse a tal costume alludeva il Bembo allorchè scriveva: Quibusdam in locis propter paludes incolæ in arboribus domos ædificant. Quando Alvara de Mendana prese terra nell’anno 1596 all’isola di Guane altra delle Ladroni, o Mariane, ebbe a notarvi le case erette sopra alberi o pali, e da ciò trasse sicuramente il nome di Venezuela o piccola Venezia dato alla Provincia di Caraccas per le costruzioni colà usate simili a quelle delle Venete lagune, secondo pur leggesi nelle relazioni di Vespucci. Nè altrimenti avveniva di Messico, l’antica residenza dei Montezuma, le cui case allo scrivere di Cortez, scorgevansi erette sopra palafitte, sotto cui potevano entrare i navigli dai laghi che le attorniavano, le cui acque mano mano di poi si ritirarono, onde di presente fondano pur esse sopra solido terreno. È però osservabile che gli Atztechi, erigendo intorno la metà del XIV secolo la città che ora pure sta sopra un gruppo d’isolette, si avvicinassero tanto alle arti usate dagli antichi Veneti, si grande essendone la somiglianza, che al primo vederla ebbero le soldatesche di Spagna a dirla egualmente Nuova Venezia. Penetrando in quelle lagune tutte coperte di canne, e per vie anguste selciate i conquistatori ebbero a soffrirne danni gravissimi, poco mancando venisse meno nel lungo assedio la costanza loro, e perduta n’andasse ogni più illustre impresa di Cortez.
Ma tornando al nostro viaggiatore, superato ogni ostacolo da natura frapposto, eccolo veleggiare in alto mare alla volta di Tampico. Per via gli vien riferito infierire colà la febbre gialla, onde alcuno de’ suoi lo abbandona, colta l’opportunità del consultato naviglio. Egli però non si scoraggiò incontrando animoso il proprio destino. Se a taluni mai è compatibile l’abbandonarsi troppo agli eventi di cieca fortuna, lo è certamente a quelli, che preoccupati di unica idea disprezzano ogni pericolo, volendo pervenire alla propostasi meta. In mezzo alle onde, che nel lungo tragitto lo agitavano nella persona, e di quelle ancora più tempestose che lo turbavano nello spirito, sapeva, quasi a ristoro dell’animo suo commosso da mille contrarii affetti, abbandonarsi talvolta il Beltrami a dolci immagini ed ai voli di lirica poesia. Dopo alcuni giorni di nojosa navigazione, una rondinella, della specie di quello per lui vedute agli Stati Uniti, gli annunzia vicina la costa di Tampico. Egli la prende, ne fa la sua compagna, ma in capo a tre giorni muore; la imbalsama quindi come meglio può e la chiude in una bottiglia coi seguenti versi:
- Dulcis avis, pavidis dum nobis litora dicis,
- Incidit vitæ stagmina Chloto tuæ.
- Dignum sit tibi funus, condoteamus amici,
- Discite quod nobis fata tremenda parant.
Rondinella, sola creatura innocente su questa terra amica senza macchie dell’uomo, tu non fai male ad alcuno e vai distruggendo gli insetti molesti purgando l’aere che lo corrompono agitandolo col tuo volo. Tu ne attesti la più nobile confidenza collocando sotto i nostri tetti i tuoi più preziosi depositi, e questa confidenza, che noi tradiamo in modo sì barbaro e quasi per giuoco, tu la rinnovelli sempre mettendo di bel nuovo a prova la nostra ospitalità. Era con l’animo pieno di così delicati sentimenti che il Beltrami raccoglieva questa cara memoria dei suoi viaggi, mandandola poi in Italia con quanto di prezioso e di raro egli rinveniva.
