Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo III
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Capitolo Terzo.
Il dissidio, por legge inesorabile della storia, si afferma subito. — Liberali e sanfedisti. — Le buone intenzioni di Pio IX e il mal volere dulia curia. — La circolare del cardinale Gizzi e le nuovo dimostrazioni. — La visita a san Carlo al Corso il 4 novembre. — Il possesso di Pio XI. — L’enciclica Qui plurimis. — Il banchetto patriottico al teatro Alibert. — Eco dei festeggiamenti romani in Italia. — Il conte Solare della Margherita. — Dimostramenti per il centenario della espulsione degli Austriaci da Genova. – L’inondazione del Tevere e Ciceruacchio. — Morte di Federico Confalonieri — La notte di Santo Stefano. — La festa del primo dell’anno 1847. — L’inno di Pio IX. — Il Contemporaneo. — Pio IX predicatore a sant’Andrea della Valle. — Banchetto a Riccardo Cobden. — Eco della popolarità di Pio IX in Europa. - Commissioni per le riforme. — Lentezze e tentennamenti. — La legge sulla stampa. — Viva Pio IX nolo! — I circoli. — Il natale di Roma. — La Consulta di Stato. — La Bilancia e il prof. Orioli. — Il natalizio di Pio IX. — Monsignor Grassellini e il marchese Dragonetti. — Motu-proprio sul Consiglio dei ministri. — L’anniversario della elezione di Pio IX. — L’inno di Pietro Sterbini. — Il cardinale Gizzi ostile alle dimostrazioni. — I funerali di Daniele G’ Connell e il padre Gioacchino Ventura. — I gesuiti e il cardinale Lambruschini. — La guardia civici e il cardinale Gizzi. — Gli Ebrei, i Regolanti e Ciceruacchio. — Le dimissioni del cardinale Gizzi sostituito dal cardinale Ferretti. — Preparativi per festeggiare l’anniversario dell’amnistia. — La congiura del 17 luglio. — Gli Austriaci a Ferrara. — Commenti.
Senza indagare, per ora, fino a qual punto la missione di rigeneratore d’Italia che il Gioberti aveva affidato al Papato, e che Pio IX, senza troppo rendersi esatto conto della sua gravità ed importanza, si era assunto di compire fosse possibile, senza indagare, per ora, fino a qual punto essa fosse conciliabile con i dogmi cattolici, è certo, è innegabile che quella missione veniva ad urtare, e doveva necessariamente venire ad urtare contro secolari tradizioni, contro secolari pregiudizi, contro secolari interessi, il che val quanto dire che Pio IX, il quale accennava a volere adempire quella missione, doveva sollevare inevitabilmente contro di sè — e ragionevolmente — tutte le numerosissime falangi degli uomini che rappresentavano quei pregiudizi, quelle tradizioni, quegli interessi.
E ho detto e ripeto ragionevolmente, perchè bisogna essere sovrumanamente semplici, o mossi solo da mala fede per affermare che il principe di Metternich, il cardinale Lambruschini e il conte Solaro della Margherita dovessero o potessero rimanere indifferenti dinanzi ad una politica, che era in diretta e completa opposizione con quella da essi posta in atto e seguita per tanti anni, siccome la sola vera, la sola opportuna, la sola buona.
E se quegli uomini di Stato, per antichi e profondi convincimenti stimavano ottima la politica inaugurata a Vienna, sulle cose d’Italia, fin dal 1815, come mai non avrebbero dovuto trovare pessima e nefasta la politica delle concessioni e delle riforme, invece di quella della repressione e della reazione?
Obiettivamente, adunque, considerando questo periodo storico, ogni uomo dotato di semplice senso comune deve trovare logico e ragionevole che il Metternich, il Lambruschini, il Solaro della Margherita e i loro satelliti facessero opposizione a Pio IX, siccome di fatto la fecero. Il venir, dunque, come fa lo Spada e tutta la coorte degli storicuzzi vaticaneschi a negare, contro la logica delle cose e contro l’evidenza dei fatti, questa opposizione, è opera o puerilmente ridicola, o manifestamente menzognera, giacchè dopo la pubblicazione dei numerosissimi e importanti e gravi documenti prodotti dal Gualterio, dal D’Haussonville e dal Bianchi, negare gl’intrighi, le mene, le trame del principe di Metternich e di tutti i ministri e gli ex-ministri reazionari d’Italia è un voler negare la sfolgorante luce del sole in sul mezzodì1.
E ciò per quel che riguarda l’avversione e le ostilità alla politica di Pio IX da parte dell’Austria e de’ suoi satelliti in Italia, fra cui a lei devotissimo Ferdinando di Borbone; ma altre e più fiere e tenebrose trame si ordivano - e logicamente si dovevauo ordire - all’interno, e specialmente a Roma, contro il Papa liberale dalla teocrazia, la quale vedeva bene come il fine a cui quella politica - oltrepassando le intenzioni dell’incauto Pio IX - fatalmente e inesorabilmente condurrebbe, sarebbe tutto rivolto ed unicamente a suo danno: i cardinali Lambruschini, Della Genga, Bernetti e la grande maggioranza del Sacro Collegio, la grande maggioranza dei prelati ben vedevano e comprendevano che si comincerebbe con lo spogliar loro dell’autorità e della potestà, onde fin qui essi soli erano stati investiti per trasferirla nei laici, e che si finirebbe, in un modo in un altro, o presto, o tardi con l’abolizione del potere temporale. E come, ciò temendo, intendendo e prevedendo, avrebbero essi potuto astenersi dal l’opporre tutti gli ostacoli possibili e immaginabili all’attuazione della politica sconsigliata di questo pazzo e insensato Pontefice - che tale essi dovevano giudicarlo e lo giudicavano?
E quindi essi adoperarono, naturalmente, tutte le arti e si unirono ai potentissimi gesuiti per intralciare, con ogni mezzo, la politica riformatrice di Pio IX, approffittando della sua inesperienza, della sua bontà, della sua debolezza, della sua esitazione, e, sopratutto, de’ suoi scrupoli religiosi, che essi abilmente andavano suscitando e sommovendo nell’animo suo, onde i turbamenti, gli ondeggiamenti, i tentennamenti di questo, fra i papi, vero Don Desiderio, disperato per eccesso di buon cuore.
Quindi fin dal 17 luglio 1846 da un lato opposizioni, più o meno palesi, da parte del Collegio cardinalizio, della prelatura, dei gesuiti; mal volere, inerzia, resistenza all’attuazione di qualsiasi riforma da parte della polizia, delle amministrazioni, della burocrazia: e, fin dal 17 luglio, un colpo al cerchio e l’altro alla botte - come già dissi - da parte del Pontefice.
Dall’altro lato, moderati e radicali, o esagerati, o esaltali come dicevasi allora - capitanando la grandissima maggioranza delle popolazioni, procedevano concordi sulla via delle dimostrazioni, concordi fino ad un certo punto, e, cioè, in questo, nel domandare al Pontefice, con lodi, con applausi, con popolari adulazioni, con espansione di vivi entusiasmi, quelle riforme che erano un bisogno immanente dello Stato romano, e che, qualunque fosse stato il successore di Gregorio XVI, o per via di evoluzione, per via di rivoluzione, le popolazioni romane ad ogni modo avrebbero reclamato, e le quali, ad ogni modo, bisognava accordare.
La discordia fra moderati ed esagerati sarebbe cominciata soltanto quando il Papa si metterebbe risolutamente su quella via, quando, cioè, si sarebbe trattato di valutare le concessioni del Pontefice, e di dichiarare se le innovazioni introdotte nel reggimento politico e civile dello Stato romano fossero bastevoli insufficienti.
Frattanto i liberali, in quel momento tutti d’accordo, intuivano, sentivano e comprendevano donde venissero le naturali e logiche opposizioni, le reluttanze, le resistenze e, continuamente, nei circoli, nei banchetti, nei giornali, che cominciavano a far capolino, in barba ai censori domenicani, esaltando il Papa e incoraggiandolo, lo ammonivano a guardarsi dai fraudolenti consigli e dalle arti e dalle insidie dei sanfedisti, dei gesuiti, dei gregoriani, ai quali soltanto - e ragionevolmente - facevano risalire la colpa e la responsabilità delle lentezze, delle esitazioni, delle anfibologie di quella politica oscillante, proclamandone innocente il loro idolo Pio IX2.
Le manifestazioni popolari urtavano i nervi delle congreghe sanfedistiche, perchè tutti quegli applausi al presente si risolvevano, in ultima analisi, in altrettanti fischi e maledizioni al passato: Pio IX, che fu sempre femminilmente vanitoso3, oltremodo se ne compiaceva: ma i suoi consiglieri riuscirono a persuaderlo che quelle dimostrazioni costavan danaro ai sudditi, che allontanavano dal lavoro e dalle quotidiane occupazioni, onde il cardinale Gizzi, segretario di Stato, in data 8 ottobre, inviò una circolare alle autorità governative, nella quale, per le accennate ragioni, si eccitavano le medesime a far conoscere pubblicamente queste intenzioni del Santo Padre nell’occasione particolarmente in cui dalle magistrature municipali e da altri le sia richiesto il permesso di celebrare nuove feste, di condurre di città in città numerose brigate di popolo4.
La circolare, che non fu pubblicata nel Diario ufficiale, non impedì nuove ed entusiastiche dimostrazioni, specialmente in Roma, dove ogni volta che il Papa usciva dal Quirinale - ed era in giro quasi ogni giorno a visitare chiese, conventi ed ospizi - avveniva una dimostrazione. Due più clamorose ne seguirono il 14 e il 21 ottobre in onore del Pontefice reduce da due gite da lui fatte il 14 a Tivoli e il 21 a Frascati. Centinaia di vetture pubbliche e private, migliaia e migliaia di persone andarono ad incontrare il Papa fuori delle porte san Lorenzo e san Giovanni.
Nondimeno, «eran già quattro mesi decorsi dalla elezione del Santo Padre, e tre dall’atto dell’amnistia, e ad onta della pressura che per tutti i versi, e in voce e in iscritto e col lenocinio delle feste erasi esercitato sul medesimo, poco o nulla redecasi di ciò che contentar potesse gl’intemperanti desideri del più corrivi, e le limitate speranze dei moderati. Se togli di fatto la manifestazione delle huone intenzioni per parte del Santo Padre e qualche circolare della segreteria di Stato sulla educazione della gioventù, e sui sequestri a carico degl’impiegati, poco nulla si vide di ciò che sperarasi, e quindi parole d’impazienza già sfuggivan dal labbro mendace dei lodatori eccessivi»5.
E, infatti, se lo Spada avesse ripensato che il popolo attendeva da trent’anni, non avrebbe trovato tanto irragionevole l’impazienza che cominciava a manifestarsi.
E il 4 novembre, allorchè il Papa si recò officialmente e in treno nobile alla chiesa di san Carlo dei Milanesi al Corso, l’accoglienza fatta al Pontefice dal popolo affollato sul suo cammino fu molto fredda - affermano lo Spada e il Gualterio - e in alcuni punti assolutamente silenziosa e glaciale, quantunque il Grandoni e il Farini asseriscano che il Papa fu, come al solito, festeggiatissimo6.
Da quella fredda accoglienza, notata dal Gualterio e dallo Spada, negata dal Farini e dal Grandoni, e sulla verità della quale non importa stare qui a discutere, toglie motivo lo Spada per mostrare come evidente fosse la congiura degli agitatori, tendente ad ammonire il Papa che, come essi disponevano degli applausi e sapevano eccitarli, disponevano pure del silenzio e di qualche cosa di peggio7.
E non vede l’acceso storico papalino quale e quanta offesa rechi a quel popolo romano, di cui egli si mostra così tenero, e a quel pontefice Pio IX di cui si manifesta così devoto; giacché, supponendo come egli fa, che gli applausi al Papa muovessero solo dal concerto degli agitatori - che egli stesso ammette essere pochissimi e quasi tutti estranei a Roma - ne deriva o runa l’altra di queste due conseguenze: o che il Papa non era amato ed applaudito che dagli esaltati ed esagerati, e in tal caso il popolo romano non è più quel nobile e generoso popola che nelle pagine precedenti egli ha come tale solennemente magnificato, ma un popolo insensibile, apatico e ingrato; o che il popolo si lasciava guidare in tutto e per tutto dagli esaltati, e in tal caso bisogna concluderne che quel popolo era tutto un popolo di rivoluzionari, consenziente pienamente cogli agitatori,, venuti quasi tutti di fuori, come egli si ostina ad affermare.
La verità storica è che, fra le quaranta o cinquanta mila persone, le quali si trovarono sul passaggio del Papa dal palazzo del Quirinale a piazza san Carlo, vi erano molte migliaia dei più tiepidi, dei più ingenui ed ignari di cose politiche che lo applaudivano secondo il solito, e moltissime migliaia che, non festeggiandolo al modo consueto, per naturale loro impulso, volevan fargli intendere che era ormai tempo di porre mano a quelle riforme invocate, aspettate, promesse, se pure egli voleva conservare la devozione e l’amore dei sudditi.
Nè pare che l’ammonimento andasse perduto: giacchè, nei quattro di che corsero dal 4 air8 novembre, giorno in cui il Pontefice doveva prender possesso nella basilica Lateranense, furono deliberati e notificati vari e importanti provvedimenti.
Il Pontefice ampliò la Commissione, già nominata dal suo predecessore per la riforma dei Codici civile e criminale e composta dei quattro monsignori Antonelli, Benvenuti, Di Pietro e Roberti e vi aggiunse altri dieci membri di cui due soli prelati, i monsignori Bartoli e Allegrini e otto giureconsulti laici - fra cui alcuni chiarissimi - e che furono gli avvocati Borghi, Cicognani, Pagnoncelli e Dionisi di Roma, il Silvani di Bologna, il Pagani d’Imola, il Giuliani di Macerata e il Leoncini di Spoleto.
Instituì una Commissione per provvedere al vagabondaggio e anche in questa, composta dei monsignori Mertel, Pellegrini, Quaglia e Savelli, dei principi Aldobrandini, Odescalchi e Torlonia, del marchese Potenziani e del conte Carleschi, prevalse l’elemento laico.
Inoltre una notificazione del cardinale Gizzi dichiarava che il Governo aveva stabilito di venire alla costruzione delle strade ferrate: e di quelle si dava nella notificazione la speciale indicazione.
Questi provvedimenti, che accennavano appena a progresso riuscirono all’effetto che il cardinale segretario di Stato e gli aìtri consiglieri di Pio IX si erano proposto: l’entusiasmo pel Pontefice si riaccese più vivo e si manifestò nelle espansioni caldissime a cui il popolo si abbandonò il giorno 8 novembre in occasione dei festeggiamenti pel possesso del Pontefice.
Fu quella una imponente e magnifica festa, a cui parteciparono oltre la popolazione di Roma, centomila persone almeno convenute dalle provincie nella capitale. Lungo il percorso di oltre due miglia, dal Quirinale al Laterano, arazzi, addobbi, emblemi, bandiere, epigrafi, poesie. Al Foro Traiano, in via Alessandrina, in via Bonella, all’Arco di Tito, alla Meta Sudante, al Colosseo, lungo tutto lo stradone di san Giovanni il popolo foltissimo, assiepato acclamava, sia nell’andata che nei ritorno, al supremo Gerarca, al Pontefice redentore, al Pastore divino.
«Erano le ore diciannove e la cavalcata moveva dal Quirinale sfilando con quest’ordine. Precedevano una schiera di dragoni a cavallo, ed altra di carabinieri per isgombrare la strada. Seguivano quindi altre schiere di dragoni e carabinieri, precedendo i due battistrada, e il sopraintendente delle scuderiee di Sua Santità, Venivano quattro guardie nobili, alle quali tenevano dietro il foriere maggiore, e il cavallerizzo, tutte due con indosso l’abito di maglia nera, conforme è costuma. Seguitavano i camerieri d’onore di spazia e cappa; i camerieri d’onore in abito paonazzo; i camerieri segreti di spada e cappa vestiti alla foggia di corte nel cinquecento; i camerieri segreti in abito paonazzo, il capitano della guardia svizzera in armatura rabescata in oro e azzurro con pendagli di CUOIO, avente attorno a sè alquanti de’ suoi soldati. Da ultimo veniva monsignor governatore di Roma in abito prelatizio, recante in mano la bacchetta del comando, e montando un cavallo bardato in paonazzo con fiocchi. Seguiva tosto il crocifero colla croce papale.
«Si udivano allora tuonare le artiglierie del forte SanV Angelo. La carrozza con entrovi il Pontefice, usciva in quel punto dalla gran porta del palazzo.
«Il Santo Padre siedeva entro la carrozza avendo a sè dirimpetto i cardinali Vincenzo Macchi, sottodecano e Pietro Ostini, vescovo Albanense: la carrozza medesima era preceduta da palafrenieri, e circondata da questi e dalla guardia degli svizzeri in abito di grande uniforme.
«Teneva appresso al Pontefice monsignor maestro di camera (monsignor Francesco Medici d’Ottaiano), cavalcando fra due camerieri segreti; quindi monsignor caudatario; due aiutanti di camera, lo scopatore co’ subalterni suoi. Si avanzava poi la portantina del Pontefice recata da sei palafrenieri, e subito dopo succedevano, su cavalli bardati in paonazzo, monsignor maggiordomo de’ sacri palazzi, a capo dei vescovi assistenti; i protonotari apostolici; gli uditori della sacra romana rota; i chierici di camera; i votanti di segnatura; gli abbreviatori del parco maggiore; i referendari di segnatura. Succedevano poi le guardie nobili; e da ultimo chiudeva la pompa altra schiera di dragoni e carabinieri a cavallo»8.
Onde, a proposito di quella pompa medioevale severamente, ma giustamente, osserva il Gualterio che «ciò attirava sopra di lei, più che gli sguardi e l’ammirazione degli spettatori, una copia di celie e di sarcasmi. Il popolo che aveva cominciato a dilettarsi di spettacoli scenici, fu per tal modo appagato dal Governo stesso, il quale, dopo aver pregato si cessasse dalle manifestazioni clamorose, ora con poco prudente inconseguenza traevalo nelle strade di bel nuovo, secondando i desideri degli agitatori»9.
Intanto per non perdere l’abitudine alla politica dell’altalena la quale, del resto, si imponeva a Pio IX ineluttabilmente per la sua duplice qualità di pontefice e di principe, di autorità universale e di potestà italiana - il giorno 9 novembre egli mandava fuori l’enciclica: Qui plurimis jam ab hinc annis, con la quale annunciava a tutti gli arcivescovi, vescovi, primati, generali di ordini religiosi dell’orbe cattolico la sua assunzione al pontificato. In quella enciclica il capo supremo della Chiesa cattolica disapprovava e condannava - come necessariamente doveva - i principi e le massime contrarie alla divina e alla dogmatica autorità: difendeva e sosteneva i diritti spirituali e temporali della Chiesa. Biasimava e condannava le sètte, le società per la diffusione delle Bibbie volgari, i libri avversi ai dogmi e alla morale e le dottrine sovversive di socialismo e di comunismo. L’enciclica terminava col raccomandare ed inculcare a tutti i proconsoli del Papato di opporsi, con ogni mezzo, alla diffusione dei cattivi libri, e delle malsane letture fra il popolo cristiano con la espressione: eumque a pestiferis libris diligenter avertere.
Della quale enciclica a torto si lamenta il Ranalli10, che sembra dimenticare come, per logica necessità della storia, in Pio IX, checchè ne fosse delle sue buone intenzioni, dovesse prevalere la cura e il pensiero dei dogmi cattolici sopra i pensieri e le cure di principe temporale: e ben ha ragione, qui nella sua difesa di Pio IX, lo Spada11.
La colpa e l’errore eran di tutti: in alto e in basso ’pur troppo si principiava a vaneggiare12; no: non si principiava; si era già principiato, fin dal 16 luglio, tanto per parte del Pontefice, quanto per parte del popolo: quando l’uno, tratto dal desiderio del bene e dalla brama di conciliare il dogma e la libertà, gli interessi del suo popolo coi diritti della Chiesa; l’altro, mosso dalle sue aspirazioni e da’ suoi ideali a sperare e a confidare che il Papa potesse essere, a un tempo, capo dei duecento milioni di Cattolici e duce dei venticinque milioni d’Italiani nell’opera della rigenerazione nazionale, difensore di dogmi e propugnatore di libertà, avevan creduto fermamente possibile un accordo, che era assolutamente impossibile. Nell’estasi naturale e logica di quei primi entusiasmi, nè Pontefice, nè popolo videro l’ombra della contraddizione che, rigida, severa, imponente avvolgeva nelle sue spire inesorabili tutta quella situazione: onde tutti furono furiosamente travolti dalla rapina di quella immane contraddizione. Ma tutto ciò vediamo noi oggi, a cinquant’anni di distanza, con la scorta della esperienza che ci porgono tutti gli avvenimenti svoltisi successivamente al triennio 1846-49 e fino ad oggi; tutto ciò vediamo noi che abbiamo raccolto tesoro di documenti su quella età, noi che quei documenti possiamo collegare, riconnettere, armonizzare per trarne luce elettrica a illuminare il cammino percorso dai padri, noi quindi che siam dotti della sapienza, del poi; ma tutto ciò non potevano intendere coloro che erano attori appassionati in quel gran dramma.
Il giorno 11 novembre, promosso dal Montecchi, dallo Sterbini, da Ciceruacchio, dal Checchetelli, dal Meucci, dal Zauli-Sajani, dal Guerrini, e da altri, si tenne al teatro Alibert un banchetto offerto da circa seicento Romani a trecento patrioti non romani, ma a Roma convenuti per le feste del possesso di Pio IX. Lo Spada - che è invelenito contro questo innocente banchetto, al quale, per sua confessione, intervennero circa mille convitati in platea e in palco scenico e circa mille spettatori nei palchi - afferma con piglio ironico che questo banchetto chiamossi convito nazionale e finisce per appellarlo il banchetto mostro; ma non già per nessun disordine che vi avvenisse. Che anzi lo storico papalino è costretto ad ammettere che il convito fu lietissimo, frugaXe e senza fasto il banchetto e che vi si osservò l’ordine il più perfetto. Un busto colossale di Pio IX, opera dello scultore Villa di Milano, posto sulla scena, sembrava fare gli onori del convito13.
