Commedia (Buti)/Paradiso/Canto VI

Paradiso
Canto sesto

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Paradiso - Canto V Paradiso - Canto VII
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C A N T O     VI.

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1Poscia che Costantin l’ aquila volse
     Contra ’l corso del Ciel, ch’ ella seguio
     Dietro all’ antico che Lavinia tolse,1
4Cento e cento anni e più l’ uccel di Dio
     Nello estremo d’ Europa si ritenne,
     Vicino ai monti dei quai prima uscio;
7E sotto l’ ombra de le sacre penne
     Governò ’l mondo lì di mano in mano,
     E sì cangiando in su la mia pervenne.
10Cesari fui e son Iustiniano,2
     Che per voler del primo Amor ch’ io sento,
     D’ entro le leggi trassi’l troppo e ’l vano.
13E prima ch’ io a l’ opra fussi attento,
     Una natura in Cristo esser non piue
     Credea , e di tal fede era contento.
16Ma ’l benedetto Agabito, che fue
     Sommo pastore, a la Fede sincera
     Mi dirizzò colle parole sue.
19lo li credetti, e ciò che ’n sua fede era
     Veggio ora chiaro sì, come tu vedi
     Ch’ ogni contradizion è falsa e vera.3

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22Tosto che colla Chiesa mossi i piedi,
     A Dio, per grazia, piacque d’ ispirarmi4
     L’ alto lavoro, e tutto a lui mi diedi.
25Et al mio Belisan commendai l’ armi,5
     Cui la destra del Ciel fu sì coniunta,
     Che segno fu ch’ io dovesse posarmi.
28Or qui a la question prima s’ appunta
     La mia risposta; ma la condizione6
     Mi stringe a seguitar alcuna iunta,
31Perchè tu veggi con quanta ragione7
     Si muove contra ’l sacro santo segno,
     E chi ’l s’ appropria e chi a lui s’ oppone.
34Vedi quanta virtù l’ à fatto degno
     Di riverenzia, e cominciò dall’ ora
     Che Pallante morì per darli regno.
37Tu sai che fece in Alba sua dimora8
     Per tre cento anni et oltre, e fine al fine
     Che’ tre e tre pugnar per lui ancora.9
40E sai che fe dal mal de le Sabine
     Al dolor di Lucrezia in sette regi,
     Vincendo intorno le parti vicine.10
43Sai quel che fe portato da li egregi11
     Romani contra Brenno, e contra Pirro,12
     E contra li altri principi e collegi:13
46Onde Torquato, e Quinzio che dal cirro
     Negletto fu nomato, e Deci e Fabi14
     Ebber la fama che volentier mirro.

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49Elli atterrò l’ orgollio degli Arabi,
     Che dirieto ad Annibaie passaro
     L’ alpestre rocche, di che, Po, tu labi.15
52Sottesso iovanetti triunfaro
     Scipione e Pompeio; et a quel colle,
     Sotto ’l qual tu nascesti, parve amaro.
55Poi presso al tempo che tutto ’l Ciel volle
     Ridur lo mondo a suo modo sereno,
     Cesari per voler di Roma il tolle;
58E quel che fe da Varo infine a Reno,16
     Isara vidde e Arar e vidde Senna,
     Et ogni valle onde ’l Rodono è pieno,
61Quel che fe poi ch’ elli uscì di Ravenna,
     E saltò Rubicon, fu di tal volo,
     Che nol seguiterea lingua, nè penna.17
64Inver la Spagna rivolse lo stolo,
     Poi ver Durasso, e Farsalia percosse
     Sì, ch’ al Nil caldo si sentì del dolo.
67Antandro e Simoenta, unde si mosse,
     Rividde, e là ove Ettore si cuba,
     E mal per Tolomeo possa si scosse.18
70Inde discese folgorando ad Iuba,19
     Poi si rivolse nel nostro occidente,20
     Ov’ ei sentì la pompeiana tuba.
73Di quel che fe col baiulo seguente,21
     Bruto con Cassio ne l’ inferno latra,
     E Modona e Perogia fu dolente.22

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76Piangene ancor la trista Cleopatra,
     Che, fuggendoli inanti, dal colubro
     La morte prese subitana et atra.
79Con costui corse infino al lito rubro,
     Con costui puose ’l mondo in tanta pace,
     Che fu serrato ad Iano il suo delubro.
82Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
     Fatt’ avea prima, e poi era fatturo23
     Per lo regno mortal ch’ a lui soiace,24
85Diventa in apparenzia poco e scuro,
     Se in mano al terzo Cesari si mira
     Con occhio chiaro e con affetto puro:
88Chè la viva iustizia che mi spira,
     Li concedette, in mano a quel ch’ io dico,
     Gloria di far vendette a la sua ira.
91Or qui l’ ammira in ciò ch’ io ti replico:25
     Possa con Tito a far vendetta corse
     Della vendetta del peccato antico.
94E quando il dente longobardo morse
     La santa Chiesa, sotto le suo ali
     Carlo Magno vincendo la soccorse.
97Ormai può’ iudicar di quei cotali
     Ch’ io accusai di sopra e de’ lor falli,
     Che son cagion di tutti nostri mali.26
100L’ uno al publico segno i gilli gialli
     Oppone, e l’ altro appropria quello a parte
     Sì, che fort’ è a veder chi più si falli.
103Faccian li ghibellin, faccian lor arte
     Sott’ altro segno: che mal segue quello
     Sempre chi la iustizia e lui diparte.

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106E nolL’ abbatta esto Carlo novello
     Coi guelfi suoi; ma tema de li artilli
     Che a più alto leon trasser lo vello.
109Spesse fiate già pianser li filli27
     Per la colpa del padre, e non si creda28
     Che Dio trasmuti l’ arme per suoi gilli.
112Questa picciola stella si correda
     Di buoni spirti che son stati attivi,
     Per che onor e fama li succeda.
115E quando li disiri poggian quivi
     Sì disiando, pur convien che i raggi29
     Del vero amore insù poggin men vivi.
118Ma nel commensurar dei nostri gaggi30
     Col merto è parte di nostra letizia,
     Perchè nolli vedian minor, nè maggi.31 32 33
121Quinci adolesce la viva iustizia34
     In noi l’ affetto sì, che non si puote
     Torcer giammai ad alcuna nequizia.
124Diverse voci fanno dolci note;
     Così diversi scanni in nostra vita
     Renden dolce armonia tra queste rote.
127E dentro alla presente margarita
     Luce la luce di Romeo, di cui
     Fu l’ opra grande e bella e mal gradita.
130Ma i Provenzai, che fecer contra lui,35
     Non n’ ànno riso; e però mal cammina36
     Qual si fa danno del ben fare altrui.37

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133Quattro figlie ebbe, e ciascuna regina38
     Ramondo Berlingieri, e ciò li fece39
     Romeo persona umile e peregrina.40
136E poi lui mosser le parole biece
     A dimandar ragione a questo iusto,
     Che li assegnò sette e cinque per diece.
139Indi partissi pover e vetusto ;41
     E se ’l mondo sapesse il cuor ch’ egli ebbe,
     Mendicando sua vita a frusto a frusto,
142Assai lo loda, e più lo loderebbe.

  1. v.3.C.A. Lavina
  2. v. 10. C.A. Cesare:.... Giustiniano
  3. v.21 C.A. Ogni
  4. v. 23. C. A. di mostrarmi
  5. v. 25. C.A. Belisar
  6. v. 29. C. A. ma sua condizione
  7. v. 31. Veggi; desinenza che ne fa meglio discernere la seconda persona del presente congiuntivo. E.
  8. v. 37. C. A. ch’ el fece
  9. v. 39. C. A. Che i tre a tre
  10. v. 42. C. A. le genti vicine
  11. v. 43. C. A. E quel ch’ el fe
  12. v. 44. C. A. incontro a Brenno, incontro a
  13. v. 45. C. A. Incontro agli
  14. v. 47. C. A. i Deci, e i
  15. v. 51. C. A. Po, di che tu labi.
  16. v. 58. C. A. infino al Reno,
  17. v. 63. C. A. seguiteria
  18. v. 69. C. A. poscia
  19. v. 70. C A. Da onde scese
  20. v. 71. C. A. Onde si volse
  21. v. 73. C. A. E quel
  22. v. 75. C. A. e Perugia
  23. v. 83. Fatturo; participio futuro e vale per fare. E.
  24. v. 84. C. A. soggiace,
  25. v. 91. C. A. t’ ammira
  26. v. 99. C. A. vostri mali
  27. v. 109. C. A. Molte fiate
  28. v. 110. C. A. dei padri,
  29. v. 116. C. A. Sì disviando,
  30. v. 118. Gaggio; dal provenzale gatge, adoperato da Giraldo di Bornello, e vale mercede, premio. E.
  31. v. 120. C. A. non li vedèm
  32. v. 120. Vedian; prima persona plurale, con buon successo terminata coll’n perchè seguitata da un m. E.
  33. v. 120. Maggi; maggiori, dal singolare maggio che tuttora s’ accoppia ad alcuni sustantivi, come Rio Maggio, Via Maggio. E.
  34. v. 121. C. A. addolcisce
  35. v. 130. C. A. Provenzali, che fer
  36. v. 131. C. A. Non ànno
  37. v. 132. C. A. Chi a sè fa danno per ben
  38. v. 133. C. A. Sette figlie
  39. v. 134. C. A. Berlinghieri,
  40. v. 135. C. A. pellegrina.
  41. v. 139. C. A. Partissi quindi povero

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C O M M E N T O


Poscia che Costantin l’aquila volse ec. Questo è lo canto sesto della terzia cantica, nel quale lo nostro autore usò una bella 1 poesia: imperò che è indutto a parlare di sopra Iustiniano imperadore. Finge che, continuando ora lo suo parlare, li dicesse quasi ogni cosa notabile che si trova scritta appresso Livio nelle sue tre decade che rimasono delle quattordici e quasi mezza, che esso Tito Livio scrisse dei fatti dei Romani, de l’edificamento di Roma infine ai suoi tempi. E però questo canto si dividerà prima in due parti secondo lo modo usato: imperò che prima finge che lo detto beato spirito, incominciando lo suo parlare dell’andata di Costantino imperadore, che dotò la Chiesa, a Costantinopoli infine a sè, dice di sè e manifesta la sua condizione; e poi, incominciando delle 2 battaglie d’Enea con Turno, tocca quel che feceno li Romani infino al secondo imperadore, che fu Ottaviano dopo Cesari, ogni cosa notabile che Cesari fece toccando spezialmente 3 che fu innanti a tutti l’imperadori lo primo che occupò lo imperio. Nella seconda parte finge che dicesse quello che fece lo secondo imperadore, cioè Ottaviano, e poi lo terzo, cioè Tiberio; et oltra a ciò li dice delle condizioni di quelli spiriti beati che si rappresentano nella spera di Mercurio, et incominciasi quine: Di quel che fe ec. La prima, che serà la prima lezione, si [p. 169 modifica]divide tutta in sei parti: imperò che prima, facendo menzione di Costantino, fa manifestar sè lo spirito detto che àe incominciato a parlare quanto al grado della dignità; nella seconda si nomina e dice spezialmente una opera notabile che fece mentre che fu nel mondo, et incominciasi quine: Cesari fui, ec.; nella terzia parte finge l’autore come lo detto spirito, manifestato lo suo errore e la conversione, si dirizzò a parlare della insegna dell’aquila, et incominciasi quine: Tosto che colla Chiesa ec.; nella quarta, incominciando a parlare de l’insegna dell’aquila, dice della morte di Pallante, de l’edificazione e durazione d’Alba, dei tre Orazi che cornbattettono con tre Curazi e del ratto de le Sabine e della morte di Lucrezia, e dei sette regi che finitteno a Tarquino Superbo, et incominciasi quine: Vedi quanta virtù ec.; ne la quinta parte finge che lo detto spirito dica quello che feceno li Romani sotto la insegna dell’aquila contra le strane genti, et incominciasi quine: Sai quel che fe; nella sesta parte finge che dicesse quello che fe Cesari che fu primo imperadore, et incominciasi quine: Poi presso al tempo ec. Divisa la lezione prima, ora ene da vedere l’esposizione letterale, allegorica e morale; la quale esposizione conviene essere grande per le molte istorie che occorreranno.

C. VI — v. 1-9. In questi tre ternari lo nostro autore finge come lo spirito beato, che prima gli avea parlato, riprese lo suo parlare in verso lui manifestandoli prima la sua condizione e la dignità che ebbe nel mondo, cioè la dignità imperiale, dimostrando unde ella ebbe principio dicendo così: Poscia che Costantin; di questo Costantino è stato detto nella prima cantica nel canto xix, quando disse: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, Non la tua conversion; ma quella dote Che da te prese il primo ricco patre!, ne la seconda cantica nel canto xxxii; e niente di meno qui anco ne fa menzione dicendo che Costantino fu quelli che prima mutò la sedia de lo imperio da Roma, poi che fu convertito da papa Silvestro, e traslatò in Grecia a Costantinopoli; la quale città fu denominata da lui Costantinopuli, et edificata in su una città marina che si chiamava Bisanzio, e quive menò li senatori di Roma colle loro famiglie e volse che fusse chiamata nuova Roma, e fusse capo dello imperio d’Oriente, e condussevi li Romani con promissione di rimetterli in su lo terreno di Roma infra breve tempo. La qual promessa addimandando li Romani che adimpiesse, rispuose loro che l’aveva adimpiuta: imperò ch’elli erano in sul terreno di Roma: imperò che avea fatto portare in su una nave della terra di Roma, e quella avea fatta spargere per tutto Costantinopoli; e così disse che avea osservato la promessa, ch’elli gli avea rimessi in sul terreno di Roma, e quine moritte e fu sepulto in uno sepolcro di [p. 170 modifica]porfido, chiuso per sì fatto modo che non si può aprire. Questo Costantino fu romano figliuolo di Costantino e d’Elena concubina del detto Costantino, figliuola del re di Brettangna, et intrò ne lo imperio nel iv anno della persecuzione di Gallerio nelli anni Domini 309, e dal principio del mondo 4272, e rengnò anni 34 e di’ 35, e Licinio li fu dato per compagno. E nel vii anno del suo imperio insieme con Licinio vinse Massenzio crudelissimo col sengno della croce, non essendo anco fatto cristiano; e la madre sua Elena fu quella che trovò la croce di Cristo, ammonita nel sonno per più visioni, e quive fece una bella chiesa. E tenne lo imperio Costantino con Licinio anni 24, poi Costantino lo sconfisse a Tessalonica essendo Licinio d’anni 40, perchè perseguitava li cristiani, e fecelo decapitare. E solo Costantino con molta felicità tenne Io imperio poi; e l’anno che si battezzò, oltra li fanciulli e le femmine, 12000 omini si battezzorno; e concedette al papa tutti li papali adornamenti, e la signoria temporale di Roma e di tutte le parti occidentali, e la spirituale e temporale singnoria 4 sopra tutte le chiese del mondo, l’aquila; cioè la insegna imperiale che è l’aquila nera aperta nel campo ad oro, la quale fu sengno dello imperio, e fu recata da Enea 5 per insegna da Troia in Italia. Questa insengna tenevano li Troiani in memoria che Iove rapitte Ganimede troiano in specie d’aquila, e puoselo a servigio suo per servitore di coppa, rimossane Ebe figliuola di Iunone, volse Contra ’l corso del Ciel ch’ella seguio: imperò che Enea troiano venne da Troia, destrutta Troia per li Greci, in Italia co la insegna dell’aquila e pervenne al Tevere di Roma colla detta insegna, e con tremilia 6 uomini d’arme. E poi Costantino, al tempo detto di sopra, da Roma traslatò lo imperio a Costantinopuli, sì che fu ritornare l’aquila da l’occidente all’oriente come era venuta con Enea dall’oriente a l’occidente; e però dice: Contra ’l corso del Ciel: imperò che ’l Cielo fa la revoluzione sua da l’oriente inverso l’occidente, sì che andando inverso l’oriente, andava contra ’l corso del cielo; e venendo dall’oriente all’occidente, seguiva lo corso del cielo. E come è stato detto, la revoluzione del cielo dall’oriente a l’occidente è secondo il primo mobile; ma l’ottava spera e li pianeti fanno contraria revoluzione dall’occidente inverso l’oriente. E perchè di questi due movimenti l’uno; cioè quello del primo mobile da oriente per occidente 7 ad oriente, si chiama naturale, uniforme e diritto, e l’altro 8 si chiama accidentale, diviso et obliquo, vuole dare ad intendere l’autore che la [p. 171 modifica]venuta dello imperio da oriente ad occidente fusse produtta secondo la inlluenzia di tutti li cieli, che tutti si muovono, così per lo moto naturale del primo mobile, e per lo loro violentato da quello; ma la ritornata fusse pure secondo lo moto contrario de le otto spere e della loro influenzia, che non è naturale et uniforme e diritto, sicchè non fu ragionevile come la venuta, nè diritta: però che fu contra l’ordine del moto universale, Dietro all’antico; cioè Enea Troiano che fu l’antica origine dei Romani: imperò che da lui discesono, come appare nelle istorie di ciò scritte, e come dimostra Livio nella prima Decade nel primo libro, che; cioè lo quale Enea, Lavinia; che fu figliuola del re Latino, re della città chiamata Laurento, e Lavino prima da Beatrice di Lavino fratello del re Latino; e poi Laurento dal lauro che era cresciuta nella rocca che fece lo re Latino. E poi che Enea predetto combattè con Turno e vinselo e vinse la detta città, che era presso alla sua che avea fatto in sul Tevero, dove è avale Ostia, la chiamò Lauro Lavinio dal nome primo e da Lavinia figliuola del detto re Latino la quale ebbe per donna, e la città e lo regno per sua dote, et ebbe di lei uno figliuolo che si chiamò Silvio Enea, perchè nacque dopo la morte d’ Enea nelle selve, fuggita Lavinia ne le selve per paura d’Ascanio suo figliastro; lo quale li restituitte poi la città sua, et elli fece poi un’altra città in su’ monti la quale chiamò Alba, come si dirà di sotto, tolse; cioè per sua donna la quale era stata promessa per la sua madre, cioè per la reina Amata a Turno re d’Ardea che era in Campagna, che era suo nipote; et ello re Latino l’avea promessa ad Enea, e però combatterno insieme, Cento e cento anni e più l’uccel di Dio; cioè l’aquila consecrata a Iove, perchè quando combattè coi Giganti, secondo le fizioni poetiche, l’aquila li porgeva le saette colle quali percoteva 9 li Giganti, e secondo la verità si può chiamare l’uccello di Dio, perchè più alto vola e più presso al cielo che nessuno altro uccello, Nello estremo; cioè 10 nella estrema parte, d’Europa: Europa è la terza parte del mondo et è determinata di verso l’oriente dal mare maggiore che va in verso settentrione a le palude Meotide; lo quale mare, stendentesi infine a Tanai, divide l’Asia da l’Europa; e da settentrione infine a l’occidente è cinta dal mare oceano; e da mezzo di’ è terminata dal mare mediterraneo che divide Affrica da Europa. E fu chiamata Europa da Europa figliuola del re Agenore di Sidonia, la quale Iove rapitte apparendo in spezie di toro e menolla, passando lo mare d’Asia, in Europa, nella quale è Roma capo del mondo. In questa Europa sono molte provincie; ma inverso Asia, quine dove è Costantinopoli, è la Grecia che si chiama Romania; [p. 172 modifica]un’altra Grecia è più in verso l’occidente, in su la punta d’Italia che si chiama Calavria; della prima intende ora l’autore. Vicino ai monti; cioè troiani: imperò che Troia è in Asia, incontra a Costantinopuli: Frigia è lo nome della regione la quale più provincie àne 11 in sè, tra le quali è Troia, et in essa fu la città del re Priamo chiamata Troia, e la rocca chiamata Ilion in su’ monti posta, dei quai; cioè monti troiani, prima uscio; cioè lo detto uccello: imperò che non v’è in mezzo, se non lo mare, e non è molto ampio quine. E bene à detto di sopra che lo imperio stette Cento e cento anni e più in Grecia: imperò che vi stette da Gostantino infine a Carlo Magno, che soccorse Roma e la chiesa d’Iddio, che era assalita dall’infideli Longobardi e liberata da la loro invasione parecchie volte. Al fine li Romani, avendo per imperadrice Irene madre di Costantino figliuolo di Leone, lo quale Costantino ella aveva accecato, dierno lo imperio a Carlo Magno; e Leone papa che era stato accecato e talliatoli la lingua, riavuto lo vedere e lo parlare per grazia divina, consecrò Carlo Magno imperadore e Pipino suo figliuolo re d’Italia; lo quale Carlo avea fatto iustizia dei perseguitatori di papa Leone. E bene stette in Costantinopuli lo imperio dugento anni e più, inanti che pervenisse ad Iustiniano imperadore, lo quale incominciò ad imperare nelli anni Domini vxxviii; e Costantino imperò nelli anni Domini cccix; dunqua ben passorno più di cc anni: imperò che da cccix a cccccxxviii à dugento dicennove, sì che ben sono più di dugento. E poi uscitte di Grecia al tempo di Carlo Magno nelli anni Domini viilxxxvi, sicchè in tutto stette in Grecia lo imperio da Costantino a Carlo Magno re di Francia, che fu fatto imperadorc per li Romani, quando avea regnato in Francia già anni 33, che furno anni iiiilxxvii. E perchè qui fa menzione del descenso dell’imperadori, che da Cesari infino a Iustiniano furno 56 imperadori, e da Iustiniano insine a Vinceslao figliuolo di Carlo re di Boemia, che non è anco coronato, furno imperadori 57; e volendo vedere questo, debbiamo sapere che lo primo imperadore fu Iulio Cesari che tenne lo imperio anni 4; lo secondo, Divo Ottaviano Agusto 12 che tenne lo imperio anni 56; lo terzio, Nero Claudio Tiberio che tenne lo imperio anni 23; lo quarto, Gaio Caligula anni 3; lo quinto, Claudio Druso anni 24; lo sesto, Nerone crudele anni 13; lo settimo, Galba mesi 7; l’ottavo, Otto di’ 95; lo nono, Vitellio mesi 8; lo decimo, Vespasiano anni 10; lo undecimo, Tito suo figliuolo anni 2; lo dodicesimo, Domiziano fratello di Tito anni 14; lo tredicesimo Nerva, anno 1 e mesi 4; lo [p. 173 modifica]quatuordecimo, Traiano anni 29; lo quindecimo, Adriano figliuolo di Traiano anni 21; lo sedecimo Antonio pietoso con Marco Aurelio e Lucio Commodo suoi figliuoli anni 22; lo settimodecimo, Marco Aurelio con Comodo Aurelio anni diciannove; lo decimo ottavo, Aurelio Comodo anni 13; lo decimonono, Elio pertinace mesi 6; lo vigesimo, Severo anni 19; lo vigesimoprimo Antonio Secondo Caratella anni 6; lo ventiduesimo, Matre Materno anno 1; lo vigesimoterzio, Marco Aurelio Antonio terzio Gaballo anni 4; lo vigesimoquarto, Alessandro primo Manimea anni 14; lo vigesimo quinto, Massimiano anni 3; lo vigesimo sesto, Gordiano anni 6; lo vigesimo settimo, Filippo primo Cristiano imperadore figliuolo di Gordiano anni 6; lo vigesimo ottavo, Dccio anno 1 e mesi 4; lo vigesimo nono, Gallua Ostiliano col suo figliuolo Volusiano anni 2 e mesi 4; lo trigesimo, Valeriano con Galieno suo figliuolo anni 14; lo tregesimo primo, Claudio secondo anno 1 e mesi 9; lo tregesimo secondo, Quintillo fratello di Claudio di’ 7; lo tregesimo terzio, Aureliano anni 5 e mesi 6; lo tregesimo quarto, Tacito mesi 6; lo tregesimo quinto, Claudio di’ 4; lo tregesimo sesto, Probo anni 6 e mesi 4; lo tregesimo settimo, Caro di Narbona anni 2; lo tregesimo ottavo, Diocleziano e Massimiano anni 20; lo tregesimo nono, Galerio Massimiano con Costantino e Licinio anni 2; poi Costantino e Licinio, e rimase solo Costantino; lo quadragesimo, Costantino figliuolo di Costantino predetto e d’Elena primo anni 30, mesi 10 e di’ 11, questi trovò Massenzio imperatore fatto da’ Romani et ucciselo; lo quadragesimo primo, Costantino secondo con Costantino e Costante fratelli anni 24; lo quadringesimo secondo, Iuliano figliuolo di Costanzio anni 2 e mesi 8; lo quadragesimo terzio, Ioviniano mesi 8; lo quadragesimo quarto, Valenziano col suo fratello Valente anni 11; lo quadragesimo quinto, Valente con Graziano e Valenziano anni 4; lo quadragesimo sesto, Graziano con Valenziano e Teodosio anni 6; lo quadrigesimo settimo, Teodosio primo con Valenziano anni 11; lo quadragesimo ottavo, Arcadio e Onorio figliuoli di Teodosio anni 13; lo quadragesimo nono Onorio, con Teodosio figliuolo d’Arcadio anni 14; lo quinquagesimo, Teodosio solo anni 3 e con Valenziano figliuolo de l’amica sua anni 24; quinquagesimo primo, Marziano e Marziano anni 7; lo quinquagesimo secondo, Leone primo anni 17; lo quinquagesimo terzio, Cenone anni 9; lo quinquagesimo quarto, Anastasio primo anni 25; lo quinquagesimo quinto, Iustino primo anni 9; lo quinquagesimo sesto, Iustiniano primo, nipote di Iustino anni 38; lo quinquagesimo settimo, Iustino secondo anni 12; lo quinquagesimo ottavo, Tiberio secondo anni 7; lo quinquagesimo nono, Maurizio anni 21; lo sessagesimo, Foca anni 7; lo sessagesimo primo, Ericlato con Costanzio anni 7; lo sessagesimo secondo, [p. 174 modifica]Costantino figliuolo d’Eradio mesi 4, con Itadona suo fratello anni 27; lo sessagesimo terzio, Costantino terzio figliuolo di Costantino; lo sessagesimo quarto, Costantino quarto figliuolo del detto Costantino anni 17; lo sessagesimo quinto, Iustiniano secondo anni 10; lo sessagesimo sesto, Leone Patrizio secondo anni 4; lo sessagesimo settimo, Asimaro Tiberio anni 3; lo sessagesimo ottavo, Iustiniano terzio anni 7; lo sessagesimo nono, Filippo Barduino anno uno, mesi, 5; lo settuagesimo, Anastasio Artemio anni 3; lo settuagesimo primo, Teodosio anno uno; lo settuagesimo secondo, Leone terzio con Costantino suo figliuolo anni 25; lo settuagesimo terzio, Costanzio col figliuolo suo Leone anni 17; lo settuagesimo quarto, Leone anni 5; lo settuagesimo quinto, Costantino secondo di Leone primo detto figliuolo con Irene sua madre anni 17; lo settuagesimo sesto, Riteoforo anni 9; lo settuagesimo settimo, Michele anni 2; lo settuagesimo ottavo, Carlo Magno figliuolo del re Pipino anni 15; lo settuagesimo nono, Ludovico primo figliuolo del detto Carlo con Lottieri suo fratello anni 25; l’ottuagesimo, Lottieri anni 15; l’ottuagesimo primo, Lodovico secondo anni 21; l’ottuagesimo secondo, Carlo Calvo secondo anni 2; l’ottuagesimo terzio, Carlo Iovano Grosso terzio anni 12; l’ottuagesimo quarto, Arnolfo primo anni 12; l’ottuagesimo quinto, Ludovico terzio anni 16; l’ottuagesimo sesto, Berlinghieri primo anni 4; l’ottuagesimo settimo, Currado primo alamanno anni 7, ma non fu confermato; l’ottuagesimo ottavo, Berlinghieri secondo in Italia anni 9; l’ottuagesimo nono, Arigo primo figliuolo detto di Sassogna anni 18; lo nonagesimo, Berlinghieri terzio anni 7; lo nonagesimo primo, Lottieri secondo anni 2; lo nonagesimo secondo, Berlinghieri quarto con Alberto suo figliuolo anni 11; lo nonagesimo terzio, Otto primo figliuolo d’Arigo di Sassongna anni 36; lo nonagesimo quarto, Otto secondo con Otto suo figliuolo anni 10; lo nonagesimo quinto, Otto terzio anni 19; lo nonagesimo sesto, Arigo di Baviera anni 22; lo nonagesimo settimo, Currado secondo anni 15; lo nonagesimo ottavo, Arigo figliuolo del detto Currado anni 17; lo nonagesimo nono, Arrigo quarto figliuolo del sopradetto Arrigo anni 50; lo centesimo, Arrigo secondo figliuolo del sopradetto Arrigo anni 20; lo centesimo primo, Lottieri anni 11; lo centesimo secondo, Corrado nipote d’Arrigo de la suore anni 15; lo centesimo terzio, Federigo primo nipote di Corrado anni 38; lo centesimo quarto, Arrigo sesto figliuolo di Federico predetto anni 7; lo centesimo quinto, duca di Sassongna quarto anni 2; lo centesimo sesto, Federigo figliuolo dello imperadore Arrigo quinto anni 28; lo centesimo settimo, Tandegrano di Toringia anni 4; lo centesimo ottavo, Currado figliuolo di Federigo, ma non fu coronato, del quale nacque Curradino; lo centesimo nono fu lo detto Curradino benchè non fusse [p. 175 modifica]coronato; lo centesimo decimo fu Arrigo di Lusimburgo che fu attoscato a Bonconvento, lo centesimo undecimo fu Ludovico di Baviera chiamato Bavaro e non fu coronato; lo centesimo duodecimo fu Carlo re di Boemia, coronato a Roma per papa Chimento 13; cioè per li suoi cardinali nel 1355; lo centesimo tredecimo è ora Vinceslao re di Boemia figliuolo del detto Carlo lo quale non è anco coronato, benchè corra 1393 dalla incarnazione. E sotto l’ombra de le sacre penne; cioè sotto l’apparenzia della insegna imperiale, cioè dell’aquila; e dice sacre penne, cioè dell’aquila, e pone la parte per lo tutto, cioè per l’aquila; e tanto dice così, perchè l’aquila con l’ale aperte è la insegna de lo imperio e dice sacre: imperò che tale insegna è consecrata, cioè confirmata per tutti li imperadori passati; e ben dice ombra: imperò che l’imperadori incominciorno avere pur lo nome e l’apparenzia dello imperio; ma non l’opera; e però si può dire ombra come è avale, che è lo imperio pur in nome et in vista, e non in fatti; e così dopo Costantino, digradando la potenzia dell’imperadori, rimase lo nome de lo imperio e l’ombra, Governò ’l mondo; cioè resse lo governo del mondo, pur per l’ombra delli imperadori passati, lì; cioè stando in Grecia a Costantinopoli, di mano in mano; cioè d’imperadore in imperadore; e ben dice che l’aquila governò lo mondo: imperò che per essa s’intende la potenzia e l’autorità imperiale, la quale vola sopra tutte le signorie per eccellenzia, come l’aquila sopra tutti li uccelli, E sì; cioè per sì fatto modo, cangiando; cioè cambiando e mutando l’uno imperadore dopo l’altro, e succedendo, in su la mia; cioè mano, pervenne; cioè l’aquila, cioè la dignità imperiale e potenzia, succedendo pervenne a la mia amministrazione et operazione, cioè ad essere esercitata per me. E questo spirito, che parlato à insino a qui, si manifesta nella seguente parte.