Presa terra a Tampico, porto famoso e centro di un vivo commercio così per ogni provenienza marittima, come perchè esso giace sul Pamero fiume di assai estesa navigazione, e perchè vi mette capo la grande via alla capitale, non poteva il Beltrami trattenersi dal tracciare un quadro delle profonde impressioni che egli riceveva nell’animo gettando uno sguardo retrospettivo ai tempi sanguinosi di Cortez, come alla vista delle fresche memorie di Governo scaduto a costo di immensi sacrifizii di un popolo la cui mista origine e varietà di razze rendevano sospetto a sè medesimo e vittima spesso di intestine discordie e di vili tradimenti. Ma l’istoria della conquista di Spagna era già troppo nota perchè il Beltrami si facesse a ripeterla; altronde essa non farebbe che risvegliare tristi ricordanze che disonorano l’umanità. Percorrendo quell’immenso territorio non poteva però a meno di ricordare quei luoghi che furono la scena dei maggiori avvenimenti ai tempi della conquista, seguendo il più vero cammino tenuto da Cortez, e all’epoca recente i punti più rilevanti della guerra combattuta dell’indipendenza, alla quale in mezzo al generale sommovimento del popoli suscitato dal fortunato esempio degli Stati Uniti il congresso di Bajona aggiungeva nuovo impulso, onde animata la parte indigena e creola della Nuova Spagna cogliesse pronta ed animosa l’istante di scuotere l’odiato giogo da trecent’anni durato. Esso però dovette sostenere prova ben aspra e l’istoria dell’indipendenza Messicana ribocca d’esempi i più luminosi per eroiche gesta come i più vituperevoli per fatti crudeli, vicende inevitabili onde temprare nel sangue e nel fuoco un popolo che vuole rigenerarsi. Sulle ali di un’immaginazione sempre fervida e viva, ed all’aspetto di regioni segnate a caratteri affatto straordinarj e speciali, si piace talvolta il Beltrami spaziare nei campi delle scienze profane e sacre discorrendo intorno la contemporanea creazione dei due mondi ed il modo onde venne operata, come intorno alle origini delle varie specie umane. Dispute piene di contraddizioni, che il Beltrami conchiudeva dicendo di non vedere in tutto ciò che esiste che l’opera di un grande fiat del Creatore. Altro se non più grande, almeno più profittevole ed adatto proposito allo scopo de’ suoi viaggi ed all’indole de’ suoi scritti erano le ricerche storiche intorno ai popoli che primi vennero ad abitare l’Anauhac detto poi del Messico dal nome del condottiero di genti che da lui trassero il nome, e che più tardi, signoreggiando i vicini, si costituivano in regno. Ma per dura fatalità l’istoria della conquista di Spagna è la sola che si conosca da quegli aborigeni. I nuovi conquistatori, giusta le dottrine di Sepulveda, nulla risparmiarono onde ridurli, secondo una loro frase, alla fede di Cristo per via dello spoglio e dell’abiezione, a quella fede che è pur sempre fondata sulla carità e sulla giustizia. Intanto non venne risparmiato alcun monumento, tutto fu posto a sangue ed a ruba, e pochi geroglifici somo salvi dalla generale distruzione, guidano l’archeologo con assai incerte luce fra le tenebre appena di sette od otto secoli. Tre nazioni di diverso nome, delle quali l’ultima, l’atzteka, parlanti una lingua avente la stessa base, si contavano finora discese dalle nordiche regioni verso i tropici. Paziente e sagace il Beltrami, rovistando ogni biblioteca, poteva aver copia di un manoscritto da cui traeva un’istoria bastevolmente ordinata intorno le origini ed i politici ordinamenti di quei popoli, lavoro il quale forma una parte importantissima dell’opera sua sul Messico. Ma, come avvenne d’ogni cosa scritte dal Beltrami e delle sue scoperte, in mezzo a plagi i più inverecondi, ben poco a lui retribuirono gli scrittori che gli successero; onde non è meraviglia, che pure Lodovico Hermann profondo investigatore delle origini Messicane dando a conoscere, in onte a molta erudizione, di non sapere dello scritto di lui, sostenga una tesi affatto contraria, volendo che i primi popoli dell’Anauhac movessero dal polo meridionale verso il nord, e facendo delle tre nazioni summentovate non altro che tre caste di nobili, di plebei e di sacerdoti, onde una sola in senso statistico si divideva; ipotesi tanto più nuova in quanto che pur troppo è noto, come sempre ogni irruzione di popoli quasi per legge fisica scendesse dall’Orsa minore a più allettevoli piani. La cronologia dell’abate Clavigero s’accorderebbe pure in qualche modo col Beltrami, nè da lui dissentirebbe Herrera e s’accosta Humboldt medesimo. Comunque intanto vada la bisogna, riesce cosa osservabile, che ogni migrazione di popoli trovasse sempre nei nuovi paesi antichi abitatori, sicchè è a credere, che la potenza infinita del Creatore, la quale volle vestita di erbe e di piante tutta la superficie del globo, cooperasse pure a diffondervi sopra l’umana specie, la quale, durando sconosciuta, godette di una pacifica esistenza fino a che di mezzo a guerresche agitazioni ed a rapaci invasioni venne tratta dallo stato di lei primitivo a quello, se non più felice, almeno più colto ed illuminato. Dopo una soffermata a Tampico volgevasi il Beltrami ad Altamira, bello ma piccolo villaggio a quindici miglia dal mare, posto ai piedi di ridente collinetta incontro alla quale sorge maestosa smisurata mole a guisa di piramide, difficile a dirsi se lavoro dell’uomo o della natura, ma che una volgare tradizione vorrebbe opera di un popolo gigante, dei cui miti forse ogni nazione addita antiche memorie, tanto parve fatale all’uomo uno spirito di maligna superbia e d’opposizione al supremo Fattore. Ma di tali costruzioni scorgonsi nel Messico numerosi esempi. Esse presentano una grande analogia di forme colle piramidi egizie ed asiatiche: hanno una base larghissima e terminano in un cono troncato, su cui alzavasi l’altare. Questi erano i Téocalli degli Atztechi, di cui resti grandiosi si ammirano, quali ancora vincitori di ogni possa degli uomini e del tempo, altri mezzo sepolti sotto le rovine od in enormi frammenti volti ad usi moderni. Taluni di essi alti ben dieci a dodici metri, fra i quali la pietra calendaria e quella dei sacrifici, ornano la gran piazza di Messico, ed altri qua e là vanno discoprendosi in massi smisurati fra molti idoli quali scolpiti in figure ed altri in geroglifici tuttavia d’incerto significato. La piramide di Cholula pareggia in altezza la terza del gruppo di Ghisè, e nella base eguaglia in larghezza quella dei più grandi consimili monumenti d’Egitto.