Vi recitarono componimenti in prosa o in versi lo Sterbini, Mattey Carlo di Viterbo, l’avv. Tommaso Zauli-Sajani di Forlì, tutti tre amnistiati politici, il Checchetelli e il Benai di Roma, il Salvoni di Iesi, il Del Frate di Milano, l’Orsi di Ravenna, e Ciceruacchio, levatosi col bicchiere in mano, in piedi vi improvvisò, cantando semplicemente e alla buona, la seguente ottava, salutata da fragorosissimi applausi:
Oggi per il gran Pio semo felici |
I discorsi e le poesie, tutte inspirate dal più caldo e puro patriottismo, sollevarono grande entusiasmo e applausi infiniti all’Italia e a Pio IX. Fu notata l’assenza dei nobili, scusata con un grande ballo dato, in quella stessa sera, in casa del principe Borghese; quell’assenza spiacque ai più caldi fra i convitati; giacchè molti patrizi, di quelli che erano o parevano liberali, erano stati pregati ad intervenire al banchetto; di che taluni dei banchettanti, usciti dal teatro Alibert si recarono - lo afferma lo Spada - sotto le finestre del palazzo Borghese ad effondere in fischiate il loro risentimento15.
Frattanto l’eco degli atti clementi e liberali di Pio IX e dei festeggiamenti popolari di Roma e delle provincie soggette al Pontefice si diffondeva, rapidamente, in Toscana, nel Napoletano, in Sicilia, nel Piemonte, nei Ducati, nel Lombardo-Veneto e vi suscitava un’agitazione, un fermento, un entusiasmo, un confuso e indeterminato rimescolio di speranze, di desiderii, di disegni, che è più agevole assai immaginare che ridire.
Erano trent’anni che i popoli italiani aspettavano quel giorno! Erano trentanni che aspettavano l’aurora della redenzione!... E, quell’aurora tanto desiderata ed attesa, eccola, finalmente spuntava!... Come rattenere la gioia?... Come impedirne le manifestazioni?...
Ma se i popoli non potevano impedire alla gioia di prorompere come torrente impetuoso, come potevano i governi reazionarii, le efferate polizie contenere e impedire quella gioia che si manifestava con un grido così innocente, così onesto, così ortodosso: Viva il Papa, Viva Pio IX?...
Fu narrato che Cesare Borgia tutto avesse preveduto per mantenere la propria signoria in Romagna pel giorno che il papa Alessandro VI suo padre verrebbe a morte; ma una cosa sola non previde, che egli quel giorno potesse trovarsi gravemente malato, e quell’unica eventualità da lui non preveduta, fu proprio quella che si verificò. Cosi il principe Clemente di Metternich, che, da trentanni, dominava con la sua politica di reazione e di compressione e con straordinaria sapienza ed abilità - è d’uopo confessarlo - l’Italia e faceva prevalere la casa di Absburgo in Europa, ogni possibile contingenza contro quella sua politica aveva calcolato e preveduto, meno una contingenza; un papa liberale; e quella sola eventualità impreveduta fu quella che sopravvenne.
All’apparizione di Pio IX, che avventatamente prendeva gli atteggiamenti del papa liberatore annunciato dal Gioberti, il principe di Metternich confessò il proprio smarrimento16 e, forse, previde la ruina dell’edificio, con tanta rigidità d’animo e con tante crudeltà, da lui tenuto in piedi fino a quel momento.
Il conte Solaro della Margherita, primo ministro del re Carlo Alberto, fino dal 1835, seguace fedele, anzi servile, della politica del Mettemicb, uomo dotato d’ingegno acuto e di fine accorgimento, spaventato del movimento che si determinava in Italia, per effetto della nuova politica papale, si recò, nell’agosto, in Roma, latore d’una semplice lettera di augurii del re Carlo Alberto al Pontefice; ma senza nessun incarico di speciale missione politica. La politica veniva a farla per conto suo: giacchè obietto di quel viaggio fu, secondo le affermazioni del Gualterio, la restituzione che il conte Solaro della Margherita veniva a chiedere al marchese Carega, rappresentante del Piemonte in Toscana e al conte Broglia di Mombello inviato sardo in Roma, ambedue fidi seguaci della politica reazionaria di lui, la restituzione del carteggio segreto da esso tenuto con loro durante parecchi anni: restituzione che il conte Solaro, secondo il Gualterio, ottenne17.
È vero che a tale affermazione del Gualterio il conte Solaro oppose la più risoluta smentita18; ma checchè ne sia della affermata e negata restituzione del carteggio segreto, il quale però non si rinvenne dai successori del Carega e del Broglia negli archivi delle ambasciate di Firenze e di Roma, resta sempre innegabile, perchè il Solaro stesso lo ammette, che egli cercò in Roma di esplorare la condizione degli animi dei più influenti cardinali e prelati, e fece di tutto per rattenere il Papa, che vide due volte, dal mettersi sulla via delle riforme, anzi egli assevera che Pio IX in ambedue i colloqui gli si manifestò deciso a resistere agli eccessi rivoluzionari.
Fu presente alla dimostrazione dell’ S settembre, di cui non può negare l’imponenza e la grandiosità, ma che egli afferma essere, come tutte le altre dimostrazioni, una gherminella per spingere il Papa a quegli eccessi19.
Il conte Solaro avrà, del resto, veduto, come affermò a quei giorni qualche foglietto volante, o clandestino, il generale dei gesuiti, egli così tenero e ammiratore dei padri della congregazione del Lojola.
Ma questo viaggio del ministro reazionario di re Carlo Alberto non riescì ad impedire il corso fatale e legittimo degli avvenimenti, nè a ritardare il licenziamento del Conte, nè a rattenere di un’ora sola lo sfasciamento del sistema politico, onde egli era stato, per tanti anni, così ardente propugnatore.
Fu, adunque, sotto l’impulso di quella febbrile sovraeccitazione del sentimento nazionale che il 5 dicembre fu festeggiato il primo centenario della espulsione degli Austriaci da Genova, avvenuta nel 1746. A Genova, a Firenze, a Ravenna si celebrarono feste commemorative che le rispettive polizie piemontese, toscana e papale non riuscirono ad impedire e per le quali altamente si querelò da poi il Governo austriaco, a cui il toscano e il pontificio diedero tardive e fiacche riparazioni con l’arresto momentaneo di taluno dei più noti autori di quei festeggiamenti. Sulle vette degli Appennini liguri, toscani, romagnoli ed umbri e fin agli ultimi contrafforti del Lazio, la notte del 5 dicembre divamparono grandi e numerosissimi fuochi in segno di memore esultanza20.
Di tale dimostrazione, che reca tanto dolore allo Spada, furono promotori il conte Mamiani e il prof. Montanelli, e non le sètte come cerca insinuare lo Spada, smentito dallo stesso conte Cesare Balbo, di cui egli riferisce la prefazione alle sue Lettere politiche al signor D ⸫ - da me già indicate - nella quale il Balbo scrive: «Ma intanto ricevetti nuove informazioni, ed io dubito quindi più che mai che i moti di cui vengo discorrendo, non sieno stati fatti dalle società secrete propriamente dette; che sieno anzi stati promossi da uomini alieni da esse, alieni se non da tutti, certo da ogni moto rivoltoso, da uomini partigiani ammiratori di Pio IX, E quindi io dubitai, se non dovessi forse abbandonare la presente pubblicazione. Perchè rivolgermi a disturbare uomini amici, moderati e bene intenzionati? Ma il mio dubbio fu vinto, ecc.21.
Frattanto le pioggie autunnali ingrossarono i fiumi e il Tevere ne divenne siffattamente gonfio, che straripò il giorno 9 dicembre e l’acqua crebbe tanto che fra il 10 e l’11 tutta la parte bassa della città ne fu inondata.
Roma fu frequentemente soggetta agli straripamenti del Te- vere: ma di solito le acque non superavano il livello di piazza del Pantheon e del Ghetto. Il Grandoni novera alcune delle inondazioni più violente e minacciose avvenute dal 1540 fino al 1805 ed afferma che questa del 1846 fu la più grave delle nove più impetuose da lui ricordate22, tanto che le onde si elevarono a metri 16.25 sopra il livello delle acque basse23.
«La piazza del Popolo e la via di Ripetta erano tutto un fiume che le onde spingeva con furia contro le case e le persone. Nè si potrebbe immaginare lo spavento del popolo, trovandosi ciascuno improvvisamente impedito a soccorrere e ad esser soccorso. Fra’ più minacciati era il sopra notato Ciceruacchio, che abitava in principio di via Ripetta. Levatosi per tempissimo la mattina del 10 e veduto dall’altura della sua casa l’immenso allagamento della città e della sottoposta campagna, senza metter tempo in mezzo, si getta in una barchetta e, parendo più curante dell’altrui danno che del proprio, attraversa piazza del Popolo, si spinge fuori della città, fino a Ponte Molle, entra nelle stalle, ricupera molti buoi, arreca pane e denaro alle desolate famiglie, quindi rientra in Roma; continua per le vie inondate, appresta ovunque soccorsi di viveri e di confortevoli parole; nè cessa dalla pietosa opera finchè le acque a poco a poco ritirandosi, non tornano nel loro letto. E se i popolani onorava Ciceruacchio con quell’esempio, faceva onore al patriziato il principe Borghese, non rimastosi inoperoso a quella calamità pubblica; largheggiando di aiuti, ovunque il bisogno li avesse richiesti; stimolato dalla gara in quei dì a fare opere lodevoli»24.
L’operosità generosa del capo-popolo, in questa dolorosa contingenza e della quale non isdegnò di occuparsi con cura di particolari un grave e autorevole storico, quale è il Ranalli, è ampiamente confermata da altri scrittori25.
Ma questa pubblica sciagura, con la quale sembrava volersi chiudere l’anno 1846, non fu sola: un altro dolore ferì gli animi di tutti i patrioti d’Italia, per la morte di Federico Confalonieri.
«Lontano dalla patria questo antico martire dello Spielberg senti l’eco dei plausi e il palpito delle speranze dei concittadini suoi. Vide i giorni che si appressavano, salutò la stella apparsa sull’orizzonte, obliò e benedisse il suo martirio e le ben sofferte sventure; e non reggendogli l’animo di restarsene a rimirar da lunge l’aurora dei giorni invocati, corse ad abbracciare i fratelli suoi e la terra natale. Ma i giorni di Federico Confalonieri erano numerati, e stava scritto nei decreti della Provvidenza che l’uomo il quale aveva sofferto tanto per la sua patria, non dovesse subire il secondo martirio nel vederne i deliramenti e le sventure»26.
Il 10 dicembre, mentre il gagliardissimo uomo, che sopportò impavido tredici anni di carcere duro allo Spielberg e come il Farinata del divino Alighieri:
. . . . . . . . . . . . . non mutò aspetto, |
tornava in Italia, nel piccolo villaggio di Hospental d’Uri esalò l’anima fortissima.
Grande fu il dolore degl’Italiani nell’apprendere l’infausta notizia, immenso quello dei Milanesi e dei Lombardi. Solenni esequie gli furono rese nel Duomo di Milano, alle quali, come a una manifestazione di patriottismo, traeva tutta la nobiltà, la borghesia, il popolo, fra le smanie paurose del Torresani, del O’Donnel, del Bolza e della polizia austriaca27. «I giovani patrizi della Società dell’Unione di Milano aprivano una sottoscrizione per innalzargli su quegl’erti confini d’Italia un funebre monumento, che quivi stesse come esempio agli Italiani, rimprovero e minaccia agli stranieri. Il Torresani chiamò a sé i promotori di quella coscrizione, parlò loro con fierezza villana, insultò alla memoria dell’estlnto, accennò a Carlo Alberto, non dissimulò i timbri che la Corte di Vienna nutria, qwmdo pochi o punto degV Italiani osavano nutrire speranze. Al conte Luigi Porro Lambertenghi ei disse con voce ed atti di scherno e minaccia: " Voi tornate agli antichi amori28». E minacciò di far chiudere il Circolo e a Vienna inviò sinistri rapporti sopra quel fatto, che palesava il vigoroso risveglio della giovane nobiltà milanese. E di quest’uomo, onorandissimo per la immutabilità del carattere, per la dignità altissima di sé stesso, per lo sviscerato amor di patria e pel soiferto martirio e quello fu martirio davvero! - e allora e poi quasi tutti gli storici delle cose italiane scrissero con reverenza ed ammirazione 29.
Ma, nonostante i danni derivati dalla inondazione, gli entusiasmi pel Pontefice adorato non infievolirono, anzi si rinvigorirono; perchè egli, in quella calamità, si mostrò premuroso dei mali da cui furono colpiti molti suoi sudditi e li volle, per quanto era da lui, alleviati; onde la sera di santo Stefano, 26 dicembre, una grande folla di popolo mosse da piazza del Popolo con fiaccole e bandiere, e si recò al Quirinale per porgere al Papa, di cui all’indomani, giorno consacrato a san Giovanni, ricorreva l’onomastico, gli auguri della popolazione che, dopo molti applausi, fu, al solito, da Pio IX arringata affettuosamente. Egli disse che «quei fiori caduchi avrebbero a lui ricordato la fragilità delle umane cose e vietato d’inorgoglirsi per i quotidiani trionfi che da loro riceveva; e che l’amore del popolo avrebbegli dato forza e coraggio da vincere tutti gli ostacoli, i quali tuttavia si opponevano alla intiera sita felicità. Vaghe parole - acutamente osserva il Gualterio - le quali attestano insieme e le contrarietà da lui subite, e le benigne intenzioni die aveva nell’animo. Radicavasi sempre più l’opinione che il Pontefice era costretto a lottare, spesso senza pro per colorire i suoi disegni; e quindi l’odiosità ritraendosi dal suo capo seguitava ognor più ad accumularsi su quella dei governanti, e le grida di viva Pio IX, ormai cominciavano a suonare come un grido di guerra contro i suoi ministri»30.
Poco dopo la inondazione, fra il 15 e il 20 di dicembre, Pio IX ricevette in privata udienza i tre promotori della festa trionfale dell’8 settembre, e, per conseguenza, Ciceruacchio ebbe la fortuna e l’onore di essere ammesso alla presenza del suo idolo. «Ciceruacchio alla presenza di lui si trovò come vinto. Alle parole di Pio IX egli non seppe, a vero dire, far valere la sua popolana eloquenza. Egli credeva senza meno di trovarsi innanzi al vero rappresentante di Dio. Questa sua credenza, la simpatica fisonomia di Pio IX, lo splendore del trono lo avevano affascinato»31. Cosi il Colombo; e il De Boni, che trae le sue notizie dal libretto già da me citato: Padron Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, popolano di Roma, pubblicato dal Natali, e di cui credo fermamente fosse autore il valoroso giovane marchigiano Tommaso Tommasoni, aggiunge: «ei s’ebbe parole amorevoli dallo stesso Pontefice, al quale, commosso, confuso, quasi piangendo d’amore e di gioia, più rispose con gli occhi e con l’anima, essendogli in quel punto mancata la sua popolana eloquenza»32.
Pel 1° dell’anno 1847 una grandiosa manifestazione popolare fu preparata per andare a presentare al Pontefice gli auguri affettuosi della popolazione. Quantunque lo Spada cerchi di menomarne l’importanza, tutti gli altri storici della rivoluzione romana la celebrano come imponente, ordinata ed esprimente il pensiero della grande maggioranza del popolo. In mezzo a quei dieci o dodici mila cittadini, che muovevano a squadre, verso le 10 antimeridiane da piazza del Popolo, tre schiere si segnalavano più specialmente, quella degli studenti universitari e dell’Accademia di belle arti di san Luca, circa cinquecento giovani preceduti dalle loro bandiere, quella degli amnistiati, che si trovavano in numero di circa trecento a Roma, a quei giorni, recante essa pure il proprio vessillo, e quella dei cinquecento cantori, seguiti da settanta suonatori d’istrumenti da fiato, e quest’ultima schiera era diretta dal maestro Magazzari, il quale aveva scritta la musica dell’inno dettato da Filippo Meucci: «La bandiera del popolo era a capo dei cantori; essa era recata a mano dall’ottimo popolano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, il quale, distinguendosi ogni dì di più per le qualità che lo adornano, diverrà una di quelle a celebrità popolari che in ciascun secolo presentò l’Italia nostra, feconda sempre di uomini generosi e prodi»33.
Il Papa, allorchè quella immensa moltitudine fu tutta agglomerata sulla piazza, che ne rimaneva tutta ingombra, apparve sulla loggia a benedirla: «In quell’istante si apriva uno stendardo, situato in vicinanza dell’obelisco che si innalza in mezzo alla piazza, mostrando agli occhi di tutti la seguente iscrizione, che io trascrivo, non per onorare una mia fatica con la stampa, ma per l’importanza storica del fatto:
O PRINCIPE E SACERDOTE
in questo giorno d'augurii
tutti i popoli
raddoppiano fede e speranza
perchè
col cuore ti inviano un voto
si prolunghi il tempo del tuo regno
insino a tanto
che la nostra felicità.
superi
la tua gloria34.
Dopo la benedizione si fece un gran silenzio, e il coro dei cinquecento cantori, accompagnato dai settanta strumenti a flato, intuonò l’inno, che fu poi detto inno di Pio IX:
Del nuov'anno già l'alba primiera |
Su rompete le vaue dimore, |
Il pontefice ascoltò attentamente l’inno, ribenedisse la folla fra fretici applausi, e si ritrasse dalla loggia35.
Il 1° dell’anno 1847, pur vigendo nello Stato romano la censura della stampa, vide la luce il Contemporaneo, già annunciato fin dal 17 settembre, giornale di grandissimo formato - durante il primo anno della sua pubblicazione il foglio misurava 62 centimetri di lunghezza per 45 di larghezza - dei cui primi quindici numeri si dovette pubblicare una seconda edizione Il giornale, durante il primo anno, usciva ogni sette giorni. Il programma, in cui questo periodico annuncia che esso è «giornale di progresso, ma temperato, quale sospirano i buoni e consigliano i sapienti, ed è voluto dal principe ottimo ed è richiesto ai bisogni e all’aspettazione del pubblico», è sottoscritto da monsignor Carlo Gazzola di Parma, dal marchese Luigi Potenziani, ricchissimo proprietario di Rieti, da Federico Torre di Benevento e dal dottor Luigi Masi di Petrignano, di cui ho già favellato.
Ne erano collaboratori il dottor Pietro Sterbini di Vico Laziale, il marchese Luigi Dragonetti di Aquila, il professore Filippo Ugolini di Urbania, il dottor Cesare Agostini di Foligno, il professore Luciano Scarabelli di Bologna, il dottor Tommaso Tommasoni di Fano, il dottor Eusebio Reali di Assisi, l’avvocato Achille Gennarelli da Fermo, e gli avvocati Carlo Armellini e Rinaldo Petrocchi, ambidue di Roma.
Il giornale trattava di politica, di economia pubblica, di ferrovie, di agraria, di meccanica, di letteratura. Forse era un poco greve e pesante; ma, nondimeno, per l’ampiezza del formato, per la moltiplicità degli argomenti svolti, e per essere il, primo grande giornale politico che, sottoponendosi alle blande cesoie della censura, apparisse in Roma - anzi il primo giornale politico che apparisce in Italia, dopo la rivoluzione francese e l’impero napoleonico - in quel vigoroso risveglio della vita pubblica, incontrò, fino da allora, il pubblico favore, che poi crebbe a dismisura col precipitoso svolgersi degli eventi; per cui dall’ottobre 1848 fino al febbraio 1849 quel giornale esercitò una influenza determinante nelle politiche vicende dello Stato romano.
Come si è veduto dei quattordici collaboratori dei Contemporaneo, dieci erano dello Stato romano, due proprio di Roma, e due soltanto, il Gazzola e il Dragonetti, appartenevano ad altre provinole d’Italia36.
Da tutti i fatti che io sono venuto narrando emerge chiara ed aperta una verità, ed è questa: che Pio IX in quel turbinio delle dimostrazioni popolari si inebriava e invaniva: egli non era soltanto un papa liberale, ma, con l’abitudine presa di arringare la folla e di dialogizzare con essa, egli veniva mutandosi in papa tribuno. Già esso ebbe sempre, anche dopo di allora, una grande, forse una esagerata opinione delle proprie qualità oratorie: la bellezza della sua voce calda e armoniosa, la correttezza della sua pronuncia, e una certa facilità di eloquio, che il Manzoni avrebbe detto parlantina, e che Pio IX scambiava, in buona fede, con l’eloquenza, davano a lui una illimitata fiducia nella efficacia irresistibile dei propri discorsi.
Che io non attribuisca passionatamente al Pontefice difetti che egli non ebbe, lo provino due fatti: primo il suo quotidiano andare a zonzo per far bella mostra di sè e per farsi applaudire, e in secondo luogo la predica da lui inopportunamente improvvisata a sant’Andrea della Valle nell’ottavario dell’Epifania, il 13 gennaio 1847.
Nel qual giorno, andato a visitare il presepe in quella chiesa, all’improvviso sali sul pulpito - donde, come nota il Silvagni, i Romani erano assuefatti ad udir risuonare la parola del padre Gioacchino Ventura, primo oratore sacro d’Italia in quel tempo - e si dette a predicare nulla bestemmia: e lo Spada aggiunge: sulla lussuria. Il pubblico, al quale dirigeva la parola, non aveva certamente mai bestemmiato, e la sua orazione non poteva essere più inopportuna e volgare37. Il che è tanto più vero in quanto che lo storico-panegirista, spesso favoleggiatore, De Saint-Albin, racconta che Pio IX affligé de la mauvaise habitude des hommes de la classe ouvrière de profaner le nom de Dieu prendeva accordi col padre Ventura, perchè questi gli cedesse il posto nel suo pulpito nella chiesa di sant’Andrea della Valle, dove egli sapeva benissimo che non convenivano gli operai, ma numerosissime le signore e numerosi gli uomini della classe borghese e dell’aristocrazia38.