C. VI — v. 10-21. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che lo spirito, che avea parlato di sopra, ora si li manifestasse per nome e per offizio e dicesseli brevemente la condizione della sua vita, dicendo così: Cesari fui; cioè io, che t’ò parlato, fui nel mondo imperadore de’ Romani; ma stetti in Grecia a Costantinopoli, come appare di sopra: la cagione, per che l’imperadori si chiamano Cesari, fu presa da Iulio Cesari lo quale fu lo primo imperadore dei Romani, e però poi tutti gli altri furno detti Cesari; e perchè le dignità mondane non durano se non mentre che si sta nel mondo, e vegnano meno quando l’uomo muore, però dice: fui; cioè quand’io fui nel mondo; ma non a vale, e son; cioè ora, [p. 176 modifica]Iustiniano; lo nome proprio suo fu Iustiniano, e significa lo individuo; e però dice, son; cioè a vale quello individuo che io fui nel mondo, se non che l’anima che è forma de l’omo è partita dal corpo, sicchè quanto a la forma sono quello omo che io fui; ma non al composto della forma e materia. Questo Iustiniano fu imperadore dopo Iustino Seniore suo zio: imperò che Iustiniano era nato della sirocchia 14 di Iustino, et incominciò lo imperio ne li anni 528 e tenne lo imperio anni 38 e mesi 6; e fatto imperadore, prese a correggere le leggi romane levandone ogni superfluità e vanità, come dice l’autore nel testo. E però dice: Che; cioè lo quale Iustiniano, per voler; cioè per voluntà, del primo Amor; cioè dello Spirito Santo, lo quale è lo primo amore, ch’io; cioè lo quale amore io Iustiniano, sento; cioè avale che sono alla beatitudine, D’entro le leggi; cioè romane, trassi ’l troppo; cioè leva’ne, correggendone quello che v’era troppo: imperò che forse d’una medesima cosa v’era più volte, cioè in più luoghi, e ’l vano; cioè lo disutile: poteva essere una medesima cosa utile in più luoghi, bastava che fusse in uno, e così ne tolse il troppo levandone gli altri che erano di soperchio; potea anco essere che tra quegli che erano soperchi v’era uno più utile e più necessariamente detto: riteneva che v’era di quello che non era punto utile, e quello ne tolleva 15, e così ne toglieva il vano. E perchè nessuno bene possiamo fare senza la grazia d’Iddio, però dice che questo, che fu uno grande bene; arrecare le leggi in ordine e levarne lo troppo e ’l vano, elli fece, perchè Iddio volse e prestògli la grazia dello Spirito Santo, a ciò fare. E secondo ch’io ò trovato et udito da’ Legisti, Iustiniano fece la correzione di tutte le leggi in tre anni, commesso a Tribuniano maestro delli offici, eccellentissimo uomo, che questo facesse et eleggessesi compagni a ciò idonei, li quali tutti furno eccellentissimi uomini in numero nove, li quali 10 con Tribuniano et insieme collo imperadore predetto corressono e compuoseno lo Codice, arrecando li tre antichi in uno nuovo che contiene dodici libri ; e corressono e compuoseno li 50 libri di Digesti, cavandoli di quasi du’ milia libri, e poi che trenta centonaia di milliaia di versi dalli antichi Iurisconsulti fatti, e lo detto Tribuniano da altri compuoseno e corressono li quattro libri dell’Istituta et altre costituzioni imperiali fatte dal detto Iustiniano, per correzione di quelle che erano fatte prima. E prima ch’io; ora confessa lo peccato suo, dicendo: E prima ch’io; facesse questa opera, cioè la correzione delle leggi, e però dice: E prima ch’io; cioè e prima ch’io Iustiniano, a l’opra [p. 177 modifica]fussi attento; cioè lussi dato all’opera detta di sopra, Una natura; cioè solamente la divina e non l’umana, come credevano certi eretici che dicevano che Iddio non può sostenere pena, e che la passione sostenne uno corpo fantastico che pareva corpo e non era; e però dice: in Cristo; nostro Salvadore, figliuolo d’Iddio vivo e vero, Iddio e omo, esser non piue 16; cioè che una natura, Credea; cioè io Iustiniano, e di tal fede; quale detta è, era contento; cioè io Iustiniano, parendomi che fusse vero considerando la ragione detta di sopra, non accorgendomi della verità; cioè che in Cristo funno due nature, cioè divina et umana: umana natura sostenne pena nella passione, e la divina si ritrasse in sè non partendosi però da l’umanità, siccome dimostrò elli in sulla croce quando gridò: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? — Ma ’l benedetto Agabito, che fue Sommo pastore; questo Agabito fu papa al tempo di Iustiniano e tenne lo papato mesi 11, dopo papa Giovanni che il tenne due anni, passato già de lo imperio di Iustiniano anni 38 e mesi 7, a la Fede sincera; cioè pura senza turbazione d’eresia, Mi dirizzò; cioè dirizzò me Iustiniano, colle parole sue; cioè col suo ammaestramento. Io; cioè Iustiniano, li credetti; cioè a papa Agabito, e ciò che ’n sua fede era; cioè del detto papa Agabito, Veggio ora chiaro; cioè essere vero chiaramente, sì, come tu vedi; cioè tu, Dante; ecco che arreca la similitudine, Ch’ogni contradizion è falsa e vera; diceno li Dialettici che, se l’una delle proposizioni contradittorie è vera, l’altra è falsa; e se l’una è falsa, l’altra è vera: imperò che non possono essere insieme amendune vere, nè amendune false; e pongnano questo esemplo: Ongni uomo corre; questa è contradittoria a questa: Alcuno omo non corre. Se la prima è vera conviene la seconda essere falsa; e se la prima fusse falsa, non sarebbe se non perchè la seconda sarebbe vera. E così da qualunqua parte si ponesse la verità, dall’altra converrebbe essere la falsità, come può vedere chi ciò dirittamente penserà.

C. VI — v. 22-33. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Iustiniano, continuando lo suo parlare, discende a dire dei grandi fatti che furno fatti nel passato per l’imperadori passati inanti, dicendo così: Tosto; cioè altresì tosto, che colla Chiesa; cioè colla Chiesa catolica, romana, mossi i piedi; cioè le mie affezioni, cioè ch’io credetti quello che crede la santa Chiesa, A Dio; dal quale viene ongni grazia, piacque per grazia; cioè preveniente che mi misse in cuore di fare la correzione delle leggi, per la quale io addimandai la grazia illuminante e cooperante, d’ispirarmi; cioè di mettermi in cuore, L’alto lavoro; cioè la correzione delle leggi, che [p. 178 modifica]fu alto lavoro e di grande sottigliezza e di grande fatica e d’utilità grande al mondo, e tutto a lui mi diedi; cioè diedi me io Iustiniano tutto al detto lavoro: se l’uomo non si dà tutto all’opera ch’elli fa, nolla fa mai perfettamente. Et al mio Belisan; questo Belisan fu principe de la milizia del detto imperatore e suo maggiore siniscalco, commendai l’armi; cioè in lui commessi tutti li atti bellici, e fatti bellici dello imperio, Cui; cioè al quale, la destra del Ciel; cioè la felicità che viene dal cielo, cioè da Dio, siccome da prima cagione, e da presso dalle influenzie dei corpi celesti siccome da seconde cagioni, fu sì coniunta: imperò che d’ongni battaglia rimaneva vincitore, e ciò che si metteva a fare li veniva fatto, Che segno fu ch’io dovesse posarmi; cioè che io Iustiniano mi riposasse dell’operazioni pratiche, e ch’io mi desse all’operazioni intellettuali e teoriche. Or; cioè ora, qui; cioè 17 in questo luogo e punto del mio dire, s’appunta; cioè si coniungne, La mia risposta; la quale io t’ò fatto infine a qui, a la question prima; cioè al dimando primo che mi facesti, cioè ch’io dicesse ch’io era, la quale fu la prima parte del tuo dimando, come appare di sopra nel testo dove l’autore dimandò; ma alla seconda parte non risponde ora, rispondràvi di sotto. Ma ora finge l’autore che per alcuno detto di sopra, cioè della insengna de l’ aquila, e di quello che ànno fatto l’imperadori sotto sì fatta insengna; e però dice: ma la condizione; cioè mia, che fui imperadori 18 e militai più volte sotto lo stendale dell’aquila, Mi stringe; cioè stringe me Iustiniano, a seguitar alcuna iunta; cioè alle 19 parole dette di sopra da me, Perchè tu; cioè Dante veggi con 20 quanta ragione Si muove contra ’l sacro santo segno; cioè dell’aquila; ecco lo fine che mi muove a parlare d’esso sengno, lo quale chiama sacro santo perchè da tanti imperadori è stato portato, e con esso tante vittorie aqquistate, che tutto lo mondo quasi si fatto sengno à riverito, E chi ’l s’appropria; cioè e colui che fa proprio suo lo gonfalone e lo sengno dell’aquila: imperò che nessuno singnore e nessuno comune dovrebbe appropriarsi lo sengno dell’aquila per riverenzia de lo imperio, se non l’avesse già di grazia dallo imperadore e chi; cioè colui lo quale, a lui; cioè al sacro santo sengno dell’aquila, s’oppone; cioè si contrappone: imperò che ogniuno 21 la doverebbe obbedire nelle cose temporali secondo la sentenzia di Cristo: Reddite ergo quœ sunt [p. 179 modifica]’’Cœsaris’’ Cœsari, et quœ sunt Dei Deo; dunqua contra cagione 22 fa chi sei piglia di sua attorità, e chi lo disobedisce.

C. VI — v. 34-42. In questi tre ternari finge lo nostro autore come Iustiniano, continuando lo suo parlare, fatto fine alla risposta che diede a la dimanda di Dante, fatto di sopra l’esordio e la nuova orazione che intendea di seguitare, ne la quale intendea con quel colore, che si chiama frequentemente frequentazione, narrare tutte le notabili cose fatte per li Romani notate appresso gli autori, riferendole in questo luogo, seguitando Vergilio che usò questa poesi nel sesto Æneidos, quando finse che parlando Anchise li mostrasse la stirpe futura dei Romani che doveano descendere di lui; e poi quando finse che Venus recasse a Enea lo scudo fabricato da Vulcano, nel quale erano scolpite tutte le storie romane. Incomincia ora la narrazione sua, parlando pur del sengno dell’aquila dicendo in questa forma: Vedi; cioè tu, Dante, quanta virtù; cioè 23 operata sotto esso sengno da’ Troiani che furno origine dei Romani, e poi dai Romani, l’à fatto; cioè àe fatto lui, cioè lo sengno dell’ aquila, degno Di riverenzia; e qui è moralità, cioè che la virtù sola è quella che fa la cosa degna di riverenzia, e cominciò dall’ora; cioè infine da quel tempo, Che Pallante mori; questo Pallante fu figliuolo del re Evandro, nato d’Arcadia di Grecia re di Pallanteo, che fu quine dove è ora Roma in sul monte Palatino, che allora si chiamò Palazio, lo quale quando Enea venne ad Ostia dentro a la foce del Tevero e fatto la città sua, fue inimicato da Turno re dei Rutuli di Campagna, figliuolo del re Dauno d’Ardea, fu dato in aiuto ad Enea contra il detto Turno che forse li faceva mala vicinanza con quattrocento cavalieri. E finalmente andato con Enea ad acquistare l’aiuto delle terre di Toscana e di Lombardia e delle parti vicine; e tornato per mare et arrivato in terra, venne a singulare battaglia con Turno; nella quale battaglia fu morto da Turno, benchè fusse gagliardissimo e fusse di grandezza come uno gigante, e così ancora Turno; ma Turno era esperto di battaglia, e Pallante inesperto. E come diceno le croniche, lo corpo di Pallante fu trovato in Roma, cavandosi sotterra, in una arca di pietra grandissima, di mirabile grandezza con una ferita d’una lancia, la quale ferita era lunga due piedi di pertica, con una lucerna di metallo accesa nella detta arca la quale non si poteva spegnere, se non che si fe uno foro di sotto et allora si spegnè 24; e di questo Pallante molto largamente parla Virgilio nella sua Eneide.

Et è da notare che l’autore finge che Iustiniano incominciasse [p. 180 modifica]da questo Pallante la sua narrazione: imperò che ciò, che avevano fatto li Troiani infine a qui, non era degno di loda; ma da questa battaglia si cominciò la gloria de’ Troiani: imperò che allora incominciò ad apparire la loro virtù e la gagliardia di questo nobile iovano ampiamente si dimostrò, come dice Virgilio ne la sua Eneide; e però dice che la virtù dei Troiani, che furno origine dei Romani, incominciò dalla morte di Pallante che morì per acquistare lo regno ai Troiani, e però adiunge: per darli regno; cioè al sengno dell’ aquila. Tu; cioè Dante, sai: imperò che l’ài letto appresso li autori, che fece in Alba; cioè in quella città che fu chiamata Alba 25, sua dimora; cioè sua stanza questo sengno dell’aquila, Per tre cento anni et oltre; cioè per più di trecento anni. E qui tocca la storia che, poi che Enea ebbe vinto lo re Latino di Lavinio, venuto a guerra con lui per le prede che li Troiani, come forestieri facevano ai popoli suoi che si chiamavano Aborigines, lo re Latino, fatto la pace con lui, li diede la figliuola Lavinia per donna et accomunò lo suo regno e la sua città ai Troiani e non furno chiamati più Troiani, nè quelli Aborigines; ma l’uni e li altri Latini; e chi dice che s’accordorno inanti che combattessono, come scrive Livio nel primo libro de la prima decade. La quale cosa saputa da Turno nipote della reina Amata, donna del re Latino, al quale era stata promessa Lavinia per donna, mosse guerra ai Latini; nella quale guerra Turno non ebbe l’aiuto del re Mezzenzio re dei 26 Cereti, et in quella battaglia morto lo re Latino, rimase lo rengno ad Enea. E sconfitti li Rutuli, ricorse Turno a detto re Mezzenzio e mosse la seconda guerra ad Enea, et in questa moritte Enea passando per lo fiume Numicio; e perchè mai non si trovò lo corpo suo, finseno che fusse fatto iddio e chiamoronlo Iove Indigete. Rimase dopo Enea Ascanio figliuolo di Creusa troiana, e Lavinia donna d’Enea gravida che parturitte uno figliuolo che fu chiamato Silvio; e rimasi in pace per trenta anni, multiplicò sì lo popolo che Ascanio si partì da Lavinio, lassatolo alla matringna et al fratello, et andossene ad abitare nel monte Albano con grande gente e fecevi la città la quale si chiamò Alba Lunga, perchè era molto lunga stesa in su uno colle del monte come è Samminiato del Tedesco; e quive successivamente la stirpe d’Ascanio regnò trecento anni infino che venne lo regno in mano a Proca. Lo quale, lassato Numitore et Amulio suoi figliuoli, a Numitore siccome maggiore lassò lo regno; ma Amulio, che era lo minore, lo cacciò et usurpò lo rengno per forza, e li figliuoli maschi uccise, e la figliuola chiamata Rea Silvia sotto [p. 181 modifica]spezie d’onore fece monaca 27 de la dia Vesta, acciò che non avesse figliuoli che lo cacciasseno del regno. Ma la cosa andò altremente ch’elli non pensò: imperò che questa monaca ingravidò di persona vilissima; ma li Poeti per onore delli Romani diceano dello iddio Marte, e fece due figliuoli, cioè Romolo e Remo, li quali esposti alle fiere furno trovati da uno pastore che avea nome Fastulo 28, e portatili alla moglie che avea nome Laurenzia li fece allevare; et allevati coi pastori si dierno a cacciare e fare brigata di giovani di loro età, e davansi piacere con loro; e l’uno di’ più che l’altro crescente loro brigata, assalivano li ladroni che movevano prede, e rubbavanoli e partivano colli pastori la preda che aveano tolta a’ ladroni et i mali fattori che rubavano le parti vicine, cioè li Albanesi e li Latini et altre genti della contrada. Et avvenne che uno di’ rubborno li detti ladroni che menavano una grande preda e tolsenola loro; unde questi ladroni un di’ li assalitteno quando facevano uno giuoco e presono Remo, e menornolo a re Amulio; e trovato che avevano rubbato in su quello 29 di Numitore, mandollo a Numitore, e ricognosciuto che era suo nipote dierno ordine d’uccidere Amulio, e rimettere Numitore, nel rengno occultamente e sotto nuovo modo. E questo fu per operazione del pastore Fastulo che li avea allevati, che diede notizia a loro di Numitore et a lui di loro; e così ordinato lo trattato venne ad Alba Romulo coi pastori e Remo con brigata di Numitore, et intrati al re Amulio l’ucciseno e misseno Numitore in signoria nella città Alba; e così cresciuti si puoseno quive dove è ora Roma, e la città edificonno a poco a poco e chiamornola Roma, della quale discesono l’imperadori. E così li Troiani che arrecorno l’aquila da Troia furno colla virtù di Pallante e delli altri di Toscana locati nel regno del re Latino, e furno chiamati li Aborigini e li Troiani Latini.