Di là egli saliva agli altipiani, ai quali mano mano fanno gradino le coste delle Cordigliere presentando un aspetto affatto nuovo ed una configurazione speciale del Messico, quasi natura volesse porlo al coperto d’ogni esterno assalto. L’orizzonte politico di questi nuovi paesi accordavasi mirabilmente con l’aspetto loro fisico, esercitando sull’animo del nuovo viaggiatore una maggiore impressione perchè in armonia pienamente fra loro. Il mondo esteriore ridestavasi a nuova vita, come il morale a seducenti speranze. Dalle basse ed incolte terre di approdo montato il Beltrami agli altipiani, onde il Messico si divide, vi trovava ragione perchè sotto una stessa torrida zona il clima loro sia così temperato, e mentre colà non vive che una pallida languente vegetazione, tutto a breve distanza si rianimi e rifiorisca. Ben si può dire che quivi i climi si succedano come a strati, gli uni sopraposti agli altri, mentre immense pianure si stendono sul dosso delle Cordigliere ad una altezza eguale a quella della vetta del Cenisio, standosi le città principali della Nuova Spagna da 2 mila a 2500 metri sopra il livello del mare. Alberi ed arbusti oppressi dai rovi e dalle spine quivi appajono vestiti di liscia scorza e lucente, portando rami maestosi con foglie di un verde il più cupo e di ombreggiante larghezza. Prima tutto era arso ed ardente, ora ogni cosa sentesi circondata da dolce frescura, scemato il numero dei rettili velenosi e degli incomodi insetti, cresciuto quello delle bestie utili e dei garruli variopinti augelli. Intorno all’uomo saltella il capriolo, fissandolo in volto senza timore, e la tortorella gli svolazza accanto fidente e vezzosa. Non i rigori del verno, non gli ardori della canicola, ma una temperatura costante, una eterna primavera. Il Beltrami vi scorgeva l’immagine delle delizie primitive di terrestre paradiso; ma l’animo di lui altamente indignavasi alla contemplazione di quelle terre così predilette dalla natura per fecondità del suolo, per abbondanza di acque, per ricchezza di ogni più prezioso metallo, e per fisica tempra e morale de’ suoi abitanti, terre tenute per anni sì lunghi stazionarie ed oppresse. Scorgeva le ricche miniere d’argento e d’oro affascinare coll’incanto del loro splendore quegli abitanti, che intanto ingannati da malaccorti regolamenti, stavansi non curanti delle materie indispensabili all’arte del minatore e dell’amalgama loro procurate a carissimo prezzo dal commercio di Cadice, ed in mezzo a cumuli di preziosi inerti tesori mancando delle cose di prima necessità, presentavano in sè medesimi ridotta ad atto la favola di Mida.
