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[v. 34-42] | c o m m e n t o | 167 |
saris Cœsari, et quœ sunt Dei Deo; dunqua contra cagione 1 fa chi sei piglia di sua attorità, e chi lo disobedisce.
C. VI — v. 34-42. In questi tre ternari finge lo nostro autore come Iustiniano, continuando lo suo parlare, fatto fine alla risposta che diede a la dimanda di Dante, fatto di sopra l’esordio e la nuova orazione che intendea di seguitare, ne la quale intendea con quel colore, che si chiama frequentemente frequentazione, narrare tutte le notabili cose fatte per li Romani notate appresso gli autori, riferendole in questo luogo, seguitando Vergilio che usò questa poesi nel sesto Æneidos, quando finse che parlando Anchise li mostrasse la stirpe futura dei Romani che doveano descendere di lui; e poi quando finse che Venus recasse a Enea lo scudo fabricato da Vulcano, nel quale erano scolpite tutte le storie romane. Incomincia ora la narrazione sua, parlando pur del sengno dell’aquila dicendo in questa forma: Vedi; cioè tu, Dante, quanta virtù; cioè 2 operata sotto esso sengno da’ Troiani che furno origine dei Romani, e poi dai Romani, l’à fatto; cioè àe fatto lui, cioè lo sengno dell’ aquila, degno Di riverenzia; e qui è moralità, cioè che la virtù sola è quella che fa la cosa degna di riverenzia, e cominciò dall’ora; cioè infine da quel tempo, Che Pallante mori; questo Pallante fu figliuolo del re Evandro, nato d’Arcadia di Grecia re di Pallanteo, che fu quine dove è ora Roma in sul monte Palatino, che allora si chiamò Palazio, lo quale quando Enea venne ad Ostia dentro a la foce del Tevero e fatto la città sua, fue inimicato da Turno re dei Rutuli di Campagna, figliuolo del re Dauno d’Ardea, fu dato in aiuto ad Enea contra il detto Turno che forse li faceva mala vicinanza con quattrocento cavalieri. E finalmente andato con Enea ad acquistare l’aiuto delle terre di Toscana e di Lombardia e delle parti vicine; e tornato per mare et arrivato in terra, venne a singulare battaglia con Turno; nella quale battaglia fu morto da Turno, benchè fusse gagliardissimo e fusse di grandezza come uno gigante, e così ancora Turno; ma Turno era esperto di battaglia, e Pallante inesperto. E come diceno le croniche, lo corpo di Pallante fu trovato in Roma, cavandosi sotterra, in una arca di pietra grandissima, di mirabile grandezza con una ferita d’una lancia, la quale ferita era lunga due piedi di pertica, con una lucerna di metallo accesa nella detta arca la quale non si poteva spegnere, se non che si fe uno foro di sotto et allora si spegnè 3; e di questo Pallante molto largamente parla Virgilio nella sua Eneide.
Et è da notare che l’autore finge che Iustiniano incominciasse