E dopo certo tempo crescendo la città di Roma venne in discordia con quelli d’Alba per prede che li contadini dell’una e dell’altra feceno avvicendevilmente in sul terreno li uni de li altri; e venuti a battaglia furno sconfitti gli Albani, volendosi vendicare feceno dittatore Mezio Suffecio, e vennono collo esercito in su quello dei Romani. E Tulio Ostilio re dei Romani andò in sul terreno degli Albanesi, e così fece tornare a drietro l’esercito degli Albani; e venendo a parlamento li capitani delli eserciti, disse Mezio a Tulio: Lassiamo andare le cagioni vane: la battaglia tra noi è per lo rengno, non ci disfacciamo insieme che siamo [p. 182 modifica]tutti uno, facciamo che tre di voi combattino con tre di noi, e quelli che vinciono, acquistino et abbino la signoria a la sua citta d’amendue le città. Piacque questo patto a Tulio, e furno eletti da la parte dei Romani tre fratelli che furno Orazi, et altri fratelli furno eletti dalla parte delli Albani che si chiamavano Curiazi che erano fatti nuovamente parenti delli Orazi: imperò che li Orazi aveano promessa una loro sirocchia chiamata Orazia ad uno dei Curiazi. E venuti a la battaglia, nel primo assallimento furono feriti tutti e tre li Curiazi, e feriti e morti due delli Orazi; unde lo terzo pensò: Costoro sono fediti 30, lassamogli straccare col corso, e serò vincitore; e come pensò così fece. Diedesi a correre, e li Curiazi incominciorno a seguitare, e non potendo correre troppo per le ferite, seguitavano disequalmente Orazio; unde volto a drieto, Orazio torna in verso Curiazio che gli era più presso, e dalli uno colpo et ucciselo; e volgesi all’altro che veniva per soccorrere lo primo, e dalli uno colpo ancora et ucciselo. Lo terzo, sbigottito et addolorato per la morte dei fratelli et indebilito per la ferita, venuto alle mani con Orazio che era rinvigorito per la vittoria dei due, ancora fu morto da lui. Et allora rimase lo reggimento d’Alba al re dei Romani, e per questo dice lo testo: e fine al fine; cioè et infine a quello punto fece sua dimora l’aquila in Alba: imperò che v’erano singnori quelli che erano discesi da Ascanio figliuolo d’Enea e di Creusa troiana, che teneano la insengna dell’aquila, Che’ tre; cioè Curiazi, che furno da Alba, e tre; cioè Orazi, che furno di Roma, pugnar; cioè combattettono insieme, come è stato detto di sopra, per lui; cioè per la insengna dell’aquila che singnifica la singnoria dello imperio: imperò che 31 li Albanesi volevano la singnoria del tutto e li Romani similmente; et alla fine l’ebbono li Romani, come appare per la storia detta di sopra, come recita Livio nel primo libro della prima decade, ancora; dice per affermare, cioè come Pallante morì per dare regno alla insegna dell’aquila; così combattettono tre e tre fratelli per dare rengno a la detta insegna. E sai; cioè tu, Dante, che l’ài letto in Livio, che fe; cioè quello che fece la detta insengna dell’aquila che venne ai Romani, come detto è, dal mal de le Sabine; qui aggiunge una altra istoria, che è anco in Livio nel predetto luogo. Dice Livio che, poichè Romulo ebbe fatto la città di Roma in brieve tempo, e ripiena d’uomini, perchè avea fatto luogo lo quale chiamavasi asilo; e fatto publicamente bandire che chiunqua fuggisse a quello luogo, avesse fatto ciò che si volesse, fusse siguro; per la qual cosa grande moltitudine in breve [p. 183 modifica]tempo vi si raunò; et essendo popolosa la città, non avendo femine, vedendo che non potevano durare, mandò Romulo imbasciadori per le città prossimane pregando che si volessono imparentare con loro; e non trovato che il volessono fare avendo li Romani in dispregio, perchè aveano accettato ongni vile uomo, anco rimproveravano loro che facessono uno asilo per le femine, se volevano delle femine come avevano fatto de l’omini. Dalla qual cosa molto sdegnato Romulo, pensò con rapina di dare moglie ai Romani; e perciò ordinò di fare uno giuoco a Nettuno, lo quale si chiamava Consualia, con tanto adornamento quanto potea, e fece notificare a tutte le terre vicine che venissono a questa festa; per la qual cosa vi venonno li Ceninesi, li Crustumeni, li Antennati e li Sabini con molti loro figliuoli e figliuole, e furno ricevuti dai Romani molto onorati. Lo di’ del giuoco, quando ogni uno era intento a vedere, si levò una voce: Ciascuno pigli la sua; et allora furno prese le vergini che v’erano, e quelle di maggiore grado a’ maggiori cittadini furno menate, e le mezzane ai mezzani, e le minori ai minori; e li padri loro, protestando che era stato rotto loro lo patto de l’ospitalità, si tornarono a casa loro molto sdegnati contra li Romani, e pensavano pure di vendicarsi e facevano capo dei Sabini, perchè erano più potenti et anco perchè più furno ratte delle Sabine che dell’altre, e sollicitavano Tito Tacio principe dei Sabini che movesse guerra ai Romani. E perchè non si moveano così tosto come volevano, si mosseno ellino, cioè li Ceninesi, Crustumeni et Antennati, e come frettolosi li Ceninesi innanti alli altri assalitteno lo terreno dei Romani; unde Romulo coi Romani, scito di fuora col suo esercito, li sconfisse et uccise lo loro re e prese la città. E dopo li Ceninesi vennono li Antennati et assalittono Roma, unde anco uscitte loro addosso l’esercito romano, e sconfisseli e prese la città loro, e per prego delle donne perdonò Romulo ai padri e ricevettegli nella città. Dopo costoro vennono li Crustumeni et anco furno sconfitti, e presa la loro città da Romulo, e mutò in amendune le dette città li abitatori; cioè in Antenna et in Crustumeno, ricevendo tutti li padri delle donne dei Romani per cittadini di Roma, li altri per servi; e publicato che chi volesse andare ad abitare nelle dette terre si facesse scrivere, più si feceno scrivere a Crustumeno che ad Antenne, perchè era più abondevile città. A l’ultimo si miseno li Sabini contra li Romani più pesatamente, et ordìno 32 uno trattato con Tarpeia figliuola di Spurio Tarpeio che era guardiano della rocca che era in Capitolio, che ella la dovesse loro aprire la porta della rocca; et elli promiseno di darli [p. 184 modifica]per premio cioè che portavano nel braccio manco, nel quale li Sabini solevano portare armille di grande peso. Unde fatto lo patto et aperta la porta, facendo vista d’andare per l’acqua per lo sacrificio, li Sabini introrno nella rocca, e sopra la detta vergine Tarpeia gittorno tutti li loro scudi et ornamenti ch’elli portavano al braccio, sicchè ella v’affogò sotto, e però fu chiamato poi lo monte Tarpeio; et avuta la terra faceano grande guerra ai Romani, e scendevano a combattere in una valle che venia in mezzo tra ’l monte Tarpeio dove era la rocca, e lo monte Palatino dove era l’abitazione di Romulo; e scesi un di’ a combattere e facendosi una aspra battaglia, disseno le donne insieme: Da l’una parte seremo vedove, dall’altra private dei padri, e però andiamo a spartigli 33; e così feceno mettendosi in mezzo tra loro. Et allora si fe la pace, e li Sabini vennono a stare a Roma, e lo loro re Tito Tazio fu fatto re insieme con Romulo, e però dice lo testo: dal mal de le Sabine: imperò che mal fu che le Sabine fussono rapite sotto fede d’ospitalità, e nomina più le Sabine, che le Ceninesi, o che le Crustumene, o che l’Antennate: imperò che più vi fu di loro che dell’altre; et adiungne: Al dolor di Lucrezia; questa Lucrezia fu donna di Collatino figliuolo di Tarquino Egezio, e figliuola di Spurio Lucrezio Triplicino 34. Essendo donna castissima, abitante in una terra del marito presso a Roma, che si chiamava Collazia, venne caso che Collatino suo marito essendo nell’oste del re Tarquino, che era ito ad assediare Ardea che era città di Campania, cenando una sera con Sesto Tarquinio figliuolo del re Tarquino Superbo con’ altri iovani, vennesi a parlamento delle donne, nel quale parlamento ciascuno lodava la sua; e Collatino lodando la sua Lucrezia, disse: Facciamo mellio, andiamo ora come noi siamo, e veggiamo co li occhi nostri quale è più onesta delle nostre donne. Ciascuno loda lo fatto, montano a cavallo e vegnano a Roma, e truovano la donna di Sesto cantare e ballare e darsi buono tempo; vegnano poi a Collazia, e truovano Lucrezia in mezzo delle cameriere filare a lume del candelo; unde fu data la vittoria a Collatino per onestà di Lucrezia. Piacque tanto a Sesto Lucrezia in quella notte ancora per l’onestà sua, che elli s’innamorò di lei, e dopo poghi giorni venne con uno compagno a Collazia; et iunto quive di notte, come figliuolo del re e parente di Collatino fu ricevuto onorevilmente, e cenato 35 fu menato ad una onorevile camera, nella quale stato tanto che credette ch’ognuno dormisse, se n’andò a la camera di Lucrezia che dormia; postoli [p. 185 modifica]la mano al petto, coll’altra teneva lo coltello in mano e diceva. Lucrezia, io sono Sesto et òne lo coltello nudo in mano, se non consenti a la voluntà mia, io t’ucciderò, et oltra le minaccie adiungea preghi. A questo Lucrezia svegliata, sostenea morte innanti che volere perdere sua castità; ma dicendo Tarquino Sesto: Poi ch’io t’arò uccisa, ucciderò uno servo e porrottelo allato, e dirò ch’io v’abbia trovato insieme, allora quella che non temeva la morte, temendo la infamia lassò fare a Sesto contra a sua voglia la sua voluntà. E la mattina non uscendo del letto per dolore, mandò nell’oste per lo padre e per lo marito dicendo che subito venisseno colli parenti a Collazia per certo grande bisogno. Avuto l’ambasciata, vegnano subito Spurio Lucrezio con Publio Valerio e Collatino con Iunio Bruto, ch’erano già insieme in via che tornavano a Roma; et iunti a Collazia tutti e quattro, trovorno Lucrezia in sul letto; unde meravigliandosi dimandòno: Or non stanno salve le cose, Lucrezia, che cosa è questa? A che ella risponde: Come possano essere salve le cose, che le pedate d’altro uomo sono state nel letto tuo, Collatino? Sesto à vituperato la mia onestà; voi, se serete omini, vendicherete questa iniuria: io farò bene che per esemplo di me nessuna romperà mai sua castità: io m’assolvo da la colpa; ma non mi libero da la pena; e cavato lo coltello fuora, che tenea sotto, si percosse et uccise. Unde levato lo pianto, cavato lo coltello della ferita, iurorno in su quello castissimo sangue innanti la iniuria ricevuta che mai non poseranno, che di questa iniuria faranno vendetta e che caccierano in esilio lo re con tutta la sua stirpe. E pigliano lo corpo di Lucrezia e pongonlo in su la piazza di Collazia, acciò che ognuno si provocasse contro il re per la presenzia del male; e presa quinde moltitudine di iovani armati, iurati d’essere a la finale destruzione del re, confermato la terra di rettori e poste guardie a le porti 36 che nessuno andasse a notificare nulla al re, vannosene a Roma e levano lo romore, e con autorità del Tribuno dei Militi, che era allotta Iunio Bruto, fu chiamato lo popolo a consilio; e con autorità del consiglio fu esposto Tarquinio et iudicato esule con tutta la sua stirpe, e Tullia donna del re fuggitte di Roma. E Bruto se ne andò nel campo con armata brigata ad Ardea, onde s’era già partito lo re per soccorrere Roma; e suscitato lo romore e’ fece scacciare li figliuoli e li suoi; e Tarquino, trovato a Roma le porte chiuse, fuggitte a Porsenna re di Chiusi; et allora furno fatti due Consuli che reggessono la republica, Iunio Bruto e Lucrezio Collatino; e però ben dice: Al dolor di Lucrezia; cioè infine al dolor, che ebbe Lucrezia, d’aver perduto per forza e per inganno la sua castità, per lo qual dolore sè medesima uccise, [p. 186 modifica]in sette regi; ben dice in sette regi: imperò che la città di Roma edificata da Romulo e Remo due fratelli, nipoti di Numitore, fu retta prima da loro; ma poco tempo durò: imperò che, essendo questione, edificata la città, tra Romulo e Remo, qual dovesse nominare la città e tenere lo reggimento di loro due, determinorno di stare a l’iudicio delli idii, e montorno l’uno in sul monte Palatino, cioè Romulo; e Remo, in su l’Aventino. E posto lo segno in aere, a Remo vennono in aere 6 avoltoi prima, unde tutti, quelli che erano con lui incominciorno a gridare e lodare l’augurio; e poi a Romulo n’apparveno 12, unde tutti li suoi incominciorno a gridare e lodare lo suo augurio, perchè era di più avoltoi, cioè due cotanta: unde la quistione nata tra’ fratelli maggiore che prima: imperò che l’uno voleva vincere per la priorità del tempo, e l’altro per lo maggiore numero degli avoltoi, Romulo uccise Remo nella contenzione, benchè altri dica che fu perchè passò le mura di rieto allo sparvieri che non erano troppo alte, che era pena capitale, sicchè Romulo per questa cagione lo facesse decapitare, dicendo che ’l faceva perchè altri a quello esemplo non s’avvezzasse ad uscire se non per le porte. Rimase solo Romulo, vinse le città vicine, come fu detto di sopra, et accumunò lo rengno con Tito Tacio re dei Sabini, e come fece lo tempio a Iove Feretrio, dove si ponevano le spoglie dei re, dove elli pose la prima, e poi non si truova che ve ne fussono poste se non due; e come poi morto Tito Tacio dei Sabini, e lo regno rimase poi solo a lui, e come elesse cento padri che consigliasseno la republica, come rapitte le femine, come detto fu di sopra e come fe 30 corte, c denominolle dai Sabini, come divise li cavalieri in 3 centurie, come combattette coi Fidenati, coi Veienti, sicchè poi stette in sigura pace lo rengno anni 40, poi come elli moritte, tolto via da una tempesta di tempo a la palude Capra, quando faceva parlamento, e mai non fu veduto più. Unde li Romani disseno che era fatto iddio, benchè altri dicano che, perchè poco si faceva amare da’ maggiori, ch’elli fusse morto dai padri et appiattato e così credeva lo popolo, se non che Proculo Iulo disse ch’elli gli era apparitoli e dettoli la sua deificazione, e come Roma doveva essere capo del mondo; e durò lo imperio di Romulo anni 37. Dopo Romulo fu eletto re Numa Pompilio sabinese, omo iustissimo et onoratore delli idii, lo quale non intese se non a culto divino, et a fare tempi a li idii, ordinare sacerdoti, et elli istituitte le Vergini Vestali, elli fece lo tempio di Iano che aperto significasse guerra, e chiuso pace, elli fece leggi iustissime co le quali lo popolo romano dovesse osservare, e resse la città in sì fatti costumi che li popoli circustanti s’astenevano d’offendere li Romani sì come religiosi et accetti a li idii temendo di quinde offendere li idii; e tenne lo imperio Numma anni 43, et [p. 187 modifica]iti pace e quiete morì siccome era vissuto. Dopo Numma succedè nel rengno Tulio Ostilio, nipote d’Ostilio che combattette contra’ Sabini alla rocca molto laudevilemente, lo quale fu più feroce che Romulo; e perchè era iovano e parevali che la città invecchiasse per la pace, mosse guerra a le parti vicine e prima agli Albani; nella quale guerra fu fatto lo combattimento dei tre Orazi, dei tre Curiazi Albani detto di sopra, e fu subiugata Alba ai Romani; sotto costui facente coi Veienti e Fidenati guerra, Mezio Suffecio duca delli Albani usò Io tradimento, unde Tullo lo fece squartare a quattro cavalli; sotto costui s’accrebbe la città, adiuntovi lo monte Celio; sotto costui fu anco fatto battaglia coi Sabini e Veienti; sotto costui fu disfatta Alba, et a certo tempo piovuto nei monti d’Alba pietre, et audito voci, fu istituito lo sacro Novendiale. A la fine infermato Tulio Ostilio diedesi ai sacrifici et al culto de li idii; ma perchè li sacrifici di Iove Elicio non fece con quella cura che si conveniva, dicesi che fu fulminato, et arse egli e ’l palazzo suo; regnò Tulio anni 32. Di po’ Tullo fu eletto Anco Marzio nato della figliuola di Numa Pompilio, lo quale incominciò prima a reducere li sacrifici delli idii in devota religione; unde gli Latini, quasi dispregiandolo come prete 37, mosseno guerra ai Romani togliendo preda di sul terreno di Roma; e mandato imbasciaria a dimandare le cose tolte, fu vituperosamente risposto da’ Latini. Unde Anco, lassato li sacrifici ai preti, mosse guerra contra a’ Latini e prese una città che si chiamava Politorio; e vinto li Latini, fu accresciuta la città messo dentro lo monte Aventino et Ianiculo, e fatto lo ponte Sublicio sopra lo Tevere. Sotto Anco Marzio venne Lucumo da Tarquini, figliuolo di Demarato, lo quale cittadino di Corinto per sedizione s’era partito della sua città e venuto ad abitare a Tarquini, et ebbe quine due figliuoli della donna che avea menata seco; cioè Lucumo detto di sopra, et Arunte lo quale moritte innanti a Demarato suo padre, lassando la sua donna gravida. Pogo di poi morì Demarato, e non sapendo che la nuora fusse pregna, lassò erede del tutto Lucumo lo quale essendo molto ricco prese una gentil donna di Tarquini strutta nello augurio, chiamata Tanaquil per donna molto saputa. E perchè a Tarquini era poco onorato, per consiglio di Tanaquil venne Lucumo ad abitare a Roma, e subitamente si fece cognoscere colla sua virtù e fu chiamato Lucumo Tarquinio Prisco; e venuto in amicizia con Anco Marzio, di tutte le cose secrete era participe in tanto che, venendo lo re a morte, lassò Lucumo tutore ai figliuoli nel testamento; e così morì Anco che avea tenuto lo imperio anni 24. Rimaso Lucumo Tarquinio Prisco tutore dei figliuoli d’Anco Marzio, venendo lo tempo che si [p. 188 modifica]dovea eleggere lo re, mandò li figliuoli del re Anco a cacciare, et elli si fe eleggere re dal popolo. Questi accrebbe lo numero dei Padri, adiungendovi cento di minore grado che gli altri, acciò che questi sempre tenessono la parte sua. Questi fece guerra coi Latini e vinseli, ordinò li luoghi da sedere ai Padri nello spettaculo, ancora fe battaglia coi Sabini, adiunse tre centurie a quelle di Romulo sotto quelli medesimi nomi, et allora avvenne che l’augure talliò la pietra col rasoio, ebbe vittoria de’ Sabini, prese alquante città dei Latini, Corniculo, Ficulnea, Cameria, Crustumeno, Ameriola, Menilla 38, e Nomento. E quando prese Corniculo, prese la donna di Tullio Servio principe di Corniculo, lo quale fu morto nella battaglia e per la sua nobiltà la tenne in casa onoratamente, e parturitte uno figliuolo, lo quale fu chiamato Servio Tullio per lo nome del padre, lo quale la reina Tanaquil e lo re Lucumo, tenuto lo regno anni 38, li figliuoli d’Anco Marzio tenendosi ingannati da Lucumo, assalitteno lo re et uccisello 39. E Tanaquil fece subitamente pigliare la signoria al genero; cioè a Servio Tullio, e tenne la signoria uno tempo con voluntà dei Padri; ma non con voluntà del populo. Servio Tullio, preso lo regno, come detto fu di sopra, dopo la morte di Lucumo Tarquinio Prisco, vedendo che li figliuoli d’Anco aveano morto Lucumo Tarquinio per lo regno et erano iti in esilio a Sessa e Pomezia, temendo nei figliuoli di Tarquino Prisco, cioè Lucio et Arunte, facessono lo simile a lui, diede loro due sue figliuole per donne, cioè la maggiore che era chiamata Tullia al maggiore, cioè Lucio; e la minore Tullia al minore, cioè Arunte. E come volse la fortuna come queste due suori erano l’una buona e l’altra ria; così li due fratelli erano l’uno buono e l’altro rio, e la buona venne al rio, e la ria al buono, e fece tanto la ria col cugnato rio ch’elli uccise la moglie buona, et ella uccise lo suo marito buono, e poi feceno nuovo parentado insieme, iungendosi Tullia ria che era la minore a Lucio Tarquinio che era lo maggiore, non impacciandosi di queste lo re. Questo Tullio Servio fece battaglia coi Veienti e Toscani, fece ancora lo stimo 40 in Roma et ordinò le classe cinque secondo lo stimo, e fece fare una mostra generale nel campo Marzio e furno trovati ottanta migliaia d’uomini d’arme li Romani, et accrebbe la città iugnendovi lo colle Quirinale e Ruminale, fece lo tempio a Diana dia della castità; poi, quando li parve acquistato lo favore del popolo per tutte le sopra scritte cose fatte, si fece confermare lo rengno dal popolo. E durato nel rengno anni 44, Lucio Tarquinio fatto marito di Tullia [p. 189 modifica]minore, come fu detto di sopra, fece trattato con giovani, istigato e combattuto a ciò dalla moglie, et armato se n’andò al palazzo colla brigata dei iovani armati; e montato in su la sedia reale, mandò richiedendo li Padri, e fece loro orazione biasimando lo suo socero Servio Tullio, e lodando sè si prese la signoria. E venendo lo re a la corte per stroppiare lo fatto, et avendo la parte sua con seco 41, incominciò a riprendere Lucio, et elli a risponderli; et essendo lo romore grande: imperò che chi favoreggiava l’uno, e chi l’altro, Lucio vedendo che era mestieri di fare dei fatti, andossene in verso lo re e gittollo a terra della scala, e mandolli dirieto chi l’uccidesseno, et elli rimase in palazzo a ricevere li Padri per farsi eleggere in re, e prese la signoria senza essere eletto re. Venuta la novella a Tullia, che a ciò l’avea incitato, montò in sulla carretta et andossene al palazzo a far festa al marito che s’era fatto re; e trovando lo corpo del padre nella via morto, fermò la carretta allora l’auriga, perch’ella lo vedesse e mostroglielo; ella cognosciutolo, comandolli ch’andasse quinde, e fece andar la carretta su per lo corpo del padre, e d’allora in qua fu chiamato lo chiasso scelerato quella via. E questo fu lo fine di Servio Tullio lo quale, stato ottimo re alla città di Roma, fu privato di sepultura. Lucio Tarquinio figliuolo di Lucumo Prisco Tarquinio fu lo settimo re che prese la signoria, come detto è, e fu l’ultimo come appare per la storia detta di sopra di Lucrezia. Questi fu chiamato Superbo per li molti mali che fece; prima, che per sua autorità si prese lo regno e tennelo senza elezione, non lassò seppellire lo suocero dicendo che Romulo anche non fu sepolto, tutti li Padri che funno fautori del suocero uccise, trovando contra loro false cagioni; e perchè teneva lo regno per forza, si faceva guardare dagli armati, le condennagioni faceva senza autorità del Senato, et ogni cosa incominciò a fare solo per arrecare ogni cosa in sè. E non fidandosi dei suoi cittadini s’incominciò a fare forte coi forestieri, e però diede per donna la figliuola ad Ottavio Mamilio, che era molto grande appresso Latini. Questo fece sommergere nel fiume Turnio Erdonio, ch’era molto grande in Arizia, perchè avea detto male di lui, apponendoli che avesse fatto trattato contra di lui, quando si fe lo primo raunamento di quelli principi che erano capo dei popoli che erano del nome latino, cioè di tutti quelli che erano stati prima del re Latino, et usciti d’Alba. E poi fece lo secondo raunamento e mescolò insieme le brigate dell’arme dei Romani co li Latini, elli mosse prima la battaglia e guerra ai popoli Vulsci, popoli di Campagna, la quale durò dopo lui anni [p. 190 modifica]ducento; elli mosse guerra ai Gabi e con fraude et inganno li vinse, facendo vista d’avere cacciato Sesto suo figliuolo; et elli itosene a stare co’ ninnici del padre, movea e facea maggior guerra al padre che i Gabinesi: et acquistato più vittorie, perchè il padre si lassava sconfiggere, all’ultimo fu fatto signore dai Gabinesi, et allora mandò uno suo messo al padre Sesto, notificandoli come ogni cosa era nelle sue mani, e che li mandasse a dire quello che voleva che facesse. Et allora lo re Tarquino, non fidandosi forse del messo, non gli diede risposta; ma andatosene nel giardino andando qua e là, con una verga in mano come chi va spaziando, percotea colla verga tutti li più alti papardi 42 che vedeva ne l’orto, e faceva loro piegare lo collo. Lo messo li andava di rieto aspettando la risposta che dovesse portare a Sesto; e solicitando d’averla, vedendo che ’l re non li facea motto, credendo che per corruccio et isdegno non volesse rispondere al figliuolo, andossene; e ritornato a Sesto, disse che’l padre corrucciato contra di lui non gli avea voluto rispondere. Dimandò Sesto del modo che avea tenuto; uditolo, lo intese subitamente et incominciò a trovare cagione contra li grandi de la città, e quale decapitava e quale mandava a confine, e così privò, dispolliò la città di tutti buoni cittadini intanto che, avuta tutta la città nelle mani, non essendo chi contradicesse, la diede al padre. Avuto Gabi, fece patto coi Toscani, e pace colli Equi. Et intese all’opere della pace; cioè a l’edificare, e fece nella rocca lo tempio di Iove, lo quale lo padre Tarquinio Prisco avea promesso, per lassare del padre e di sè memoria. Et acciò che nella rocca non fusse altro tempio che quel di Iove, fece alli auguri dimandare li dii che aveano li tempi ne la rocca, se si volevano partire e lassare libera la rocca a Iove; tutti rispuoseno secondo l’augurio de li uccelli che sì, salvo che ’l tempio del Termine, nel quale li uccelli niente dissono. Unde tutti compreseno che lo dio Termine non si voleva mutare della rocca; ma li altri sì, e di quinci presono augurio che lo imperio dei Romani dovea durare in perpetuo: imperò che lo dio era stato immutabile, che era sengno che lo termine dello imperio non si dovea mutare. Ancora facendo fare lo tempio ad Iove, cavando lo fondamento fu trovato uno capo umano intero, e di quinci presono li auguri augurio che lo imperio di Roma dovea essere capo del mondo, e però fu chiamato poi lo luogo Capitolio del capo umano. Fece fare li sedili alti di legname nel cerchio dove stesse 43 lo popolo e li Padri a li spettaculi; fece fare uno ricettaculo di tutte l’acque e brutture di Roma che portava ogni cosa nel fiume, e di quinde in [p. 191 modifica]mare; mandò nuovi abitatori dei Romani a Signa 44 et a Circeoli, per ampliare lo suo imperio. E mentre che faceva queste cose, venne uno grande mostro, lo quale mise maggiore suspetto al re che paura; imperò ch’elli vidde uno serpente uscire d’una colonna di legno di quelle ch’ erano presso al suo palazzo, per la quale molta gente spaventata corse nel suo palazzo; unde elli si diliberò di mandare in Grecia in Delfo all’oraculo d’Apolline, acciò che sapesse quello che significava, e mandòvi due suoi figliuoli; cioè Tito et Arunte, e questi menomo 45 seco come per iullare Iunio Tarquinio figliuolo de la suore del re, lo quale si chiamava Bruto per li atti brutali ch’elli faceva e mostrava studiosamente, perch’elli avea veduto che’l re Tarquino tutti gli omini savi uccidea, et avea morto un suo fratello di quello Bruto, perchè ebbe paura che risistesse alla sua potenzia; e per questo, per non essere morto, s’infingeva stolto e lassavasi togliere il suo al re, e mostrava di non curarsene. E sentendo ch’elli dovea andare a l’oraculo d’Appolline, e là non s'andava senza portare grande dono allo dio, mise in una canna dell’oro, e disse addimandato dai figliuoli del re per giuoco: Tu, Bruto, che portrai allo dio? rispuose: Questa canna; di che feciono beffe di lui, dicendo: Ben farai. Et iunti all’oraculo, li figliuoli del re offersono lo suo dono allo dio, e Bruto la sua canna; et avuto la risposta del mostro, perchè erano iti, che significava fine del regno del padre, dimandorno lo dio chi dovea regnare dopo il padre, e lo dio rispuose: Chi prima di voi bacerà la madre. Bruto, che era presente, intese l’oraculo, fece vista di cadere e baciò la terra che è generale madre d’ogniuno; e quelli figliuoli del re, che nollo intesono, feceno alle sorte qual di loro dovesse baciare la madre, tornati che fussono, promettendo tra loro che Sesto, ch’era rimaso a casa, niente ne saprebbe. E tornati poi a casa loro, trovato che ’l padre loro avea mosso guerra ad Ardea, che era in Campagna; avvenuto lo caso che fu scritto di sopra di Lucrezia, lo re Tarquino fu cacciato, e Bruto Iunio suo nipote con Lucio Tarquinio furono creati consuli, e furono li primi consuli. E cosi finitte lo regno di Tarquino Superbo 46 che regnò anni 45, e fu lo settimo e l’ultimo re, et incominciò lo [p. 192 modifica]reggimento dei consuli; e però ben dice lo testo: in sette regi: imperò che sette re abbiamo contati, Vincendo intorno le parti vicine; come appare per le storie dette di sopra. E ben dice a Dante ch’elli sapea: imperò che queste istorie avea letto in Tito Livio, e di quinde l’ò cavate del primo libro della prima decade, et abbreviatole 47 lo più che io ò potuto.