Nè gioverebbe dire che Cortez scrivendo le prime lettere a Carlo V. lo richiedesse, che nessun bastimento salpasse di Spagna per le Americhe senza che seco portasse alcun nuovo vegetabile, e che il maturare d’ogni nuovo frutto d’Europa colà si celebrasse con festevoli dimostrazioni, avvegnachè ciò solo servisse al lusso di pochi, scorgendosi il popolo Atzteko travagliato periodicamente da generali carestie, a prevenire le quali uopo era moltiplicare gli oggetti di coltiva e incoraggiarne la industria, essendo pure noto, come secondo un indegno monopolio si ingiungesse di schiantarvi le viti, e si aggravassero di insopportabili balzelli alcune piantagioni. A far più chiaro il mal sistema di quel Governo e l’abbandono in cui lasciavansi le cose metallurgiche, basterà ricordare come a Messico presso quella sedicente scuola delle Miniere, mentre al dire del Beltrami facevano bella mostra di sè le più rare produzioni naturali di Siberia e di Scozia, era vano cercare alcun saggio a far conoscere la geologica condizione di quelle così importanti escavazioni. Era quel popolo per ordinamento governativo lasciato senza istruzione di sorta, impeditegli ogni progresso dell’arti industriali, chiusa a lui ogni via di ricorso al trono, posto esso pure a sei mila miglia di distanza, e frappostavi l’immensità di un oceano, ristretto finalmente ne’ suoi limiti territoriali da gelosa legge di non varcarli giammai, non altrimenti che un tempo a Sparta, ove severamente punivasi chi solo osasse richiedere della via onde escire dello Stato. E tanto più grave e funesto facevasi questo sistema di governo in quanto sapevasi per testimonianza dell’Humboldt, che tutti i cereali, meno il maiz, furono in America importati d’Europa, dovendosi ad un negro schiavo di Cortez i primi tre grani di frumento tratti per lui a caso da un sacco di riso, e tenendosi ancora in venerazione a Quito il vaso di Faenza nel quale il padre Rixi di Gand colà trasportava il primo seme del prezioso graminaceo. A svelare più chiaramente l’infelice condizione di quei paesi sotto il governo di quella che meglio matrigna che madre patria doveva chiamarsi, nulla varrebbe più di quanto il Beltrami viene narrando intorno i possedimenti colà distinti col titolo di Haçiendas, dei quali taluni misurano un’estensione pari, anzi d’assai superiore a quella dell’intiera Lombardia, come a cagion d’esempio quella del marchese di Galves dei Carmelitani, del conte di Guadalaxara, del Marchesato del Valle e così via via. Tenuti dai signori di Spagna, che fondavano ogni loro diritto sulla violenza e sullo spoglio operati ai tempi di Cortez a danno di possessori legittimi e pacifici, e governati da agenti prezzolati e lontani, con ogni più dura legge di feudalismo, giacevano nell’inerzia e nell’oppressione, seco traendo le funeste conseguenze di un sistema apertamente in opposizione al principio di ogni più saggia economia, il quale vorrebbe le proprietà fondiarie possibilmente sminuzzate e divise onde s’avvantaggino la produzione ed il consumo. Il marchesato del Valle era stato da Ferdinando assegnato a Cortez in ricompensa dell’operata conquista. Esso comprendeva un immenso territorio con più migliaja di schiavi, resi tali da liberi proprietari che prima erano. Persistette nella discendenza del grande eroe sino a che da un’unica figlia, maritatasi al Duca di Monte Leone, venne in dote trasmesso a questa grande famiglia di Napoli. Avvenne che standosi il Beltrami a Firenze l’anno 1812 stringesse intimità di amicizia col Duca di tal nome, il quale, scorgendo in lui vivo desiderio di un viaggio transatlantico, gli proponeva recarsi a reggervi quell’avita proprietà di sua famiglia, al quale invito rinunciò per seguire le sorti fatte incerte del Regno Italico cui serviva. Ma in tanta mancanza di lumi e di istruzione volata dalla gelosia dei governanti riusciva di confortante sorpresa al Beltrami lo scorgere fra quei popoli penetrate luminose e potenti le arti belle e singolarmente la pittura. Esse non aveano d’uopo che dei primi inizii e di opportuni esemplari, i quali non tardarono a venire importati da Spagna per abbellirne templi e santuari, che numerosi sorgevano a maggiore edificazione del cattolico culto, detto perciò giustamente il primo gran protettore delle tre arti sorelle. Le ricchezze di quelle nuove contrade, e le facili occasioni d’impiego vi chiamarono opere di arti ed artisti, e quindi stupendi lavori si ammirarono ovunque, vinta dall’avidità del guadagno ogni difficoltà. Vedenti professori furono di guida altrui, e ben presto alle opere loro si aggiunsero quelle degli allievi, onde il Beltrami potè ordinare una serie di artisti del Messico, i quali gareggiano in valore coi loro maestri di oltremare. Il genio di quelle vergini menti, sciolto dalle pastoje delle accademie, spiegò libero il volo al primo impulso di favorevoli circostanze, inspirandosi alla imitazione della natura ed alla perfezione di sè medesime. Tropo precettive discipline incatenano l’ingegno e lo rendono minor di sè stesso. Di ciò si ha esempio luminoso nella Nuova Spagna, ove le arti belle fiorirono all’aura solo di molteplici occasioni di lavoro in tempi nei quali alcuna pubblica istituzione non era che le sorreggesse e favorisse. Le pagine intanto del Beltrami, che dicono di questa nobile parte dell’umano sapere, tornano importantissime e lo fanno conoscere, quale infatti egli era, dotato di squisito senso del bello e di una non volgare erudizione.