L’illustre economista inglese Riccardo Cobden, che il Gualterio e il Ranalli salutano apostolo della libertà commerciale39, e che il Solaro della Margherita chiama apostolo del libero scambio e di nuove dottrine di moda, sarcasticamente però deridendo coloro che si beavano ne’ suoi detti, e che tutto credon bello e ugualmente applicabile ad ogni Stato ciò che si ammanta col nome di libertà40, era venuto sul principiare dell’anno 1847 in Italia, ed era stato con onorevoli e grandi festeggiamenti accolto a Torino, dove fra coloro che gli fecero più liete accoglienze, cioè fra i derisi dal conte Della Margherita, si notavano Antonio Scialoja, Cesare Balbo, Ilarione Petitti, Massimo D'Azeglio e Camillo Benso di Cavour.
Agli ultimi di gennaio il celebre economista inglese venne a Roma, dove la sera del 1° febbraio gli fu offerto un banchetto da settanta fra i più liberali e ragguardevoli cittadini, fra cui il principe Carlo Bonaparte di Canino, il marchese Lodovico Potenziani, il dottor Luigi Masi ed altri notevoli, o per la nobiltà dei natali, o per il loro valore negli studi scientifici, economici e letterari41.
Il giorno 22 poi il Cobden fu ricevuto dal Pontefice e usci dall’udienza «pieno della più alta ammirazione e gioia»42.
Il giorno 8 febbraio giunse in Roma, evidentemente per diffondere nelle correnti di quel movimento liberale, aure favorevoli al suo re Carlo Alberto, il marchese Massimo D'Azeglio, che parecchi anni innanzi aveva tenuto dimora in Roma e vi aveva numerose aderenze ed amicizie. Il nome di lui, già divenuto popolare per i suoi romanzi: La diffida di Barletta e Niccolò de' Lapi, era cresciuto in fama presso il partito liberale romano, dopo la recente pubblicazione dell’opuscolo: Degli ultimi casi di Romagna. Naturale era quindi che i suoi ammiratori desiderassero festeggiare la sua presenza in Roma, e che da essi gli venisse, quindi, offerto un banchetto. Il quale fu tenuto la sera del 9 febbraio successivo nelle sale della nobile società del Casino al palazzo Sciarra, di cui il D’Azeglio, fin dalla precedente sua dimora in Roma, era socio.
I quaranta commensali accolsero il marchese D’Azeglio col più grande entusiasmo. L’autore del Niccolò de" Lapi pronunciò un breve e applauditissimo discorso, in cui, dopo avere esaltato Pio IX, rivolse agli adunati le più calde esortazioni di moderazione, osservando che «da chi vuol fare trionfare un’opinione si deve avere non troppi nemici, e per avere un minor numero di nemici conviene offendere un minor numero di interessi; e ciò si ottiene solamente con la moderazione . . . . . . . Conviene specialmente promulgare le verità con forza, senza paura e a viso scoperto, perciocchè il parlar verità è cosa buona, ma nelle tenebre e nel mistero non ottiene mai l’effetto della luce e della franchezza. La responsabilità dell’uomo onesto, che aggiunge il suo nome alla verità che propaga, è sempre di peso gravissimo! . . .».
Il giorno 13 la «Santità di N, S. ricevè in udienza particolare il marchese D’Azeglio. Lo intrattenne forse per lo spazio di un’ora, e con tanta bontà che l’illustre scrittore ne rimase non meno commosso che meravigliato»43.
L’eco frattanto dei festeggiamenti romani in onore di Pio IX, papa liberale e riformatore, si spandeva per tutta l’Europa, anzi per tutto il mondo, e suscitava speranze e ridestava desideri, e riscaldava aspirazioni dovunque erano in lotta oppressi ed oppressori, dovunque la causa del diritto nazionale e quella della libertà tenevano divisi i governati dai governanti. In Polonia, in Ungheria, in Francia, in Germania, in Irlanda, in Inghilterra, in Ispagna, oltre che in tutta l’Italia, il nome di Pio IX era salutato con simpatia, con devozione da tutti coloro che parteggiavano per lo spirito nuovo di progresso, di riforme, di rinnovamento politico e civile contro la funerea immobilità e le sanguinose repressioni, e la reazione feroce inaugurata e sostenuta fin li dai propugnatori della Santa Alleanza44.
E non soltanto l’azione di Pio IX, che appariva riformatrice e liberale, esercitava una influenza determinante fra le popolazioni oppresse, ma anche sulle Corti e sulla diplomazia d’Europa di cui sconcertava tutta la politica, apportando - e senza che il Pontefice menomamente lo volesse -• un impreveduto sfacelo nella tela, con tanta assidua fatica e con tanto tenace studio, ordita dal principe di Metternich45.
Il popolo inglese e il ministero Palmerston vedevan con piacere, e nel loro interesse, determinarsi in Italia una politica liberale, la quale creerebbe imbarazzi al Governo austriaco ed al francese, e che agevolerebbe la conclusione di accordi fra il nuovo Pontefice e il Governo inglese intorno ad alcune questioni di carattere religioso esistenti fra esso e la Santa Sede46; la diplomazia russa impauriva di quel potere morale, onde in pochi mesi mostravasi investito Pio IX, perchè pensava alle complicazioni che potrebbero sollevarsi in Polonia, per il che mostravasi essa pure premurosa di stringere legami con la corte di Roma sui dissidi religiosi non ancora risoluti fra la Chiesa scismatica e la cattolica47; mentre quella politica liberale del Papato sconcertava tutti i calcoli e le previsioni della corte di Vienna, del principe di Metternich e del fido alleato di lui, il dottrinario Guizot, primo ministro della Francia orleanista, il quale, a furia di opportunismo e di concessioni, giungerebbe a scrivere al Metternich verso la metà del 1847: «Noi lottiamo, voi ed io, ho l’orgoglio di crederlo, per preservare le società moderne, o guarirle . . . . . è qui la nostra alleanza. Non è che col concorso della Francia, della politica conservatrice francese, che si può lottare contro lo spirito rivoluzionario ed anarchico . . . . . Io tengo a grande onore ciò che vi piace di pensarle di me; io spero che la durata e Vati nazione pratica della nostra intimità non faranno che accalorare la nostra confidenza e la nostra buona opinione . . . .». Tale era il linguaggio del gran dottrinario, del sapiente inventore della politica du juste milieu, onde, a buon diritto, lo storico francese, che riferisce questo curioso, stavo per dire - pensando alla immutabilità dei principi del Metternich e alla volatilità dei principi di quel liberalone del Guizot - obbrobrioso frammento di lettera osserva; «Cosi diecissette anni dopo la rivoluzione del 1830, il Governo di Luigi Filippo era giunto a porsi a rimorchio dell’uomo che, nel 1814 e nel 1815, era stato il principale istromento dell’abbassamento della Francia»48.
Frattanto è notevole che erano venuti a presentare successivamente i loro omaggi a Pio IX il principe di Joinville, a nome del padre re Luigi Filippo; la regina dei Paesi Bassi; Chekib Effendi, inviato straordinario del sultano Abdul-Magit-Kan; il duca di Valentinois, principe ereditario di Monaco; il principe Massimiliano di Baviera; Maria Cristina, ex-regina di Spagna49, oltre ambascerie di molti sovrani recanti gli ossequi e gli auguri dei loro Governi. L’abate Lamennais, il padre Lacordaire, il cardinale Bonald, l’abate Gioberti, il padre P. Ventura, monsignor Muzzarelli, l’abate Rosmini, uomini eminentissimi del clero cattolico, si trovavano mossi allo stesso entusiasmo verso l’adorato Pontefice, a cui si sentivano sollevati il Balbo, il D’Azeglio, il Rossi, l’Orioli, il Minghetti, il Pasolini e Ciceruacchio.
E tale e tanto era e così concorde, e così profondo questo entusiasmo che tutti erano proclivi sempre ad attribuire a lui solo quel pochissimo di bene che si operava nel governo della pubblica cosa, e ad attribuire al Collegio cardinalizio, ai gesuiti, ai sanfedisti, ai gregoriani unicamente ciò che si faceva di male, e i tentennamenti, le oscillazioni, gli andirivieni di quella politica fiacca, esitante, che non riusciva a nulla.
Erano ormai trascorsi dieci mesi da che Pio IX era salito al soglio pontificio, e non una delle tante riforme promesse, non una delle moltissime invocate era stata posta in atto.
Non si era fatto altro che nominare Commissioni, nelle quali la politica dell’altalena, che fatalmente, ineluttabilmente si imponeva al Pontefice, come più volte antecedentemente ho dimostrato, costringeva Pio IX a introdurre, insieme agli scarsi uomini del tepido partito liberale del Collegio cardinalizio e della Curia, anche gli avversari, più o meno aperti, di ogni riforma, i quali nella Curia e nel Collegio cardinalizio erano numerosissimi. Quindi il lavoro di quelle Commissioni procedeva come la tela di Penelope. Ad ogni pie* sospinto un inciampo, ad ogni voltar di foglio un ostacolo; onde il mal volere dei cardinali e dei preti frustrava del pari le buone intenzioni del principe e l’aspettazione dei popoli.
Questa malevoglienza e questa lentezza sono concordemente affermate, riconosciute e lamentate da tutti gli scrittori imparziali, anche i più moderati, anche i più benevoli per Pio IX. Tutti, unanimemente, riconoscono questo male, tutti unanimemente ne attribuiscono l’origine all’opposizione sorda e pertinace dei gesuiti e dei sanfedisti, se non che, dopo essere stati concordi nell’ammettere questo fatto e nel riconoscerlo come una delle cause principali dei grossi avvenimenti che susseguirono, non si trovano più concordi quando si incontrano di quella causa innanzi alla legittima conseguenza. Allora parecchi di essi sbuffano, si impennano e imbizzarriscono, restii a sottoporsi alla logica della storia, solo perchè quel fatto, che è conseguenza di quella premessa, non risponde ai loro desideri, alle loro speranze, alle loro previsioni; simili a quell’agricoltore che, dopo aver seminato lupini, pretendesse raccogliere fragole, e si impennasse e sbuffasse trovandosi innanzi un cesto di lupini.
Delle resistenze, delle opposizioni e delle conseguenti lentezze e delle conseguenti impazienze e dei conseguenti malumori delle popolazioni, diffusamente, e in più luoghi, parla il Gualterio50, il quale osserva che «questa inerzia del Governo e la resistenza del Gizzi generò l’impazienza del popolo, specialmente in Bologna. I più audaci e meno longanimi sprintarono, maissime del rifiuto relativo alla guardia urbana, parendo loro o imperdonabile effetto d’ignoranza, o maligno accorgimento di politica l’abbandonare i cittadini senza difesa alla discrezione dei ladri che infestavano le vie interne e suburbane della città»51. E più rudemente e largamente mostra la severità della censura fratesca, sulla stampa, provando come essa fosse inspirata a sentimenti di tenerezza per l’Austria e di odio alle nazionali aspirazioni, e come quelle strettoie che continuavano a imporsi al pensiero irritassero le popolazioni 52.
Biasima le lentezze nelle riforme e le soverchie Commissioni, e il modo come questo erano composte, il Farini il quale osserva che il «Governo andava molto adagio in questa materia del mutare funzionari, e pareva piuttosto preoccupato della strana idea di contentare tutti di quello che del pensiero di rendere possibili quelle riforme che stava maturando, e di avvalorare la propria autorità per mezzo di uomini a lui devoti, ai popoli accetti»53.
Egli nota, successivamente, e con grande acutezza, le ragioni speciali per cui la sete delle riforme nello Stato romano fosse maggiore che altrove, e reputa che «ogni riforma che si operasse senza avere per base la civile uguaglianza, l’uniformità delle leggi e la instaurazione del laicato nel Governo doveva necessariamente essere reputata insufficiente, e lasciare sussistere le più reali ed antiche cause di malcontento»54.
E più oltre osserva che «era già corso un anno dacchè Pio IX era salito al trono, e il Governo aveva di sé dato nome di novatore ardito, sebbene poco in realtà avesse rinnovati gli istituti, gli ordini, gli uomini. Le finanze, la giustizia, l’istruzione pubblica, la milizia, il commercio, queste principalissime parti dello Stato erano tuttavia amministrate e governate come per lo passato»55.
Nè diversamente opina e sentenzia il Ranalli, mettendo in rilievo che «quanto più nel principio del 1847 i popoli s’infervoravano per Pio IX, tanto meno si faceva opera di rinnovare il Governo, seguitando il cardinale Gizzi a travagliarsi in vani simulacri di miglioramenti pubblici, e il tempo, che allora doveva reputarsi preziosissimo, consumava in consuete e commissioni»56.
Nè meno aperto procede il Pasolini, il quale avverte candidamente che «bisogna aver bene in mente che tutte le consuetudini, tutte le antiche tradizioni politiche si opponevano airopera riformatrice di Pio IX, e uomini e cose gli attraversavano da ogni parte la via»57. E, parlando della congiura di Roma, della quale mi occuperò fra poco, l’onesto scrittore romagnolo, che, in questo libro, rendo interi i pensieri dell’onesto e valoroso padre suo, scrive francamente che «a tal punto erasi giunto, perchè, veduto che i fatti non tenevano dietro alle promesse, si incominciò non già ad accusare il papa di doppiezza, ma a sospettarlo di debolezza»58.
E il Perrens riepiloga in una breve considerazione tutto quel sistema di esitazioni e di lentezze quando nota che «si può giudicare dalla sua lentezza - di Pio IX - caratteristica da questo fatto, che non lasciò scorrere meno di dieci mesi fra la nomina del segretario di Stato - 8 agosto 1846 - e la costituzione del Ministero - 4 giugno 1847. - Senza dubbio era cosa nuova per Roma un Consiglio di ministri: Pio IX fece in modo che questa novità sembrasse la cosa più vecchia del mondo: egli non ammise nel gabinetto che i cardinali e i prelati»59.
Più esplicito ancora il legittimista e clericale D'Ideville afferma che «non ostante le eccellenti intenzioni onde il suo cuore era animato, Pio IX non tardò a incontrare, nel compimento delle riforme che egli voleva operare, ostacoli di ogni natura»60.
Ed è costretto ad affermar ciò solennemente - e forse con grande rincrescimento del suo animo borbonico - perchè, scrivendo egli la vita di Pellegrino Rossi, e dovendo dire quale fosse l’atteggiamento di lui, italiano e ambasciatore di Francia a Roma, e dovendo desumere tale atteggiamento dalla corrispondenza del conte Rossi col ministro Guizot, avrebbe dovuto dare una mentita al suo maestro Rossi, opinando diversamente da lui, il quale, nel gennaio 1847, cosi, confidenzialmente, scriveva al suo amico Guizot, presidente del Consiglio dei ministri di Francia: «La lotta ricomincia fra la vecchia e la giovine Italia. Il partito dei vecchi accusa i giovani di ruinare il paese per le loro debolezze. Troppa lentezza da parte del Governo irrita gli uni, incoraggia gli altri, e rende la situazione delicata. Io l’ho detto crudamente al papa. Parve che l’avesse compreso: ma l’idea di agire senza dispiacere ad alcuno è una chimera di cui egli dovrà durare fatica a disfarsi . . . . . Le intenzioni e i pensieri sono sempre eccellenti; vorrei essere sicuro che le cognizioni positive e il coraggio non mancherano. Ciò che egli si propone di fare è buono e sarà sufficiente, se e fatto prontamente e recisamente: ma qui non si sa far valere ne anche il bene che si fa: si giunge a farlo, per così dire, di soppiatto, e si perde così il principale effetto, l’effetto dell’opinione. Il cardinale Gizzi non può sbarazzarsi, nei suoi atti, di queste forme stravecchie, che sono oggi ridicole: è con una circolare di quattro pagine, assai imbrogliata, che egli ha soppresso due cattivi tribunali . . . . .Si tocca tutto, si decide in petto, si persevera nelle proprie risoluzioni, ma non si agisce. Non è l’ideale di Governo, è il Governo allo stato d’idea . . . . La popolarità del Papa è quasi intera; io temo soltanto che se ne abusi, credendo di potervisi addormir sopra come sopra un letto di rose . . . .
«Il paese attende, ma con una impazienza risoluta. La festa fatta al Papa il primo giorno dell’anno è passata in ordine perfetto, ma perfetto al punto che rassomiglia già ad una organizzazione . . . .
«Frattanto il movimento degli spiriti cresce a vista d’occhio; gli scritti, i giornali si moltiplicano, le riunioni, le assemblee anche, e si organizzano. La legalità è rispettata: ma il sangue comincia a circolare rapidamente in questo corpo che era, or fa un anno, calmo e freddo come un morto . . . . .
«Il popolo e le sue guide hanno l’abilità e il senso di opportunità che mancano al Governo, Il partito liberale e moderato da un lato, e il partito radicale dall’altro si organizzano: e a fronte di un Governo che nulla sa organizzare e concludere, i due partiti fanno causa comune. Essi si sarebbero separati, e il partito radicale non sarebbe stato che un tentativo impotente se il Governo, con provvedimenti aperti e risoluti, avesse saputo raggruppare i primi e farne un partito di conservatori zelanti e soddisfatti. Si è perduto molto tempo, e ciò che sarebbe bastato qualche mese fa non basterebbe più oggi. Ma, dopo tutto, si sarebbe ancora a tempo se il Papa giungesse a sussidiarsi di un Governo attivo, leale, intelligente, energico»61.
E di quell’insigne statista, il quale amava ardentemente l’Italia, e l’avrebbe voluta vedere risorgere indipendente, libera e forte, qualunque potesse essere la riserva impostagli dal delicato ufficio di rappresentante a Roma di quel re Luigi Filippo e di quel ministro Guizot, i quali volevano seguire, a quei giorni, in Italia, una politica raffrenatrice del Pontefice ed in senso austriaco, di quell’insigne statista io potrei riferire altri dieci frammenti di dispacci officiali e di lettere confidenziali, tutti ugualmente inspirati ai medesimi sentimenti, ai medesimi biasimi, e tutti diretti a porre in evidenza ugualmente il mal volere e l’inettitudine dei cardinali e dei prelati preposti al governo, e la debolezza e la insipienza del Pontefice. I lettori che volessero convincersene potrebbero farlo agevolmente consultando il D’Ideville e il D'Haussonville62.
Nè cito altri cinquanta scrittori almeno che, tutti, più ampiamente che quelli indicati non facciano, constatano in modo incontrovertibile questo malvolere, queste trame tenebrose e questa inettitudine della Curia e del chiericato, e la debolezza, gli scrupoli, le esitazioni e la incapacità di Pio IX63.
E, poichè una legge che temperasse i rigori della censura dei domenicani sulla stampa, per quanto invocata e reclamata, anche dai più temperati, non si era potuta ottenere, era naturale che frequentemente apparissero foglietti clandestini e che facesse capolino, a intermittenza, anche qualche giornale come La sentinella del Campidoglio, uscita prima del Contemporaneo, e probabilmente scritta da Pietro Sterbini. Fra le molte cose uscite, cosi, di soppiatto, a quei giorni, fu rimarchevole un opuscoletto intitolato: Le stragi di Tarnow, nel quale si narravano le orrende carneficine commesse e fatte commettere dal Governo austriaco in Galizia64; opuscolo che fece andare su tutte le furie il cardinale Gizzi e monsignore Marini, ancora governatore di Roma a quel tempo, il quale anzi fece arrestare un giovinetto venditore di quell’opuscolo, e punì con una multa di cento scudi il tipografo Natali, che quell’opuscolo aveva pubblicato.
In uno dei volumi di una preziosa miscellanea di scritti, opuscoli, foglietti e poesie di quei tempi 65, che ho sottocchio v’ha, fra molte altre poesie, un’ode, stampata alla macchia, senza indicazione nè di città, nè di data, nè di stamperia, da un anonimo, non più giovane; ode che, per molti riguardi, merita di essere riprodotta. Anzitutto perché, non ostante molti brutti versi e parecchie volgarità, improprietà e sgrammaticature, e non ostante l’affannoso e gonfio stile retorico, c’è in quell’ode un movimento lirico che invano si cerca spesso in odi limate e levigate; in secondo luogo per l’ardentissima fiamma di amor patrio che in quei versi divampa; in terzo luogo perchè quell’ode rispecchia perfettamente le condizioni e i sentimenti dell’ambiente, e da ultimo perchè il canto, dettato da un uomo poco tenero pel Papato, ha chiaroveggenze quasi profetiche su ciò che avverrà. L’ode fu dettata in una notte e pubblicata il giorno
appresso da Pietro Sterbini, e diffusa a migliaia di copie per
Roma, con grande rovello della Curia, dei gregoriani e della
polizia.
Eccola:
A PIO NONO
ode.
Sorgi, ti scuoti, ti agita |
Anch'io fuggii dai Templi |
E qui mi occorre commentare queste strofe per richiamare l’attenzione del lettore sui sentimenti in esse espressi, e che rispecchiano quelli dominanti nell’ambiente italiano di quel tempo, massime dello Stato pontificio, nel quale «il più forte, il più efficace desiderio delle genti culte e liberali era il desiderio della nazionale indipendenza, confessato con lunghi sacrifici, e col sangue, celebrato dagli scrittori, e quasi direi benedetto e sacrato, dacchè il Papa aveva aperte le braccia a tre generazioni d’uomini che per l’indipendenza avevano cospirato, combattuto, sofferto. Si parlava e scriveva di riforme; ma il nome d’Italia andava per le bocche di tutti, il grido d’Italia veniva pur sempre mandato dalle moltitudini festeggianti le riforma ed il principe; desiderate e care erano le riforma non tanto per lo immediato bene che partorivano, quanto come mezzo di concordia fra principe e popolo, e questa concordia era desiderata e studiata siccome mezzo di unione fra gl’italiani principi, e l’unione come mezzo di lega, e la lega come propugnacolo di indipendenza, cioè, a dir tutto chiaro, come mezzo di resistenza intanto ad Austria prepotente per cacciarla poi, Dio aiutante, dal sacro suolo della patria, e finire una volta la più iniqua delle ingiustizie, la dominazione degli stranieri66.
Così un insigne scrittore cui un altro insigne storico fa eco:
«Chi di tutta questa agitazione italiana ricercasse accuratamente e con intendimento la cagione, la troverebbe nel desiderio, anzi nel bisogno di liberare la patria dalla tirannide forestiera. Le riforme erano meno bramate come fine che come mezzo di indipendenza: speravasi da loro nascerebbe la concordia fra principi e popoli; da questa una lega italiana; e dalla lega la liberazione d’Italia»67.