C. VI — v. 43-54. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come lo spirito, ch’elli àe indutto di sopra a parlare, continui 48 ancora lo suo parlare nella materia di sopra incominciata, cioè de le cose geste 49 dai Romani sotto la insengna dell’aquila, e dai loro imperadori, toccando tutte le loro istorie brevemente, dicendo così: Sai; cioè tu, Dante: imperò che ài letto le storie romane, quel che fe; cioè la insengna dell’aquila, portato da li egregi; cioè dai nobili: egregio è colui, che passa lo modo degli altri: imperò che gregario cavalieri si chiama 50 colui che non era ancora adornato d’alcuno adornamento di cavallaria, perchè egli era pari delli altri; ma egregio si dicea, cioè fuor della grece 51 delli altri, colui che per alcuna prodezza e gagliardia era onorato, secondo la sua opera, d’alcuno adornamento di milizia oltra agli altri, Romani; ben si può dire de’ Romani che fussono egregi: imperò che nell’opere virtuose e dell’armi avanzorno tutti gli altri, contra Brenno; questo Brenno fu duce dei Senoni che vennono di Francia, e passati in Toscana di Lombardia nella quale di lungo tempo inanti erano passati li Franceschi, vennono a Chiusi; e guerreggiando, li Chiusini si raccomandorno ai Romani, e li Romani mandorno imbasciaria ai Franceschi pregandoli che non dovessono fare guerra a li amici loro, e tanto furno voluntarosi l’ imbasciadori che uno di’ combattendosi, Quinto Fabio, uno de’ Fabi ch’era delli ambasciadori, uscitte nella battaglia et uccise lo capitano de’ Franceschi, non Brenno; ma uno altro che era loro duce. Allora li Franceschi, indegnati contra li Romani, lassorno stare li Chiusini, e mandorno imbasciadori ai Romani dimandando li Fabi ch’erano stati violatori de la ragione; et essendo fatti tribuni li Fabi, e male risposto a li ambasciadori, presono la guerra li Franceschi contra li Romani, e cavalcato subitamente vennono ad uno fiume che si chiama Alia presso a Roma, a diece miglia 52. E venuto quine, li Romani furno sconfitti, e li Franceschi se ne vennono in Roma e presono tutta la città, salvo che la rocca tarpeia, la quale fu difesa per l’oche che gridorno la notte che li [p. 193 modifica]Franceschi furtivamente si sforzorno di pigliare: imperò che Marco Mallio guardiano della rocca, cogli altri Romani che v’ erano intrati, svegliato per lo grido dell’oche, svegliò gli altri e soccorse a luogo, unde montavano li Franceschi, li quali già altra volta s’erano provati d’acquistarla; ma n’erano stati mandati male accomiatati, et anco avevano provato delle sconfitte date loro dai Romani: imperò che, andati per la vettovaglia ad Ardea, nella quale città era Quinto Furio Cammillo, mandato in esilio dai Romani, furno sconfitti da lui coll’aiuto degli Ardeati e de’ Romani che erano a Veghi 53, fuggiti per la sconfitta che ebbono a Veghi e per la presura della città. Et avendo avuta questa vittoria, volseno li Romani fare Cammillo dittatore; ma Camillo, non accettato mai insino che non ebbe lo mandato da coloro che tenevano 54 la terra, et avuta l’autorità, venne ad abitare a Veghi colli altri Romani, e misse in concio l’essercito. In quello mezzo, essendo assediata la rocca dai Franceschi e non avendovi di che vivere, vennono a patto li Romani coi Franceschi ch’elli si dovessono partire dando loro mille libbre d’oro: e pesandosi l’oro, essendo mossa questione da uno dei Franceschi che schernia li Romani, dicendo che ’l peso non era buono, ponendo lo coltello in sul peso, in quel mezzo venne una voce gridando che lo patto non valeva, che era fatto senza voluntà del dittatore. E questa voce venne da Camillo, che venne a soccorrere la rocca e parlò con Brenno e dissegli che s’apparecchiasse a battaglia: che lo patto, fatto per li minori officiali senza la voluntà dei maggiori, non vale; et allora combattettono in Roma, e furno sconfitti li Franceschi e cacciati infine ad otto milia fuori della città per la via gabinia, e quine furno sconfitti da capo 55, sicchè non ne rimase pur uno che portasse la novella. E così ben finge l’autore che quello spirito li dicesse: Tu sai quello che fece la insegna de l’aquila, che portò Cammillo contra Brenno duce de’ Senoni, ricoverando l’onore della sua patria essendone sbandito, e contra Pirro; questo Pirro fu re delli Epiroti che sono popoli di Grecia che abitavano in Epiro, la quale contrada è vicina a la Calavria dove è Taranto 56. Et essendo li Tarentini fatti inimici dei Romani per iniuria che aveano fatto ai Romani: imperò che, ne l’anno 464, ab Urbe condita, passando le galee dei Romani a Taranto, li Tarentini mandorno a pigliarle et ucciseno tutti li ufficiali e li utili a combattere, e gli altri per servi vendettono, solamente quattro galee camporno che fuggitteno; e mandato li ambasciadori li Romani ai Tarentini, furno scherniti da’ Tarentini, [p. 194 modifica]unde li Romani con tutto loro sforzo vennono a vendicarsi dei Tarentini. Et allora per risistere alla potenzia dei Romani, perchè non crescessono nelle parti vicine grandi, Pirro le prese a difendere; e fatto maggiore dello esercito dei Romani, li sconfisse nella prima battaglia, menato di Grecia tutte le sue forze, e venti elefanti, e furono morti dei Romani pedoni 14880 e presi 310, e dei cavalieri morti 246 e presi 802, e 22 insegne perdute; ma di quelli di Pirro ne furno tanti morti che Pirro, avendo vinto, si chiamò perditore. Et altra volta vennono li Romani contra li Tarentini, et ancora Pirro li prese a difendere, e fu nella battaglia sconfitto dai Romani insieme coi Tarentini da Emilio consule, nel quale Pirro si partì ferito nel braccio e Fabrizio romano legato ancora fedito, e morti sono in quella battaglia 5000 Romani, e di quelli di Pirro 20000, e le insegne di Pirro abbattute 53 e tolte, e dei Romani 11. E secondo Eutropio nel libro secondo si trova che Pirro volse corrompere Fabrizio, che era uno de’ legati dei Romani promettendoli che s’elli passasse a lui, li darebbe la quarta parte del suo rengno; la qual cosa rifiutò, e promettendoli di dare grande quantità d’oro, et elli tradisse Roma, rispuose che li Romani non volevano l’oro; ma signoreggiare a coloro che possedevano l’oro. E poi anco la terza volta fu sconfitto dai Romani, quando tornava di Sicilia dove era stato re dei Siracusani, da Curio e Fabrizio consuli dei Romani, alli quali Timocrate offerse la morte di Pirro, perchè lo figliuolo servia di coppa a Pirro; la qual cosa rifiutorno ellino e lo senato, e mandorno a dire a Pirro che si guardasse dai veneni. E questa sconfitta fu fatta nei campi d’Arusia 57; nella quale battaglia furno morti di quelli di Pirro 34000 e presi 1300; e poi in Grecia morì, in Acaia della Grecia appresso una città che si chiamava Argo, percosso da uno sasso. E contra li altri principi; li quali vinsono li Romani e subiugorno al romano imperio, andando contra di loro colla insegna dell’aquila, e collegi; cioè cittadini e comitadi e gente collegate insieme, le quali li Romani vinseno, siccome appare in Livio et in Paulo Orosio, Onde Torquato; questo fu Tito Mallio Torquato, lo quale fu della famiglia di Marco Mallio, lo quale difese lo Capitolio da’ Franceschi svegliato dall’oche. Questo Tito Mallio fu figliuolo di Lucio Mallio 58, nascoso [p. 195 modifica]dal detto Marco Mallio, e lui difese dai Tribuni, e fu chiamato Torquato: imperò che, venuto a singulare battaglia con licenzia del dittatore Tito Quinzio al ponte d’Aniene presso a Roma, in sul detto ponte con uno dei Franceschi, che pareva uno gigante e teneva lo ponte e portava uno fregio a collo, lo vinse e liberò lo ponte. E vinto quello Francesco che portava il fregio a collo in singulare battaglia, e levatoli lo fregio lo puose poi a sè, e però fu chiamato poi Torquato 59, e così li suoi descendenti, e di questa famiglia fu Boezio. Questa famiglia molte cose onorevili fece per li Romani; ma tra l’ altre, questo medesimo essendo consule con Fabio Decio, andati contra li Latini e li compagni dei Latini a Capua, si deliberò, secondo la visione che ebbono la notte, che quello esercito dovea vincere, lo imperadore del quale si desse per lo suo esercito, di darsi per lo esercito se vedessono ch’elli perdessono, e così fece Decio, inanti che Tito Mallio Torquato, e così rimase vincitore l’esercito romano. Ma inanti che venissono a battaglia, essendo ordinato che nessuno combattesse coi nimici senza licenzia delli imperadori, perchè temevano molto li Latini: imperò che erano quasi pari nello esercizio dell’arme, avvenne caso che lo figliuolo di Tito Mallio Torquato, andando co’suoi compagni ad ispiare lo campo dei nimici fu schernito da uno dei Latini che si chiamava Geminio 60 Mezio al quale rispuose come si convenia, e data la risposta fu dal detto Latino invitato di battaglia. E venuto lo giovano animoso a singulare battaglia con quello Latino, non ricordandosi del comandamento del padre, lo vinse; e tornando con grande allegrezza e colle spoglie del nimico al padre, lo padre lo condannò a morte e fecelo perquotere colla scura legato al palo; e questo fece per dare terrore agli altri, acciò che nessuno uscisse del comandamento, e di costui dice Virgilio nel vi: 61 Saevumque securi Aspice Torquatum — . e Quinzio; questo Quinzio fu quello, come dice lo testo, che fu chiamato Cincinnato; cioè capelluto: imperò che portava li capelli molto arrufati e pendenti giù da la fronte senza avere cura di sua politezza: cincinno tanto è a dire quanto capello 62, e però Cincinnato, cioè capelluto, e però dice, che; cioè lo quale, dal cirro, cioè dal capello 63, Negletto; cioè non curato, nè polito, fu nomato; cioè chiamato Cincinnato. Questi fu Lucio Quinzio [p. 196 modifica]lo quale ebbe lo figliuolo chiamato Cesone, lo quale era molto forte et animoso, e nella discordia che ebbono li patrici col popolo, battette uno dei tribuni del popolo; per la qual cosa fu mandato in esilio e condennato tanto, che ’l padre impoverito tornò a stare di là dal Tevere in una sua villa dove aveva uno suo podere che era quattro giugeri; cioè quanto in uno di’ possono arare 64 quattro iugi. E stando quine fu mossa guerra ai Romani da’ Sabini, e fu preso lo 65 Capitolio da li sbanditi sotto Appio Erdonio sabino, e con difficultà fu racquistata la rocca, mortovi uno dei consoli che avea nome Publio Valerio, lo quale fu sotterrato dello avere gittato in casa sua dal popolo per la grazia, ch’elli avea acquistata dal popolo per le sue buone opere, e fu ancora morto Erdonio sabino, principe degli sbanditi; e tutti questi mali avvenivano per la discordia tra li padri e ’l popolo. Avvenne anco poi che li Equi si mossono sotto Glacco Clelio loro duce contra li Romani, et andorno a predare in su quello dei Latini, e poi a Tusculo che è quella terra che si chiama ora Toscanella, e poi s’accamporno ne l’Algido, unde si mossene li consuli; e l’uno cioè Lucio Nauzio andò contra’ Sabini a fare vendetta del guasto che aveano dato ai Romani, e fe sì grande vendetta che l’danno ricevuto fu nulla a petto del dato. L’altro consule, cioè Lucio Minuzio 66, andò in Algido contra li Equi, e fu sì poco felice ch’elli si lassò rinchiudere in su uno colle dai nimici; unde venuta la novella a Roma reputandosi lo stato della republica in mali termini, piacque ai Padri di chiamare uno dittatore e fu chiamato Lucio Quinzio Cincinnato, lo quale aveva la sua terra di là dal Tevere; e levato dall’aratro e menato al palazzo, la notte pensò quello che dovea fare, l’altro di’ 67 comandò ch’ogniuno seguisse l’insenge portando vettovaglia per cinque di’, e dodici pali. E chiamato li officiali che si conveniva, andossene nel campo dei nimici, et espiato ogni cosa, di notte iunto là e riposato un poco, la gente, comanda che suonino gli strumenti bellici, onde li nimici di ciò spaventati, non sapeano che farsi o se andassono a quelli che si sentiano d’intorno, o se andasseno da quelli che erano assediati; e quelli che erano assediati sentendo li stromenti, credendo quello che era; cioè che fusse venuto lo loro soccorso, si misseno fuora del campo et assalittono li nimici, e li nimici intesono a combattere con loro. Et in quello mezzo lo dittatore fece fare gli fossi e gli steccati intorno ai nimici; unde volendo li nimici farsi a loro non potettono, unde convenne che si dessono al dittatore, salve le persone, perduto l’avere; unde tutti li lassò andare, messoli sotto ’l [p. 197 modifica]giugo, cioè sotto le forche di tre aste fatte, onde passavano ad uno ad uno in segno di soiugazione e di servitù. Et avuto la vittoria e campato li suoi, tornato a Roma lo dettatore si spogliò dello ufficio, avvegna che lo avesse potuto tenere, e tornossi a lavorare la terra, e non tenne la dittatura, se non sei di’, avvegna che fusse eletto per sei mesi. Così fatti vorrebbono essere li cittadini de le città nostre; ma si trovano fatti come Appio Claudio, che si sforzò di tenere lo decemvirato con gli altri continuo, durante la vita sua; e così gli adivenne che per lo continuo officio, che volse tenere, moritte inanzi la morte sua naturale e finitte la vita collo offizio. E molti altri grandi et eccellenti fatti et atti fece Quinzio Cincinnato per la republica, unde meritò ben d’essere nomato, e Deci; questi Deci furno virtuosi Romani e popolari et amantissimi della republica, e furno tra gli altri due, che si dierno e promiseno alli iddii per tutto lo loro popolo, dei quali l’uno si diede nella battaglia che ebbono li Romani contra li Latini e compagni68 a Capua città, capo di Campagna a piè del monte Vesuvio, e fu padre dell’altro Decio; e l’altro Decio fu figliuolo del primo, e similmente si diede nella battaglia contra li Franceschi per lo popolo di Roma a la morte; per la qual morte seguitò poi vittoria al popolo di Roma. Recita Tito Livio nella prima decade lib. viii che, essendo li Latini et i loro compagni levati contra li Romani, e contra voluntà dei Romani avendo mosso guerra ai Sanniti, li Romani mandorno a defensione dei Sanniti Tito Mallio Torquato, che già tre volte era stato consule contando questa, e Publio Decio Mure, consuli creati per questa guerra che di nuovo era suscitata dai Latini. Et essendo pervenuti co li eserciti a Vesuvio69, sognorno amenduni li consuli che una imagine maggiore che uomo apparia loro, e dicea che dall’una parte dovea morire lo consule e dall’altra doveva essere sconfitto l’esercito; e quello popolo arebbe vittoria, lo imperadore del quale si desse all’idii per lo populo; et avuto li consuli ragionamento insieme, deliberarno di fare sacrificio a li dii, e che gli auguri vedessono se a li dii piacesse quello che lo sogno avea mostrato di ciò, che l’uno dei consuli a ciò si disponesse. Et avuta risposta da li aruspici che così era, in presenzia del popolo dichiarato questo, a ciò che l’esercito non spaventasse70 per la morte dei consuli, fenno patto tra loro che quello consule si desse alla morte, da la quale parte incominciasse l’esercito a dare luogo ai nimici. E venuti a battaglia, incominciò da la parte di [p. 198 modifica]Decio l’esercito non reggere l’impeto dei Latini; unde Decio chiamò Marco Valerio che era publico sacerdote del popolo di Roma, e disse che dicesse le parole che si convenivano a tale atto. Et allora lo pontifice comandò a Decio ch’elli si vestisse la pretesta e velassesi lo capo, e tenesse colla sua mano il manto, e la lancia sotto li piedi suo’ si mettesse e dicesse le infrascritte parole: Iano, Iove, Marte, Padre Quirino, Bellona, Lari, dii novensili, dii indigeti, iddii de’ quali è la podestà nostra e dei nimici, e dii infernali, io vi prego et onoro e dimandovi perdono e desidero che al popolo romano prosperiate la vittoria e la forza, e li nimici del popolo di Roma tormentiate con paura e morte; e così com’io v’ò chiamato per lo popolo romano e per tutto lo suo esercito, me e li nimici prometto e do alli idii dello inferno, et alla terra. E ditte queste parole, mandò li suoi officiali a nuuziare all’altro consule com’elli s’era dato per l’esercito; e cintosi armato, saltò a cavallo et in mezzo dei nimici si misse, e tanto paura intrò allora nei nimici che tutti incominciorno a fuggire. E morto che fu Decio, lo cavallo suo dovunqua andava, spaventava li nimici, e davansi in fuga; e come perveniano a luogo dove era morto Decio, non si potevano tenere che non spaventasseno, e così furno sconfitti li Latini, e li Romani ebbono la vittoria. L’altro Decio; cioè lo figliuolo del soprascritto Decio, essendo consule con Quinzio Fabio, andati contra l’esercito dei Franceschi e dei Sanniti e dei Toscani et Umbri a Sentino , che era in Sannio, et accampatosi ordinorno di combattere coi nimici; e venutosi a la battaglia, vedendo Publio Decio la ferocità dei Franceschi e degli altri nimici, vedendo fuggire li suoi arricordandosi del padre che s’era dato per lo popolo di Roma, venneli in cuore di fare lo simile, e mandò li suoi officiali a Fabio notificandoli la sua morte. E datosi a li iddii per lo modo che aveva fatto lo padre, messosi fra i nimici, li spaventò sì colla sua morte che tutti li misse in fuga, et allora furno li Romani vincitori e furno morti dei nimici 25 mila et 8 mila presi, e dello esercito di Publio Decio morti 7 mila e dello esercito di Fabio mille, secondo che scrive Tito Livio nella detta decade lib. x. e Fabi; ora finge l’autore che l’detto spirito; cioè Iustiniani, nominasse ancora li Fabi, li quali furno in Roma grande famiglia, e furno de’ patrizi e trovornosi trecento sei uomini d’arme; et avendo guerra li Romani coi Veienti, essendo uno di loro consule, offerse al senato che la sua famiglia voleva fare la guerra coi Veientani e che volevano levare quella spesa al comune; e conceduto loro, uscitton fuora a campo et iunti al fiume Cremera s’accamporno e feciono molte scorrerie in sul veientano 71 e menornone grandissime prede, et anco assai [p. 199 modifica]volte in battaglia ordinata li sconfisseno. All’ultimo li Veientani, arrecandosi ad onta questo fatto, ordinorno di giungerli con insidie, e così per farli bene siguri, più volte si lassarno predare, e scacciare; et uno di’, posto l’agguaito 72 in una grande pianura et apparecchiato una grande preda di bestiame, li Fabi corseno sfrenatamente ad essa, e passato l’agguato uscittono fuora li nimici loro addosso et intorneolli; et ellino, fatto capo grosso, uscittono tra loro e ricoverorno in su uno monte, e li Veientani intorneato quello monte ne presono un altro più alto che veniva sopra quello, e descendendo a loro, tutti li Fabi 306 uccisono, che non ne campò niuno. E tutta la famiglia peritte allora se non uno garzone che, perchè non era anco atto all’arme, era rimaso a Roma, e questi fece poi anco grande cose contra li Veienti e li Toscani, come appare in Tito Livio nella detta decade nel libro terzio. Di questo Fabio discese quello Fabio che vinse li Toscani, come appare di sopra, e li Franceschi in Sannio; e di costui discese Fabio Massimo, che indugiando e tenendo a bada Anibale, ricoverò la republica dei Romani, straccandolo anni 17 codeandolo qua e là per l’Italia, e però da lui dice Virgilio nel libro sesto: Quo fessum rapitis, Fabii? tu maximus ille es Unus qui nobis cunctando restituis rem — . Ebber la fama; cioè li sopradetti nomati, cioè Tito Mallio Torquato, Lucio Quinzio Cincinnato, Deci e Fabi ebbono la fama, che è di loro appresso coloro che leggeno le storie Romane, che; cioè la qual fama, volentier mirro 73; cioè miro, cioè lodo io Iustiniano; ma è scritto per due r per la consonanzia della rima. E ben si conviene che lo imperadore volentieri lodi la fama dei virtuosi Romani, perchè furono cagione di stabilire e fermare lo romano imperio; et anco perchè l’autore finge che ’l trovasse nella vita beata nel cielo di Mercurio, convenientemente finge ch’elli volentieri lodi la fama dei virtuosi. Elli; cioè lo segno dell’aquila, atterrò l’orgollio degli Arabi; qui finge l’autore che Iustiniano, continuando lo suo parlare, racconta come li Romani sotto la insegna dell’aquila domorno la superbia de’ Cartaginesi, li quali li chiama Arabi: imperò che Dido figliuola del re Belo e moglie di Sicheo di Sidonia, ch’è in Siria, fu edificatrice di Cartagine, venuta da Sidonia in Africa, come è stato detto nella [p. 200 modifica]prima cantica. E perche Siria a tempo dell’autore già era venuta sotto il nome d’Arabia, alla quale è vicina, però chiama li Sidoni Arabi e li Fenici: Fenicia è lo nome della contrada, Sidon è lo nome della città, unde venne Dido in Africa quando fece Cartagine; e però li Cartaginesi chiama l’autore Arabi, perchè ebbono origine delli Arabi per lo modo che detto è, et ora anco chiamano quelli di Tunisi, che è città presso a quello luogo dove fu Cartagine edificata, Arabi certa gente che abita alla foresta e vive di preda, cavalcando e rubbando le contrade a modo di compagne, come si trova nelle storie Romane. Tre volte ebbono li Romani guerra coi Cartaginesi, e tutte e tre le volte sì li vinsono; la prima, vinti li Cartaginesi da’ Romani, e li Romani da’ Cartaginesi più e più volle: imperò che durò 23 anni, all’ultimo vinti li Cartaginesi feciono pace con loro, con patti che si dovessono partire li Cartaginesi di Sicilia e di Sardigna, e che in 20 anni dessono per ristoro delle spese fatte li Cartaginesi ai Romani tre milia talenti di quelli d’Eubeia 74, per equali parti ongni anno dei detti 20 anni. Ma questa pace non durò se non 23 anni: imperò che Annibaie figliuolo di Amilcare passò nella Spagna ad una città che v’aveano fatto li Cartaginesi, che anco si chiamava Cartagine, e combattette Sagunto ch’era città fidelissima de’ Romani contro l’onore dei Romani, e vinsela; et a l’imbasciadori romani, che erano iti a lamentarsi della pace rotta, fece vituperio non volendoli udire; onde mandato fue contro Annibale Cornelio Scipione console che menò seco uno suo fratello, ch’ebbe nome Gneo Scipione, et uno suo figliuolo che fu chiamato Cornelio Scipione, e così s’incominciò la battaglia seconda, e guerra coi Cartaginesi, et amenduni li Scipioni fratelli vi furno morti; ma innanti che morissono, avendo vittoria Annibale, si misse per la Francia e venne a passare l’alpe, che sono tra la Francia e Lombardia per venire a Roma; e però finge l’autore che Iustiniano dica: Che; cioè li quali Arabi, dirieto ad Annibale; loro imperadore e duca, passaro L’alpestre rocche; cioè l’altezze de l’alpi, unde si comincia il monte Appennino che viene per mezzo d’Italia, stendendosi infine a la Sicilia: rocca tanto è a dire, quanto luogo alto che per la sua altezza è sigura dai nimici, et alpestre viene a dire dell’alpe: le dette alpe dividono la Francia da la Magna e da la Lombardia; e rivolgendo lo sermone al fiume: però che esce de le dette alpe e va per la Lombardia in verso l’oriente infine a Ravenna a Venezia, e quine per tre rami entra nel mare Adriaco, e però dice: di che; cioè della quale alpe, Po; cioè lo fiume Po di Lombardia: questo fiume appresso li autori è chiamato anco Eridano; unde [p. 201 modifica]Virgilio: Fluviorum rex Eridanus, camposque per omnes ec.— , tu labi; cioè descendi e scorri per la Lombardia. Contra lo detto Annibale venne Publio Scipione consule dei Romani di Francia, o vero di Spagna per tenere ad Annibale lo suo transito; e trovato che era già passato l’alpe per via fatta per forza in cinque di’ quando fu vinto a Pisa, venuto per mare lasciato lo fratello in Francia o vero in Ispagna co lo esercito che tenesse Asdrubale e Mago ch’erano rimasi in luogo d’Annibale, venne ad ostare ad Annibale al passo del Tesino 75 che è a Piagenza, e quine fu sconfitto e ferito nel braccio; e campato da la morte per lo figliuolo che era ancora adolescente, venne ad ostare poi nella Lombardia ad uno altro passo; cioè al fiume Trebbia, collo esercito suo ad Annibale, et al fiume Trebbia fu fatta l’altra battaglia, et anco furno sconfitti li Romani. Et in questo mezzo tornò l’altro consule di Sicilia, sentita la venuta d’Annibale in Italia; cioè Tito Sempronio, et anco fu vinto in quello luogo; unde intese pure Scipione al cammino suo e ritornò in Ispagna, e quine fu morto col fratello, come detto è di sopra. Et Annibale venendose a Roma, si misse a passare l’Appennino, lo quale passò con maggiore difficultà e danno che non avea passato l’alpe, e 17 anni stette in Italia, et oltra la detta sconfitta di Piagenza e di Trebbia due notabili ne diede ai Romani ancora; l’una in Puglia 76 a Canna dove furno morti 44 mila, e tanti nobili morti dei Romani che l’anella dell’oro dei nobili, raccolte moggia tre, ne mandò a Cartagine; et un’altra ne diede loro a Trasimeno lago di Perogia, dove elli perdette uno occhio per lo vegghiare e per lo freddo e per la nebbia del lago, e questa inanti a quella che fu a Canna in Puglia. E tra questa e quella fu fatto dittatore Fabio Massimo, del quale fu detto di sopra, lo quale codeando l’esercito d’Annibale secondo fece stentare molto per l’Italia, e venuta poi la sconfitta di Canna, poi che ’l dittatore renunziò alla dettatura e furno fatti nuovi consuli Lucio Emilio Paulo e Publio Terenzio Varrone, dei quali Paulo morì nella battaglia; et Annibale poi cavalcato infine a Roma, li Romani avendo l’esercito loro anco in Ispagna, nel quale erano stati morti amenduni li Scipioni consuli, feceno capitano Cornelio Scipione giovano di 24 anni, figliuolo e nipote dei detti due Scipioni, lo quale si proferse al senato, e lo senato vel mandò non trovando altro che vi volesse andare 77, e questi racquistò tutta la Spagna e vinse Cartagine ch’era in Ispagna e passò poi in Africa, e vinse anco li Cartaginesi, uccidendone molte migliaia, e dei loro [p. 202 modifica]duci assai; e così in Italia Annibale quando sconfiggeva, e quando era sconfitto. Ma li Cartaginesi, non potendosi difendere da Scipione, mandorno per Annibale che era in Italia, e venuto in Affrica combattè con Scipione, e fu vinto; unde finalmente si venne alla pace, e fatti sono li Cartaginesi tributari dei Romani, e durò questa battaglia seconda anni 17. E tornato Scipione a Roma, ebbe lo triunfo che fu chiamato Africano, perchè avea vinto in Africa; e durò questa pace anni 50. Poscia fu mossa la terza guerra, nella quale fu Scipione tribuno dei cavalieri figliuolo di Paulo Emilio legittimo e naturale, adottato dal figliuolo di Scipione Affricano superiore, sicchè per adozione era nipote del superiore che l’avea fatta tributaria, al quale fu commessa la guerra da’ Romani, fatto consule negli ultimi due anni nei quali prese Cartagine; sicchè l’avolo la fece tributaria e lo nipote la disfece, et amenduni furono detti Africani; ma questo ultimo non fu della casa dei Corneli, se non per adozione, ch’egli fu figliuolo naturale di Paulo Emilio, come detto è; et in quattro anni fu finita la guerra, e disfatta et arsa Cartagine, e li fuggitivi Romani e la reina con due suoi figliuoli si gittò nel fuoco, e secondo che scrive Paulo Orosio, 700 anni durò Cartagine. Ecco che ben fu atterrato l’orgoglio dei Cartaginesi dai Romani sotto la insegna dell’ aquila, Sottesso; continua Iustiniano, secondo che finge l’autore, lo suo ragionamento dicendo sotto esso 78 dell’aquila, iovanetti triunfaro; cioè ebbono lo triunfo essendo iovanetti, cioè inanti al tempo 79 decreto a tale dignità, che dovesse meritare triunfo: non poteva avere triunfo se non consule o dettatore, e dettatore nè consule poteva essere se non passava l’età d’anni 30. E Scipione superiore Affricano, essendo di 24 anni, ebbe lo consulato nella Spagna et in Affrica, come detto è di sopra, e vinto Cartagine nella Spagna et in Affrica l’altra Cartagine fattala tributaria, ebbe lo triunfo poi in Roma, e però dice Ovidio: Parcite natales 80, timidi, numerare Deorum: Cœsaribus virtus 81 contigit ante diem— . Scipione; cioè Affricano, del quale è stato detto di sopra che disfece Cartagine, come detto è, et assediò Numanzia, sicchè li Numantini messo fuoco nella città per non arrendersi, imbracciantisi prima tutti perittono et arsono, e li Romani tornorno con vittoria, e Scipione Affricano che era stato imperadore dello esercito essendo giovano, ebbe lo triunfo. e Pompeio; questi fu Gneo Pompeio, lo quale fu mandato in Ispagna con Pio Metello che era console, e fùvi morto Fiorino consule dei Romani [p. 203 modifica]nella villa che si chiamava Arnina che ora in su l’Arno, venuto li Fiesulani a combattere quine coi Romani; unde poi li Romani vi mandorno un altro consule ad espugnare Fiesuli 82, lo quale assediò la terra, in luogo di consule, contro Sertorio, et ebbono vittoria, e però ebbono lo triunfo, benchè Pompeio non fusse consule; ma in luogo di consule, e benchè non avesse ancora lo tempo, sicchè ben dice lo testo: iovanetti triunfaro: imperò che Scipione superiore Affricano e Gneo Pompeio si trovano avere avuto lo triunfo innanti avessono trenta anni, et a quel colle; cioè di Fiesoli, Sotto ’l qual; cioè di monte di Fiesoli, tu; cioè Dante, nascesti: imperò che Dante nacque in Fiorenza, e Fiorenza è sotto il monte di Fiesuli, parve amaro; cioè lo segno dell’aquila: imperò che nella sedizione catillinaria se n’andò a Fiesoli, e quine incominciò a congregare gente per venire contra a Roma, e ribellò Fiesuli dall’obbedienzia de’Romani; unde, scopertosi lo trattato per lo senno di Marco Tullio che fu fatto allora consule, due capitani colli eserciti per io senato mandati ad ostare agli apparecchi che si facevano per Italia, andorno l’uno contra Gaio Mallio; cioè Quinto Marzio re a Fiesuli dove era lo detto Gaio Mallio, e Quinto Metello Cretico in Puglia. Et amenduni li consuli, cioè Marco Tullio e Gaio Antonio, fu ordinato per li senatori che stessono a guardia della città, e li due pretori andassono; cioè Quinto Pompeio Ruso a Capua, e Quinto Metello Celer nel campo Piceno; e presi quelli della coniurazione che erano in Roma e condannati a morte, Catellina collo esercito suo partitosi da Fiesoli per andare in Lombardia, essendo nel piano di Pistoia, trovandosi chiuse le vie: imperò che di verso Lombardia nel campo Piceno era Quinto Metello Celer con tre legioni, e di verso Roma gli era venuto incontra Gaio Antonio consule che tuttavia li codeava, però s’arrecò con Antonio nel piano di Pistoia, nel quale luogo fu sconfitto, e fuggita parte dello esercito a Fiesuli, fu Fiesuli combattuto dai Romani et assediato; e combattuto 7 anni, alla fine fu avuto per patti e fu disfatto dai Romani. E li patti furno che Fiesoli si disfacesse e facessesi una città nella villa Arnina, che mezza fusse abitata dai Romani e mezza da’ Fiesulani, e perchè fusse chiamata Fiorenza per onore di Fiorino consule che quine fu morto; e però quelli che n’uscittono di Fiesuli co li Romani insieme edificorno Fiorenza poi, e così anco le reliquie dello esercito di Catellina edificorno Pistoia. E perchè Fiesuli ne stette assediato e funne disfatto, però finge l’autore che Iustiniano dica che al colle; cioè in sul quale era Fiesuli, sotto ’l [p. 204 modifica]quale nacque Dante: però che Fiorenza è sotto quello colle, parve amaro; lo segno de l’aquila: però che li Romani con quella insegna li sconfissono e guerreggiornoli tanto tempo, et all’ ultimo li disfeceno.