Costante avanzando nel suo cammino, giungeva egli ai piedi dell’ultima Cordigliera innanzi a cui apresi vasto ridente piano, sui quale sorge la bella, la ricca città di S. Luigi del Potosì, famosa per molte di quelle miniere, onde Spagna traeva tante ricchezze da pareggiare annualmente il reddito dell’intiero regno di Francia. Eppure in mezzo a tanta abbondanza di denaro, che è pur sempre precipuo fondamento della prosperità di ogni Stato, quella nazione declinava sempre d’importanza sulla bilancia politica d’Europa, ognor facendosi più povera e meschina. Vuole il Beltrami, che il gran delitto della conquista pesi ancora su quel regno infelice. Tanto è vero che le ricchezze, le quali non provengono dall’industria, snervano i popoli e li abbrutiscono corrompendone i costumi, passano sopra tutti i vizii facendoli maggiori, e svaniscono dopo di avere ogni cosa fatta peggiore. Dalla città di S. Luigi saliva il Beltrami alla grande diga di separazione fra le acque, le quali colano nell’Atlantico e quelle che si versano nel Pacifico. Questa montagna detta per la sua forma Las Scalieras, riesce l’ultimo gradino sopra la vetta più elevata delle Cordigliere, e dove i due mari non sono nascosti all’occhio dello spettatore, che da quella linea, che posa sull’orizzonte alle più grandi distanze. Di là, sempre scendendo per dirupi e per istrette, toccava l’intrepido nostro concittadino le coste del Grande Oceano, i cui flutti sempre turgidi ed irosi pare tentino abbattere gli scogli che li ricingono, facendoli sempre più irti ed inospiti, a differenza dell’Atlantico, le cui acque, per forza delle correnti di rotazione, mano mano si ritirano aggiungendo sempre nuovi piani al continente. Sostava egli per breve tempo ad Acapulco porto il più sicuro del Pacifico. Colà giungeva ogni anno il grosso galeone solito partire da Manilla carico di ricche merci, specialmente di sete, abbondevole prodotto delle Filippine, dal cui vasto arcipelago il bravo Osculati contava riportare un seme rigeneratore di quella tanto fra noi minacciata coltivazione. Dopo la scoperta di Diaz pressochè tutti i circumnavigatori del globo, spinti da ingorda sete di oro, drizzarono a quella volta il corso loro; ma deh quale differenza! Beltrami piena la mente d’alti pensieri a pro della scienza e dell’umanità, queglino onde predare quell’annua nave accompagnati sempre dai terrori del saccheggio e del sangue. Per quelle comunicazioni esultava il Beltrami scorgendo col mutato governo sorta per quei mari un’era novella di libertà commerciale, tolta ogni odiosa restrizione ed ogni vincolo ai reciproci scambi, che le gelosie e l’ignoranza di Spagna per quasi tre secoli vollero mantenere fra quei grandi centri delle due Indie.
Standosi a quelle ultime rive corse a lui il pensiero di spingersi pel mare di Cortez alle due Californie, delle quali offre un quadro assai interessante, anzi profetico. Già di quelle coste suonava alta sebbene incerta la fama, avvegnachè in quei paraggi, per la massima parte inospiti e selvaggi, constasse essere abbondanza di perle, cui la volgare credenza assegnava seguito di ricche metallifere miniere da altri supposte esagerazioni di alcuni viaggiatori, da altri tenute per vere appunto, perchè contraddette dalle missioni colà stabilitevi, sospettate di viste troppo parziali. E a renderne in lui più vive le brame s’aggiungeva una preziosa raccolta di perle di vario colore, delle quali alcune tutte nere dal Beltrami ottenute in cambi dal curato di Las Estancias pervenutegli da un missionario delle Californie, quale centro già acclamato di ogni tesoro. E tali preziose margherite noi le potemmo osservare con occhio di giusta ammirazione se è vero ciò che egli ne scrive «non essere dato possederne di simili che alla sola regina di Spagna, dono di D. Diego di Castiglia prete delle missioni di quelle favolose regioni», non dovendo però tacersi come di perle tutte nere si avessero anche prima esemplari, sebbene poco apprezzate appunto pel loro colore.