Onde Pietro Sterbini, nel cui inno, da cima a fondo, fiammeggia la sanguigna facella dell’odio inestinguibile contro l’austriaco, riflette, ne’ suoi versi, i sentimenti di odio che fremevano nell’animo delle moltitudini; e allorchè egli dichiara di avere detestato la religione cattolica ed afferma di essere presto a tornare al tempio e ai piedi degli altari, esso riproduce fedelmente il soffio di un’altra aura dominante in quel clima storico, nel quale, «a vero dire, la parola del perdono, scesa dalla cattedra di san Pietro nelle anim£ umane, ne aveva ricongiunte molte col cielo; l’umanità e la pietà di cui il Vicario di Cristo dava luminoso esempio, avevano risvegliato il sentimento religioso, e molte coscienze si erano confortate, tranquillate per la benedizione di un papa amico dei progressi della civiltà cristiana... Le virtù, i benefizi del capo della cattolicità avevano redenti molti spiriti indevoti, scettici o torpidi»68. Fatto questo, che è solennemente confermato da molti degli scrittori dell’italico risorgimento, e specialmente dal Silvagni, il quale scrive: «In pochi mesi Pio IX riconciliò alla Chiesa romana dissidenti e filosofi, guelfi e ghibellini, maomettani e scredenti; nessuna occasione si presenterà mai più alla Chiesa romana per iniziare il desiderato stato di un solo ovile e di un solo pastore»69.
Il che è pienamente assentito anche dal Cattaneo: «Il nome di Pio IX aveva congiunto in uno la coscienza del fedele e quella del cittadino, le quali una dottrina sacrilega e vile aveva da tanti anni messe a contrasto. L’amor della patria non parve più delitto al cospetto di Dio»70.
Ma quel che più importa notare è il pensiero racchiuso nella seconda e terza delle strofe seguenti, nelle quali, come il lettore vedrà, il poeta carbonaro prevede, con antiveggenza proletica, che dimostra sempre più l’acutezza dello ingegno dello Sterbini, gli scrupoli di Pio IX, e sospetta che egli possa rifuggire dalla guerra per la sua qualità di Pontefice di pace e capo di tutti i Cattolici: prevede questi scrupoli, e procura, fino da ora, di dileguarli dall’animo del Pontefice.
Nè che io ricusi correre |
Nei quali versi, lasciando stare che Tirteo non avrebbe scritto quello bruttissimo del sangue; Che ne sarà colato, le argomentazioni per combattere gli scrupoli del Pontefice, sebbene un poco speciose, non mancano di molto valore.
E il poeta prosegue:
Parla, o sugli Austri l’itala |
Certo lo Stragi di Tarnovo, con tutta la difesa del Cantù, furono e restano cosa orrenda, ma anche questi versi, con cui quelle stragi furono descritte, sono brutti assai.
Ma il poeta, che non si è avveduto di essersi lasciato scivolare dalla penna una strofa tanto sciagurata, e poco curando la grammatica e unendo nel suo odio gesuiti ed Austriaci, e rispecchiando, cosi, ancora una volta, esattissimamente, la situazione, prosegue:
Mostri! . . . ed al fetido aëre |
Mostri! che propinarono |
Giunto qui, il poeta chiude la sua ode disordinata con una strofa, in cui mancano le finezze di Pindaro, ma nella quale rugge tutto l’impeto pindarico, che soltanto da un ardentissimo amor di patria poteva venire allo scorretto ed affrettato autore inspirato:
Ohi alfin giungesti splendida |
L’odio ai gesuiti, in Roma, era profondo e diffuso in tutte le classi, e basterebbero a provarlo le aspre censure che contro la Società di Loiola osa muovere, nella sua storia, il cattolico apostolico romano, e a Pio IX devotissimo sempre, dott. Benedetto Grandoni71.
La stampa clandestina e le insistenti premure che facevano presso il Papa il conte Pellegrino Rossi, il padre Gioacchino Ventura, monsignor Corboli Bussi e il conte Pasolini, i soli liberali fra tutti coloro che più frequentemente vedevano il Pontefice e il cardinale Gizzi, indussero finalmente il Governo a pubblicare la legge sulla stampa il 15 marzo 1847. Una magra e tisica legge che - se fosse stata osservata - avrebbe lasciate ancora le manifestazioni dell’opinione pubblica per mezzo dei giornali in piena balia dei censori, che furono fissati nella legge nel numero di quattro e designati nelle persone del marchese Carlo Antici, del prof. Salvatore Betti, dell’abate Antonio Coppi e dell’avv. Giuseppe Vannutelli. Nella legge, oltre questo ufficio di censura preventivo per le materie amministrative, storiche e politiche, era conservato l’ufflcio di censura ecclesiastica per le materie religiose. Insomma una legge del ti vedo e non ti vedo, che recava l’impronta delle condizioni d’animo del Pontefice; contentare i liberali e non scontentare i reazionari, allentare alquanto le briglie, ma tenerle sempre strette in pugno per poter stringere i freni ad ogni occorrenza. «Di certo, col pretesto di tendenze offensive dirette ed indirette, tendenti a rendere odiosi gli atti e le persone del Governo (erano le parole della logge) i censori avrebbero potuto proibire ogni scrittura, che non fosse lodativa degli atti e degli uomini del Governo; ma l’obbligo di darne in iscritto le ragioni era un freno, e le leggi oscure ed equivoche si allargano o restringono secondo i tempi; si che questa potea credersi sarebbe con molta larghezza interpretata, correndo tempi a libertà non avversi. Molti alzarono la voce contro l’editto: l’Orioli e l’Azeglio lo difesero; il primo come buono, l’altro come accettabile»72. Difesero la legge altresì l’abate Zanelli nel giornale l’Educatore e il Felsineo di Bologna, compilato dal Minghetti, dal Montanari, dal Marchetti ed altri valorosi uomini di parte moderata; mentre, dall’altro lato, la biasimarono lo Sterbini ed il Dragonetti73.
Intanto l’opinione che il Pontefice era circondato, come era vero, checchè ne dicano in contrario il De Saint-Albin, lo Spada e altri storici faziosi, da nemici delle riforme, era talmente penetrata negli animi della grande maggioranza della popolazione che, allorquando Pio IX si recò con pompa ufficiale il 25 marzo 1847 alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, una moltitudine immensa, acclamandolo freneticamente, gridava insistentemente: Viva Pio IX solo! Viva Pio IX solo!
È accertato e fuor di dubbio che Ciceruacchio si segnalò per attività febbrile in quel giorno, conducendo più volte le sue squadre di Trasteverini, di Monticiani e di Regolanti, per scorciatoie, sul cammino percorso dal Papa, per fargli udire più clamoroso quel grido: Viva Pio IX solo!74
Il giorno di Pasqua, 4 aprile, nuova imponente dimostrazione al Quirinale.
Nell’aprile fu aperto il «Circolo romano, un’unione di spettabili cittadini d’ogni ordine, dove i soci convenivano per leggere i giornali ed intrattenersi conversando con gli amici in onesta brigata, così come nelle italiane città è in usanza.
Pe’ tempi che correvano, naturale cosa era che il subietto principale dei discorsi fosse la politica e che l’adunanza prendesi natura di politico convegno. E tal fu invero: ma i consigli prudenti vi prevalevano, e prevalsero pur tuttavia quasi sempre; e dal romano Circolo ben di rado mossero le concitazioni popolari»75. Ma pure, secondo lo Spada, questo Circolo, che, durante l’anno 1847, fu presieduto dal principe Aldobrandini ed ebbe sede al palazzo Bernini al Corso, nell’estate del 1847 e «specialmente quando ebbe luogo la istituzione della guardia civica e il divulgamento della pretesa congiura, la cui scoperta si attribuì a Ciceruacchio....., era il punto di riunione donde partiva il motto d’ordine sulle cose del giorno»76. E queste affermazioni sono avvalorate dalle parole del Rusconi, il quale, nel 1847 ne faceva parte e che scrive: «al Circolo romano poi giorno e notte gli oratori si succedevano, come un tempo i Bruti ai Bruti, i Cornelii ai Cornelii»; e da quelle del Montanelli il quale afferma «che tutte le deliberazioni di momento si agitavano nel Circolo romano come in Parlamento supremo»77. Pochi mesi più tardi fu istituito il circolo popolare per iniziativa di Angelo Brunetti e del conte Pietro Ferretti - fratello del cardinale Gabriele, che successe come segretario di Stato al Gizzi - vecchio liberale e proscritto del 1831, e fu istituito, cosa curiosa e che parrebbe incredibile se non fosse vera, promotore monsignor Savelli, ministro di polizia. «Chiamato in quel mese di novembre 1847 monsignor Savelli da Forlì, ove era pro-legato, al Ministero di polizia, egli lasciò, a breve andare, costituirsi un Circolo appellato Popolare. Fu detto allora e creduto, che monsignore avesse in mente di contrapporre questa nuova adunanza, cui sperava governare e capitanare per mezzo di suoi fidi, così come le polizie sogliono, all’adunanza del Circolo romano, la quale gli dava molestia, forse perchè si travagliava in mantenere la concordia e temperare le passioni. Fatto è che il Circolo popolare surse in Roma, auspice monsignor Savelli; o se ciò credere non si voglia, surse certo, lui governante la polizia»78.
Ne fu per lungo tempo presidente Pietro Sterbini, ne fu presidente onorario Vincenzo Gioberti, il cui nome fu poi, come si vedrà, cancellato dall’elenco dei soci con una violenta deliberazione; ne fu pure quasi perpetuo vice-presidente il romano dott. Tommaso Mucchielli, uno dei più chiari medici della provincia, uomo di carattere aperto, rude e forte, avversario tenacissimo dei preti e grande zelatore di libertà; ne furono segretari G. B. Polidori, il dott. Felice Scifoni, romano, amnistiato, il dott. Pietro Guerrini ed altri valorosi giovani.
Oltre trecento romani, di ogni classe e condizione, il fiore della gioventù e della cittadinanza, il principe di Canino, il duca Marino Torlonia, Livio Mariani, i due Calandrelli, il Montecchi, il conte Luigi Pianciani, Carlo e Virginio Armellini, monsignor Muzzarelli, il Guerrini, il Meucci, gl’ingegneri Ignazio Palazzi, Giovanni Angelini e Mariano Volpato; Bartolomeo Galletti, Natale Del Grande, Giuseppe Gallieno, Salvatore Piccioni, Giuseppe Benai, gli avvocati Romolo Federici, Rinaldo Petrocchi, Antonio Fabi, il maestro di musica Eugenio Terziani, Michelangelo Pinto, i medici Feliciani e Sani, i chirurgi Corsi, Ceccarini e Pestrini, il gioielliere Fortunato Castellani, suo figlio Alessandro, Niccola Carcani, il marchese Sacripanti e molti altri valorosi romani vi appartennero. E vi appartennero inoltre un centocinquanta cittadini delle altre Provincie dello Stato, e un centinaio di valentuomini delle altre regioni italiane, come, ad esempio, il marchese Orazio Antinori e il dott. Luigi Masi dì Perugia, il Rusconi, il Gavazzi e il Galletti di Bologna, il banchiere Cesare Berretta di Ancona, i marchegiani Politi e Tommasoni, Angelo zzi ravennate, il dott. Sisto Vinciguerra di Frosinone, il Cannonieri di Modena, il Dall’Ongaro, il De Boni e tanti e tanti altri.
Questo Circolo, composto degli elementi più vivaci, divenne, man mano che, incalzando gli avvenimenti, si accelerava il rivolgimento delle cose, il centro degli uomini e delle opinioni più ardenti ed esercitò una grande influenza sulla popolazione romana dal settembre 1848 fino al cadere della Repubblica.
I giudici processanti avv. Cecchini e avv. Laurenti, i quali furono, l’uno dopo l’altro, i compilatori del processo contro gli uccisori del conte Pellegrino Rossi, si sforzarono di stabilire che l’omicidio dell’illustre statista fosse stato concertato e decretato la sera del 14 novembre nelle sale del Circolo; ma la fievolezza delle prove raccolte in favore di questa supposizione e l’ampiezza delle prove in contrario escludono questo fatto, che non fatto ma partigiana insinuazione rimase e rimane79.
Per ora giovi affermare che, dalla concorde deposizione del vice-presidente dott. Tommaso Mucchielli e dell’economo e maestro di casa del Circolo Paolo Mengarini risulta che istituto del Circolo era, in poche parole, d’istruire il popolo e appoggiare le Camere, che al Circolo non si presero mai deliberazioni contro Rossi e che in detto Circolo non vi erano divisioni di Circolo segreto e di Circolo pubblico e che tutto vi si trattava nella gran sala80.
Un altro Circolo importante e che esercitò esso pure qualche influenza negli avvenimenti politici fu quello dei commercianti, che fu istituito il 27 aprile 1847 al palazzo Lepri in via Condotti e che più tardi trasferì la sua sede al palazzo Theodoli al Corso e che, per un certo tempo, fu presieduto dall’avv. G. Galletti.
Oltre a questi tre principali, parecchi altri minori ne sorsero, come il Circolo degli artisti, il Casino dei nobili, il Casino universitario, quello dei reduci, il Circolo medico, il Circolo ecclesiastico, uno dei Francesi, uno degl’Inglesi, uno dei Tedeschi e qualche altro.
II 20 aprile gli abitanti dei Borghi, costituenti la così detta città Leonina, offrirono un banchetto agli amnistiati di Roma e provincia, sulla vetta del Gianicolo e precisamente sotto la quercia del Tasso a sant’Onofrio. Vi intervennero duecento persone fra le quali i principi Aldobrandini, Conti, Corsini, Doria, il duca Mario Massimo, i tre duchi Torlonia, Bartolomeo dei principi Ruspoli, il D’Azeglio, l’Orioli, lo Sterbini, i quali tre ultimi pronunciarono discorsi e brindisi, cui fecero eco poesie del Guerrini e del Benai81.
Questi lesse venticinque sestine in dialetto romanesco, delle quali mi piace riferire qui taluna. Dopo aver detto che fu svegliato la notte innanzi da una voce che gl’ingiungeva di cantare nel banchetto del giorno susseguente, nella sestina quarta, canta:
Dò subbito de guanto ar colascione, |
Poi si rivolge il Benai all’ombra del gran Torquato e l’eccita a sorgere per cantare degnamente di Pio IX:
Artro che er tu Rinardo e er tu Tancredo |
E imprende a celebrare le virtù di Pio IX e, dopo aver levato a cielo l’atto del perdono, fustiga terribilmente il passato governo reazionario:
Tempo già fune..... Quanti l’hanno dette |
Nun raggionà de lor ma guarda e passa. |
E intorno a queste sue restrizioni se ne appella a Padron Angelo Brunetti:
Parlate schietto, ditelo sincero |
E, appresso, afferma che bisogna tener chiusa la bocca, mosca bigna fane e che se lo dice Padron Angelo
Ne sa più d'un maestro che fa scola: |
E, alludendo a Pio IX e ai gregoriani, il poeta prosegue:
Spuntò dar celo l'astro maiorengo |
E qui si rivolge a Dio e lo invoca perchè regga e illumini il Pontefice
Soffieje tu all'orecchio le parole
A te l'ariccommanno, abije cura, |
Ma più assai imponente fu il banchetto tenutosi alle terme di Tito, sul monte Esquilino, il successivo giorno 21 aprile per celebrare l’anniversario duemillesimo seicentesimoprimo della fondazione di Roma.
Infuria terribilmente lo Spada contro Pietro Sterbini, che fu principale promotore di quel banchetto. Sofisticando e sottilizzando sui fini che lo Sterbini si proponeva col resuscitare nelle patrie memorie - fini scellerati, già si intende - lo Spada riferisce il primo periodo del foglietto anonimo, intitolato: Un romano ai suoi concittadini e lo fa seguire da un così puerile e sciocco commento, di cui sdegnerebbe chiamarsi autore un fanciullo, frequentatore della terza elementare.
«Siccome poi le prime parole - scrive lo Spada - del foglietto dicevan cosi: " Nel giorno 21 di aprile di quest’anno 1847 vengono compiti 2598 anni82 da che furon gittate le prime fondamenta di questa eterna città " parte che si voesse, facendo una parentesi del Papato e dell’èra cristiana, cominciare a proseguire l’antico millesimo».
Conseguenze legittime del quale sciocco ragionamento dorebbero essere queste, che, per non offendere la suscettibilità dei papi e dei papalini scrupolosi come lo Spada, Roma non dovrebbe essere ritenuta fondata da Romolo, ma da San Pietro e che i 754 anni di vita gloriosissima nei quali il gran popolo latino, prima che apparisse nel mondo Gesù Cristo, conquistò il mondo mediterraneo e, con Caio Giulio Cesare fondò la monarchia universale, dovrebbero considerarsi come non trascorsi e dovrebbero essere soppressi dalla cronologia storica.
Ma se si voleva celebrare il natale di Roma, in qual modo mai ci si potevano fare entrare il Cristianesimo e il Papato, che apparsero settecentocinquantaquattro anni dopo che Roma era stata fondata?
Se il Cristianesimo e il Papato potessero anche essere considerati - e, forse, in avvenire, fra quattro o cinque secoli, saranno considerati - come una lunghissima parentesi nella storia di Roma, la colpa non sarebbe e non sarà di Pietro Sterbini, ma della Storia.
Il banchetto dunque si tenne: sedettero alle lunghe tavole, disposte a raggiera, dal centro, ottocento convitati, oltre parecchie migliaia di persone che, munite di biglietto, potettero assistervi nel recinto. «La statua emblematica di Roma, e ai piedi della medesima la lupa coi gemelli Romolo e Remo dominavano il banchetto. Il tempo bellissimo, amenissima la situazione, belli o almeno saporiti e acconci ai tempi i discorsi degli oratori e i versi dei poeti, applausi, evviva fragorosissimi, gioia in tutti i volti, uno sventolar continuo di fazzoletti, e perfino i melodici concerti della banda militare vennero a rallegrar la festa, che riuscì oltre ogni dire bella, animata e dilettevole. Chi non vi si è trovato non può concepirne um idea adeguata, e chi vi si trovò difficilmente potrebbe con appropriate parole descriverla»83.
A smentire poi solennemente le insinuazioni dello Spada, a mostrare come quella gente, raccolta sull’Esquilino a celebrare il natale di Roma, non solo non dimenticasse Pio IX, ma ne facesse il centro e l’obbiettivo principale de’ suoi voti e delle sue parole, basterà riportar qui qualche frammento delle cose dette dagli oratori.
Primo a parlare fu il marchese Luigi Dragonetti di Aquila, già deputato al Parlamento napoletano nel 1820, due volte condannato per cospirazione dal Borbone e quindi esule da Napoli e residente in Roma, il quale, ricordate le glorie e grandezze antiche e medioevali della città eterna e parlato del Campidoglio, del Laterano e Vaticano, continuò, passando in rassegna i vari secoli della storia della città: «E il vigesimosesto, ancor tutto vita e vigore di azione, non ci parla dai monumenti, ma porta in fronte, quasi dm stelle che non avranno occaso, i nomi il cui venerato suono andrà continuo da un confine all’altro del mondo, del Settimio Pio e del Nono. Del primo si sta pago ricordare che superò la fortezza del fortissima e più meraviglioso genio della modernità; ma del secondo, del tutto santo e pietoso e magnanimo Pio IX, angelo deputato dal cielo a gridar pace e perdono alle travagliate generazioni; potrà mai dir quanto basti a dar fiato a tante trombe della fama verace, che la debita e conveniente lode sia a tanta e sì cara virtù retribuita? A lui novello, e dell’antico e più sapiente e glorioso fondatore di Roma; a lui restauratore immortale della civiltà cristiana, cui i popoli dissidenti volgono meravigliando lo sguardo, vedendo che per lui il pontificato riassume con non più saputa potenza la tutela degli oppressi, e l’idea cattolica si svolge fautrice di bene ordinato civile consorzio, di equità e giustizia, di nazionalità, di emancipazione e di riconoscimento dell’umana dignità, cessando da noi la trista e crudele necessità de" sanguinari rivolgimenti e delle ire e vendette civili; e dando come padre universale ai re il cristiano modello di saggio, illuminato e pacifico regno; a lui, noi oggi qui radunati a celebrare il natale dell’eterna città, che egli ha redenta e solleverà - le speranze che si fondano in Dio e ne" santi suoi 7ion saranno deluse - all’altezza dei colli eterni, tributiamo ogni più schietto omaggio di lode, di reverenza e di amore, e preghiamo dal cielo lunghissimi anni di prosperità, di gloria e di benedizione»84.
Da questo lunghissimo e asmatico periodo, contenuto nelle brevi parole del marchese Dragonetti, si può arguire che quella festa, quantunque, a buon diritto, avesse potuto avere un carattere molto pagano, lo ebbe invece assai cristiano e papale.
Il prof. Francesco Orioli, amnistiato esso pure, perchè condannato in contumacia pei fatti del 1831, parlò dopo il Dragonetti e, in un discorso tutto ridondante di consigli di temperanza e di moderazione e il cui concetto fondamentale può riassumersi nelle parole da lui stesso pronunciate, affrettatevi adagio, esclamava: «Non opinioni estreme, non divisione in partiti, che riducono a niente le forze del popolo. Non utopie. Non ipotesi temerarie. Non sogni di desidera, che trasportan, d’un salto, l’anima verso le immaginarie regioni di un bene veduto in ombra o sotto falsa luce. Non fretta inconsiderata: le macchine politiche non si muovono per urti violenti, più validi d spezzarne le molle che ad accelerarne il lavorìo. Non diffidate troppo dei senil senno, della senile esperienza, Guardatevi da certe idee di perfezione assolata, che non di rado, ebber potenza di falsare il giudizio di maggiori uomini che noi non siamo, eppure il fatto prova quanto avessero in sé di vanità ed incoerenza. La nostra speranza è Pio IX. Il nostro unico grido è: Via Pio IX, Padre della Patria!»85.
All’Orioli tenne dietro lo Sterbini, il discorso del quale fu, naturalmente - e doveva essere per il grande culto che egli aveva sempre avuto ed aveva per la latinità e la classicità - il più pagano e quello che più spaziò nel campo dell’antichità: e nondimeno, sul finire di quel discorso, l’oratore esclamò: «Dio ha decretato una nuoca fondazione di Roma: un altro Romolo è salito sul Quirinale: simile all’antico egli confida mi popolo, simile all’antico ei si sente inspirato dal cielo che lo conforta a regnare per il suo popolo e col suo popolo.