C. VI — v. 55-72. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Iustiniano, continuando lo suo parlare, disse le cose grandi fatte per Iulio Cesare, lo quale si trova chiamato dagli antichi Gaio Cesare; ma anco fu nomato un altro Gaio Cesare; ma fu figliuolo di Germanico, sì come dice Boezio nel primo libro della Filosofica Consolazione, quando dice: Respondissem Canii verbo, qui cum a Caio Caesare Germanici filio, conscius contra se coniurationis factae fuisse diceretur: Si ego, inquit, scissem, tu nescisses. Fu anco un altro, detto da Tullio nel libro primo delli Ofici Gaio Cesare figliuolo di Lucio, lo quale non credo che fusse Iulio Cesare: imperò che, quando unqua parla altro’ di lui, elli vi pone sì fatta adiunzione ch’elli vuole che si cognosca; e perchè non s’intendesse di lui, però credo ch’elli vi giungesse figliuolo di Lucio. Ma siano quantunqua si vuole li Gai Cesari, elli intende qui di Iulio Cesari narrando di lui quello che fece colla insegna dell’aquila, poichè fu chiamato dittatore insieme con Pompeio Mangno e con Marco Crasso: imperò che, essendo dettatori questi tre, occorse caso che si ribellorno li Parti e li Franceschi; et ai Parti fu mandato per lo senato Marco Grasso, et a’ Franceschi Iulio Cesari. E durante la dettatura anni 5, e non avendo fatto anco quello, per che v’era ito, scrisse al senato che li prorogasse l’officio per altri 5 anni, e non volendo fare lo senato, lo procacciò dal popolo; et avuto poi vittoria dei Franceschi, de l’inghilesi 83 et Ispagnuoli e di tutto l’occidente nelli altri 5 anni, tornato in Italia al fiume Rubicone di là da Rimino, dimandato lo triunfo, li fu negato dal senato più per invidia che per altra cagione, per ostare alla potenzia sua et a l’ardire, e massimamente Pompeio Mangno, che era stato suo genero, copertamente lo impedia e con onesti modi, e fecelo dannare al senato 84, e dal popolo li fu conceduto. Unde essendo partita la città, imperò che ’l popolo voleva avesse lo triunfo, e lo Senato non voleva, uscittono alquanti cittadini fuora a Cesari a confortarlo che venisse armata mano contra ’l senato, e così fe; unde lo senato si partitte di Roma et andossene per Italia inverso Pullia e Calavria, e Cesari collo esercito suo tenne loro dirieto. Et allora lo senato si partì d’Italia [p. 205 modifica]e passò in Grecia ad Epiro, e quine fu fatto Pompeio imperadore dello esercito, e Cesari diede volta e tornò a Roma e spogliò l’erario e pagò li suoi cavalieri, dividendo loro lo tesoro della camera di Roma, e tutti gli onori si fece concedere dal popolo. E sentendo che in Ispagna si tenea per lo senato Ilerda sotto Petreio, Affranio 85, cavalcò subitamente per la Provenza in Ispagna, e reggendosi a Marsilia, perchè li Marsilliesi non volseno obedire, anco tenevano la fede al senato di Roma, vi puose l’oste e lassòvi per capitano dell’ oste Quinto lo quale fu vinto in terra da’ Marsilliesi; unde venendo poi per mare co le galee, sconfisse li Marsilliesi et ebbe la città. Et in quel mezzo Cesari se n’andò in Ispangna, e vinto Petreio et Affranio, avendo recato a sua devozione tutto l’occidente, tornò a Roma, e di quinde se n’andò in Grecia; e dando sconfitte al senato e ricevendone, quando cacciando e quando essendo cacciato, pervennono amenduni li eserciti in Tessaglia e quine combattettono; nella qual battaglia fu sconfitto Pompeio, e fuggito in Egitto fu dicapitato dal re Tolomeo. E Cesari, perseguitatolo per mare, andò insin quine dove fu Troia 86, e volse vedere tutte l’antichità della gente troiana, della quale elli avea l’origine; e sentendo che Pompeio era ito in Egitto, andò in Egitto et inamorossi di Cleopatra sirocchia e moglie del re Tolomeo, e stettevi due anni. E trovato che lo re li faceva trattato contra, lo fece uccidere; e poi sentendo che l’esercito del senato si raunava in Affrica sotto Catone e Sesto e Gneo figliuoli di Pompeio, e che lo re Iuba gli dava aiuto, e già v’ era morto Scipione che v’era per Cesari, andossene là; e morto Catone et Iuba, perseguitò li figliuoli di Pompeio che fuggittono in Ispangna; et iunto Gneo in una città che si chiama Munda e morto, Sesto fuggì in Sicilia et andò corseggiando per mare, lo quale poi dopo lungo tempo fu vinto da Agrippa cugnato d’Ottaviano. Compiuta la battaglia, da Munda Cesari tornò in Roma, et, essendo signore del tutto, stette due anni e poi fu morto da Bruto e Cassio, consentente lo senato, con 24 ferite di stili d’ariento nel Capitolio, e dagli altri che ferno altrettanto. Et infine a questo punto l’autore tocca nel testo, fuorchè della morte di Cesari, dicendo così: Poi presso al tempo; dice Iustiniano a Dante, secondo che l’ autore finge, dopo li triunfi di Scipione e di Pompeio, li quali furno molto di lungi l’uno da l’altro, e dopo la sedizione catilinaria, presso al tempo, che tutto ’l del volle Ridur; cioè ridurre, lo mondo; cioè lo reggimento del mondo, a suo modo sereno; cioè a suo chiaro modo, cioè del cielo; e dice che tutto ’l del volle, per dare ad intendere che gli effetti quaggiù si produceno de le cagioni superiori, e dalle influenzie del cielo; ma [p. 206 modifica]notantemente dice tutto ’l Cielo: imperò che, a mutare lo reggimento del tutto, conveniano correre tutte le cagioni insieme; e dice: a suo modo sereno 87, perchè lo cielo è retto e governato da uno signore, e così volse lo cielo redur lo mondo che in tutto ’l mondo fusse uno monarca. Cesari; questi fu Iulio Cesari, del quale è stato detto di sopra, detto Iulio da la famiglia Iulia, la quale si dice discesa da Iulio Ascanio figliuolo d’Enea troiano, che fu origine dei Romani, come appare per le istorie dette dinanti. Cesari fu detto perchè nacque della famiglia d’uno Romano che prima fu detto Cesari, perchè nacque del ventre ceso 88 de la madre: imperò che morì innanti la madre che elli nascesse, e però fu bisogno che s’aprisse lo ventre della madre e che se ne cavasse lo feto, e però fu chiamato Cesari, quasi nato del ventre della madre ceso, e molti poi discesi da lui furno chiamati Cesari; e così questo perchè fusse detto Gaio 89, non l’ò trovato, o fue prenome suo o fue agnome. per voler di Roma; cioè legittimamente, secondo le legge e li statuti romani, eletto dittatore fu mandato a vincere li Franceschi, che s’erano ribellati dal romano imperio, il tolle; cioè la insegna dell’aquila. E quel che fe; cioè Cesari cola insegna dell’aquila, da Varo; questo è uno fiume posto nella fine della Lombardia e della Francia; e così è fine di Italia e della Francia, infine a Reno; questo è uno fiume che è tra la Francia e tra Lamagna, et esce d’uno monte col Rodano, lo quale va per la Francia e per la Provenza, discende poi in mare, Isara; questo è fiume che è nella Francia o vero nella Provenza, vidde: imperò che quelli popoli, che abitano appresso quello fiume, viddono e sentittono li fatti de’ Cesari, e Arar; questo è fiume ancora o di Provenza o di Francia molto piano; unde Lucano: Mitis Arar latias gaudet non ferre carinas — , e vidde Senna; questo è fiume che è a Parigi, e chiamasi Sequana in Grammatica 90, forsi che in volgare si chiama Senna; cioè quello che fece Cesari, Et ogni valle; ancora vidde quello che fece Cesari nella Provenza e nella Francia, onde ’l Rodono è pieno; cioè tutte le valli che ànno fiumi li quali discendono in Rodano: molti fiumi discendono in Rodono che vegnano per le valli della Provenza e della Francia, le quali sono abitate dai popoli, e quelli popoli viddono li gran fatti di Cesari: li grandi fiumi, che escono in del 91 mare, non sono grandi se non per li fiumicelli che entrano in essi. Questo è quello che Cesari fece, vincendo la Provenza, la Francia, l’ [p. 207 modifica]Inghilterra, e de la Spagna. Quel che fe poi; cioè poi che ebbe vinto le predetti 92 parti e tornò a Roma dopo li detti diece anni, ch’elli; cioè Cesari, uscì di Ravenna; questa è città di Romagna posta al mare adriaco, quine dove il Po entra in mare, dove capitò prima Cesari quando tornò di Francia, e quine stette ad aspettare che li senatori decernessono 93 ch’elli avesse lo triunfo; ma come detto, è li fu negato e dannato rio della maestà, perchè era stato gli altri 5 anni senza l’autorità del senato. E saltò Rubicon; questo è uno fiume che è in mezzo tra Ravenna et Arimino, e soleva essere fine della Italia; ma poi furno ampliati li fini 94 d’Italia, sì che si stesono infine a Venezia. Infine a questo fiume era licito a l’imperadori che tornavano colli eserciti di venire armati, poi doveano uscire et eliino e li eserciti disarmati come uomini di pace: e se veniano armati, era segno che venivano come nimici; e così venne Cesari armato co lo esercito, confortato da’ suoi parziali, nimici di Pompeio. E saltò; cioè passò Rubicone et intrò in Arimino, armato; e questo fu segno che veniva come nimico de la patria, fu di tal volo; cioè di tanta avaccianza 95 e di sì grande cammino: imperò che venne a Roma, e sentendo che Pompeio e ’l senato era a Capua andò loro dirieto, poi a Rrandigi 96; e partitosi Pompeio e ’l senato, di Brandigi ritornò a Roma come detto fu di sopra, Che nol seguiterea lingua; cioè che pienamente li potesse dire, nè penna; cioè che lo potesse scrivere. Inver la Spagna; cioè quando andò a vincere Pompeio et Affranio ad Ilerda, rivolse lo stolo; cioè l’esercito suo: lo stolo è armata di galee per mare; ma qui si pone impropriamente per l’esercito di terra. Poiché Pompeio fu uscito d’Italia e vinto Ilerda, tornò a Roma, e passò in Grecia, e però dice: Poi ver Durasso; cioè rivolse lo stuolo : Durasso è una città posta nella Grecia nel monte Epiro e chiamavasi anticamente lo monte Durasso, e la terra si chiamava Petra, et ora la terra si chiama Durasso. Questo fu quando Pompeio uscito di Brandigi, che è città di Calavria, in sul mare adriaco nella quale Cesari lo credette assediare, facciendo lo ponte a la cocca del ponte di legname in sul mare; ma Pompeio lo ruppe et uscittene, benchè due galee ultime rimanessono a combattere alla uscita, e fùnnovene morti assai e feriti, e pervenne a Durasso. E Cesari li tenne dirieto, e volse pigliare la terra; ma Pompeio vi fu inanti di lui; unde Cesari volendo assediare di verso la terra ferma, dov’è lo monte Isimo 97, fece uno muro che teneva da l’uno lato del mare a l’altro; ma Pompeio [p. 208 modifica]quando ne volse uscire lo ruppe; ma non n’escitte per allora, perchè Scevola tenne la rottura infin che venne Cesari, et allora si combattette fortemente, e fu vinto Cesari. E se Pompeio avesse seguitato, sarebbe stato al tutto vinto; ma Pompeio fece sonare a ricolta, e stando poi Pompeio in Durasso, et in tutta quella stanza che era d’entro al muro ebbe mortalità, e Cesari che era di fuora ebbe fame. E di quinde si partì Pompeio quando volse, et andossene a Tessaglia, e quine venne poi Cesari, e quive fu la grande battaglia dove fu sconfitto Pompeio, come è stato detto di sopra; e però dice, e Farsalia percosse; cioè Cesari colla insegna dell’aquila: Farsalia, Tesaglia, Beozia, Emazia è una medesima contrada e Macedonia, Sì; cioè in sì fatto modo, ch’al Nil; cioè a quello fiume che è in Egitto, che si chiama Nilo, l’origine del quale e la sua fonte non fu mai niuno che vedesse, e divide l’Asia da l’Affrica di verso mezzo di’, et entra in mare per sette bocche ad Alessandria; e ponsi qui lo Nilo per la contrada, cioè per lo Egitto, caldo si sentì del dolo; dice caldo, perchè nelle parti calde si sentì del dolo, cioè si ricevette dello inganno: imperò che Tolomeo per consiglio di Fotino mandò incontra a Pompeio per lo Nilo e per lo mare Achilla e Settimio, li quali facendo vista d’essere mandati perchè la piaggia v’è pericolosa, acciò che Pompeio ascendesse nel loro legnetto et andasse a terra, che co la sua grande galea non vi si sarebbe potuto accostare, quando l’ebbono in loro balia dilungati dalla galea, l’ucciseno e tagliorogli lo capo, e portornolo poi a Tolomeo, e Tolomeo lo fece poi imbalsimare per presentarlo a Cesari quando vi venisse, e così fece; ma Cesari mostrò d’averlo a dispiacere, come dice Lucano. E furnovi anco morti gli altri Romani che v’erano venuti con Pompeio, se non se la moglie di Pompeio e lo figliuolo che furno menati via, tra’ quali fu Pompeio Bitinico e Lentulo uomo consiliare. Potrebbe anco dire lo testo: Sì, ch’al Nil caldo si sentì del dolo; cioè per sì fatto modo Cesari percosse colla insegna dell’aquila Tesaglia, che ’l Nilo, cioè quel fiume, si sentì caldo del dolo; cioè si sentitte caldo per lo sangue umano che vi si sparse dentro, essendo caldo sì che lo riscaldò del dolo, cioè per lo dolo, cioè per lo inganno e tradimento che usò Tolomeo in verso Pompeio, facendolo uccidere e dicapitare sotto fede d’amicizia, e gli altri che erano con lui. Antandro; questa è una isola presso a Troia, la quale vidde Cesari quando andò a Troia, credendo che vi fusse Pompeio 98, e Simoenta; questo è uno fiume anco a Troia, unde si mosse; cioè dei quali luoghi si mosse la insegna dell’aquila, la quale portava Cesari in prima quando venneno li Troiani in Italia, Rividde; cioè (*) [v. [p. 209 modifica]la insegna dell’aquila, e là ove Ettore si cuba; cioè si giace: nel sepulcro anco rividde l’aquila. E mal per Tolomeo possa si scosse; cioè la insegna dell’aquila: imperò che trovato Cesari, quando fu a Troia, che Pompeio era ito in Egitto a re Tolomeo, volse le veli 99 inverso là et iunto fu onorevilmente ricevuto da Tolomeo, e presentògli la testa di Pompeio credendoli perciò molto 100 piacere; ma Cesari mostrò lo contrario, piangendo quando la vidde e dolendosi della morte sua. E per questo lo re Tolomeo incominciò a dubitare di Cesari, et anco perchè Cesari teneva Cleopatra che era sua sirocchia e moglie, e gli attori 101 suoi incominciorno appiattare lo tesoro reale, et accagionare Cesari che elli l’avesse tolto; ancora Achilla, principe de la milizia che avea sotto di sè 20 mila cavalieri, assalitte la casa reale per uccidere Cesari. E perchè 102 Tolomeo comandasse ch’elli si cessasse dall’arme non lo volse obedire; ma assalitte lo palazzo per terra e per mare, et allora Cesari difese lo palazzo e nelle galee fece mettere fuoco; et approssimate alle case della città, arseno assai case, e tra l’altre una casa nella quale era uno armario 103 di libri che erano 400 mila di vilumi 104. Poi Cesari uscitte dirieto del palazzo e ricolsesi in una isula che si chiama Faros, per tenere la bocca del Nilo, acciò che nessuno ne potesse uscire e li suoi per mare potessono venire a lui che erano sparti per l’Egitto. E quine anco Achilla l’assalitte per terra e per acqua, e fecesi grande battaglia, e molti de’ cavalieri di Cesari furno morti, e quine fu morto Fotino et Achilla; e Cesare oppresso da’ combattitori uscitte di quinde e salitte in una scafa, la quale per la moltitudine di quelli che ’l seguitorno, s’affondò, et elli notò dugento passi a la nave dei suoi che era quine, coll’una mano fuora dell’acqua per campare li libri che aveva scritti, e poi fece battaglia colli Alessandrini e vinseli, e rendette loro lo re Tolomeo che sempre avea preso e tenuto seco. L’ammonitte che più tosto volesse provare l’amicizia dei Romani che l’arme; ma incontenente anco lo re li mosse guerra, e fu vinto: imperò che 20 mila uomini furno morti in quella battaglia, 12 mila con 70 lunge 105 navi, cioè galee s’arrendetteno, 502 furno morti de’ Cesariani, e lo re Tolomeo ricolto in una scafa per fuggire, saltandovi molti suso andò a fondo et affogò, e lo corpo suo fu poi cognosciuto alle piagge per lo coretto dell’oro che avea indosso; lo quale coretto mandato per Cesari a li Alessandrini, li costrinse con quello ad arrendersi et allora diede lo regno d’Egitto a Cleopatra. E partitosi quinde, venuto per Siria [p. 210 modifica]vinse Farnace figliuolo del re Mitridate, e poi passò in Africa e vinse lo re Iuba Io quale diede pregio ad uno che l’uccidesse; e Catone, veduto perduta la libertà di Roma, sè medesimo uccise: e così poi Cesari ritornò a Roma, e fece le cose che sono dette di sopra. Basta a questa parte avere veduto come Tolomeo pericolò, sicchè male per lui si scosse la insegna de l’aquila. Inde; cioè da Tolomeo e da Egitto, discese; cioè la insegna dell’aquila, e Cesari con essa, folgorando; cioè andando come una fulgure per aire, ad Iuba; cioè al re Iuba d’Africa, che avea tenuto la parte di Pompeio e sconfisselo, come è detto di sopra. Poi; cioè che fece le predette cose, si rivolse; cioè Cesari colla insegna dell’aquila, nel vostro occidente; e ben dice: però che Iustiniano era stato a Costantinopoli, che è nella parte orientale per rispetto di Dante che era nella parte occidentale per rispetto dei Costantinopulitani, Ov’ei; cioè nel quale occidente elli, cioè Cesari, sentì; cioè Cesari, la pompeiana tuba; e questo dice per lo figliuolo di Pompeio, cioè Gneo, lo quale sconfisse al fiume Monda in Ispagna 106, e secondo Paulo Orosio, Petreio et Affrano 107; ma secondo quello 108 di Lucano, quello di Petreio et Affranio fu inanti la battaglia di Tessaglia. pompeiana tuba; s’intende la fama di Pompeio: imperò che la fama sona, come la tromba. E qui finisce la prima lezione del canto vi. Seguita la seconda; e se la prima fusse troppa lunga per le storie che vi sono, divida lo lettore come li piace: io l’ò abbreviate lo meglio che io òne saputo.