Intanto non fu città che non visitasse, non luogo che meritevole fosse di speciali considerazioni, che egli non venisse illustrando con quella libertà di pensiero e di parola, che la di lui posizione affatto indipendente gli procacciava. Prima di lui il Barone di Humboldt per anni ben molti aveva corso e studiato quell’immenso territorio, e il viaggio che ne pubblicava riusciva rispetto alle scienze fisiche degno di quella più che umana sapienza: ma in quanto alla parte politica e morale egli doveva piegare alle esigenze del Governo a’ cui ordini obbediva, e il suo dire non è sempre l’espressione più candida della verità. Così notevole era poi la diversità del racconto del Beltrami e dell’Humboldt, che questi standosi a Londra ebbe a muoverne lagnanze col primo, il quale francamente gli dichiarava vera ogni cosa per lui riferita siccome osservata da lui senza le traveggole dell’adulazione. Rimprovero duro e forse non meritato. Chi infatti voglia esaminare con piglio meno severo e con più giustizia l’opera dell’Humboldt, facilmente potrà scorgere in essa dati al Governo di Spagna saggi consigli ed assai utili ammaestramenti, mercè i quali, ove il tempo fosse bastato, migliorare grandemente lo stato di quelle colonie; avvegnachè non sia con esorbitanze, ma con franche a un tempo e misurate parole, che giovi accennare e correggere ogni viziata pubblica istituzione. Ma nondimeno anche la relazione del Beltrami vuole aversi in conto di importante e singolare. Questi all’intento di riuscire utile all’Istoria delle origini di quegli aborigeni, non che delle arti loro nulla lasciò d’intentato, onde procurarsene preziosi documenti. I geroglifici, dei quali ogni popolo nella prisca sua ignoranza si valse a conservare il pensiero, ed a tramandarlo altrui, quale prima voce ed uniforme di natura, furono in Egitto più lungamente adoperati e meglio coltivati, tenuti in pregio anche dopo l’uso della scrittura propriamente detta, fatti depositari delle scienze e delle idee religiose. Così a differenza di ogni altra Nazione avvenne pure nel Messico, ove per mezzo di simboli e di pitture fino ai tempi della conquista si tramandò la memoria delle leggi, e d’ogni istorica tradizione. Quando la prima ambasciata di Montezuma mosse incontro a Cortez, la accompagnavano pittori e disegnatori Indiani, i quali si posero con ogni diligenza a ritrarre sopra tele di cotone con mastiche preparate i soldati, le armi, le artiglierie, ed ogni costume e masserizia degli Spagnuoli, il che prova di quanto fossero esperti nell’arte simbolica dei geroglifici. Fu perciò che il padre Monotilio (al secolo Toribio di Benevento), uomo destro ed assai intelligente, volle dare opera onde salvare da una generale distruzione fanatica e barbara ciò che poteva col tempo ricondurre i tardi nipoti sulle traccie di quanto avevano conquistato i padri loro. E come i geroglifici erano più facili a smarrirsi, volle tracciato sopra quattordici fogli di agave in geroglifici ed in figure, ciò che egli credette più utile sapersi dalla posterità. Essi rappresentano tutta la dinastia dei re del Messico dai campi di Marte ove eleggevasi il primo re, sino al decimo ed ultimo ai tempi di Montezuma, il quale vi è pure rappresentato in forma di episodio mentre sta abbracciando la fede di Cristo. Quest’opera di mano sicuramente Atzteka, e che vuolsi di un indiano discepolo d’Arteaga pittore spagnuolo, veniva fatto al Beltrami di possederla, leggendosi come a Parigi la mostrasse a Lord Kingbourg il nuovo Champoillon messicano insieme ad alcuni mosaici a piume d’uccello rappresentanti figure di Santi così finamente condotti e di così abbaglianti colori, e cangianti a seconda del variare della luce, da riuscire, come a noi stessi venne veduto, magnifici e meravigliosi. Alla quale arte di valersi delle piume tanto sfolgoranti di luce dei colibrì, vedemmo accennasse pure con giusta meraviglia il grande Conquistatore, inviandone alcuni saggi a Madrid, avuti in dono da Montezuma uniti a quanto di prezioso e di raro credeva offrirgli in oro, ed in gioie. Accennando gli storici alla importanza ed alla ricchezza delle Fiere di Messico osservate dai primi Spagnuoli, ricordano oltre ai lavori di orificeria, a lunghe file di pitture con vane fantasie e paesi tessuti di piume, le quali