«Stringiamoci intorno a lui per animarlo, per secondarlo a cercare il bene della patria comune»86.
Parlò quarto Massimo d’Azeglio e con quella eloquenza che era sua e che gli veniva dall’animo infiammato dall’amore della patria. Fra molte altre cose, egregiamente tratteggiate, egli disse, sul finir quasi delle sue parole: «A questo punto mi arresto, che dai campi del passato mi trovo su quel ciglio estremo dal quale si trabocca nelle regioni dell’avvenire. Non la mia dehol mano, ma la potente destra di Pio IX ci squarcia il velo che ci nasconde il futuro, egli si è fatto profeta del popol suo, non solo, ma dell’intera civiltà cristiana; egli ci dice quali saranno le sue sorti future; non son io degno di unire l’umile mia voce alla potente parola del gran Pontefice, che ci risuona a tutti nel cuore e si sparge a tutti per l’intero mondo nuncio di giustizia, di pace, di concordia e perdono. Questa parola, che ha in sè maggior potenza che non v’ebber tutte insieme le antiche legioni, ha compito in brevi giorni la grande impresa che costò tanti secoli alle armi romane, la conquista del mondo. Noi siamo spettatori dei primi effetti di tal conquista, ma chi non ne vede le conseguenze future?
«Non è dunque tolto da Roma lo sguardo di Dio, ne il tesoro della sua potenza, è dunque sempre Roma la ritta che non deve perire. Viva dunque Roma, Viva Pio IX».
Dopo questi discorsi «vengono ricordati il conte Pagliacci, il sig. Alessandro Rossi, il sig, Guerrini, il sig, Meucci che recitarono prose e poesie, 7nolto bene accolte e applaudite dal pubblico. Il sig. De Andreis recitò, fra molti evviva, i versi del sig. Checchetelli, assente da Roma, e il sig. Giuseppe Benai pronunziò alcuni versi in dialetto romanesco - quelle stesse sestine che aveva declamate il giorno innanzi a sant’Onofrio — che furono lodati a furore: tanto erano pieni di verità, di vivezza e di inspirazione poetica.
«In fine sopravvennero cantando inni e accompagnati con la banda dei Vigili gli studenti della Sapienza - cosa che fa andare in furore il buon Spada - i quali eseguirono vari cori vi onore di Roma e dell’Augusto che oggi, con tanto senno ed amore ci regge» nota.
Come si vede se discorsi e poesie furono inspirati dall’amore di Roma, furono però anche altrettanti inni, troppo azzurri, troppo rosei, troppo arcadici, in onore di Pio IX.
A questa diffusa relazione il Foglio aggiunto al Contemporaneo unisce una canzone di Alessandro Poerio avvertendo che l’autore scrisse questa canzone tempo fa, ed avendola gentilmente a noi regalata non potevamo, ci pare, cogliere occasione più bella per farne presente al pubblico.
È una canzone di severità accademica e di atteggiamenti classici - sebbene la spezzatura del metro e un certo andar quasi celere accennino nel poeta un vigoroso anelito a novità. Ad ogni modo è poesia inspirata ad alti sensi, ricca di eletti Pensieri e di versi robusti, benchè talvolta oscuri. Vi si sente dentro quasi una rimembranza delle canzoni del divino Dante, tanto nel fraseggiare, quanto in una certa melanconia ascetica.
Ancor da te si noma |
Per te queta di leggi al tempo antiquo |
E qui il poeta napoletano - che, fra poco, lascierà le proprie ossa, valorosamente combattendo, sugli spalti dell’eroica Venezia - entra a parlare delle gesta latine e delle glorie del Campidoglio:
Terra e ciel poser mano |
Il dotto e fervente cattolico, che adora la religione e la patria e che per la patria morrà, come sarebbe morto per la religione, ha provato e sentito egli pure tutto ciò dinanzi a Roma:
Anch’io l’ebbrezza arcana |
E, illudendosi anch’egli sull’indole di Pio IX e attribuendo gli pure al Pontefice i suoi pensamenti, le sue speranze e i suoi desiderii, prevede, nella strofa susseguente, nientemeno che la rinuncia del Papa al potere temporale:
Ovunque l’idioma |
Nella chiusa eccita gl’Italiani ad accorrere quasi a luogo auspici a Roma e, con pensiero fra l’ascetico e l’accorato, santifica l’amor di patria:
Qui venite ove posa, |
Qui patrio amor v'infiammi e vi maturi |
Se i miei lettori vorranno por mente all’intonazione di tutti questi discorsi e specialmente ai sentimenti espressi nella canzone del Poerio; se vorranno, col pensiero, trasferirsi in quella età in cui così si parlava, si pensava, si sentiva e si scriveva; se vorranno rammentare che quella età era piena delle nobili querele di uomini quali il Lamennais, il Rosmini, il Gioberti, sebbene discordi fra di loro nei mezzi, concordi nel fine della necessità di una riforma della Chiesa cattolica; se vorranno, con questi fatti, rannodar gli altri dei sentimenti cioè o religiosi, spiritualisti da cui erano animati il Pellico, il Manzoni, il Balbo, il Mamiani, il Tommaseo, il Montanelli e financo il Mazzini, per non dire di moltissimi altri minori; se tutto ciò vorranno fare e faranno i miei lettori, essi agevolmente si renderanno conto di quel duplice sentimento che, consapevoli o inconsapevoli che ne fossero gli uomini, serpeggiava in mezzo al popolo italiano e tutto lo agitava e lo commuoveva, duplice sentimento che aveva per fine due ideali: ricostituire la fede religiosa nella coscienza italiana, fatta vuota ed arida dalla politica, dalla coltura, dallo scetticismo del cinquecento e dal successivo servaggio che ne era stato l’effetto; e ricostituire nella unità e nell’indipendenza il nome, la grandezza e la potenza d’Italia.
Dei quali due ideali uno, cioè la rigenerazione politica, è stato tramutato in fatto; l’altro, la rigenerazione morale e religiosa, è ancora lontano dall’essere attuato e rimane desiderio ardente di parecchi alti pensatori e sembra destare minor interesse proprio in quel Vaticano, ove dovrebbe essere più vivamente carezzato. Il dissidio fra lo Stato e la Chiesa, mantenuto ardente dalle ischeletrite congreghe gesuitiche e dai pregiudizi e dagli interessi della vecchia Curia, si rispecchia nella coscienza nazionale; onde in molti milioni di Italiani, per zelo di religione, va intiepidendo l’affetto verso la patria, mentre in molti altri milioni l’amor soverchiante della patria affievolisce il sentimento religioso. Ma, chi sa?.. . forse non è lontana la apparizione di un grande pontefice il quale operi l’invocata, attesa, inevitabile riforma della Chiesa e compia una grande evoluzione per cui la Chiesa stessa, rimasta in ostilità con la patria e con la scienza e quasi al retroguardo della civiltà umana, al progresso e alla civiltà si ricongiunga88.
Ma per tornare alla storia della romana rivoluzione, dirò che il 19 aprile, e non il 10, come erroneamente afferma il Pasolini, e neppure il 14, come notano altri storici89, fu diramata la circolare della segreteria di Stato n. 12,148, firmata dal cardinale Gizzi, con la quale si partecipava ai cardinali legati e ai monsignori delegati, governatori delle varie provincie, la deliberazione del Pontefice di istituire una consulta di Stato per le finanze e per l’amministrazione, la quale doveva essere composta di un rappresentante per ogni provincia da scegliersi dal Papa sopra le terne a lui sottoposte dai governatori delle Provincie stesse. Cosi erano occorsi dieci mesi perchè, in mezzo alle insidie dei gregoriani, fra le tergiversazioni della Curia, Pio IX potesse concedere a’ suoi sudditi ciò che a loro favore domandava il famoso memorandum delle cinque potenze nel 1831! Cosi erano occorsi dieci mesi per accordare ciò che, ragionevolmente, poteva sembrar concessione importante nel 1831, ma che, trascorsi sedici anni di desiderii, di speranze, di tormenti e di evoluzioni della coscienza nazionale, non poteva essere considerata che come stantia concessione e inadeguata ai bisogni e insufficiente a lenire l’ardente temperatura in mezzo alla quale quella tenue doccerella veniva irradiata.
Nondimeno tanto era l’affetto che le moltitudini nutrivano per Pio IX, così profonda la fiducia che esse avevano in lui, così generale il convincimento che egli si trovasse accerchiato da una viperea congrega di nemici di ogni riforma e che egli avesse quindi bisogno di essere sorretto ed incoraggiato, che il giorno 22, appena la circolare Gizzi fu nota, una imponentissima dimostrazione popolare trasse al Quirinale. «Quell’annuncio diè occasione ancora ad una di quelle solenni manifestazioni di gratitudine, alle quali il popolo romano era ormai abituato da più mesi: si fece conto che non meno di ventimila plaudenti si recassero a render grazie al Pontefice sulla vetta del Quirinale»90.
Ma anche contro questo festeggiamento invelenisce lo Spada, trama di settari!, non libera manifestazione di popolo appellandola, contro la concorde affermazione di moltissimi altri storici di fede degnissimi91. In questa circostanza Ciceruacchio recava trascritta sulla sua bandiera la circolare del cardinale Gizzi.
Il 29 di aprile usciva il numero programma del giornale moderato costituzionale, intitolato La Bilancia, di cui era direttore il prof. Francesco Orioli, nato, nel 1783, a Vallerano, presso Viterbo, e dotato da natura di versatile, fecondo, prontissimo ingegno che egli, nella vita randagia del padre suo, applicò disordinatamente a svariati, molteplici ed opposti studii, nei quali, nondimeno, riuscì, per quelle felicissime naturali disposizioni, ad acquistare estese, se non profonde cognizioni che, con parola facile, ornata, affascinante, esponeva. A 30 anni ebbe la cattedra di fisica nella Università di Perugia, dalla quale, nel 1815, passò professore per lo stesso insegnamento a Bologna, ove, amato e stimato e in odore di giacobino e carbonaro, allo scoppiare del movimento insurrezionale del 1831, ebbe in quello grandissima parte92, e fu membro del Governo provvisorio degli insorti romagnoli e poscia effimero ministro dell’istruzione pubblica nell’effimero Ministero di quel fugace rivolgimento politico. Arrestato, insieme a molti altri profughi, imbarcatisi ad Ancona sopra una nave diretta a Corfù, fu tratto col Mamiani, col Vicini, col Zanolini, col Silvani, col Popoli e con gli altri, in carcere a Venezia, donde, dopo nove mesi, quegli infelici furono condotti a Civitavecchia. E di là poterono esulare in Francia. A Parigi il prof. Orioli dettò un libretto, che diè alle stampe nel 1835: La Revolution d’Italie; poi si trasferi a Bruxelles, indi a Corfù, pubblicando sempre memorie e opuscoli importanti di argomenti scientifici, storici, archeologici, letterari, e a Corfù una rivista enciclopedica intitolata: Spighe e Paglie. Appena seppe dell’amnistia, tornò in Italia e pose stanza in Roma e prese, al solito, a primeggiare nei circoli, nei banchetti, nella stampa. Se si dà ascolto al Gualterio, l’Orioli, per la dottrina e pel sofferto esiglio poteva godere stima grande nel paese e dare sufficienti guarentigie ai liberali; tanto più che il Farini affibbia all’Orioli, senza tanti complimenti, l’epiteto di celebre addirittura93; la bisogna procederebbe diversamente se si porgesse orecchio a ciò che altri asserisce intorno all’Orioli, che parliero infaticabile, voleva saper tutto e nulla approfondiva94 e che era uno di quelli che, essendo scappato rivoluzionario d’Italia nel 1831, era ritornato pentito, e l’ingegno, nobile nella scienza, ignobilitava coll’adulazione al potere95.
Insieme coll’Orioli collaboravano alla Bilancia l’avv. Andrea Cattabeni di Senigallia, amico ed agente d’affari di casa Mastai, e l’avv. Paolo Mazio, romano. Il giornale fu autoritario e non incontrò molto le simpatie del pubblico pel tono cattedratico che assunse.
Il 5 maggio era festa di san Pio V, onde i liberali ne trassero motivo di una nuova dimostrazione in onore di Pio IX, accorrendo a migliaia nella chiesa di santa Maria degli Angeli a Termini alla messa solenne e al panegirico di Pio IX, detto dal P. Serini96.
Il 13 maggio era il giorno natalizio di Pio IX, e nel tempo stesso, ricorreva in quel giorno la festa dell’Ascensione, e il Papa recavasi a celebrarla nella chiesa di san Giovanni in Laterano. Quindi due popolari imponentissime manifestazioni, la cui solennità e spontaneità non è messa in dubbio neppur dallo Spada97, avvennero una sulla piazza del Laterano e l’altra al ritorno del Pontefice sulla piazza del Quirinale. La carrozza di Pio IX procedette, lungo la via, sotto un nembo di fiori che venivano gittati dalle finestre e dalle loggie. Al Quirinale benedizione papale: alla sera splendida luminaria per tutta la città.
Ma quanto più si mantenevano vive l’animazione e l’affetto pel Pontefice nel popolo e tanto più crescevano le insidiose trame della vecchia Curia per rompere, se fosse dato, quell’armonia fra popolo e principe. Ed ecco monsignor Grassellini, governatore di Roma, ufficio equivalente a quello di ministro di polizia, intimare, con belle maniere, al marchese Dragonetti di allontanarsi da Roma. «Era quest’uomo per dottrina e gentilezza di modi quasi generalmente stimato, e veniva riguardato dai liberali come uno dei martiri della libertà. Scrittore egregio, lavorava nel Contemporaneo; e uomo di felice elocuzione, non si ristava dal frequentar banchetti, circoli e popolari riunioni»98.
E poichè tale era l’uomo, e non si vedeva quindi quale ragionevole motivo potesse consigliarne al governatore di Roma lo fratto dalla città, surse naturale e si diffuse il sospetto che questa decisione fosse conseguenza di pressioni esercitate sulla romana dalla polizia napolitana, onde nacque un forte commovimento nell’opinione pubblica: al Circolo romano si parlò alto contro questo ingiustificato e ingiustificabile arbitrio della polizia, che lo stesso Spada non sa come scusare. Infine la forza dell’opinione in favore del colto gentiluomo ed onorando esule napoletano fu così vigorosa che monsignor Grassellini fu costretto a ritirare l’ordine dato, ma «intanto facevasi sapere dal governatore al Dragonetti che restasse in Roma, purchè si astenesse prudentemente coi suoi discorsi onde non porre in una falsa posizione il Governo pontificio con quel di Napoli»99. Con queste parole lo Spada, che aveva voluto negare le pressioni della polizia partenopea, viene ad ammettere e confessare che effettivamente le premure per Io sfratto del Dragonetti erano provenute dal Governo borbonico.
Finalmente, dopo lungo ponzare, il 14 giugno venne fuori il motu proprio col quale si ordinava il Consiglio dei ministri, concessione sulla tardività e insufficienza della quale non pur sollevarono rispettose e quasi timide osservazioni a quei dì il progressista Sterbini e il moderato Orioli 100, ma moltissimi storici delle cose italiane di quel tempo, e, tra essi, anche alcuni assai moderati quali il Grandoni, il Farini, il Rey e il Ranalli. Infatti quel Consiglio dei ministri a che si riduceva? «Il segretario di Stato ne era presidente, ed aveva le cose interne, e rimase il cardinal Gizzi. Al cardinale camerlengo di Santa Chiesa vennero deferiti agricoltura e commercio, e fu Riario-Sforza. Il prefetto alle acque e strade fu ministro dei lavori pubblici, e rimase il cardinal Massimo. La presidenza delle armi divenne ministero di guerra, e si diede a monsignor Lavinio Spada. Il tesoriere generale Giacomo Antonelli diventò ministro di finanza; infine il governatore di Roma monsignor Grassellini ritenne la polizia. I soli Gizzi, Antonelli e Spada, senza essere liberali, sapeano adattarsi al momento; gli altri erano dichiarati nemici di libertà, gregoriani, impari all’ufficio per ingegno, e per notissimi fatti impopolari ed odiati. Così il vecchio Governo era virtualmente condannato, il nuovo inetto a costituirsi un proprio fondamento. Respinto il sistema della repressione violenta, non istabilito fortemente quello della legalità, unico vincolo tra governanti e governati, rimanevano l’entusiasmo, la confidenza; ma questa, già sì labile e fugace per sé, anzichè accresciuta, venìa di molto scemata dal rimanere in carica quasi tutti gli ufficiati di Gregorio, i quali o proseguivano arcigni ed ostili al popolo, ovvero ne accattavano perdono e favore col lasciar correre ad ogni sfrenatezza»101.
Nondimeno il popolo festeggiò, con una imponentissima dimostrazione, il giorno 17 giugno, l’anniversario della esaltazione di Pio IX a pontefice della Chiesa romana.
Dalla provincia erano accorse a Roma molte migliaia di cittadini e le rappresentanze municipali con le bandiere e coi concerti musicali di Alatri, Anagni, Arsoli, Prosinone, Marino, Monterotondo, Palestrina, Poggio Mirteto, Subiaco, Tivoli e Zagarolo102.
I capi-popolo, vessilliferi delle quattordici bandiere dei rioni, ciascuna avente lo storico emblema del proprio rione, furono quei quattordici medesimi cittadini, i quali, nel giorno 24 novembre di quello stesso anno, nella prima adunanza del nuovo Consiglio comunale, istituito - come si vedrà - col motu proprio del 1° ottobre 1847, presentarono al Consiglio stesso le quattordici bandiere rionali, e cioè:
Pel rione I, Monti, Conti Gerolamo detto Girolometto;
Pel rione II, Trevi, Dinelli Carlo;
Pel rione III, Colonna, Piccioni Salvatore;
Pel rione IV, Campo Marzio, Brunetti Angelo, detto Ciceruacchio;
Pel rione V, Ponte, Fabiani Giuseppe, detto Carbonaretto;
Pel rione VI, Parione, Invernizzi Francesco;
Pel rione VII, Regola, Caravacci Giuseppe, detto Mecocetto;
Pel rione Vili, Sant’Eustachio, Gregori Giuseppe;
Pel rione IX, Pigna, Croce Cesare;
Pel rione X, Campitelli. Martinetti Pietro Paolo;
Pel rione XI, Sant’Angelo, D’Orazio Biagio;
Pel rione XII, Ripa, Vari Carlo;
Pel rione XIII, Trastevere, Antilici Salvatore;
Pel rione XIV, Borgo, Ricciardi Attilio103.
Tutti romani, meno il Carbonaretto, che era di Rocca di Papa, ma da molti anni domiciliato a Roma.
Ciceruacchio portava anch’esso la bandiera del suo rione, sulla quale erano scritte queste parole: amnistia, codici, strade ferrate, municipi, deputati, istruzione; le quali parole - osserva scandolezzato lo Spada - per chi sapea leggerne la portata, equivalevano ad apologia del già fatto, ma ad eccitamento pure pel da farsi104.
Scempiezze! Se Ciceruacchio era un vero patriota e un caldo liberale - quale era realmente - doveva forse agire per conto e nell’interesse dei reazionari e dei gesuiti, e doveva chiedere, anzi, che maggiori e più liberali riforme, il ripristinamento della tortura e del sistema feudale?! . . . .
Una Commissione di Bolognesi aveva recato a Roma una ricca bandiera inviata in dono da Bologna a Roma, in pegno di fratellanza e ad onta delle gare e delle discordie che avevano, talvolta diviso, in passato, le due cittadinanze. Su quella bandiera aveva Pietro Sterbini scritto un coro, che, posto in musica dal maestro Magazzari, fu cantato sulla piazza del Quirinale da trecento coristi.
Si chiamò il coro di Pio IX - osserva melanconicamente lo Spada - i buoni Romani gli largivan tale appellativo, ma era un coro repubblicano bello e buono, e che può considerarsi siccome la Marsigliese dei Romani105.
Infatti, avverte lo Spada che lo Sterbini aveva dapprima dettato il coro composto di sole quattro strofe, di guisa che di Pio IX non era pur menzione, anzi che cosi era stato stampato nella prima edizione; e aggiunge che, soltanto dopo osservazioni fattegli sulla sconvenienza di quell’oblio completo del Pontefice, egli scrisse le due ultime strofe. Benché questa sottile Osservazione e il malizioso commento che la segue siano stati fatti soltanto dallo Spada, fra tanti storici degli avvenimenti del triennio 1846-1849, non ne negherò l’esattezza, perchè a me pure risulta vera da altra ineccepibile fonte.
Ad ogni modo il coro era bello - almeno a me par bello ed era questo:
Scuoti, o Roma, la polvere indegna. |
Qui seguiva la prima volta una strofa che, accompagnata dalle trombe, riappare altre due volte come ritornello, dividendo il coro in tre parti. Eccola:
Delle trombe guerriere lo squillo |
Seguono la terza e la quarta strofa del coro:
Sotto l’ali dell’aquila altera |
Delle trombo guerriere lo squillo, ecc.
Nelle quali strofe, ali’ infuori di quel perfido, che mi pare un po’ melodrammatico e convenzionale, io non trovo né esagerazione di tinte, né svenevolezze arcadiche, ma robustezza di pensieri e di frasi convenevoli al subietto.
Le ultime due strofe, belle anche esse, eran queste:
Dio possente che muovi la terra |
Ripeto che sono belle assai anche le due ultime strofe, scritte per soddisfare lo zelo dei ferventi di Pio IX, ma l’appiccicatura si sente, e si sente anche la mancanza del nesso logico fra le prime quattro strofe e le due ultime.
Eppure uno dei papalini, che, col suo grosso buon senso e col suo ottimo cuore, fu dei primi ad osservare, con rammarico, che nel coro non si diceva nulla di Pio IX fu proprio Ciceruacchio, il quale si trovò al Circolo romano, insieme col Guerrini, col Benai, col Berni e con altri, quando lo Sterbini lesse, per la seconda volta, quel coro - innanzi che fosse stampato - e che, dopo avere con gli altri applaudito vivamente, esclamò:
— Che peccato, sor Pietro, che in sto bellissimo coro nun avete detto gnente de Pio Nono!106.