Di quel che fe col baiulo seguente ec. Questa è la seconda lezione del canto sesto, ne la quale lo nostro autore finge come Iustiniano, seguendo la sua diciaria che avea incominciato di sopra delle cose fatte colla insegna dell’aquila per li Romani, dice per le cose fatte per Ottaviano Augusto e delle cose fatte per Tiberio che fu terzo, e dei gibellini 109 che s’appropriano, e dei guelfi che si gli oppongano, e della condizione dell’anime che in questo secondo pianeto si rappresentano, e di quelli spiriti che vi sono ripresentati ne manifesta alcuno degno di loda. E però si divide questa lezione in cinque parti: imperò che prima finge che Iustiniano dica delle cose fatte da Ottaviano Augusto, che fu secondo imperadore dopo Cesari; nella seconda, delle cose fatte da Claudio Tiberio che fu terzio, et incominciasi quine: Ma ciò che ’l segno ec.; nella terza parte finge come Iustiniano, tornando a proposito, riprende li guelfi e li gibellini, et incominciasi quine: Ormai può’ iudicar ec.: nella quarta parte finge e ritorna a trattare di quelli spiriti che in quello [p. 211 modifica]secondo pianeto si rappresentano, dicendo la loro condizione, et incominciasi quine: Questa picciola stella ec.; nella quinta et ultima finge come spezialmente dica d’ uno virtuoso spirito, che fece grande cosa et ammirabile nella vita presente, et incominciasi quine: E dentro alla presente margarita ec. Divisa la lezione, ora è da vedere l’esposizione litterale coll’allegorica, o vero morale.

C. VI — v. 71-81. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Iustiniano, continuando lo suo parlare, dice, dopo le cose fatte da Iulio Cesare raccordate di sopra, di quelle che furno fatte da Divo Ottaviano Augusto co la insegna dell’aquila, lo quale fu secondo imperadore dopo Cesari, essendo suo nipote figliuolo della sirocchia carnale, le quali raccorda ancora a Dante, dicendo così: Di quel che fe; cioè la insegna dell’aquila, col baiulo seguente; cioè con Divo Ottaviano Augusto, che fu secondo imperadore dopo Cesari, e dice baiulo: imperò che baiulo si dice da baiulare, cioè da portare; e così si chiama lo bailo 110, perchè porta lo fanciullo, e così si chiama ora baiulo Ottaviano Augusto, perchè portò la detta insegna, e balì e governò lo imperio di Roma. Bruto con Cassio: questi due furno principi della coniurazione de’ senatori fatta contro Cesari; nella quale coniurazione, secondo che scrive Svetonio, furno più di sessanta senatori; ma Gaio Cassio, e Marco Bruto furno li principi della coniurazione, et adiungevi Svetonio Decio Bruto; e nella corte di Pompeio, dove si convenia lo senato, addi’ 25 di marzo, nell’anno 46 de la sua età e quattro del suo imperio, fu morto co li stili dell’ariento che studiosamente s’avevano fatto fare, perchè nel senato non si poteva portare arme: 23 111 ferite li furno date; ma niuna se ne trovò mortale, se non quella del petto. Dopo la morte di Cesari succedè Ottaviano Augusto, lo quale perseguitò l’interfettori 112, e come erede testamentario prese lo imperio, e combattette contra Marco Antonio che volve 113 pigliare lo imperio, e perseguitava gli ucciditori di Cesari, e Decio Bruto aveva assediato in Modona; ma lo senato, per ossediare 114 et ovviare che Antonio non crescesse, mandò contra lui amenduni li consuli, cioè Curio e Pausa, et Ottaviano per pretore, acciò che liberassono gli assediati e vincessono Antonio; ma nella via Pansa, iungendo innanzi, in uno agguato fu ferito e di quella ferita morì. Et Ircio collo esercito suo e del compagno vinse Marco Antonio nella prima battaglia che fece con lui, rimanendo Ottaviano a guardia del [p. 212 modifica]campo. Nella seconda battaglia fu grande abbattimento dell’una parte e dell’altra, e fu morto Ircio; ma a l’ultimo Ottaviano ebbe la vittoria, e perdonò a Decio Bruto, che li dimandò perdono; ma poi in Francia fu morto da quegli di Secana; e per mezzo di Marco Lepido, che si mise a volere la sua parte dell’imperio, fe Ottaviano pace con Marco Antonio, e prese 115 la figliuolastra per donna; ma non la menò innanti che la lassasse, e divisono tra loro la signoria, sicchè Antonio tenesse l’oriente, et Ottaviano l’occidente, e Marco Lepido l’Affrica. E poco durò Marco Lepido; ma con Marco Antonio durò anni 12, e vennono a Roma e feceno concordia insieme di perseguitare gli ucciditori di Cesari. E così poi in Tessaglia combattettono contro l’altro Bruto, cioè Marco Bruto e Gaio Cassio e vinsogli 116 e condussogli a la morte: imperò che, inanzi che si vincesse la battaglia, l’uno e l’altro si fece uccidere ai suoi. Poi discordatosi con Antonio, perchè Ottaviano avea perseguitato Lucio Antonio fratello di Marco Antonio, lo quale voleva parte dell’occidente et avealo assediato in Perogia et ebbelo per fame, combattette in Grecia con lui ad uno luogo che v’è uno monte chiamato Accio; al quale luogo si scontrò Ottaviano in mare co l’esercito di Marco Antonio, che venia colle forze d’Oriente e con Cleopatra regina d’Egitto che Antonio avea preso per donna. E trovatosi quine l’esercito d’Ottaviano e d’Agrippa suo cognato, rinchiusono l’esercito d’Antonio e sconfissollo, e lo detto Antonio perseguitorno e Cleopatra tanto, che fuggittono in Egitto dove Marco Antonio da Ottaviano fu constretto a morire; e veduto morto Antonio, Cleopatra per non venire alle mani d’Ottaviano, si puose aspidi alle puppe et uccisesi. Ancora combattette Ottaviano in Sicilia contra Sesto Pompeio, che avea ribellata la Sicilia e teneva assediato Roma; et avendo armato uno grande stuolo, corseggiava per mare, e così non lasciava andare niuna vettuaglia a Roma; unde per consiglio di Lepido fece Ottaviano patto con Sesto Pompeio ch’el si dovesse stare in Sicilia, e questo fu quando Marco Antonio e Marco Lepido era insieme con Ottaviano. Ma poi non tenendo Sesto fermo lo patto, fu iudicato inimico, et in quello uno suo servo liberato chiamato Moena, con 60 galee si fuggì da Sesto et accostossi ad Ottaviano, et Ottaviano lo prepuose a quello suolo, e questo Moena con Statilio Tauro combattettono contra Venetraco ammiraglio dello stuolo di Sesto; ma gran parte del suo naviglio perdette al periculo di Scilla, che è in Sicilia. Unde cinque battaglie fece Ottaviano; due contra Marco Antonio, [p. 213 modifica]cioè a Modona l’una, e l’altra in Grecia ad Accio; una in Tessaglia contra Marco Bruto e Gaio Cassio; una in Sicilia contra Sesto Pompeio; et una a Perugia contra Lucio Antonio. E però ben dice Iustiniano, secondo che finge l’autore: Di quel che fe; la insegna dell’aquila, col baiulo seguente; cioè con Ottaviano; e ben dice lo testo: Di quel: imperò che tutto non toccò loro; ma alcuna parte di quel che fece Ottaviano, come appare per la storia, Bruto; due Bruti furno nella coniurazione principi, cioè Decio Bruto e Marco Bruto, di Marco Bruto intende qui: imperò che a Decio Bruto perdonò Ottaviano quando lo prese a Modona, con Cassio; cioè con Gaio Cassio che amenduni furno principi della congiurazione, li quali vinse Ottaviano e condusseli a la morte: imperò che a Decio Bruto perdonò, come appare di sopra, ne l’inferno latra; cioè grida, come abbaia lo cane, nello inferno nella bocca del Lucifero, come àe finto l’autore nella prima cantica nell’ultimo canto. E di che gridano? Di quel che fe la insegna dell’aquila menata da Ottaviano contra di loro, che li condusse a farsi uccidere ai suoi medesimi in Tessaglia. E Modona; quest’è una città di Lombardia, dove Ottaviano vinse Marco Antonio e perdonò a Decio Bruto, al quale era stata data Modona per provincia da Cesari e per lo senato confirmata, e però prese lo senato a difendere Modona e Decio Bruto, e però dice, fu dolente: imperò che sostenneno li Modonesi in quella guerra molto affanno; unde Lucano: Mutinœque labores, in primo, sicchè ben può dire che fu dolente di quel che fe l’aquila con Ottaviano, come appare di sopra, e Perogia; questa è una città di Toscana nelle confine, la quale anco fu dolente di quel che l’aquila fece con Ottaviano: imperò che vi stette assediato Lucio Antonio, come è stato detto, e per fame s’arrendè; e però ben dice Lucano nel predetto luogo: Perusina fames — . Piangene ancor la trista Cleopatra; che fu reina d’Egitto, cioè di quello che fece l’aquila con Ottaviano: imperò che, come è detto, sconfisse Marco Antonio suo marito in mare ad Accio, et elli et ella ne morì; e però dice: Che fuggendoli; cioè la quale Cleopatra fuggendo innanti a lei, cioè dall’aquila che portava per stendale Ottaviano, cioè dalle galee d’Ottaviano che la perseguitavano, inanti: imperò che se ne fuggiva in Egitto, et Ottaviano perseguitava lei e Antonio, prese; cioè la detta Cleopatra, La morte subitana: imperò che subitamente morì, et atra; cioè oscura e crudele, dal colubro; cioè dagli aspidi che si puose alle puppe per morire, come detto è, che ben fu morte subita, imperò che tosto lo veleno corse al cuore: e fu crudele et oscura cosa vedersi gli aspidi a puppe, le quali ella si puose sentendo ch’ella era riservata per essere menata nel triunfo per Roma innanti ad Ottaviano: la volse fare campare faciendo succhiare lo [p. 214 modifica]veleno da quelli Psilli 117 che ànno sigurtà contra ’l veleno, come li Celamatori 118; ma non valse niente. Con costui; cioè con Ottaviano, corse; cioè la insegna dell’aquila: imperò che Ottaviano andò poi per Siria infine al mar rosso, vincendo le genti e li popoli che erano ribelli ai Romani, infino al lito rubro; cioè infine a la piaggia del mare rosso; e debbiamo sapere che quel mare è rosso per lo terreno, non che l’acqua sia rossa. Con costui; cioè con Ottaviano, puose ’l mondo; cioè la insegna de l’aquila, in tanta pace: imperò che tutto il mondo obbeditte ai Romani, et in niuna parte aveano guerra, Che fu serrato ad Iano il suo delubro, Iano era lo dio della circuspezione e faceano li Romani la statua sua con due volti, cioè co l’anteriore e posteriore: imperò che chi è circuspetto considera non solamente le cose presenti; ma ancora le passate e le future. Alquanti dicevano che era lo dio dell’anno, e chi li dava due volti per lo nascimento del Sole e per l’occaso: imperò che, quando lo Sole si leva, pare illuminare lo mondo col volto d’inanti; e quando tramonta, col volto di rieto; e chi li dava quattro volti per li quattro tempi dell’anno, cioè primavera, estate, autunno e verno, e però lo chiamavano Iano, quasi Ianua e porta dell’anno, e quinde fu denominato lo primo mese dell’anno Ianuarius. Ma in quanto era iddio de la circuspezione, aveano li Romani fatto una statua con due volti nel campo Marzio con l’uno d’inanzi e l’altro di rieto, scritta con lettere dal capo ai piedi, che dicevano: O cittadini, prima diventati 119 ricchi, e poi virtuosi, li nacque questo errore di Iano re di Tessaglia, lo quale fu lo primo omo che facesse battere moneta, secondo Lucano. Et essendo molto circuspetto, li Poeti, volendoli compiacere, lo chiamorno iddio della circuspezione; e quinde venne 120, poi che la circuspezione l’iddii dierno, questo nome Iano sotto nome di deità. E pertanto nel principio dell’edificazione di Roma, dice Servio che Romulo, nella battaglia che ebbe co li Sabini, venuto a pericolo di perdere nel luogo che si chiamava Argiletum a Roma, chiamò l’aiuto delli iddii, et allora di quello monte uscitte sì fatta e grande voragine d’acque calde, che li Sabini furno costretti a dare volta, e camporno li Romani che non furno sconfitti; et allora Romulo edificò quine uno tempio, e volse che si chiamasse Iano, perchè a chi fa guerra è necessaria molto la circuspezione; et ordinò che in questo tempio stessono l’arme del comune, e che quando lo comune avesse guerra stesse aperto, e quando avesse pace stesse chiuso. Et altri dice che lo fece Romulo e Tacio re dei [p. 215 modifica]Sabini insieme, quando furno uniti e confedarati insieme in quello luogo, dove furno pacificati dalle Sabine che introrno in mezzo quando combattevano; ma Tito Livio dice che Romulo fece lo tempio ad Iove Statore; e Numa Pompilio, che fu lo secondo re dopo Romulo dei Sabinesi nato, et in Sabino abitava, quando fu fatto re fece fare lo tempio di Iano con l’ordine, che detto è di sopra, perchè lo popolo lassasse la ferocità dell’arme e tornasse a vivere virtuosamente e sotto legge, che male si può fare quando le città ànno guerra. E nel reggimento suo stette serrata; e poi si levò la seconda volta nel tempo di Tito Mallio consule dopo la prima battaglia e guerra d’Africa; e la terza volta al tempo d’Ottaviano Augusto dopo la battaglia fatta contra Marco Antonio ad Accio, essendo posto tutto ’l mondo in pace: et in quel tempo nacque Cristo, e di questa terza clausura fa menzione qui, quando dice: Che fu serrato ad Iano; cioè a quello iddio chiamato Iano, il suo delubro; cioè il suo tempio: questo nome delubro è vocabulo grammaticale 121, e chiamansi delubra quegli tempi che avevano le fonti innanti, ne le quali si lavano li sacrifici e li sacrificatori.