colorivano ed animavano le figure, piume messe insieme con una pazienza e tedio infinito. Ciò però che bastava a rendere eminentemente il Beltrami benemerito della letteratura indiana era l’Evangelario manoscritto in lingua Atzteka, opera di Bernardino detto Saagun dalla di lui città natale, altro di queglino che, seguaci di Cortez, si adoperarono con zelo alla coltura religiosa di quelle tribù selvagge. Questo che ben possiamo dirlo rarissimo cimelio porta la data dell’anno 1532 e la segnatura dell’autore medesimo. Come pervenisse in possesso del Beltrami non sarebbe facile a dire. La solerzia di lui e l’ignoranza di chi lo aveva in custodia polveroso nella biblioteca di Messico ne favorirono l’acquisto che ora, passato per denaro al Museo Numismatico di Brera, sappiamo starsi da quel Conservatore sig. Biondelli illustrando con quella profondità di dottrina che tutti sanno. Esso consta della traduzione in lingua Atzteka degli Evangeli di ogni domenica, e quasi a maggiore facilità d’intelligenza porta scritto in fronte ad ognuno l’indicazione del titolo e della materia in lingua latina, ciò che meglio condurrà l’erudito illustratore sulla via dei confronti, onde erigervi sopra un monumento etnologico, forse il primo che si conosca contemporaneo a quella ora quasi spenta Nazione. La Rivista Enciclopedica di Parigi, anche prima della pubblicazione del Messico, dimostrava tenere un tale manoscritto in altissimo pregio, ed il Beltrami se ne compiaceva come di cosa sopra ogni altra a lui cara e preziosa. Il cartone che ricopriva quel codice componevasi di più fogli di palma uniti insieme, che il Beltrami svolgeva con ogni diligenza addatosi dell’importanza loro. Contengono essi le prime lezioni di una lingua che importava di ben apprendere a quei neofiti onde parlare agli aborigeni intelligibili voci. E tutto ciò allo scopo di renderlo più autorevole e credibile, circondavasi del prestigio di un nome, quale quello di Montezuma, unico che campasse da tanta strage de’ suoi, e che abbracciata la fede di Cristo meglio poteva ascoltarsi ne’ suoi insegnamenti senza eccitare un giusto ribrezzo di crudeli memorie e di sofferti patimenti.
Ma ben m’accorgo che troppo lungo divagherei, ove volessi seguire il nostro viaggiatore in ogni più minuta parte che egli visitava del Messico. Spirava l’anno da che era entrato nel Messico, quando il Beltrami lasciava la Nuova Spagna salpando da Alvarado per alla Nuova York, donde rileviamo che altri viaggi egli imprendesse alle Antille e sicuramente all’isola di S. Domingo, l’Espaniola di Colto, intorno alle cui condizioni fisiche e politiche aveva già composto un lavoro per le stampe, alle quali poi non venne recato, rimanendo del manoscritto medesimo vano fin ora il desiderio. Del che fanno prova ancora parecchi scritti delle autorità di Haiti, notevoli pure quali autografi degli addetti alla corte di re Cristoforo insigniti di titoli ridicoli, come a cagion d’esempio del conte de la Limonade, ed un manto prezioso trapunto d’oro di quel negro usurpatore, cose raccolte dal Beltrami. E a chi piacesse seguirlo in ogni suo viaggio presterebbero sicura guida le carte de’ suoi passaporti mano mano impresse dei suggelli e delle cifre dei vari paesi, monumenti importanti deposti essi pure con gli accennati scritti presso di questa Civica Biblioteca. Sullo scorcio dell’anno 1826 il Beltrami ritornò in Europa, e fermandosi a Londra fino al 1830 di là recavasi a Parigi ove, come dicemmo, pubblicava il suo Messico, indi nell’anno 1834 l’altro suo lavoro intitolato l’Italia e l’Europa, nel quale assai eruditamente discorre e con assai caldo zelo del merito degli Italiani, rivendicando loro molte invenzioni e scoperte, delle quali ora si fanno belli gli stranieri. Apertosi in quell’anno medesimo il congresso scientifico di Stuttgard, il Beltrami vi si recava a rappresentarvi l’Istituto Istorico di Francia, munito di lettera commendatizia di quel Segretario perpetuo il sig. di Monglave, il quale non esitava a chiarirlo uno dei membri più onorevoli e distinti di quella scientifica associazione. Colà lesse alcune memorie plauditissime e riportate in parte dai giornali letterari. Ebbe grata accoglienza da quel re che in lui onorava il sapere di Francia. Poco stante recavasi a Heidelberg, ove acquistava