A questa solenne manifestazione popolare del 17 giugno 1847, concordemente assegnano una grande importanza molti scrittori. Il popolo si raduna in quel foro - nota il La Farina — dove altra volta tuonava la voce dei Bruti e dei Gracchi; si ordina per rioni; ciascun rione la sua bandiera ed il suo capo-popolo: duce supremo Ciceruacchio, Di là sale al Campidoglio, quindi, preceduto da bande musicali e seguito dalle civiche magistrature, va al Quirinale; ed il Pontefice viene al balcone, salutato da clamorosi applausi, fa cenno di ringraziare e benedice. Nuovi applausi. Dipoi il Te Deum nella chiesa della Certosa: tutta la notte inni, musica, grida di gioia, luminarie e baldorie. L’indomani, anniversario della incoronazione, rinnovansi feste e tripudii107.
Il Reuchlin pone in rilievo il carattere quasi militare di quell’ordinamento popolare108; e parecchi altri storici notano essi pure questo ordinamento a legioni, aventi i loro capi e le loro insegne, che ebbe la dimostrazione: taluno se ne allieta, tal altro ne piange, tutti concordano nell’affermare che se ne spaventò il Governo109.
Notevoli sono le osservazioni del Farini, uomo insigne per ingegno, per scienza, per patriottismo, da seguace della Giovine Italia, mutatosi in dottrinario fervente del moderatismo, li quale sagacemente scrive: le Commissioni eternvano i lavori: duravano le innormalità dello stato antico: le quistioni di forma preoccupavano le menti: poco si pensava alla sostanza: i desiderii liberali venivano acuiti ogni giorno più cogli stimoli della stampa e delle adunanze popolari: il vecchio Governo, virtualmente condannato dal nuovo, era scaduto senza che il nuovo facesse fondamento in base propria: questo viveva delle prestanze che l’opinione liberale gli faceva: razione governativa era perciò incerta, molle; e l’azione popolare era gagliarda110. E gagliarda doveva razionalmente essere, e perchè era l’espansione che veniva dopo trentanni di compressione, e perchè molle era l’azione del Governo. D’altronde parole d’oro queste del Farini; ma perché, dopo avere constatata ed affermata l’esistenza delle premesse, perchè ribellarsi, per amore del preconcetto dottrinarismo, alle logiche conseguenze che da quello premesse legittimamente discendono? Perchè pretendere che, dopo aver seminato i lupini, il fiacco e inetto Governo dell’altalena dovesse raccogliere le fragole? Perchè pretendere che i rivoluzionari dovessero essere curanti degli interessi di un Governo, che non li curava, non li sapeva curare, non li voleva curare i propri interessi? Perchè non trovar logico e ragionevole, che i rivoluzionari approfittassero, come effettivamente approfittavano, degli errori del Governo per far trionfare le loro idee e i loro principi? Perchè pretendere che le moltitudini, assetate di riforme da trent’anni, desiderose della indipendenza della patria dallo straniero, desiderose della unità nazionale, vista l’inerzia, il malvolere e l’ostilità dei governanti, non dovessero essere irrequiete e malcontente, e non dovessero divenire ogni giorno più esigenti, ansiose come esse erano di procedere sulla via che avrebbe dovuto e potuto addurle all’attuazione più sollecita dei loro ideali?
Ma tutte queste inchieste tornano inutili col dottrinario: egli non segue le leggi storiche nei loro logici svolgimenti; esso ha un sistema preconcetto al quale sì debbono piegare, ad ogui costo, anche a costo di spezzarsi e di trasfigurarsi, i fatti della storia: insomma è questione di metodo; quello del dottrinario è un metodo al tutto inverso al metodo logico e naturale: secondo il metodo dottrinario non sono i fenomeni e i fatti quelli da cui si deducono le leggi e i sistemi, ma i sistemi preesistono ai fenomeni e ai fatti, i quali a quei sistemi, già stabiliti, si debbono uniformare: cosicchè ogni discussione diventa inutile, e qualsiasi ragionamento è impotente e vano con siffatto avversario.
Il cardinale Gizzi - per tornare alla dimostrazione popolare del 17 giugno - palesò il malcontento del Governo per quella dimostrazione, pubblicando un editto «che proibiva le riunioni popolari. Ma la dubbiezza e la mollezza eran fatte palesi anche dai termini coi quali la proibizione veniva annunciata, avvegnachè non se ne dichiarassero francamente le buone ragioni, per fare scorte le genti savie e dabbene dei pericoli, ma questa si venisse pretessendo non ragione, scusa, di non interrompere gli studi dei giovani, le occupazioni degli artieri, l’assiduità dei pubblici funzionari. - Non sì tosto venne letto lo editto che, sebbene il segretario di Stato parlasse per volontà ed in nome del Papa, si sparse la voce come Pio nono non lo avesse approvato....»111 sempre per quella benedetta fissazione dei liberali romani di volere - per non guastare e decomporre il tipo etereo e divino del Pio IX, che essi si erano creato nella innamorata ed esagitata fantasia - buttare tutte le colpe, quelle che potevano parer colpe, sulle spalle di coloro che circondavano Pio IX, salvo ad attribuire unicamente a lui tutto ciò che si faceva di bene, o che sembrava bene.
E, siccome la consorteria gregoriana e gesuitesca aveva, di quei giorni, nuovamente suscitato i più fieri scrupoli nell’animo turbato del pavido Pontefice, cosi essa riusci ad ottenere che il medesimo si recasse il 27 giugno, in forma solenne, nella chiesa di sant’Ignazio, appartenente alla Compagnia di Gesù, ad amministrarvi la comunione agli alunni del Collegio gesuitico.
Questo fatto, che avveniva pochi giorni dopo la pubblicazione della circolare del cardinale Gizzi contro le dimostrazioni popolari, destò un grande fermento nei più caldi liberali: man mano tale fermento si diffuse nella maggioranza della popolazione, già eccitata da quelle tergiversazioni, da quelle lentezze, da quella avversione alle idee liberali che, da un anno, si manifestava nelle sfere governative e le agitate fantasie credettero che capo delle trame dei gregoriani fosse il cardinale Lambruschini e che egli avesse spinto il Papa ad andare nella chiesa dei gesuiti, e temevano che l’odiato antico ministro di Gregorio XVI potesse essere richiamato alla direzione degli affari pubblici.
Onde concitate orazioni si pronunciavano nei Circoli e fieri propositi si tenevano, qua e là, nei pubblici ritrovi e foglietti stampati alla macchia, venivan diffusi ed affissi, nei quali si attestava sempre dell’affetto, della devozione, della fiducia del popolo in Pio IX, ma in Pio IX solo, e il Pontefice veniva messo sull’avviso perchè diffidasse e si guardasse dai gregoriani e dal Lambruschini, che non era nominato, ma evidentemente designato.
In mezzo a questa agitazione e perturbazione degli animi furono celebrate solenni esequie in onore di O’Connell, nato a Carhen, nella contea di Kerry in Irlanda, nel 1774, tribuno perseverante ed eloquentissimo dei diritti disconosciuti dei cattolici irlandesi, il quale, dopo una tenacissima lotta di molti anni, era, alla perfine, riuscito a far restituire a’ suoi compatrioti i diritti politici. Egli si era mosso dall’Inghilterra per venire a Roma ad ossequiare Pio IX, tirato dalla fama del novello Pontefice: e niuno certamente potevagli recare miglior conforto nella impresa che sembrava avere assunto, di pacificare la libertà con la religione. Imperciocchè con la sua vita e coi suoi trionfi egli mostravagli, in modo incontrovertibile, aver più lui in pochi anni operato a pro della religione col mezzo della libertà, di quanto non avessero fatto per oltre due secoli in tutti i paesi e principi e chierici con l’inquisizione e con la spada112.
Ma, giunto a Genova, O’Connell ammalò, e il 15 maggio morì all’hotel Feder, ove aveva preso stanza, in età di 73 anni, senza aver gustato il conforto di fissare i suoi occhi morenti sopra il Pontefice, la cui benedizione egli chiedeva come una conferma solenne della sua patriottica carriera113.
Il 28 e 30 giugno, adunque, dinanzi ad un elettissimo uditorio, onde rigurgitava la chiesa di sant’Andrea della Valle, si fecero, con singolare autorizzazione del Pontefice, che fornì finanche per la funzione, con inusato esempio, gli apparati funebri della cappella papale, e specialmente per cura del Reverendissima P. Gioacchino Ventura, solennissime esequie in suffragio dell’anima dell’illustre O’Connell Il P. Ventura ne recitò l’elogio, diviso in due parti, una per giorno, tra l’ammirazione e la commozione di un popolo d’ogni ordine che silenzioso e denso gli faceva corona intorno Le assoluzioni si fecero dai signori cardinali Baluffì e Castracane114.
Il padre Gioacchino Ventura era nato a Raulica in Sicilia nel 1792; egli era quindi coetaneo di Pio IX, del quale era stato compagno di studi teologici in Roma. Fervido, acuto, potente aveva l’ingegno; profondissimi erano stati i suoi studi, specialmente in teologia e filosofia. Dotato di fantasia caldissima, di animo ardente egli univa a tutte le doti calme e serene del filosofo e del teologo, le qualità dell’artista. Fluida, ornata, viva spiccava dalle sue labbra la parola, onde egli era presto venuto in fama di eloquentissimo e irresistibile oratore: e lo era davvero. Nel 1828 egli aveva pubblicato in Roma un trattato di filosofia. De methodo philosofandi, che non ebbe la celebrità e la voga dei trattati del Rosmini e del Gioberti, perchè un po’ scolastico nella forma e perchè scritto in latino. Scostandosi dai razionalisti e attenendosi alla scuola della tradizione, il P. Ventura risollevò le dottrine di san Tommaso, cercando di conciliare l’autorità e la ragione, e, quantunque nella prima gioventù fosse stato retrogrado e reazionario e fosse ascritto per qualche tempo nel noviziato dei gesuiti115, in questo suo trattato filosofico, tornato su sé stesso, per una profonda evoluzione avvenuta in lui pei profondi ulteriori suoi studi, procura di armonizzare fra loro la fede e la libertà. Per quel suo dottissimo trattato Gregorio XVI chiamava il padre Veutura una delle prime teste della cristianità.
Accrebbe la propria fama il P. Ventura con la pubblicazione, fatta nel 1839, dell’altra opera, Delle bellezze della Fede, onde divenne amico degli uomini più illustri d’Italia e dell’estero, come il cardinale Angelo Mai, l’ab. Mastrofini, lo Chateaubriand, il Lamennais, ecc. ecc.
Professore, più tardi, nell’Università romana, perdè la cattedra di filosofia morale per avere esaminata la tesi della bontà e dei vizi dei Governi, concludendo che il pessimo o il più di tutti vizioso era quello elettivo: il che, sebbene fosse vero e per ragione della sua natura e per storica esperienza, sembrò al Governo una enormezza, detto dall’alto di una cattedra romana; e si riguardò come condanna del Governo pontificio, e poco meno che come istigazione alla rivolta. I cardinali ne furono singolarmente irritati, e quelle ire erano forse in parte fomentate dai Gesuiti, coi quali gli rimase ruggine eterna. Egli però si scusava dicendo, non potersi applicare la sua tesi al Governo romano, perchè Governo teocratico; ma non gli valse a poter ritenere la sua cattedra116.
D’altra parte, siccome il padre Ventura era legato da giovanile amicizia a Pio IX, cosi egli era uno dei pochi, fra gli ecclesiastici, che avvicinavano il Papa, che perorassero presso éì lui la causa delle riforme e della libertà.
Il successo della splendida orazione del padre Ventura in onore di O’Conuell fu immenso: mio padre, che si onorava dell’amicizia dell’illustre Teatino, condusse me, che avevo allora nove anni, ad udire le due orazioni in lode di O’Connell a sant’Andrea della Valle. Io non era in grado di apprezzare nel suo vero valore l’eloquenza del padre Ventura; ma ricordo benissimo che varie volte un lungo fremito di approvazione correva sotto le vôlte della chiesa in mezzo a quella folla stipata là dentro: quei fremiti erano applausi a stento rattenuti per la reverenza del luogo sacro117.
Ma la ragione dell’entusiasmo destato dall’orazione del padre Ventura non va ricercata soltanto nella somma eloquenza dell’oratore e nelle simpatie vivissime per O’ConnelI, il quale aveva lasciato, per disposizione testamentaria, il suo cuore in dono a Roma, ma anche nei sentimenti liberali espressi dal padre Ventura e nella grande analogia che intercedeva fra la causa degl’Irlandesi propugnata dall’O’ConnelI e quella degli Italiani perorata dal padre Ventura.
I funerali di Daniele O’Connell sono stati celebrati con bellissima pompa: l’oratore che ne disse l’elogio, non potea per altezza di mente e di cuore essere più all’unissono del suo elevato soggetto, né la orazione più accomodata alla grandezza dell’argomento, ne meglio ordinata a trarre utili documenti di religiosa e civile sapienza; ma rimane ancora a desiderarsi che sia meglio apprezzato il dono del cuore di questo genio straordinario, di questo animoso campione della fede cattolica e della libertà, di questo novello Giuda Maccabeo, che liberò il suo popolo, e confortò la Chiesa, di questo grande uomo, che, come Mosè trasse dalle mani di re Faraone un milione di Ebrei colla virtù de’ miracoli, strappò otto milioni d’Irlandesi dal ferreo giogo del più potente popolo della terra colla sola virtù della parola e della legalità! Quel gran cuore che palpitò solo di generosi e d’ineffabili amori, cui solo scaldarono le meglio che umane passioni della gloria di Dio e della Chiesa, della libertà e dignità della patria e della felicità di tutta l’umana generazione e per la legale rivendicazione della comune libertà e del ridestato spirito di nazionalità: quel cuore da cui scaturirono fonti inesauste di maravigliosa e passionata eloquenza: quel cuore potente che regolava le pulsazioni dei cuori di tutto un popolo, donato a Roma, uopo è che s’abbia romana custodia là dove or si pare che, quasi a ricovero, rimanga nella chiesa de’ suoi Irlandesi. Oh Roma! tu sei fatta per onorare in modo più degno di te la miglior parte delle spoglie mortali della fede, del coraggio, della costanza e del genio118.
Il segreto di una parte dì quell’entusiasmo va ricercato nelle seguenti parole contenute in quella orazione. Roma alla più scrupolosa legalità ha aggiunto l’entusiasmo dell’amore, e chiede per mezzo di una agitazione amorosa, come Irlanda ha chiesto per mezzo di un’agitazione legale, la riforma degli abusi, perchè il tempo e le passioni, come sempre e da per tutto accade, hanno alterato la natura dell’antica costituzione degli Stati della Chiesa, che conciliava sì bene l’ordine e la libertà. Poiché il linguaggio di un popolo che ama è impossibile che non sia inteso da un Pontefice tutto amore pel suo popolo; poiché i cuori che sinceramente si amano è impossibile che alla fine non si intendano; se però non ti arrestano, se però non ti ingannano, se però non ti tradiscono! Oh la bella pagina che aggiungerai alla tua storia! quella in cui la posterità maravigliata leggerà la conquista che tu avrai ottenuta di una saggia, di una vera libertà, per le vie solo dell’amore119.
Frattanto alle cause di agitazione politica, alle quali ho sopra accennato, altre se ne aggiunsero d’indole quasi economica. Cocchieri paesani con istravaganza non più veduta appiccavano riotte co’ cocchieri regnicoli, co’ quali stanziati da molti anni in Roma, non avevano mai avuto nimicizia, Riottavano altresì i lanaiuoli con quelli Arpinati che negli stessi opificii lavoravano di panni, minacciando di rovinar le macchine e mandare tutto in fascio. Altrove più scandalosi fatti accadevano. Avendo le istanze fatte dagli Israeliti di Roma al Pontefice fruttato loro un maggiore allargamento di abitazione, se ne valsero i malevoli per sommuovere contro di essi la superstiziosa plebe, la quale sarebbe corsa a feroci atti se di frenarla non avessero fatto opera uomini umani e civili120.
Questi fatti avvenivano a Roma negli ultimi dieci giorni di giugno e turbavano la quiete cittadina e minacciavano civili discordie. Ma da quali cause avevano origine tali dissidi? Chi li promuoveva? Lo Spada insinua che fossero provocati dai liberali per poter poi darsi il merito di averli quetati e d’avere ricondotta la concordia fra i cittadini. Ma egli, che ha raccolto tante migliaia di documenti, non ne adduce pur uno, fosse magari un foglietto anonimo stampato alla macchia, a sostegno della sua accusa, la quale in cotal guisa, ristretta ad una gratuita affermazione, diventa calunnia.
Il Cattaneo afferma, al contrario, che quelle turbolenze erano suscitate dai reazionari e gregoriani, e il De Boni e il Ranalli e il La Farina e l’Anelli e il Belviglieri e il Colombo e il Saffi, con largo corredo di gravissime induzioni e mettendo in relazione quei disordini parziali con il movimento reazionario manifestatosi in tutta Italia pochi giorni dopo e durante, cioè, la prima quindicina di luglio, avvalorano e sussidiano di indizi schiaccianti l’accusa del Cattaneo.
Ad ogni modo a quei giorni apparve prodigiosa l’operosità di Ciceruacchio, il quale, accorrendo ora alla Regola, ora in Ghetto, ora in Trastevere, e con animo acceso da amor di patria e da desiderio di concordia, concionando, con calda ed efficace parola, ora i vetturini romani, ora gli Abruzzesi, qua i Regolanti e i Trasteverini, e là gli Ebrei, riusci a impedire risse e contese, e, a poco a poco, raddusse la pace negli animi dalla collera agitati, coadiuvato dal Guerrini, dal Zauli Sajani, dal Caravacci, dal Favella, dal Benai, da Gerolametto, dal Carbonaretto e da altri bravi popolani in quell’opera di pacificazione121.
Da molto tempo si agitava nei Consigli del Quirinale la concessione della guardia civica, richiesta dalla capitale e dalle Provincie più specialmente, dove lo infuriar delle sètte e la carestia dei cereali aveva suscitato gravi disordini, a porre riparo ai quali non erano nè atti, nè sufficienti le scarse e deboli milizie sparpagliate per lo Stato.
Ma questo provvedimento incontrava le più fiere opposizioni in quasi tutti coloro che circondavano il Papa, e nello stesso cardinale Gizzi, segretario di Stato, il quale gabellato, fin li, per liberale, era invece devoto agli interessi della sua casta e tenero dei privilegi della teocrazia e che, perciò, era convinto che se il Papa concedesse la guardia civica, sarebbe cacciato da Roma con quelle medesime armi che egli ora affidava ai cittadini. Egli pertanto non voleva che la milizia cittadina a Roma potesse oltrepassare il numero di millequattrocento uomini, cento per rione; e, poichè il Papa, pressato, pressava lui, egli nicchiava e recalcitrava. Alla fine fu costretto a cedere e allora il 5 luglio pubblicò la notificazione con cui si istituiva la guardia civica, ma, contemporaneamente, presentò le proprie dimissioni da segretario di Stato e a’ suoi famigliari andava ripetendo che «se per dodici soli mesi era rimasto nel Ministero, i cardinali che verrebbero dopo di lui non vi resterebbero sei mesi, essendo impossibile cosa ad un ministro di senno e di buone intenzioni lo andar d’accordo con un uomo . . . come Pio IX»122.
Con grande esultanza fu accolta in tutto lo Stato la pubblicazione della notificazione sulla guardia civica. Per Roma essa doveva essere formata di quattordici battaglioni e dovevano esservi ascritti tutti i cittadini dai ventuno ai sessantanni. Quattordici Commissioni di tre cittadini per ciascuna furono nominate per procedere, ognuna nel proprio rione, all’iscrizione e all’ordinamento dei militi del rispettivo battaglione.
In questo, mentre grandissima impressione facevano le notizie che si venivano divulgando intorno alla ferocia delle repressioni usate in Parma nel giorno 16 giugno e nei successivi contro la inerme popolazione festeggiante, pacificamente, l’anniversario della elezione del pontefice Pio IX. Già un decreto della Duchessa aveva proibito ne’ suoi Stati - incredibile, ma vero! - la introduzione e la lettura dei giornali, anche di quelli che si stampavano, sotto la vigilanza della censura austriaca, a Milano. Il conte di Bombelles, oriundo francese, austriaco d’anima, favorito della duchessa e primo ministro, e il colonnello Salis imbestialirono, in quei giorni in Parma, dove molti furono i feriti e malconci dagli assalti della gendarmeria a cavallo, fra cui anche vecchi e fanciulli123.
La stessa mano che agitava Parma pareva riconoscere nelle agitazioni lucchesi124, poiché anche a Lucca il 4 luglio i gendarmi ducali insevirono contro il popolo inerme, che, secondo un vecchio costume cittadino, faceva una dimostrazione di beffe ad una vedova sessantenne venuta a seconde nozze con un giovine ventenne; onde sursero fieri tumulti che per più sere si prolungarono.
Contemporaneamente i carabinieri toscani irruppero a Siena contro un manipolo di studenti, che rientrava, cantando, in città, sull’imbrunire, e ne ferirono a morte uno, onde anche quella cittadinanza, altrettanto gentile quanto fiera e dignitosa, insorse a tumulto e il fermento popolare vi regnò parecchi giorni.
Questa concomitanza di atti burbanzosi e di bestiali provocazioni da parte delle tiranniche polizie, unita all’ingrossare delle soldatesche austriache ai confini dello Stato romano, destava sospetti, dubbiezze, ire, disdegno nella popolazione romana, la quale cominciava a notare il piglio, fra schernevole e minaccioso, che venivano assumendo i più conosciuti gregoriani e sanfedisti, rimasti fino a quel momento, queti, mogi e tremebondi.