C. VI — v. 82-96. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Iustiniano, seguitando lo suo parlare, dice quello che fece la insegna dell’aquila per Tiberio figliuolo di Nerone minore della schiatta d’Appio Cieco, che fu terzo imperadore da Cesari successore d’Ottaviano Augusto, e di quello che fece con Tito Vespasiano, dicendo cosi: Ma ciò che ’l segno; cioè l’aquila, che parlar mi face; cioè lo quale segno fa parlare me Iustiniano, cioè che per sua cagione sono intrato a parlare, Fatt’avea prima; com’è stato detto di sopra, e poi era fatturo; cioè lo detto segno dell’aquila era che dovea fare per gli altri principi che ’l doveano portare, Per lo regno mortal; cioè per lo mondo che ene mortale quanto agli uomini et agli animali che tutti sono mortali, et anco quanto a sè che si debbe disfare quando piacerà a Dio; o vogliamo dire: Per lo regno mortal; cioè per lo imperio di Roma lo quale è mortale, che dè venire meno e già è venuto pur a’ di’ nostri, ch’à lui; cioè lo quale a quel segno dell’aquila, soiace; cioè sotto sta; o vogliamo intendere del mondo o dell’imperio, vero è che sotto sta all’aquila, siccome a segno del capo dello imperio, Diventa; tutto cioè, che àe fatto e che debbe fare l’aquila per lo romano imperio e per lo mondo, in apparenzia; cioè in vista, poco e scuro: imperò che non à tanta fama e non è sì grande, Se in mano al terzo Cesari; cioè a Tiberio figliuolo di Nerone e figliastro d’Ottaviano Augusto, lo quale non era ancora [p. 216 modifica]Cesari; ma dovea essere, sicchè si debbe intendere al terzo Cesari; cioè in mano a colui che fu poi terzo Cesari: imperò che Iulio fu lo primo; et Ottaviano, secondo; e questi, terzo: imperò che in mano sua la insegna dell’aquila fece grandissimi fatti, essendo ancora privato mandato da Augusto prima come tribuno dei cavalieri a vincere li Cantabri 122, poi come capitano dello esercito in oriente lo 123 regno d’Armenia restituitte al re Tigrane, e riebbe 124 dai Parti le insegne dei Romani che aveano tolte quando vinsono et uccisono Marco Crasso; e poi uno anno resse la Francia cornata, molestata et inquietata dalli scorrimenti dei barbari e dei suoi principi; poi fece la battaglia de’ Reti, de’ Vindelici e dei Pannoni e de’ Germani che sono inverso settentrione; e le genti dell’alpi sottopuose nella battaglia dei Reti e dei Vindelici e vinse, et in quella de’ Pannoni vinse e sottopuose al romano imperio li Brenchi e Dalmati; e nella battaglia dei Germani 40 mila dei Germani, che s’erano dati et arrenduti, fece andare ad abitare in Francia et allogolli allato a la ripa del Reno. Per la qual cosa tornato a Roma, fu onorato coi triunfali ornamenti, et ebbe l’ovazione che è secondo 125 lo triunfo; ma 126 ebbela eccessivamente per nuovo modo ad onore. Poi anco fu mandato legato in Germania a quietare lo movimento dei Germani che si movevano contra li Romani, avendo sconfitto Quinzio Varo con tre legioni dei Romani che tutte si perdetteno; di che n’ebbe tanto dolore Ottaviano che spesse volte, come pazzo percoteva lo capo al muro e diceva: Quinzio Varo, rendemi le mie legioni. Sentendo che quelli d’Illiria, che è una grande provincia in contra a l’Italia allato al mare adriaco, lasciò l’andata di Germania, et andò a fare battaglia asprissima e gravissima di tutte le battaglie strane, dopo le battaglie d’Affrica, come dice Svetonio, la qual durò tre anni et ebbe sotto di sè 15 legioni dei Romani, et altrettante d’aiuto con grandi malagevilezze e caristia di vettovaglie. E benchè fusse revocato, stette pur fermo temendo che se egli si fusse partito, li nimici l’arebbono perseguitato, e di questa perseveranzia ebbe grande utile: imperò che tutta l’Illiria, che è tra l’Italia e lo regno Norico e Tracia e Macedonia e tra lo Danubio che è fiume della Magna e lo seno del mare adriaco, vinse e costrinse a darsi al romano imperio. E veramente perchè in quel tempo li Tedeschi vinsono Quinzio Varo, ellino si serebbono uniti ai Pannoni, se non fusse stata vinta prima llliria. E tornato a Roma fugli ordinato lo triunfo; ma elli lo indugiò perchè la città [p. 217 modifica]era piena di malizia e tristizia per la sconfitta di Varo; ma molto fu onorato ne la sua tornata, intrando colla pretesta indosso e colla corona laurea, et a sedere montò in sul tribunale in mezzo dei consuli, sedendo con Augusto nel cerchio dove era tutta la città intorno. E nel seguente anno mandato co l’esercito ai Tedeschi, vedendo che Varo era stato vinto dai Tedeschi per sua negligenzia, ogni cosa fece con consiglio, e quine niuna cosa fece se non con deliberazione del consiglio, benchè altro 127 luogo fusse usato di fare di suo capo. E quando venne a passare lo Reno stette a vedere che nessuno portasse silmaria 128, se non quel che era di necessità; e poi che fu di là, mai non mangiò se non in terra, nè dormitte sotto padiglione pure all’aere. Et ogni comandamento dava elli, e con scrittura perchè non si dimenticasse, imponendo a ciascheduno che quando dubitasse di quello che dovesse fare, s’andasse a dichiarare con lui; et elli sempre stava apparecchiato a rispondere, e se dormisse voleva essere isvegliato. E ridusse per questo modo l’esercito sì 129 a norma che elli ebbe vittoria dei Tedeschi, e fece la vendetta di Varo, e dopo li due anni tornò a Roma, et ebbe lo triunfo che avea indugiato. Per tutte queste cose che fece Tiberio, mandato da Ottaviano, non arebbe detto che tutte l’altre cose, fatte per gli altri imperadori e che si doveano fare, fussono poche et oscure; ma intese della passione del nostro Signore Iesu Cristo la quale fu fatta sotto Tiberio: imperò che fu fatta per Pilato preside di Ierusalem per Tiberio; la quale fu la maggiore cosa che mai si facesse: imperò che si sodisfece da Iesu, che era Iddio et uomo, per lo peccato dei primi parenti, per lo quale non s’era potuto sodisfare, passate già tante migliaia d’anni. E per questo finge l’autore che Iustiniano lodi tanto Tiberio, e però dice lo testo: si mira; cioè la insegna dell’aquila, in mano al terzo Cesari; cioè Tiberio predetto, Con occhio chiaro; cioè con perspicace considerazione, e con affetto puro; cioè che non lo vinca più affezione d’uno che d’un altro. Et ecco che assegna la cagione: Chè la viva iustizia; cioè imperò che la iustizia divina, che è quella che sempre vive, che mi spira; cioè la qual mette nell’anima mia sempre della sua grazia, e fammi vedere queste cose, Li concedette; cioè la insegna de l’aquila concedette, in mano a quel ch’io dico; cioè essendo nella potenzia e ne la amministrazione di Tiberio, Gloria di far vendette; cioè dei Parti che rendettono le insegne tolte a Marco Crasso, e dei Tedeschi che rendettono quello che aveano tolto a Varo, e per li morti sostenere morte, a la sua ira; cioè conveniente vendetta e [p. 218 modifica]sodisfacente a l’ira che aveva preso la detta insegna, cioè Ottaviano Augusto e ’l senato e ’l popolo di Roma contra li Parti, e contra li Tedeschi li quali sono significati per la insegna dell’aquila, la quale cosa non è piccola; ma è ben grande che l’uomo faccia vendetta che sazi l’ira sua. E veramente considerando quanto è ardente l’animo umano all’ira e, per saziamento di quella, a la vendetta, non è meraviglia se l’autore finge che colui dica che ogni altra cosa fatta, o che si debbia fare, sia poca et oscura per rispetto di questa che fu saziamento di vendetta desiderata per ira: l’ira soblimita fu posta da Dio nell’animo umano perchè spregiasse lo male; e però questa s’accende quando vede lo male e desidera vendetta, et allora gode quando la vede. E perchè di sopra avea detto: Con costui corse infino al lito rubro, e già avea fatto menzione di quello che era stato fatto per Ottaviano contra li Parti, et ora àe detto quello medesimo fatto per Tiberio primo che è uno replicare, però dice poi: Or qui; cioè in questo luogo, t’ammira 130; cioè ti meraviglia tu, Dante, in ciò ch’io; cioè Iustiniano, ti replico; cioè ti ridico ancora, che prima te l’aveva detto fatto per Ottaviano, ora tel dico fatto per Tiberio; et ode la cagione, per che tu lettore, e cesserà l’ammirazione. Di sopra avea detto generalmente le cose fatte per Ottaviano, tra le quali erano queste che sono ora dette fatte per Tiberio, sicchè replica quel che detto è di sopra; e la ragione è che ciò che è l’atto per li sudditi dei principi si dice fatto per li principi; e però se prima generalmente disse ogni cosa fatta per Ottaviano, ora si replica quelle, manifestando chi ne fu operatore, è convenevile. E questo è grande maestria dell’autore di dare loda a chi si conviene; a principe come a principe, et a mandato come al mandato; e secondo lo vero intelletto dell’autore si dè sponere lo testo in questa forma; cioè: Gloria di far vendette a la sua ira; cioè di far vendetta del peccato dei primi parenti, rispondente all’ira d’Iddio, cioè alla iustizia di Dio, e questa relazione sua si referisce a la mia iustizia; et ira improprie si pone chè v’è la iustizia di Dio non è ira ; ma intendesi a la sua voluntà rispondente: imperò che quella vendetta fu iustamente fatta, come Iddio volse. E seguita: Or; cioè ora, qui t’ammira; cioè ti meraviglia tu, Dante, dice Iustiniano, in ciò ch’io ti replico: imperò ch’io replico che la insegna dell’aquila, corse con Tito a far vendetta Della vendetta del peccato antico; ecco che si replica qui vendetta di vendetta: imperò che se la prima è vendetta, come può essere anco l’altra vendetta? [p. 219 modifica]Ecco detto vendetta due volte; della qual cosa ben si può meravigliare Dante, al quale parla Iustiniano, e però nel fa avveduto dicendo: Ammirati, che cosa è da maravigliare; cioè come si possa dire vendetta di vendetta, e però ne farà questione in questo altro canto, come si mosterrà nel seguente canto. Possa; cioè dopo le sante cose, con Tito; cioè con Tito Vespasiano, a far vendetta corse; cioè la detta insegna dell’aquila, Della vendetta del peccato antico; cioè del peccato del primo uomo, cioè d’Adam. Iesu Cristo fu colui che morì per Io peccato del primo uomo, et Iddio permisse che della morte iniusta di Cristo facesse vendetta Tito Vespasiano, destruttore e disporgitore de’ Iudei. Dice Paulo Orosio che, essendo li Iudei divisi tra loro, et alquanti abitanti nel monte Carmelio, e per sorti dimostrando che li principi nati appresso li Iudei doveano essere li signori del mondo; e Svetonio dice che per tutto l’oriente era divulgato che le fata dimostravano che gli andanti in quel tempo in Iudea doveano essere signori del mondo, attribuendo questo a sè li Giudei, si ribellorno dal romano imperio, et uccisono e scacciorno tutti li Romani che erano per ufficiali e per guardie nel regno loro, et ancora lo legato di Siria, che venia per soccorrere, scacciorno; et uccisi li Romani, che erano con lui, presono le insegne dell’aquila. Per la qual cosa a vincere costoro fu mandato Vespasiano da Nerone imperadore, e questi menò seco Tito suo figliuolo per vicario cogli altri che erano nello esercito; e menato seco in Siria molte e forti legioni, in Siria avute molte città dei Iudei, essendo venuto la pasqua e tutti essendo congregati li Giudei a la festa in Iurasalem, Vespasiano assediò la città Ierusalem. Et udita la morte di Nerone, se ne venne a Roma confortato da molti che sarebbe imperadore, lassato nello esercito Tito suo figliuolo per capitano, e così addivenne. Tito, rimaso a combattere Ierusalem, dopo molte battaglie e morte dei suoi, ebbe la città ; ma maggiore fatica e più tempo convenne operare in avere la rocca, nella quale, era lo tempio. Et essendo chiamato imperadore da’ suoi cavalieri, avuta la rocca e lo tempio, deliberò come piacque a Dio di disfare quel tempio che non era più utile, edificata la nuova chiesa e così disfece lo tempio che era durato dalla sua prima costruzione anni 1102, e tutte le mura de la città spianò a terra. Et in quella guerra, come scrive Iosefo, perittono tra di coltello e di fame undici centinaia di migliaia: gli altri furno sparti per lo mondo da 131 novanta migliaia, vendutine trenta a denaio; e Vespasiano e Tito introrono col triunfo in Roma, maggiore e più onorevile di tutti gli altri che [p. 220 modifica]erano stati infino a questo 320. Volse Iddio che triunfasseno insieme lo padre e ’l figliuolo di coloro, che avevano offeso Iddio Padre e lo suo Figliuolo; et allora, pacificati tutti li nimici del romano imperio, fu serrato la sesta volta lo tempio di Iano, et allora Acaia, Licia, Rodi, Costantinopuli, Samnio, Tracia, Cilicia, Commagene redutte a province, obbedittono a le leggi e rettori romani. E Vespasiano resse lo imperio anni 9, e poi Tito suo figliuolo anni 2, e poi Domiziano suo fratello anni 15; e però ben dice lo testo che la insegna dell’aquila poi: corse con Tito a far vendetta Della vendetta del peccato antico; cioè a far vendetta della morte di Cristo, che fu per vendetta del peccato d’Adam. E quando il dente longobardo morse La santa Chiesa; ora finge l’autore che Iustiniano, continuando lo suo parlare, dica come Carlo Magno filliuolo del re Pipino di Francia venne a soccorrere la santa Chiesa e fu fatto imperadore, e così venne lo imperio allora ai Franceschi, cioè lo imperio dei Romani che infine a quine era stato in Grecia a Costantinopoli, benchè in Italia fusseno stati in quel tempo alquanti re siccome Odeacro e Teodorico, e così degli altri. Questo Carlo, avendo già regnato sopra li Franceschi anni 33, primo dei Franceschi: imperò otto anni et incominciò nelli anni Domini 802, essente Irene madre di Costantino, lo quale ella avea accecato, imperadrice dei Romani a Costantinopuli. Essendo Papa Leone, elessono li Romani per suo imperadore Carlo Magno, e lo suo figliuolo Pipino fu fatto re d’Italia, et a Carlo Magno succedè 132 nello imperio Ludovico suo figliuolo ancora, et a Ludovico Lottario suo figliuolo nello imperio succedè, al quale succedè Ludovico secondo figliuolo di Lottario, al quale succedè Carlo secondo, al quale succedè Carlo terzo, al quale succedè Arnolfo primo, al quale succedè Ludovico terzo. E nel tempo suo ritornò lo imperio a l’Italiani et a li Tedeschi infine ad Otto 133 primo, nel tempo del qual venne lo imperio al tutto ai Tedeschi; ma dal tempo di Ludovico terzo infine ad Otto primo stette diviso lo imperio: imperò che ne fu uno in Italia, et uno ine la Magna; e questo addivenne, perchè l’imperadori franceschi non difendevan li Romani da’ Longobardi che facevano loro molte violenzie. E perchè l’autore dice: E quando il dente longobardo, debbiamo sapere che Longobardi si chiamavano li Lombardi, li quali furno Franceschi e Germani che passorno l’alpi, e vennono li Franceschi prima sotto lo guidamento di Belloveso 134 loro duce, e cacciorno li Toscani che aveva 12 città di là dal monte Appennino, come di qua altrettante, e feceno Melano. E dopo loro vennono li Germani sotto Citonio duca [p. 221 modifica]e con l’aiuto di Belloveso, e puosensi dove è Verona e Brescia; poi vennono li Bui 135 e li Salini e puosensi a Pavia; poi li Bui 136 e Lingoni passorno, e non trovando di là dal Po dove potessono stare, passorno di qua e cacciorno li Toscani e li Umbri; ma non passorno Appennino; poi a dugento anni vennono li Senoni sotto Brenno loro duce, e co l’aiuto di costoro infestorno Roma, come detto fu di sopra. Questi popoli, quando vennono di Francia e di Germania, vennono colle barbe grandi, e però furno chiamati Longobardi, quasi Longobarbi, poi furno chiamati Lombardi. Questi Lombardi, che allora si chiamavano Longobardi, al tempo di papa Adriano infestorno molto li Romani e la Chiesa; unde lo papa predetto coronò Carlo Magno re di Francia, e fecelo venire in Lombardia a domare li Lombardi, e prese in Pavia lo re Desiderio e la moglie, e mandogli presi in Francia e fecegli mettere in prigione, e restituitte ai Romani tutto ciò che aveano tolto loro li Longobardi, et a la Chiesa di Roma similmente e tutto ciò che gli avea dato lo suo padre, cioè lo re Pipino, et oltre a ciò lo ducato di Spuleto e Benevento, e fu fatto patrizio di Roma. Ma poi che rimisse papa Leone quarto sopradetto in Roma, al quale li Romani aveano tagliato la lingua e cavato gli occhi, racquistato la lingua e gli occhi per divino miraculo e fatto vendetta dei nimici del detto papa, fu chiamato per li Romani imperadore e tenne lo imperio anni 14, mese uno e di’ quattro; e però dice l’autore: E quando il dente longobardo; cioè quando la rabbia de’ Lombardi, che si chiamavano Longobardi, e la fame dell’avere che è notata per lo dente, morse La santa Chiesa 137; togliendoli le sue tenute e le sue intrate, e similmente ai Romani, sotto le suo ali; cioè dell’aquila imperiale la quale portò per insegna, siccome duce dei Romani, Carlo Magno; figliuolo del re Pipino e della reina Berta, vincendo la soccorse; cioè la santa Chiesa e li Romani, racquistando loro quello che era stato loro tolto dai Lombardi.

C. VI — v. 97-111. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Iustiniano, che introdusse di sopra a parlare della insegna dell’aquila, conchiude la cagione per la quale si mosse a parlare di ciò, dicendo: Ormai; cioè ora mai, cioè oggimai, può’; cioè tu, medesimo Dante, iudicar di quei cotali; cioè di quegli così fatti, cioè guelfi e ghibellini, Ch’io; cioè li quali io Iustiniano, accusai di sopra; quando dissi: Perchè tu veggi con quanta ragione Si muove contra ’l sacro santo segno, E chi’l s’appropria e chi a lui s’oppone,— e de’ lor falli; cioè dei ghibellini che s’appropriano la insegna dell’aquila, e [p. 222 modifica]dei guelfi che s’oppongano a quella. Che; cioè li quali falli, son cagion di tutti vostri mali; cioè di voi uomini, che siete nel mondo: imperò che quinci sono nate le parzialità per le contrade e per le terre che ànno diviso e fatto inimico l’uno vicino a l’altro, e, che è peggio, l’uno cittadino all’altro; unde sono nate le guerre tra le città, tra li regni, tra le contrade, e nelle città tra’cittadini; la qual cosa sola è cagione della destruzione delle cittadi: imperò che niuna forza può più tosto disfare la città, che la divisione dei cittadini, secondo che disse Cristo ne l’Evangelio: Ormne regnum in se divisum desolabitur, et domus super domum cadet— . L’uno; cioè lo guelfo, al publico segno; cioè all’aquila, che è come segno della monarchia del mondo, e debbe essere solo di colui che dè signoreggiare tutto lo mondo e governare con ragione et iustizia, Oppone; cioè contra oppone, i gilli gialli; cioè i gilli ad oro nel rastello nel campo azzurro, che è l’arme dei re di Francia, li quali debbono essere obedienti a chi tiene la insegna dell’aquila: imperò che ogni re debbe obbedire a lo imperadore; e qual nol fa, fa contra ragione e contra la sentenzia di Cristo che disse: Reddite ergo quœ sunt Caesaris Caesari ec.— , e l’altro; cioè lo gibellino, appropria quello; cioè la insegna dell’aquila, a parte; cioè a la parte sua, pigliando l’aquila per sua insegna che nolla debbe pigliare; ma sotto essa obediendo, seguire debbe lo imperadore e obedire, Sì, che fort’è; cioè per la qual cosa forte cosa è, a veder; cioè ad iudicare, chi più si falli; cioè di questi due, cioè di colui che s’appropria l’aquila, e di colui che v’oppone la casa di Francia. E perchè l’autore non vuole dimostrare ch’elli fusse guelfo nè ghibellino, benchè li suoi fussono guelfi, riprende gli uni e gli altri. Faccian li ghibellin, faccian lor arte; qui è duplicazione, per grazia d’accrescere e per indignazione, cioè: Usino la loro parzialità e divisione dai loro vicini e dai lori 138 cittadini, Sott’altro segno; cioè che sotto’l segno dell’aquila, cioè non scusino e non riquoprano la loro mala intenzione dell’odio che ànno al vicino et al cittadino e prossimo suo, sotto questo scudo dicendo: Elli è ribello al santo imperio, chè; cioè imperò che, mal segue quello; cioè la insegna dell’aquila, e per consequente lo imperio, Sempre chi la iustizia e lui diparte; cioè colui che divide la iustizia dallo imperio: imperò che chi fa guerra, che non sia iusta sotto questo segno, non seguita lo segno che è segno di iustizia siccome dimostrorno li Poeti, fingendo che ne la guerra che ebbe Iove coi Giganti, l’aquila ministrava le saette ad Iove le quali gittasse contra loro, che non è altro a dire, se non che la insegna dell’aquila è quella che debbe ministrare forza a lo imperadore, quando combatte [p. 223 modifica]per iustizia contra’ levantesi per superbia delle potenzio terrene e temporali contra lui. E perchè à ripreso li ghibellini, ora riprende i guelfi, dicendo: E noll’abbatta; cioè la insegna dell’aquila, esto Carlo novello; questo fu Carlo figliuolo secondo del re Carlo primo, conte di Provenza fratello del re Ludovico di Francia, che fu fatto re di Puglia e di Sicilia contra Manfredi figliuolo naturale dello imperadore Federigo, figliuolo che fu dello imperadore Arrigo sesto; del quale Carlo fu detto di sopra nella seconda cantica, e dice novello per rispetto del padre che fu Carlo primo, conte di Provenza e primo re di Puglia e di Sicilia fatto per la Chiesa, lo quale si poteva dire vecchio, perchè passato era innanti, benchè novellamente de la casa dei re di Francia era venuto a signoreggiare Italia, et incominciò a fare contra lo imperio, Coi guelfi suoi; dice, perchè s’accostò ai guelfi di Toscana e di tutta Italia, e favoreggiando loro et avendo favore da loro, molte cose fece contra lo imperio, sì come appare per la cronaca martiniana: imperò che quando uscitte d’Angione 139, se ne venne in Toscana; e ricevuto dai Fiorentini onorevilmente, lassòvi suo vicario a prego de’ Fiorentini Amerigo di Nerbona il quale era in sua compagnia. E per questo li Fiorentini n’andorno poi ad oste ad Arezzo e sconfissono la parte ghibellina, e fu morto nella battaglia lo vescovo d’Arezzo che si chiamava Guillielmo, e di poi vennono contra Pisa, e co la compagnia dei guelfi di Toscana presono tutte le castella di Pisa, salvo che Vico e Morrona; e così ancora fu coi guelfi di Genova contra li gibellini, e così ancora mandò Roberto suo figliuolo per capitano di guerra a Firenze, quando li Fiorentini e Lucchesi puoseno oste a Pistoia, ma tema de li artilli; cioè delli unghioni dell’aquila; e per questo s’intende la potenzia dello imperio: imperò che, come l’aquila ferisce colli unghioni e piglia la preda ; così lo imperio co la potenzia dei suoi cavalieri castiga li suoi 140 nimici. Che; cioè li quali artilli, a più alto leon; cioè a più alta potenzia di quegli che tegnano parte guelfa, li quali prendono per loro insegna lo leone, che non è la potenzia del re Carlo, trasser lo vello; cioè levorno dei velli della sua iuba 141, che significa che lo imperio abbia mancato la loro superbia et abbassato lo loro stato. E perchè lo detto re Carlo in se non fu punito; ma sì nel suo figliuolo, cioè Filippo principe, che fu preso dal re di Ragona 142 e tenuto in prigione quando passò in Sicilia, però dice: Spesse fiate già pianser li filli; cioè li figliuoli spesse volte ànno portato pena temporale, Per la colpa del padre; cioè commessa dal padre, e non si creda; cioè lo re Carlo, [p. 224 modifica]Che Dio trasmuti l’arme; cioè la iustizia sua: l’arme d’iddio è la iustizia: imperò che colla sua iustizia abbatte ogni superbia e punisce ogniuno che mal fa, e la iustizia è significata per l’aquila, come è detto di sopra: imperò che la iustizia è sopra tutte l’altre virtù, come l’aquila sopra tutti gli altri uccelli, per suoi gilli; li gilli ad oro nel campo azzurro è l’arme della casa di Francia, e questa arme tenne Carlo primo conte di Provensa, e re di Sicilia e di Puglia, e così Carlo Zoppo suo figliuolo che succedè a lui nel regno, del quale àe parlato ora: imperò che del primo non si può intendere: imperò che fu e morì innanti al 300, quando l’autore finge che avesse questa fantasia e revelazione, sicchè inducendo a parlare Iustiniano dimostrando dicendo: E noll’abbatta esto Carlo novello, intende del Zoppo che era nel 1300. Li gilli bianchi significano purità e virginità; ma dorati mostrano cavati della loro natura e simulati, sicchè vuole dire l’autore ch’è purità simulata come è quella dei guelfi, che diceno che combatteno per difendere la loro libertà, e sotto questa ombra recusano di stare sotto lo reggimento della publica iustizia. Iddio non mutrà la sua iustizia, che non li pagi 143 della sua superbia: superbia è non volere soiacere al comune reggimento. Àe voluto Iddio che nel mondo siano due reggimenti 144; l’uno spirituale del papa, e l’altro temporale dello imperadore; e questi guelfi si vogliano ritraere da esso.

C. VI — v. 112-126. In questi cinque ternari finge lo nostro autore come Iustiniano, continuando lo suo parlare, risponde a l’altra parte de la dimanda che l’autore fece di sopra nel canto precedente, cioè per che cagione questo spirito e gli altri, che erano con lui, erano nella seconda spera, cioè nel secondo pianeto che si chiama Mercurio, quando disse di sopra: nè perchè aggi, Anima degna, il grado della spera Che sì vela ai mortal colli altrui raggi; unde finge che rispondesse così: Questa picciola stella; cioè Mercurio, lo cui corpo appare molto grande a noi; ma piccolo per rispetto di quel della Luna e del Sole. E benchè l’autore dica picciola stella, debbiamo sapere, secondo che dice Alfragano cap. xxii, che lo corpo di Mercurio è la vigesima seconda parte del corpo della terra, poco meno; e la terra è 132 mila di miglia e 600 miglia, contando lo miglio quattro mila gombiti 145, dunqua partendo 132 mila di miglia e 600 miglia in 22, rimane 6 milia miglia e 27 miglia e poco più, perchè è forsi da uno braccio, si correda; cioè s’adorna, Di buoni spirti; cioè d’anime virtuose, che; cioè li quali spiriti, son stali attivi; cioè ci sono esercitati nelle virtù pratiche e politiche nella [p. 225 modifica]vita mondana, Per che onor e fama li succeda; cioè però sono state nelle virtù pratiche e politiche, mentre che sono vissute, per avere onore e fama. Come fu detto di sopra, lo nostro autore finge che montando elli in cielo di spera in spera, secondo lo montamento mentale, secondo l’allegoria; ma corporale, secondo la lettera, ne la quale finge e parla come poeta, elli truovi in ogni spera anime beate che sono vissute nel mondo, secondo le virtù che àe a producere 146 la influenzia di quel pianeto per due cagioni. L’una, per dimostrare che l’onore di tale operazione si reca e può recare a quel pianeto, che àe a dare tale influenzia per l’ordine che Iddio àe posto nelle stelle, che come cagioni seconde cagionate da lui, che è prima cagione di tutte le cose, cagionino giuso nel mondo li suoi effetti; e però dei beni l’onore s’arreca al pianeto, e de’mali s’arreca lo biasimo, non dico lo merito nè ’l demerito, che questo è dell’omo in quanto a la influenzia del bene s’accosta coll’opera e colla voluntà accettandola, e dalla influenzia del male si diparte; e così per opposito, quando si scosta dal bene et accostasi al male: imperò che, benchè la influenzia sia, l’uomo può cessarla e seguitarla come vuole, et in questo è la libertà dello arbitrio e sta in questo lo nostro merito e demerito. L’altra cagione è, come fu detto di sopra ancora, per mostrare in che grado siano in vita eterna l’anime, che ànno seguitato la influenzia del bene e schifato la influenzia del male di tal pianeto in vita eterna: imperò che appare, poi che si rappresentano nel secondo grado, che siano nel secondo grado più bassi che gli altri beati. E veduto questo generalmente, ora è da vedere gli effetti che à a cagionare Mercurio, giuso a noi nel mondo, dei quali è dato l’onore e lo biasimo al pianeto: però che dice Abbumasar 147 nel suo Introduttorio nel trattato settimo, nella differenzia nona, dove tratta de le nature dei pianeti e delle proprietadi loro : Mercurio significa queste 22 cose senza l’altre; cioè vagezza di sapere e vedere le cose secrete; interpetrazione di deità, d’oraculi e di profezie; prescienzia di cose future; scienzia e profondità di scienzia ne’ libri profondi; studio di sapienzia; memoria di storie e di novelle; eloquenzia con politezza di lingua; sottigliezza d’ingegno; desiderio di signoria; appetito di loda e di fama; colorazioni e sottigliezze di parlari; sottigliezza d’ ingegno in ogni cosa, a che l’uomo si dà; voluntà di perfezione; sottigliezza di mano in tutti gli magisteri; esercizi di mercanzie; vendere; comprare; donare; ricevere; furare; ingannare; occultare nell’animo suoi pensieri; mutamento di costumi; iovanezza; lussuria; abbondanzia; susurrazioni; bugie; falso testimonio, e molte altre cose come quine si [p. 226 modifica]contiene. E però lo nostro autore finge che coloro, che sono stati attivi nel mondo e vissuti colle virtù politiche e morali, si rappresentino nella spera di Mercurio, perchè tale influenzia àe a dare Mercurio, secondo gli Astrologi come mostrato è; ma nello arbitrio umano è di seguitare la influenzia buona e schifare la cattiva, e quinci nasce lo merito e lo demerito. E però àe finto l’autore che Iustiniano si rappresenti quine: però che ebbe delle influenzie dette di sopra, come appare; prima, che fu principe; appresso, che fu studioso e corresse le leggi; fu eloquente et ebbe memoria delle istorie, e però lo introdusse a narrare le storie; fu scientifico et astrologo, e però finge che egli dia questa risposta a lui del loro rappresentamento nella spera di Mercurio. E rispondendo finge che elli assegni la cagione, per che non ànno quelli spiriti più alto grado in vita eterna che ’l secondo, dicendo: E quando li disiri; cioè gli desidèri e gli appetiti, o vero voluntadi d’acquistare fama et onore, poggian quivi; cioè nell’acquistare fama, che lassi di rieto a sè, Sì disiando; cioè desiderando, cioè la fama di questo mondo, pur convien che i raggi; cioè li fervori, Del vero amore; cioè della vera carità che l’uomo debbe avere in verso Iddio, insù; cioè in verso lo bene eterno, che è Iddio, poggin men vivi; cioè meno ferventemente: imperò che chi è desideroso di fama e d’onore, benchè egli operi virtuosamente per piacere a Dio, perchè anco è desideroso di fama e d’onore che seguitino della sua operazione, non sì ferventemente opera per l’amore d’iddio, come farebbe se tale appetito non vi fusse; però quanto minore è lo fervore de la carità, tanto minore è lo merito. Ma nel commensurar dei nostri gaggi; cioè delle nostre allegrezze, cioè della nostra beatitudine, onde seguitano li gaudi che noi abbiamo, Col merto; cioè nostro che abbiam meritato, mentre che fummo nel mondo co le nostre opere, è parte di nostra letizia; cioè è parte della nostra beatitudine, quando veggiamo la nostra beatitudine rispondere al nostro merito: imperò che ci rallegriamo e godiamo della iustizia d’Iddio, e non vorremo 148 ch’ella fusse maggiore: imperò che sarebbe fuora di iustizia e contra lo nostro contentamento. Perchè; ecco che assegna la cagione per che sono lieti, cioè per questa cagione che, quanto misuriamo la nostra beatitudine e la nostra letizia col merito nostro, nolli vedian minor, nè maggi; cioè li nostri gaudi non veggiamo nè minori, nè maggiori che sia stato lo nostro merito. Quinci; cioè da questa misura della letizia col merito, adolesce 149; cioè notrica e sazia, la viva iustizia; che premia, secondo [p. 227 modifica]merito, In noi; cioè spiriti beati, l’affetto; cioè lo desiderio nostro, che è quietato, che non vuol più ch’egli abbia, sì, che non si puote; cioè per sì fatto modo, che non si può l’affetto nostro, Torcer; cioè piegar, ad alcuna nequizia; cioè ad alcuna inequalità et iniustizia. Et ora induce una similitudine, usando antipofora 150 rispondendo ad uno dubbio che si potrebbe muovere; cioè perchè volse Iddio che questi gradi di beatitudine fusseno in vita eterna. E dice che questo è per maggiore diletto dei beati che s’accordono sì insieme, che ciascuno è così contento del ben del prossimo come del suo, perche quine è perfetta carità et amore, e cresce accidentalmente sempre la loro beatitudine, rallegrandosi dell’altezza di quegli che sono in maggiore grado, come di loro medesimi. E però dice: Diverse voci; cioè nell’arte della musica la diversità delle voci, che insieme s’accordano, fanno dolci note; rappresentate all’audito, Così diversi scanni; cioè diverse sedie e diversi gradi di beatitudine, in nostra vita; cioè nella nostra vita beata, Renden dolce armonia; cioè dolce concordanzia di voluntadi, come armonia è concordanzia di voci e di suoni, tra queste rote; cioè tra queste spere che si rotano e girano continuamente, nelle quali si rappresentano le nostre opere co le quali abbiamo meritato l’eterna beatitudine, secondo la fizione del l’autore; ma, secondo lo suo intelletto che ebbe di questo, s’intende tra le sedie del cielo empireo, nel quale li beati sono e ragguardano Iddio, et in quello aspetto frueno 151; e così è adempiuta la loro beatitudine.