picciolo podere, che abitò per due anni, in capo ai quali venne in Italia, dirigendo lettera di congedo all’Istituto di Francia, dalla quale ben si scorge l’amarezza dell’animo suo per molte ingiustizie e crudeli detrazioni dei dotti, de’ quali non seppe mai cattivarsi l’amicizia e le simpatie. In essa ricorda sdegnoso le principali scoperte da lui operate, e ciò che gli uomini e le scienze gli devono. Tale scrittura è l’ultima che si conosce per lui uscita con le stampe, ed in essa si legge com’egli intenda abbassare ogni vela della sua vita e di lasciare ogni più bella via di un mondo seduttore ove tutto trae al deserto dell’egoismo. E in vero dovette tornargli assai grave il vedere disconosciuto ogni suo diritto di priorità da un Cooper, il famoso romanziere, il quale senza punto accennare del Beltrami attingeva nella descrizione de’ viaggi e de’ racconti di lui di che animare una facile e fervida immaginazione, traendo in luoghi e fra genti giammai da Cooper visitate. — Nè altrimenti adoperavano il geologo Ruggles e lo stesso giornale Des Débats sempre muti nelle loro scritture intorno al Beltrami, non temendo il secondo con troppo vile adulazione di fare omaggio al generale ambasciatore Cass della scoperta delle sorgenti del grande fiume, sebbene lungo il di lui corso fosse noto come solo giungesse al lago dei Cedri Rossi.
Alcuni non vasti possedimenti lo chiamarono a Filotrano presso di Ancona, ove visse contento di quell’aurea mediocrità, che fu sempre il sogno dei poeti ed il desiderio spesso non sincero di una filosofia tutta profana. Ad una vita balestrata sempre da varia fortuna successero per lui giorni abbastanza tranquilli, nè sappiamo che nube alcuna sorgesse ad intorbidare il sereno di un placido soggiorno in seno a cui toccava l’80.° anno dell’età sua, scendendo nella tomba accompagnatovi dal compianto di tutti che lo avevano in altissima stima e da quello dei poveri avvezzi a riconoscere in lui il generoso loro benefattore.
Fu egli d’animo franco, e sincero, nemico d’ogni blandizia, senza pari d’annegazione. Sebbene dubitasse non fossero state al loro arrivo a Firenze le casse da lui spedite d’America da mano infedele manomesse e furate, non consentì mai si aprissero ond’evitare l’amaro della certezza, volendo ciò si facesse solo dal di lui erede, siccome avvenne. Non gli mancarono le invidie e le censure dei dotti, ma ebbe a conforto l’amicizia e la stima degli uomini grandi dei due mondi. La copiosa di lui corrispondenza, che leggesi presso di questa Comunale Biblioteca, e la di lui aggregasione alle principali accademie dell’antico e del nuovo continente ne porgono indubbia testimonianza.
Nel desiderio di essere letto generalmente, scrisse il Beltrami ogni cosa sua in francese, nè alcuno potrebbe apporglierne menda, perchè stampava fuori d’Italia ed in America; ma ciò gli suscitò amare censure dalla Rivista Enciclopedica di Parigi, la quale raccogliendo tutto in un fascio non volle tampoco sceverare ciò che era imputabile a solo difetto di più accurata edizione. Lo stile di lui è poi sempre bastantemente corretto, e spesso brillante, tanto che lo dimostra uno scrittore, il quale nella propria lingua natale avrebbe saputo riunire ciò che nella straniera lascia forse desiderare. Egli medesimo in una prefazione chiedeva perciò indulgenza dal pubblico, che larga si meritava, avvegnachè con l’originalità e con la vivacità di sua dizione coprisse assai facilmente quelle poche inesattezze che una critica troppo severa volle notare. Altronde è pur vero che le narrazioni dei viaggi allora sono meglio, apprezzate e credute quando si presentano in veste tutta semplice e naturale, al qual genere di scritture sappiamo prestarsi mirabilmente il francese con quella sua precisione e prontezza che ben lo distinguono. Ma della parte scientifica dei di lui scritti giudicarono assai vantaggiosamente i contemporanei, nè potrà certo mancargli l’assentimento dei posteri, e in ciò che spetta alla morale ed alla religione, speriamo che il Cielo gli sia stato, se pur vi era d’uopo, largo di venia, più che gli uomini, per le rette intenzioni.
Note
- ↑ Lo scrittore ignorava che sino dal 26 Aprile 1856 Gabriele Rosa andava pubblicando nella Rivista Veneta studi sulla vita e sugli scritti del Beltrami. Nota dell’Editore.