A ciò si aggiunga che «mentre il Papa procedeva adagio nel riformare per tema di un intervento austriaco, il cancelliere imperiale a perderlo nella pubblica opinione facea correr voce che le corti di Roma e di Vienna stavano accordandosi onde mettere soldati imperiali a presidiar le legazioni. Consapevole che Pio IX aveva la coscienza timorata e facile agli scrupoli, la diplomazia austriaca si fece fin da allora a sussurrargli all’orecchio voci di scisma e di sovrastanti pericoli alla religione. Gli agenti austriaci frattanto lavoravano operosi nelle città pontificie ad impedire che i partiti venissero a termine di quiete e concordia»125. Dunque pel 15 luglio 1847 il partito reazionario e gregoriano, tutti i vecchi arnesi della sospettosa e feroce polizia pontificia, tutti i più noti e rabbiosi campioni del sanfedismo, l’Aliai, il Freddi, il Minardi, il Nardoni, l’Alpi, il Fontana, i quali dall’aura di liberalismo che spirava dal Quirinale eran minacciati di asfissia, che nelle riforme largite e in quelle promesse vedevan non solo la cessazione definitiva del loro imperio e della loro autorità, ma imminente l’ora in cui avrebber dovuto render conto delle loro passate e iniquissime vessazioni contro i liberali126, pel 15 luglio tutti costoro avevan preparato un movimento contemporaneo, in Roma e nelle Provincie, in senso ostile alla libertà.
In che precisamente consister dovesse questo movimento e fino a qual punto ne fosse stato colorito il disegno e fin dove si potesse o si avesse ad estendere, né allora, né dopo, si seppe mai con precisione. Lo storico Spada volle negare completamente l’esistenza di quella congiura, che egli si affatica a dimostrare immaginata dai liberali più esaltati e dai repubblicani per sospingere innanzi uomini e cose verso la rivoluzione127.
Ma la reale esistenza delle mene reazionarie a quei dì, impugnata da pochi, da ben pochi fra coloro i quali scrissero intorno a quegli avvenimenti, è dimostrata fino oltre l’evidenza da questi tre fatti: dalle offerte che, ripetutamente, fecero a Vienna il principe di Metternich a monsignor Viale Prelà nunzio pontificio presso il Governo austriaco e l’ambasciatore austriaco a Roma conte di Lutzow al cardinale Gizzi di un intervento armato per parte delle milizie austriache nello Stato, offerte che risultano dalla corrispondenza fra gli ambasciatori inglesi visconte Ponsomby residente a Vienna e sir Hamilton residente a Firenze e lord Palmerston primo ministro della regina Vittoria, e da quella fra il conte Di Revel ambasciatore piemontese a Londra e il ministro degli esteri del re di Sardegna128; dalla contemporaneità dei moti reazionari e sanguinosi avvenuti - in quel tempo in cui non esistevano nello Stato reti telegrafiche - fra il 14 e il 18 luglio a Macerata, a Viterbo, a Terni, a Città della Pieve, a Cesena, a Faenza, a Bologna, mentre già fatti consimili erano avvenuti sui primi di luglio stesso a Parma, a Lucca, a Siena, proprio nel momento in cui a Roma si gettavano i semi di guerra civile fra vetturini romani e abruzzesi, fra Cristiani ed Ebrei129; e finalmente, dalla arbitraria e violenta occupazione della pacifica Ferrara, avvenuta la mattina del 17 luglio - si badi bene a questa data - per parte di ottocento Croati, e la quale non era giustificata da nessuna perturbazione, da nessuna offesa, da pretesto veruno.
La contemporaneità, anzi la quasi simultaneità di questi fatti, mostra chiaramente che se anche la congiura di Roma non ebbe le forme precise e determinate di una vera e propria congiura, ebbe però tutti i caratteri di una trama iniziata dal principe di Metternich d’accordo coi gregoriani, coi sanfedisti, coi reazionari non soltanto di Roma e dello Stato romano, ma di tutta l’Italia centrale130; trama la quale aveva un fine palese, evidente, incontestabile, quello di giustificare, col suscitar torbidi, risse e fatti di sangue, la occupazione di Ferrara e la intervenzione straniera.
Mentre il Papa nominava segretario di Stato, in sostituzione del cardinale Gizzi, il suo cugino cardinale Gabriele Ferretti, il quale era in voce di liberale e la cui elevazione al potere veniva accolta con manifesti segni di esultanza dalla popolazione di Roma, e mentre questa si apprestava a celebrare, con feste solenni, l’anniversario dell’amnistia, onde già si era condotta a piazza del Popolo una colossale statua in gesso rappresentante Pio IX, la quale ivi doveva essere eretta, si cominciò a notare, come dissi, il contegno provocante e minaccioso dei più fieri sanfedisti, quali l’Alpi, il Freddi, il Minardi, il Nardoni, l’Alai, il Bertola, un Galanti, un Muzzarelli, un Giannuzzi, un Sangiorgi, alcuni dei quali ufficiali dei carabinieri, altri strumenti feroci della gregoriana polizia, tutti aperti e recisi avversari delle riforme liberali del nuovo Pontefice; e di siffatti atteggiamenti nacquero sospetti e timori avvalorati dai fatti avvenuti a Parma, a Lucca, a Siena. «Questi sospetti e timori crebbero quando si videro giungere a Roma molti centurioni e borghigiani di Faenza, gente in voce di sanfedismi, manesca, atta a malfare»131, onde le apprensioni aumentarono, i timori si diffusero e l’agitazione delle accese fantasie produsse la costernazione degli animi.
Vigile sempre e ardente di fervido amore per Pio IX e per la patria, sempre autorevolissimo per le estese sue relazioni in mezzo ad ogni ordine di cittadini, Ciceruacchio, il quale aveva già con grandissima fatica e non senza grave suo dispendio, ricomposti a concordia gli animi agitati dei vetturini, dei regolanti e degli Ebrei, posti in grave dissidio dagli eccitamenti e dalle insinuazioni dei sanfedisti, e apparecchiato banchetti ai più riottosi fra i contendenti, e rappaciatili fra loro132, si addiede delle macchinazioni dei nemici della patria e, di indizio in indizio, alla testa de’ suoi popolani, riescì a sventare quelle trame che monsignor Grassellini, governatore di Roma, se non partecipe, certo lieto di quei subbugli che dovevano affrettare la desiderata intervenzione armata degli stranieri, non aveva voluto nè scoprire, nè mandare a vuoto.
Ciceruacchio raddoppiò di operosità e di astuzia in quei giorni e, poichè ebbe avuto certo sentore delle pratiche dei reazionari, alcuni ne denunciò, ad altri diede egli stesso, co’ suoi fidi, la caccia, e taluno ne arrestò dal 14 al 16 luglio, intanto che i Circoli romano e dei commercianti dichiaratisi in permanenza, chiamavano alle armi i pochi civici già forniti di fucili, e mentre, per iniziativa di Ciceruacchio stesso, dei principi Rospigliosi, Borghese e Corsini, e dei duchi Torlonia, Rignano e Cesarini, si copriva di firme una petizione con cui si chiedeva al Papa l’immediato armamento di tutti i diecimila cittadini ascritti ai quattordici battaglioni civici. Quella petizione fu recata al Papa da una Commissione composta del principe Rospigliosi, del duca Massimo e di Angelo Brunetti. Il Pontefice ordinò al Rospigliosi, che era il generale della civica, che subito si provvedesse all’armamento di essa.
E così, in mezzo alla giusta concitazione degli animi, «il popolo inaugurò il suo regno, perchè caduti essendo in sospetto e impiegati di polizia, e agenti, e carabinieri, cessò del tuth per dice o tre giorni, a funzionare quel dicastero. E regno però del popolo, in tanta esasperazione di ire e di sdegni, rimase incruento, e non si ebbe a deplorare alcuna vita spenta. Ciò a lode eterna della moderazione del popolo romano»133.
In questo frattempo, e proprio il 15 luglio, arrivava a Roma, accolto con straordinario entusiasmo, il nuovo segretario di Stato cardinale Ferretti, il quale si diè dopo qualche giorno a visitare i quartieri della guardia civica, animandone i militi, con parole infiammate di amor di patria, alla conservazione della quiete e dell’ordine e pronunciando le parole, rimaste famose: «Mostriamo all’Europa che noi bastiamo a noi stessi».
Unanimi sono gli storici di questa età nel lodare la guardia civica romana, alla cui fermezza, energia e patriottismo si dovette in gran parte se poterono essere evitati, in questi torbidi, eccessi ed effusione di sangue134.
A Ciceruacchio, divenuto addirittura l’idolo della moltitudine, furono tributati speciali attestati di benemerenza. In suo onore il Circolo romano diede un banchetto la sera del 17 luglio e a lui fu donata una tabacchiera d’oro. Un poeta anonimo pubblicò, a esaltazione di lui, nove assai pedestri sestine, di cui per brevità riferirò soltanto l’ultima.
O Roman vero! o vero cittadino! |
L’avv. Tommasoni dettò la biografia di lui che fu edita dal Natali; e i liberali ternani gli inviarono un indirizzo stampato in cui fra le altre cose era detto: «se la corona civica tornasse a fregiare le tempia di chi salva un cittadino, non sapremmo di quante inghirlandare il tuo capo, poiché ci salvasti e patria e diritti e fede e indipendenza».
Di lui già l’artista Antonio Rossetti aveva scolpito una statuetta rappresentandolo «in piedi, colla sinistra impugnando l’amata bandiera poggiata a terra: la destra stringendo il cappello; mentre il braccio sollevato e teso, la testa rivolta in su, e la bocca spalancata a un grido di evviva ci porgono il buon popolano in quell’attitudine più col rispondente a quanto sappiamo di lui e del suo grande affetto al Pontefice. La camiciuola poi, di che egli va vestito, ci attesta che in Ciceruacchio " honores non mutant mores"»136.
Già l’onesto capo-popolo aveva cominciato ad esser carezzato da qualche grande. La principessa reale di Sassonia, allora dimorante in Roma, aveva voluto conoscere Ciceruacchio e, dopo averlo ricevuto, aveva voluto che esso conducesse a lei anche i suoi due figli: Luigi, il quale aveva allora 20 in 21 anno e Lorenzo, che ne contava poco più di 11137.
Ma, dal giorno della congiura138, la sua popolarità e autorità crebbe rapidissimamente e in tal guisa che i princìpi e i cardinali, a cominciare dal Borghese e dal Torlonia, dal Ferretti e dall’Antoneili, ebbero, o mostrarono di avere, sommamente caro l’ottimo e valoroso popolano.
Il nuovo segretario di Stato, al cui fianco venne a porsi il fratello di lui conte Pietro Ferretti, già esule pei moti politici del 1831, ottenne che fosse subito esonerato dall’ufficio di governatore di Roma monsignor Grassellini che, quand’anche non fosse stato connivente coi reazionari provocatori, aveva dato prova di una imprevidenza e di una inettitudine senza pari; e a lui fu sostituito monsignor Giuseppe Morandi il quale, nel suo editto del 20 luglio, ammetteva la esistenza della cospirazione e affermava essersi già iniziato contro i colpevoli il giudiziario procedimento.
Così dalle tresche tenebrose dei gregoriani e dei sanfedisti con gli Austriaci derivarono due fatti importanti: l’armamento immediato delle popolazioni dello Stato romano e l’occupazione violenta ed arbitraria dì Ferrara, la guarnigione della cui fortezza, concessa dall’art. 103 del trattato di Vienna all’Austria venne, improvvisamente e senza nessuna ragione, rafforzata di ottocento Croati, i quali poi occuparono anche la città 139.
Gli effetti di questa provocazione furono quali forse li aveva desiderati, previsti e calcolati il principe di Metternich: l’esasperazione degl’Italiani giunse al parossismo: la politica austriaca voleva probabilmente attirare a guerra i popoli della penisola prima che essi fossero bene armati, affratellati, temibili e formidabili quali, con un altro anno di preparazione, potevano essere nella lotta per la espulsione dello straniero140.
Ad ogni modo, non ostante questo grosso temporale che si era addensato, all’improvviso, su quel bell’azzurro di dolcezze e di illusioni, la stella di Pio IX non era menomamente offuscata: quantunque egli, forse, non fosse del tutto estraneo alle trame del principe di Metternich, pur tuttavia, tanto era l’affetto che egli inspirava, così inesauribile il tesoro delle speranze riposte in lui, che egli, da quella bufera, uscì illeso, puro, glorificato!
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. IV, V e VI; vol. VI, cap. XIV, XVII e XVIII, e tatti i documenti contenuti nel vol. VI stesso; O. D'Haussonville, op. cit., vol. II, da pag. 202 a 388, e fra le note la nota F; Nicomede Bianchi, op. cit., vol. V, cap. I. Cf. anche l’Archivio triennale italiano, tre vol., Capolago, tip. Elvetica, 1850, vol. I, pag. 880 a 883 e 387 a 390
- ↑ Sulla reale esistenza di questa situazione, legittima conseguenza delle premesse, sono concordi gli storici L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. II; F. Ranalli, op. cit., lib. I, pag. 59 a 63; e poi il La Farina, il Rusconi, il Cattaneo, il Gualterio, il De Boni, il Torre, il De Lamartine (Histoire de la revolution de 1848, par A. De Lamartine, Paris, Perrotin, libraire-éditeur, 1849, tom. II, liv. XIII, § 2, pag. 213 e suiv.), il Garnier-Pagès, il Perrens, il Reuchlin, il Rey, il Regnault, il Mamiani, il Miraglia da Strongoli, il Pinto, il Gabussi, il Vecchi, il Ricciardi, il Gajani, il Leopardi, l’Anelli, il Guerrazzi, il Montanelli, il D’Azeglio, il Tabarrini, il Pasolini, il Belviglieri, il Poggi, il Guizot, il Nisco, il Massari, il Gioberti, il Mazzini, il Flathe, il Bianchi, il Silvagni, il Bersezio, il Bertolini, Toriani, il Tivaroni, il Saffi, lo Zeller e molti altri i cui nomi, per non allungare soverchiamente questa nota, ometto. E la lentezza e l’oscillazione è ammessa perfino dallo Spada, op. cit., vol. I, cap. VI, pag. 111.
- ↑ Io riconosco in lui soltanto la vanità; il Minghetti lo accusa — e non dico se a ragione o a torto — anche di animo dedito al pettegolezzo. Vedi M. Minghetti, op. cit., vol. III, cap. IX, pag. 179.
- ↑ Circolare del cardinale Gizzi dell’8 ottobre 1840, n. 64, 232 sez. I.
- ↑ G. Spada, op. cit, vol. I, cap, VI, pag. III
- ↑ G. Spada, ivi, pag. 114; F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. IX, pag-. 123; B. Grandoni, op. cit, pag. 26; C. L. Farini, op. cit., vol. II, lib. II, cap. II, pag. 171, 172.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. VII, pag. 114.
- ↑ O. Gigli, op. cit, pag. 25. Cf. con Grandoni, op. cit., pag. 28 e seg.; con Gualterio, op. clt., vol. V, cap. IX, pag. 123; con Belviglieri, op. cit., vol. II, lib. XII, pag. 288-89.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit, vol. V, cap. IX, pag. 123.
- ↑ F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. I, pag. 56 e 57.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. vol. I, cap. VII, pag. 125.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. IX, pag. 123.
- ↑ Spada, op. cit., vol. I, cap. VII, pag. 127. Cf. con Ranalli, op. cit., vol. I, lib. I, pag. 57; con Saffi, op. cit., cap. II, pag. 58.
- ↑ A. Colombo, op. cit., § l, pag. 27 e 28; Giuseppe Benai, Memoria inedita sui banchetti patriottici di quei tempi, presso di me.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. VII, pag. 123.
- ↑ N. Bianchi, op. cit., vol. V, cap. I, § 5; M. Tabarrini, Gino Capponi e i suoi tempi, Firenze, E. Barbèra, 1879, cap. VII, pag. 265; E. Poggi, op. cit, vol. II, lib. V, cap. IV, pag. 420.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. VI, cap. XVII, pag. 237 e seg.
- ↑ Memorandum storico-politico del conte Clemente Solaro della Margherita dal 7 febbraio 1835 al 9 ottobre 1846, Torino, dai tipografi-librai Speirani e Tortone, 1831, cap. XIV, pag. 380.
- ↑ C. Solaro della Margherita, op. cit., da pag. 376 a pag. 385.
- ↑ Gualterio, op. cit., vol. V, cap. X; Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. II; La Farina, op. cit., vol. II, lib. III, cap. III; G. Spada, op. cit., vol. I, cap. VIII; Saffi, op. cit., cap. II.
- ↑ C. Balbo, Lettere politiche citate, pag. 319.
- ↑ B. Grandoni, op. cit., pag. 32.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. VII.
- ↑ Ranalli, op. cit., vol. I, lib. I, pag. 57 e 58; Spada, op. cit., vol. I, cap. IX; N. Nisco, op. cit., vol. II, cap. XI.
- ↑ A. Colombo, op. cit., pag. 30 a 32. Cf. con Padron Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, popolano di Roma, Cenno biografico, terza edizione, accresciuta fino ai fatti della macchinazione del 17 luglio. Roma, presso l’editore Alessandro Natali, 1847, pag. 14-19; e con F. De Boni, op. cit., parte II, § 9
- ↑ Gualterio, op. cit., vol. V, cap. X.
- ↑ Dott. C. Casati, op. cit., vol. I, § 3.
- ↑ La Farina, op. cit, vol. II, lib. III, cap. III.
- ↑ L’illustre Cesare Cantù soltanto, nei Cento anni e nel Conciliatore e i Carbonari, nonostante il consueto suo sentenziare chiuso e sibilino, che dice e non dice, e lascia sempre incerto il lettore sulla opinione che l’autore della Storia universale porta sui casi che narra e sugli uomini di cui scrive, soltanto l’illustre Cesare Cantù procede poco benevolo verso il Confalonieri, il quale, per lui, «non era uomo di alto ingegno e neppure di voglie generose» (Il Conciliatore e i Carbonari, episodio di Cesare IJantù, Milano, Fratelli Treves, editori, 1878, cap. XIV, pag. 132). In quel capitolo lo storico lombardo si mostra ben poco benigno pel Confalonieri, ma, con l’usata arte gesuitesca, non palesa apertamente l’avversione sua pel capo dei cospiratori lombardi, quantunque sia evidente che a lui tutte quelle mariuolerie di congiure e di insurrezioni - che alcuni gonzi come il Cattaneo, per esempio, il Garnier-Pagès, il Ferrari, il La Farina, il Gervinus, lEllero, il Saffi ed altri molti si ostinano a considerare come fatti non solo logicamente necessari, ma utilissimi ed efficacissimi al conseguimento dell’alto fine del nazionale risorgimento - non vanno punto punto a sangue.
Ma dove il mal animo e l’arte maligna e viperina dello storico lombardo raggiunge il massimo grado d’insinuazione, che fantasia di loiolita possa immaginare, è nel capitolo XVII dello stesso volume, in cui, tratta del Manzoni nei suoi rapporti col Conciliatore, dove, a pag. 184, è detto: «In uno strano articolo sopra il Manzoni, inserito nella Rivista europea del novembre 1874, si fa Manzoni non solo conscio, ma cooperatore alle trame del Confalonieri. Tutto quel racconto è fuori del vero. Manzoni era conservatore, perchè liberale convinto, e credeva libertà fosse il rispetto li tutto ciò, e solamente di ciò che è onesto». Cosicchè il Manzoni, che era conservatore e non partecipò alle trame del Confalonieri - e non gustò neppure i tredici anni di carcere duro - era un vero liberale, e il Confalonieri, che cospirò, fu condannato a morte, soffrì prigione ed esilio, che cosa era? . . . Non un vero liberale, perchè vero liberale era l’altro che era conservatore e non cospirò; il Gonfalonieri dunque? . . .
E se il Manzoni credeva che libertà fosse il rispetto di tutto ciò, e solamente di ciò che è onesto, e non congiurò, come il Confalonieri, contro gli Austriaci, e quindi rispettava gli Austriaci, ciò vuol dire che reputava il loro dominio onesto. Ed è possibile, ed è poi vero che il glorioso autore dell’inno:Soffermati sull'arida sponda
Volti i guardi al varcato Ticino
stimasse onesto il dominio austriaco? E allora il Confalonieri, che voleva abbattere questo dominio, non era liberale, perchè liberale era l’altro che non voleva abbatterlo; e che cosa era allora il Gonfalonieri nel pensiero del Cantù?... Ma ... par chiaro ed irrefutabile ... un malfattore.
Ora, con siffatta sentenza, contraria alla verità storica, il Cantù compie una duplice mala azione, vituperando il Confalonieri e falsando la fisonomia del Manzoni e ingiuriandone, arbitrariamente, la memoria.
Ecco a quali, non so se più insensati o più iniqui, giudizi può essere tratto dalla passione di parte im uomo quale è il Cantù, per potenza di ingegno, per ampiezza di studi e per l’audacissimo concepimento di scrivere da solo una Storia universale, veramente ammirevole; sebbene e l’aver voluto affrettatamente scrivere troppo e l’aver voluto, per cupidigia di guadagno, rivendere, sotto nuovi titoli, sempre la medesima merce, e il non avere evitato un numero grandissimo di errori di fatti e di date, e l’avere pronunciato quasi sempre giudizi subiettivi, passionati, contrari al vero, e, spessissimo, contraddittori e in opposizione fra di loro, di molto diminuiscano i suoi meriti e offuschino la sua fama. - ↑ Gualterio, op. cit., vol. V, cap. X. Cf. con Spada, op. cit., vol. I, cap. IX, e con Gigli, opusc. cit., pag:. 29 a 32.
- ↑ A. Colombo, op. cit., I, pag. 32.
- ↑ F. De Boni, op. cit., IX, pag. 134.
- ↑ O. Gigli, opusc. cit., pag. 35.
- ↑ Lo stesso, ib., pag. 36.
- ↑ Parlano con entusiasmo di questa imponente dimostrazione, oltre il Gigli che minutamente la descrive, il Gualterio, op. cit, vol. VI, capitolo XII (il quale fa ascendere i dimostranti ad oltre 30,000 persone); il Grandoni, op. cit., pag. 36 e 37; il Colombo, op. cit., pag. 33, 34 e 35; ne favellano pure il Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. III; il Ranalli, op. cit., vol. I, lib. I, e parecchi altri. Cf. con l’articolo del Contemporaneo (n. l e 2, dal 2 al 9 gennaio 1847), intitolato: Il primo dell’anno i847, firmato dal marchese Luigi Dragonetti.
- ↑ Delle simpatie incontrate dal Contemporaneo e della influenza da esso acquistata parlano concordemente lo Spada, vol. I, cap. XI; il Ranalli, vol. I, lib. I, pag. 64 e 65; il Gualterio, vol. VI, cap. XIX, ed altri storici parecchi che, per brevità, ometto di citare.