C. VI — v. 127-142. In questi cinque ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Iustiniano, continuando lo suo parlare, dimostri loro un altro spirito beato che era con loro. Ecco che ben finge l’autore che Iustiniano fusse eloquente et avesse a mente istorie e novelle, secondo la influenzia di Mercurio inducendolo ora a dire la novella di Romeo, la quale si dice in questa forma. Essendo Ramondo Berlinger, conte di Provenza, uomo che poco curava di vedere gli fatti di sua corte, anco più tosto prodigo del suo, aveva lo suo contado molto mancato, gittando gli famigli della corte e scialacquando lo suo, eziandio li ragazzi della stalla straziando e gittando lo strame e l’orzo, e mal procurando gli cavalli; e per questo conveniva che iniuste estorsioni e disequali si facessono ai suoi sudditi. Come piacque a Dio, un di’ avvenne uno Romeo, che andava peregrinando, e capitò alla stalla di questo conte e chiese ai ragazzi bene et elemosina per l’amore d’Iddio; costoro avevano roba assai arrecato a la stalla e buoni vagelloni di vino, dierno a questo peregrino roba assai et albergornolo nella stalla. Questo [p. 228 modifica]peregrino era saputo uomo, accortosi della mala masserizia che si faceva nella corte, udito lo debito del signore disposesi ad ovviare alla mala masserizia della stalla, prima dicendo a quello che era sopra la stalla ch’elli voleva, se gli piacesse, rimanere et aver cura dei cavalli: quegli fu contento, perchè poco se ne curava e perchè ne fuggia fatica. Questo peregrino incominciò ad avere cura dei cavalli e risparmiare la roba di quella che si gittava, et in poco tempo ebbe migliorato li cavalli et avanzato molta roba di quella che si gittava. Unde accortosi Ramondo conte che li cavalli erano fatti più belli, volse sapere la cagione; e veduto la bontà di costui, puosegli amore, e brevemente d’officio in officio, trovando che andava di bene in meglio, promovendolo, lo fece suo siniscalco maggiore della corte, e fu chiamato da tutti Romeo perchè in sì fatto abito v’era capitato. Et avendo costui ogni cosa in mano, ordinò con tanta cura e sollicitudine ogni cosa, che in breve tempo ebbe avanzato tanto tesoro, che tutte le terre impegnate ricolse, tutta la corte fornì di vagellarne d’ariento, e le gravezze e l’estorsioni che iniustamente si facevano ai sudditi cessorno, e quattro figliuole che avea lo conte maritò a quattro re di corona, cioè le due a due fratelli, cioè l’una al re Ludovico re di Francia, e l’altra a Carlo fratello del detto re Ludovico duca allora d’Angiò, poi re di Sicilia e di Puglia; l’altre due a due fratelli ancora, cioè l’una al re Arrigo d’Inghilterra, e la quarta al re Riccardo della Magna fratello del detto re Arrigo d’Inghilterra; e dopo questo raunò grande tesoro al detto conte, sicchè lo detto conte e lo suo contado era in migliore stato che mai fusse. E stando le cose in questa forma, lo inimico de l’umana natura fece nascere invidia tra li Provenzali cortigiani e consiglieri del conte di Provenza, e questo Romeo; unde incominciorno a dire al conte: Signore, questo vostro siniscalco àe cotanti anni trafficato lo vostro 152, sarebbe dovuto ch’elli vi mostrasse ragione delle cose amministrate per lui; e tanto a ciò lo sollicitorno, che’l conte chiamò un di’Romeo, e sì li disse ch’elli s’apparecchiasse a mostrargli ragione di quel ch’avea amministrato. Romeo rispuose che era apparecchiato a mostrargliele quandunqua voleva, lo conte non se ne curava; ma ciò dicea, per contentare quegli che di ciò lo stimulavano: era contento che lo indugio fusse grande. Ma Romeo accorgendosi della invidia che gli era portata, deliberandosi di non starvi più 153, disse che l’altro di’ liele voleva mostrare; e l’altro di’ poi menò lo conte nella camera sua [p. 229 modifica]dove era lo tesoro, e sì disse al conte: Voi sapete, messer lo conte, che quando io venni a stare con voi, voi non avavate 154 tesoro, certo avavate lo tale debito e lo tale, e pegno 155 le tali castella; da poi in qua io òne soddisfatto tutti li debiti, io òne ricolte tutte le terre, io òne maritato quattro vostrefigliuole a quattro re di corona che ciascuna gosta tanto; et aperto gli scrigni disse: Questo è pieno di vagellame d’ariento, questo altro di grossi, questo di fiorini, questo di perle, questo dei vostri ornamenti della corte: quando io ci venni, io ci arrecai questa schiavina e questi panni; e spogliossi inanti al conte li panni che aveva della corte indosso e rivestittesi li suoi, e partesi e vassi con Dio. Lo conte rimase sì travagliato vedendo tanto tesoro che, come fu voluntà d’iddio, ancora ch’ elli riprovasse quegli che prima aveva provato, che non s’accorse di dire niente nè di ritenere lo Romeo. Stando poi un pezzo, mandogli di rieto e non fu mai potuto trovare; e venuta la corte a mano di quegli di prima, incominciò ad andare male come soleva, e però convenne che si ritornasse a fare le iniuste estorsioni ai sudditi come prima, e li mali trattamenti, sicchè li lamenti andorno al conte. Unde Ramondo irato fece pigliare quegli che della ragione l’aveano consigliato, e tutti li fece decapitare, e Romeo s’andò per lo mondo, come soleva, servendo a Dio, sicchè poi per la credenza dell’autore elli meritò colle sue virtù politiche et attive d’avere vita eterna. E però finge che Iustiniano lo quale fu mercuriale, secondo che l’autore àe finto, dicesse la novella predetta per mostrare che li mercuriali sono parlatori e novellatori; e però dice: E dentro alla presente margarita; cioè dentro a questa stella di Mercurio, che è lucida e splendida più che ogni pietra preziosa 156, Luce; cioè risplende, la luce; cioè l’anima gloriosa, che è fatta risplendente come una luce, di Romeo; cioè del sopra scritto che fu chiamato Romeo, come detto è: imperò che qui si rappresenta e dimostra la virtù ch’egli ebbe, non perchè quine l’anima sua sia locata: che s’ella è beata, ella è in vita eterna nel secondo grado dei beati; e però finge che quine sia, per dimostrare che ella era degna del secondo grado, di cui; cioè della quale, Fu l’opra grande: imperò che grande cosa fe, e bella: imperò che con grande fede e lealtà operò tutta sua industria, e mal gradita; cioè e mal cognosciuta da quelli Provensali e mal meritata, che gli feciono addimandare ragione, e forse anco lo ’nfamorno di dislealtà quando lo doveano commendare. Ma i Provenzai; cioè gli [p. 230 modifica]consiglieri del conte, che erano di Provenza, che fecer contra lui; cioè contra Romeo, disfamandolo innanti al conte, Non n’ànno riso; ma anco n’ànno pianto: imperò che ne furno puniti dal conte che furno dicapitati. e però mal cammina; cioè mal capita, Qual si fa danno; cioè qualunqua fa danno a sè, del ben fare altrui; cioè increscendoli che altri faccia bene e stroppiando chi fa bene. E conta le grandi cose che fece Romeo: Quattro figlie ebbe; cioè, Ramondo Berlingieri, conte di Provenza ebbe quattro figliuole, e ciascuna regina: imperò che tutte e quattro furno maritate a regi, come detto è, e ciò; cioè e tutto questo, li fece; cioè di maritare queste quattro figliuole a regi, Romeo; cioè quello suo siniscalco, che fu chiamato Romeo, persona umile: imperò che non fu persona di lignaggio, e peregrina: imperò che andava in abito di peregrino per lo mondo, et era straniero da Provenza. E poi; cioè dopo questo sì grande bene, lui; cioè lo detto conte, mosser; cioè mossono, le parole biece 157; cioè le parole torte e falsamente dette dai Provenzali invidiosi, A dimandar ragione a questo iusto; cioè a Romeo; e dice questo, perchè l’anima sua era presente, secondo che finge l’autore, beata sì che bene era iusta; et avendo rispetto al passato anco fu iusta, Che; cioè lo quale, li; cioè a lui, cioè al conte predetto, assegnò; quando li mostrò la ragione, sette e cinque; che son 12, per diece; cioè gli assegnò, più che non credeva avere lo conte, lo quinto; o vogliamo ponere lo numero determinato per lo indeterminato; cioè troppo più che non credeva avere ad avere. Indi; cioè della corte del detto conte, partissi; cioè Romeo, mostrata la ragione, pover e vetusto; cioè povero: imperò che niente ne portò se non la schiavina sua e ’l bordone; e vecchio: imperò che nel servigio del conte era invecchiato. E se ’l mondo; cioè gli uomini del mondo, sapesse il cuor; cioè diritto e giusto, non vago di ricchezze; ma solamente di bene operare, ch’egli ebbe; cioè Romeo predetto, Mendicando sua vita; cioè accattando andando per vivere, a frusto a frusto; cioè a pezzo a pezzo di pane, Assai lo loda; cioè lo mondo Romeo, e più lo loderebbe: imperò che ’l mondo solamente lo loda del dispregio delle ricchezze 158; ma non lo loda dell’equità dell’animo che ebbe grandissima, sappiendo sostenere le ricchezze come la povertà, et essendo povero per voluntà e non per forza, et essendo di tanta iustizia e leeltà e d’industria, e sì esercitativo. E qui finisce lo suo parlare Iustiniano, lo quale l’autore àe indutto a parlare tanto, per mostrare la natura dei mercuriali. E qui finisce lo canto sesto 159, et incomincia lo settimo.

Note

  1. C. M. bella fizione: imperò
  2. C. M. dalle
  3. C. M. quel che fu
  4. C. M. signoria di tutte
  5. C. M. Enea troiano per insegna
  6. Milia, alla maniera dei Latini. E.
  7. C. M. da oriente che va ad occidente e di qui quinde torna per l’ altro emisperio ad oriente,
  8. C. M. l ’ altro che va contrario si
  9. C. M. quali fulminava li
  10. C. M. cioè ne l’ultima parte
  11. Ane; da àe, frappostovi l’ n, affinchè la voce avesse un certo riposo. E.
  12. Agusto; Augusto, cavatone via l’ u, secondo che profferisce anch’ oggi il popolo toscano: agurio, Fastina ec. E.
  13. Chimento, Chimenti, Chemente, Clemente, clemento adoperarono indifferentemente i nostri antichi, come chiaro e claro. E.
  14. Sirocchia, sorocchia per sorella trovasi frequente nei padri di nostra lingua. E.
  15. Tolleva; dall’ infinito tollere. E.
  16. Piue; più, aggiuntovi l’ e, perchè la voce si riposi. E.
  17. C. M. cioè in questo punto
  18. Imperadori; singolare con la cadenza in i come pensieri e pensiere. E.
  19. C. M. cioè a fare alcuno aggiungimento alle parole
  20. C. M. con tanta ragione; cioè con niente di ragione ciò poca o nulla, Si muove
  21. C. M. ogniuno nelle cose corporali lo dè obbedire, come nelle cose spirituali la Chiesa: imperò che Cristo disse: Reddite
  22. C. M. ragione
  23. C. M. cioè come grande, operata
  24. Spegnè; cadenza naturale dall’ infinito spegnere E.
  25. C. M. Alba, edificata da Ascanio filliuolo d’ Enea e di Creusa troiana, filliuola del re Priamo, sua dimora;
  26. C. M. dei Creti
  27. Monaca sta qui per Sacerdotessa. E.
  28. Fastulo; donde si vede cavato via il primo u, come altrove si è fatto avvertito in Agusto, Agostino ec. E.
  29. In su quello : ellissi del sustantivo, terreno, territorio e simili. E.
  30. Fediti; feriti, mutato l’r in d come in armadio, armario; chiede, chiere ec. E.
  31. C. M. imperò che la signoria de li Albani volea occupare lo tutto
  32. Ordìno; ordirno, ordirono dalla terza persona singolare ordì, aggiuntovi no, che gli antichi scrivevano talora con un’ n sola. E.
  33. Spartigli; spartirgli, dall’infinito spartì con accento che indica il troncamento dell’estrema sillaba. E.
  34. Triplicino, da altri nominato Tricipitino E.
  35. C. M. che ebbe fu
  36. Porti; come carti, lodi, dal singolare carte, lode e altrettali. E.
  37. Prete; adoperato in luogo di sacerdote, dato alle cose sacre. E.
  38. Menilla, detta da Livio Medullia; e Crustumeno, Crustumerium. E.
  39. Uccisello; uccisenlo dove si è cambiata l’ n in l per eufonia. E.
  40. Stimo, estimo, latinamente census. E.
  41. Con seco, con meco, con teco pleonasmo continuo nella bocca del popolo toscano, dai mal pratici della lingua vivente nominato modo affettato. E.
  42. Papardi; papaveri E.
  43. C. M. stesse lo papa e li padri a
  44. Signa; oggi Segni, e Circeoli luogo vicin del promontorio Circeo appellato ora Monte Circelli. E.
  45. C. M. menonno seco come per giuladro Iunio— . Il nostro codice à - iullare; giullare, giocolare - col quale vocabolo nella Francia meridionale s’intendeva colui che alle canzoni univa la pruova di moltissimi giuochi. Codesta voce però mal risponde al ludibrium dello storico Livio, la quale significa sollazzo, trastullo. E.
  46. C. M. Superbo, lo quale fu chiamato Superbo per le cose crudeli che fece, non sostenendo alcuno pari a sè nè sopra sè, trovando le spezie de’ tormenti, e regnò
  47. C. M. abbreviatole, lo più che abbo potuto, per non essere troppo lungo.
  48. C. M. continuò ancora la sua orazione nella materia
  49. Geste; fatte, operate; da gestus participio latino. E.
  50. C. M. si chiamava
  51. Grece; gregge, come brace e brage. E.
  52. C. M. millia. E scontratosi quine con li Romani e combattuto, li Romani furno
  53. Veghi; Veio, Veiento, città d’ Etruria, oggi Isola Farnese. E.
  54. C. M. tenevano la rocca di Roma ; et avuto da loro lo mandato, venne
  55. C. M. da capo, e morti e presi sicchè
  56. C. M. Taranto, essendo lo maro in mezzo. Et essendo
  57. Secondo altri questa sconfitta avvenne presso Benevento, e giusta l’ Orosio i morti furono trentatremila, ed Eutropio ne annovera ventitremila. E.
  58. C. M. Mallio disceso dal ditto Marco— . Il nostro Codice legge - nascoso riferendosi a quanto leggesi in Livio: Dies Manlio dicitur ... criminique ei tribunus inter caetera dabat, quod filium iuvenem nullius probri compertum, extorrem urbe, penatibus, foro, luce, congressu aequalium prohibitum, in opus servile, prope in carcerem atque in ergastulum dederit. E.
  59. C. M. Torquato, che è vocabulo grammatico [latino] che viene a dire in vulgare fregiato, e così funno poi chiamati li suoi descendenti,
  60. C. M. Gemino Mezio,
  61. C. M. nel vi della sua Eneide, come anco di Camillo, quando disse: Saevumque securi Aspice Torquatum, et referentem signa Camillum-, e Quinzio-;
  62. C. M. capello, o però dice
  63. C. M. capello: cirro e cincinno capello è a dire, Negletto:
  64. C. M. possono lavorare
  65. C. M. lo capitulo
  66. C. M. Minuzio in Algido cavalcò contra li Equi,
  67. L’ altro di’; nell’ altro di’, nel di’ appresso o vegnente. E.
  68. Compagni; alleati, amici, confederati. E.
  69. Secondo Aurelio Vittore dee dire Veseri.
  70. Spaventasse; intransitivo assoluto, come talora i classici usano di lasciare l’affisso. E.
  71. In sul veientano, modo ellittico ove si à da supplire territorio, terreno. E.
  72. Agguaito, agguato; nascondiglio, proveniente da due voci arabiche le quali rispondono all’ articolo al e gatha; si nascose. Guaita in questo significato vive tra il popolo della provincia metaurense. E.
  73. Il Gradonico al verbo mirro così commenta: Gli antichi usavano di ungere di mirra gli corpi morti, a ciò che sè conservassero, così come gli moderni usano di balsemare; onde l’autore, vogliendo conservare tale fama del romano imperio, sì la descrive nel presente capitolo e dice la fama che volentier mirro, che tanto vole dire quanto sarebbe a dire che io ungo di mirra, che la conserverà sempre per lo tempo futuro. E.
  74. C. M. d’ Enboia,
  75. C. M. che è presso a Pavia, e quine
  76. C. M. in Pullia ad una villa che si chiama Canne
  77. C. M. andare, e fu lo primo che sì giovano fusse fallo consule: questi fu di tanta virtù che in breve tempo racquistò
  78. C. M. sotto esso segno dell’ aquila,
  79. Decreto; decretato, participio passato come torno, trovo per tornato, trovato, dal latino decretus. E.
  80. natales, pueri, numerare
  81. virtus non venit ante
  82. Fiesuli, Fiesule, Fiesoli, Fiesole, con doppia terminazione come Cesari, Cesare ec. E.
  83. Inghilese pronunciasi tuttora dal popolo toscano, solito per maggiore dolcezza frapporre una vocale a due lettere, la prima delle quali sia una muta e l’altra una liquida, come aghero per agro e simili. E.
  84. C. M. al senato et iudicare indegno del triunfo ; ma la parte sua procacciò che li fu conceduto dal populo, e così fu partita
  85. C. M. Petreio et Affranio,
  86. C. M. Troia , della quale elli avea l’ origine;
  87. C. M. dice sereno a suo modo: imperò che come lo cielo
  88. Ceso ; tagliato, dal latino caesus. E.
  89. Gaio o Caio, pronome che significa gaudio de’ parenti dal greco γαίω; godo, mi rallegro. E.
  90. Grammatica; latino. E.
  91. In del vale entro e corrisponde all’ intus de’ Latini. E.
  92. C. M. preditte parti
  93. Decernessono, da decernere ; decretare. E.
  94. C. M. li fiumi d’ Italia,
  95. C. M. avaccianza e prestezza di sì grande
  96. Brandigi, Brandizia, Brandizio anticamente, ed ora Brindisi dal latino Brundusium. E.
  97. C. M. Lo monte Istino
  98. C. M. Pompeio, et a quella, isola mandò Enea troiano la sua classe a compiere, quando l’ebbe fatta rozzamente ne’ monti d’ Ida, e Simoenta;
  99. Veli; da vele, come carti, porti da carte, porte ec. E.
  100. C. M. molto compiacere;
  101. tutori
  102. Perchè; benchè. E.
  103. Armario ; armadio, come ferito e fedito e simili. E.
  104. Vilumi; volumi. E.
  105. Lunge ; lunghe, per la solita fognatura dell’ h, siccome in vagezza ec. E.
  106. C.M. in Ispagna Cesare, e
  107. C.M. Affranio
  108. C.M. ma secondo Lucano,
  109. Gibellini; ghibellini, sottrattone la lettera h, siccome in luogi ec. E.
  110. Bailo ; balio. E.
  111. In alcuni storici è che Cesare ebbe 24 ferite. E.
  112. Interfettori ; ucciditori, uccisori, dall’ interfector latino che vale il medesimo. E.
  113. Volve; volle, passato alla guisa del latino voluit, come dolve ec. E.
  114. Ossediare ; imitando il latino obsidere. E.
  115. C. M. prese la filliastra d’ Ottaviano lo ditto Antonio per donna ; ma innanti la lassò che con lei si congiungesse. E diviseno
  116. Vinsogli, condussogli, e più sotto sconfissollo per la consueta mutazione dell’ n in g od l, in luogo di vinsonli, sconfissonlo ec. E.
  117. Psilli: popoli abitanti al mezzo giorno della Cirenaica fra i Nasamoni ed i Getuli, creduti capaci a guarire le morsicature dei serpenti colla semplice loro saliva o col solo tatto. E.
  118. C. M. Cermatori
  119. C. M. diventate
  120. C. M. venne poi che alla circuspezione li Romani dierno questo
  121. Grammaticale ; latino, ed appunto si deriva questo nome da deluere; lavare, torre via lavando. E.
  122. C. M. li Caucabri, poi
  123. C. M. dove lo regno
  124. C. M. riacquistò dai
  125. Secondo lo triunfo ; il secondo trionfo, o trionfo minore, appellato ovazione perchè vi era sacrificata una pecora, latinamente ovis. E.
  126. C. M. ma è bella massimamente per
  127. Altro luogo, sottintesovi la particella in a mo’ dei Latini; in altro luogo. E.
  128. Silmaria ; salmeria, carriaggi. E.
  129. C. M. sì a Roma, che
  130. t’ ammira dee pur qui leggere il testo, come altresì nel vostro al verso 71, ed al 99 vostri. E di ciò e di qualche altro trascorso chiediamo venia al cortese leggitore. E.
  131. Si ponga mente la grazia della nostra particella da significante avvicinamento ed approssimazione. E.
  132. Succedè naturale piegatura dall’ infinito succedere. E.
  133. Otto; Ottone, alla maniera d’ altri nomi vegnenti dal nominativo latino come Dido, Pluto, imago, sermo ec. E.
  134. C. M. Bellonese
  135. C. M. venneno li Libini e li Sallini
  136. C. M. li Boi e Lingoni
  137. C. M. Chiesa; cioè quando la fame canina de’ Lombardi, che erano chiamati Longobardi; cioè l’avarizia bramosa, denotata per lo dente, rubbò la santa Chiesa, tolliendoli
  138. Lori; loro che talvolta si truova declinato. E.
  139. C. M. uscitte di prigione, se ne venne
  140. C. M. li suoi ribelli .
  141. Iuba; giubba, secondo il latino iuba; chioma, crine pendente dal collo d’ alcuni animali. E.
  142. Ragona: Aragona, levatane via la prima vocale, come in Rimino, rena ec. per Arimino, arena . E.
  143. Pagi, paghi per la non rada fognatura dell’h, onde frequenti sono gli esempi. E.
  144. Anche i nostri antichi aveano questo preciso concetto del duplice reggimento, la confusione de’ quali è stata sempre cagione di gravi danni all’ umana famiglia . E.
  145. C. M. mila cubiti,
  146. Producere; tolto dal latino, come dicere, inducere, ponere che talora si rinvengono presso i nostri classici. E.
  147. C. M. Albumasar
  148. Vorremo , così in antico ; ma al presente vorremmo. E.
  149. Adolesce; cresce, notrica, adoperato attivamente, come in latino si truova attivo adolescere presso Sallustio. E.
  150. C. M. antifora
  151. Frueno: godono, dall’infinito fruere, verbo della terza coniugazione foggiato sulla seconda, come apparere, influere, pentere e simili. E.
  152. Lo vostro; maniera ellittica la quale presso i classici ricorre sovente coi pronomi possessivi, dove riesce facile intendere la mancanza del sustantivo avere, negozio. E.
  153. C. M. starvi più, e però andò e disse ch’elli avea messo in concio, che l’altro di’ se li piaceva li volea mostrare la ragione, e così l’ altro di’ menò
  154. Avavate, presentemente avevate ; inflessione data pure ai verbi della seconda coniugazione, per uniformarli alla prima: amavate, cantavate ec. E.
  155. Pegno le tali castella; modo ellittico dove saria da supplire avevate dato pegno per le tali castella. E.
  156. C. M. preziosa : margarita è pietra preziosa, Luce;
  157. Biece; bieche, per l’ usitata guisa di fognare l’ h in alcune parole. E.
  158. C. M. ricchezze, come la povertà,
  159. C. M. vi, e seguita lo settimo.
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