- ↑ D. Silvagni, op. cit., vol. III, cap. XIV, pag. 584.
- ↑ Alexandre De Saint-Albin, Hixtoire de Pie IX et de son pontificat, deuxième édition, Paris, Victor Palme, éditeur, 1870, tom. I, chapitre IV, pag. 89.
- ↑ (3) F. A. Gualterio, op. cit., vol. VI, cap. XXI; F. Ranalli, op. cit, vol. I, lib. I, pag. 86.
- ↑ C. Solaro della Margherita, op. cit., cap. XV, pag. 418.
- ↑ Gualterio, ivi, luogo citato. Cf. Foglio aggiunto (ossia supplemento) al n. 5 del Contemporaneo del 3 febbraio.
- ↑ Contemporaneo, n. 8, 9 e 10, sabato 20-27 febbraio, 9 marzo 1847.
- ↑ Contemporaneo, nei n. 6, 7, 8 (perchè un numero settimanale conteneva la materia di tre numeri), sabato 6-13-20 febbraio 1847, pag. 4, colonna 6ª. cento anni, 1750-1850, Torino, Unione tipografico-editrice, 1863, vol. V, § 95, pag. 147).
«I cittadini stanchi di imprecare incominciarono ad applaudire: si eccitò un’ammirazione universale e chiassosa, e Viva Pio IX fu la parola di moda, il sunto di tutti gli encomi, di tutte le speranze: si diffuse dall’Italia a tutta l’Europa e di là dall’Atlantico: Protestanti, Cattolici, Turchi, ed Ebrei ripeteano: Viva Pio IX! i figli di Voltaire nel nome di un papa si rappresentavano quanto di meglio potessero chiedere i popoli, o fare i principi. Nell’aprire le Camere di Francia non avendo Luigi Filippo* fatto motto di Pio IX, gli venne imputata questa reticenza e l’indirizzo volle supplirvi: «Come voi, o sire,» ecc., ecc. (e qui ripete tutte le frasi dell’indirizzo della Camera dei deputati di Francia al re». C. Cantù, Gli ultimi trent’anni, continuazione della Storia universale, Torino, Unione tipografico-editrice, 1880, I, pag. 2). Cf. con la Storia degl’Italiani di Cesare Cantù, Torino, Unione tipografico-editrice, 1877, vol. XIV, cap. CLXXXX, pag. 82. - ↑ F. A . Gualterio, op. cit, vol. V, cap. II; F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. I, pag. 66 e 67; C. L. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. III, pag. 188-189;
B. Grandoni, op. cit., pag". 52 e seg.; D. Silvagni, op. cit., vol. III, cap. XIV. Si possono riscontrare inoltre il La Farina, il De Boni, il Reuchlin, il
Garnier-Pagès, il Rbgnault, il Perrens, il Rey, il Belviglieri, TAnelli, il Vecchi, il Gabussi, il Veuillot, il Settembrini, il Massari, il Bersezio, il Nisco, l’Oriani e moltissimi altri, ma più specialmente Cesare Cantù, il quale, per tema che nell’animo de’ suoi lettori non restasse abbastanza impresso ciò che egli dice in proposito in uno de’ suoi tanti libri, ripete due volte gli identici periodi:
«Quell’entusiasmo si propagò alle Romagne, poi al resto d’Italia, e di là all’Europa e al mondo: i Protestanti come i Cattolici ripeteano: Viva Pio IX! e i figli di Voltaire nel nome di un papa rappresentavansi quanto di meglio potessero chiedere i popoli, o fare i principi. Apertesi le Camere in Francia non avendo Luigi Filippo fatto motto di Pio IX, gli fu imputata questa reticenza: l’indirizzo volle supplirvi: «Come voi, sire, noi speriamo che i progressi della civiltà e della libertà si compiranno da per tutto senza alterare nè l’ordine interno, nè l’indipendenza e le buone relazioni degli Stati. Le nostre simpatie e i voti nostri seguono i sovrani e i popoli cristiani che camminano di concerto in questa nuova strada con una preveggente saggezza, della quale l’augusto capo della cristianità diede loro il commovente e magnanimo esempio». (C. Cantù, Storia di - ↑ Gualterio, op. cit., vol. V, cap. II; F. De Boni, op. cit., part. I, dal § 5 al § 10; Garnier-Pagès, op. cit., tom. I, chap. I«’, § 7, pag. 15 e suiv.; Hermann Reuchlin, op. cit., vol. I, cap. IX, pag. 295 e seg. Cf. De Lamartine, Regnault, Guizot (Mémoires pour servir à l’histoire de mon tewps, Paris, M. Lévy Frères, 1867); Rey, Perrens, Balleydier, Lubibnschy, Pinto, Mlraglia, Gabussi, Vecchi, Saffi, Montanelli, ecc, ecc.
- ↑ Gualterio, op. cit., vol. VI, cap. XV. Cf. con Nicomede Bianchi, op. cit., vol. V, cap. I, § 5.
- ↑ N. Bianchi, op. e loc. cit.; M. Tabarrini, op. cit., pag. 265.
- ↑ Ernesto Hamel, op. cit., tom, Ier, chap. XVIII, pag. 690. Cf. con Nicomede Bianchi, op. cit. e luogo citati; con Metternich, Mémoires, documents et écrits divers, laissés par le prince, publiés par son fils, Paris, E. Plon et Cie, 1883, vol. VII, pag. 178, e da pag. 232 a 256, e da pag. 298 a 308; e con Teodoro Flathe, op. cit., lib. II, § 4, pag. 696 e 697
- ↑ B. Grandoni, op. cit., pag. 17 a 57. Cf. Spada, op. cit., vol. I, cap. IX.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. V e VI.
- ↑ Lo stesso, ib., ib., cap. IX.
- ↑ Lo stesso, ib., vol. VI, cap. XII E vedi i capitoli XV, XVII e XX.
- ↑ L. C. Farini, op. cit, vol. I, lib. I, cap. II in fine.
- ↑ Lo stesso, ib., ib., ib., cap. III, pag. 179.
- ↑ L. C. Farini, ib., ib., ib., cap. IV in principio.
- ↑ F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. I, pag. 52. Vedi poi a pag. 56, 70 e da 75 a 79.
- ↑ P. D. Pasolini, op. cit., cap. IV, § l, pag. 65.
- ↑ Lo stesso, ib., ib., § 2, pag. 70.
- ↑ F. T. Perrens, op. cit., II, pag. 20.
- ↑ Henry D'Ideville, op. cit., liv. Vme, pag. 153.
- ↑ Pellegrino Rossi a Guizot, in D'Ideville, op. cit., liv. Vme, pag. 154 e 155. Cf. con O. D'Haussonville, op. cit., vol. II, pag. 202 a 230,
- ↑ D'Ideville, op. cit., tutto il cap. V; D'Haussonville, opera e luogo citato.
- ↑ Ecco i principali fra quelli che, per brevità, non cito: About, Anelli, Bianchi, Bianchi-Giovini, Beghelli, Belviglieri, Bersezio, Bertolini, Carrano, Cattaneo, Curci, D’Azeglio, De Boni, Delvecchio, Flathe, Gabiissi, Gaiani, Gallenga, Gioberti, Garnier-Pagès, Grandoni, Guerzoni, Hamel, La Farina, Lamartine, Leopardi, Liverani, Mamiani, Mariani, Miraglia da Strongoli, Massari, Montanelli, Niseo, Orsini, Oriani, Passaglia, Pallavicino Trivulzio, Pepe, Perfetti, Pinto, Regrnault, Reuchlin, Rey, Riccardi, Ricciardi, Rusconi, Ruth, Saffi, Settembrini, Silvagni, Sirao, Tabarrini, Tivaroni, Torre, Vannucci, Vecchi, Ventura, Webb-Probyn, White Mario, Zeller.
- ↑ L’illustre Cesare Cantù soltanto, trova, beato lui, modo di scusare le stragi di Tarnow scrivendo: «La Galizia aveva partecipato a quei preparamenti (della insurrezione degli Slavi) e la Dieta di Lemberg parlò francamente all’Austria: la quale concedette ai signori di ridurre i servi a fittaiuoli o anche proprietari, e al clero di avviare alla libertà per mezzo della morale, collo stabilire società di temperanza. Uscendo poi dalle vie legali vi si tentò una rivoluzione; ma mentre era mossa dai nobili, ecco la plebe avventarsi sopra di quelli, e trucidarli con la ferocia di chi sconta secoli di umiliazioni; ne fremette l’umanità; e poichè da un pezzo l’Austria è il capro emissario di tutti i misfatti in Germania, non meno che in Italia, si pretese avesse ella eccitato questi vulghi, e fin pagato a tanto per testa l’orrido macello. Essa se ne scagiona; ma di fatto avea contribuito a rendere odiosi 1 nobili con l’adoporarli per intermedi ed esecutori delle vessazioni sulle plebi, e messili in sospetto a queste come reluttanti dall’emanciparla. L’Austria premiò quelli che rimasero in fede, punì con numerosi supplizi i sollerati dopo che gli ebbe domi, frenò con la legge marziale il paese», ecc., ecc. (C. Cantù, Storia di cento anni, citata, vol. V, § 98, pag. 220).
E per tema che i suoi lettori non abbiano bene inteso il suo pensiero, lo ripete con le medesime frasi e parole, scrivendo: «La Galizia avea partecipato a quei preparamenti, e presto uscendo dalle vie legali, tentò una rivoluzione; ma mentre era mossa dai nobili, ecco la plebe avventarsi sopra di quelli, e trucidarli con la ferocia di chi sconta secoli di umiliazione. Ne fremette l’umanità; e poichè da un pezzo l’Austria era il capro emissario di tutti i misfatti in Germania, non meno che in Italia, si pretese avesse ella eccitato questi vulghi e pagato a tanto per testa l’orrido macello. Essa se ne scagionò: frenò con la legge marziale il paese», ecc. (C. Cantù, Gli ultimi trent’anni, citati, § 2, pag. 32 e 33). Con parole diverse, ma con maggiore audacia, cerca di difendere la diletta sua Austria con detrimento sempre maggiore della verità storica, il Cantù nella Cronistoria, dove (voi. II, cap. XXXVIII, pag. 726) scrive: Tali concetti fermentarono nel regno di Galizia e Lodomiria, che è la parte toccata all’Austria nell’iniquo sbrano della Polonia. L’Austria aveva cercato, come i re fecero dappertutto, di deprimere la potenza dei signorotti, eguagliare il diritto, cioè ridurre sotto alla medesima legge il villano e il feudatario, emancipando i possessi, abolendo il servaggio e le prestazioni personali. In conseguenza gliene volevano male i signori, quasi attentasse ai loro aviti privilegi, mentre il popolo la considerava indicatrice delle sue giustizie. Ma la ciurma intendeva meglio coloro che la incitavano a sfogare sopra i possessori di castelli e di terre l’ira, l’avidità, la libidine. Supporre che l’Austria spingesse a ciò sono fole (sic) dei tempi di rivoluzione . . . .· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Fatto sta che le plebi si sollevarono ferocemente, come aveano fatto in Germania al tempo della Riforma e in Francia al tempo della Rivoluzione, saccheggiando, scannando, vituperando i ricchi, diguazzando in quelle stragi civili, dov’è difficile discernere l’eroe dall’assassino, la vittima dal manigoldo, l’istigatore dal domatore. Il governo dovette mandarvi eserciti e bandire la legge marziale, applicata con eccessi, ai quali pur troppo sono associati i nomi di Ferdinando d’Este e del lombardo generale Serbelloni.
A quegli eccidi inorridì l’Europa; e poichè l’Austria le era esosa, siccome conservatrice fra la prevalente manìa del cambiare, sì ripete dappertutto che essa medesima avesse aizzato le rabbie popolari per disfarsi dei signori e togliere ogni disuguaglianza nel servaggio.
Nei quali frammenti non si sa se maggiori siano o le impudenti menzogne e le contraddizioni dello storico, o le velenose e gesuitiche insinuazioni dell’apologista dell’Austria.
Impudenti menzogne sono le due affermazioni che l’Austria si sia scagionata efficacemente delle accuse lanciate contro di lei nelle stragi di Galizia, da almeno cinquanta scrittori di ogni nazione, dal D’Azeglio al Bertolini, dal De-Boni al Gualterio, dal Ricciardi al Poggi, dal Cattaneo al Ricotti, dal Cormenin al Grarnier-Pagès, dal Montalembert al Flathe, e che l’Austria sia da un pezzo il capro emissario dei misfatti che si compiono in Italia; quasi che le condanne dei patrioti dal 1821 in poi, e gli assassini di Ugo Bassi e di Ciceruacchio e del tredicenne suo figlio e le fucilazioni di centinaia di Bolognesi, di Romagnoli e di Marchegiani, e le impiccagioni dei martiri di Belfiore fossero state commesse da Vittorio Emanuele II, o da Leopoldo II e non dal governo austriaco.
Manifeste contraddizioni sono, dopo quelle affermazioni, le altre che seguono: «Ma di fatto aveva contribuito a rendere odiosi i nobili coll’adoperarli per intermedi ed esecutori delle vessazioni sulle plebi, e messili in sospetto a queste come riluttanti nell’emanciparle». che cosa poteva fare di più sottilmente infernale dunque l’Austria in Galizia? O di che era dunque accusata se non di ciò? E di che si scagionò dunque in modo da persuadere l’umanità fremente di non avere essa promosse e incitate quelle stragi? Potè scagionarsi soltanto di qualche esagerazione nei particolari sparsi fra le accuse de’ suoi nemici, ma non potè scagionarsi della parte sostanziale di quelle terribili accuse, che lo stesso Cantù poi, due linee dopo, è costretto ad ammettere come cose di fatto. Manifesta contraddizione è il voler scagionare l’Austria e poi affermare che essa premiò quelli che rimasero in fede, punì con numerosi supplizi i sollevati frenò con la legge marziale il paese, eccessi nei quali — egli stesso aggiunge e confessa — pur troppo sono associati i nomi di Ferdinando d’Este e del lombardo generale Serbelloni! E che cosa poteva fare di meglio e di più il Ooverno austriaco per conservare intatto il nome di Governo sanguinario e feroce? È ammirevole poi che l’illustre Cesare Cantù, così fiero e inesorabile nel declamare contro le esecuzioni e le fucilazioni, allorchè sono ordinate dalla Convenzione e dal Comitato di salute pubblica in Francia nel 1792 e ’93, le trovi poi così giuste, così legittime e naturali allorchè le ordina il Governo austriaco, di cui egli si onora di farsi l’apologista.
Tutto il contesto dei periodi del Cantù manifesta apertamente le velenose e gesuitesche insinuazioni, per le quali si tenta di porre in dubbio che l’Austria dal 1815 al 1860 commettesse misfatti in Italia, quasi o repressioni brutali e ferocissime realmente non avvenissero, o, pure essendo avvenute, ad altri che all’austriaco Governo dovessero essere imputate.
Ecco a quali passi può indurre la passione e l’odio mal celato contro l’Italia ricostituita, un uomo dell’ingegno e della dottrina del Cantù!
- ↑ Questa miscellanea, composta di tre volumi appartiene all’egregio cav. Achille Trucchi, impiegato del Municipio di Roma, il quale gentilmente me ne ha consentito l’uso. Essa fu raccolta dal padre suo, un antico liberale romano, ed è preziosa perchè composta di tutti foglietti volanti. Ogni volta che avrò bisogno di citarla, la indicherò col titolo di Miscellanea Trucchi.
- ↑ L. C. Farini, op. cit, vol. I, lib. II, cap. III in principio.
- ↑ G. La Farina, op. cit., vol. II, lib. III, cap. III in fine. Altri cinquanta storici e scrittori di quegli avvenimenti ripetono lo stesso concetto perchè constatano un fatto storico irrefutabilmente vero.
- ↑ L. C. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. III, pag. 181.
- ↑ D. Silvagni, op. cit, vol. III, cap. XIV.
- ↑ C. Cattaneo, vol. cit.. Considerazioni al secondo volume dell’Archivio triennale italiano, pag. 286.
- ↑ B. Grandoni, op. cit., parte I, pagg. 18, 19 e 20.
- ↑ G. La Farina, op. cit., vol. II, lib. III, cap. II.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XII.
- ↑ Lo stesso, op. cit., vol. I, cap. XII.
- ↑ L. C. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. VIII.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVI.
- ↑ Carlo Rusconi, Memorie aneddotiche per servire alla storia del rinnovamento italiano, già citate, cap. IV e G. Montanelli, op. cit., vol. Il, pag. 40.
- ↑ Cosi il Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. VIII. Io credo di aver trovato la segreta ragione che spiega il favore accordato da monsignor Savelli allla istituzione del Circolo popolare nel fatto, desunto dall’analisi del processo contro gli uccisori del conte Pellegrino Rossi, che alcuni, fra gli inscritti nel Circolo suddetto, erano confidenti della polizia, cui andavano a riferire tutto ciò che là dentro si faceva e diceva, come diffusamente dimostrerò nel volume che susseguirà immediatamente al presente e intitolato: Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana.
- ↑ Il che resulterà evidente dall’esame analitico del processo contro gli uccisori del conte Rossi che io presenterò al pubblico nel volume già indicato: Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana.
- ↑ Processo contro gli uccisori del conte Pellegrino Rossi, esistente nell’archivio di Stato di Roma; deposizione Mucchielli, fogli 5908-5935; deposizione Mengarini, fog’ li 5949-5957.
- ↑ Da una Memoria inedita di Giuseppe Benai. Cf. con G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIII in principio.
- ↑ Qui in una nota, lo Spada osserva che per errore quell’anno si computò il 2598, non adottandosi allora, come pur si deve, l’éra Varroniana, secondo la quale quel computo poi fu corretto. Però doveva dirsi l’anno 2600. A me sembra, invece, che dovesse dirsi 2601; perchè, essendo la fondazione di Roma (o almeno il suo primo apparire, come Stato costituito, nella storia) fissata all’anno 754 avanti Cristo, se a questi 754 avanti Cristo si aggiungono i 1847 dopo Cristo, debbe risultarne che l’anno 1847 dell’èra cristiana era il 2601 dell’èra romana.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIII, pag. 210.
- ↑ Foglio aggiunto al «Contemporaneo» del 24 aprile 1847, n. 3 (offerto in dono ai signori associati).
- ↑ Foglio aggiunto al «Contemporaneo», già indicato.
- ↑ Foglio aggiunto al «Contemporaneo», già citato.
- ↑ Foglio aggiunto al «Contemporaneo», di sopra citato.
- ↑ Sette anni fa, in un altro mio scritto, espressi un’opinione diversa, perchè mi sembrava la vera. Io pensava, allora, che la Chiesa, rinserrata nella cerchia ferrea dei dogami, non avrebbe più potuto uscirne e che, perciò, sarebbe stata costretta a rimanere immobile e impotente entro quella cerchia, e pensava, quindi, che essa non potrebbe più nè ricongiungersi, nè riconciliarsi con la scienza e con la civiltà. Sette anni di ulteriori studii e, sopra tutto, la lettura di molti libri, che trattano profondamente quest’ardua questione, mi hanno persuaso che la Chiesa può ancora, con una grande riforma di sé stessa, abbandonando completamente ogni ambizione di signoria temporale, può ancora, forse, compiere, con un altro Gregorio VII, una grande evoluzione dell’idea cristiana e rinvigorirsi e ricollegarsi alla civiltà e al progresso umano, da cui oggi appare separata.
Quando io ho letto i due libri del P. Carlo Maria Curci, La nuova Italia e i vecchi zelanti e Il Vaticano regio e ho pensato che il Curci, il quale, quarantotto anni fa, era il gladiatore scelto dalla Curia romana per scendere nell’arena contro l’atleta Gioberti, ha finito, dopo quarantott’anni, per morire sostenendo le opinioni e i sentimenti del suo antico avversario, mi son convinto che una lenta, poco avvertita, ma profonda, evoluzione sì va compiendo nel seno del sacerdozio e della Chiesa stessa. E leggendo le opere dell’Ellero, del Cadorna, di Raffaele Mariano da un lato, e quelle di due illustri ecclesiastici l’abate Tosti e il cardinale Capecelatro dall’altro, mi son persuaso d’aver, forse, pronunciato giudizio storicamente inesatto sette anni or sono, e oggi credo che alla Chiesa possa applicarsi il motto galileiano: eppur si muove. - ↑ Il Pasolini pone la circolare Gizzi sulla consulta di Stato al 10 aprile; le danno la data del 14 il Farini, il La Farina, il Grandoni, il Belviglieri, il Reuchlin e l’Oriani; assegnano invece a quella circolare la vera data che essa ha realmente e deve avere, cioè quella del 19 aprile 1847, il Gualterio, il Ranalli, il Rey, lo Spada, il Saffi e il Silvagni.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. VI, cap. XX, pag. 282.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XII in fine. Contro le sottigliezze casuistiche di esso, concordi affermano la sincerità e la solennità della manifestazione del 22 aprile il Grandoni, il Farini, il Gualterio, il La Farina, il Ranalli, il Belviglieri, il Saffi.
- ↑ Quantunque l’Orioli, nei suoi Ricordi autobiografici (pubblicati dal ch.o prof. G. Lumbroso nei Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, nel vol. I della serie V, fascicoli 2 e 3 dell’anno 1892), giunto a questo periodo importante della sua vita, cerchi di farsi piccin piccino e procuri di dare a credere ai lettori che egli fu, quasi involontariamente, trascinato in quella rivoluzione, pur tuttavia risulta chiaramente dalle narrazioni dello Zucchi, del Zaolini, del Gualterio, della Fattiboni e dalle informazioni di un confidente della polizia austriaca, pubblicate dal Cantù, nelle Emende ed Aggiunte al vol. II della sua Cronistoria, che l’Orioli fu uno dei principali promotori di quel rivolgimento ed uno dei più autorevoli e influenti membri del Governo provvisorio che da quel movimento derivò.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. VI, cap. XII, pag. 165, e L. C. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. III, pag. 185.
- ↑ C. Cantù, Cronistoria, vol. II, cap. XXXI, pag. 285.
- ↑ A. Saffi, op. cit., cap. III, pag. 62. Il qual giudizio dell’immacolato Saffi nou parrà severo a chi conosca bene la posteriore condotta politica dell’Orioli stesso, che, da moderato, si mutò ancora in devoto al Pontefice, come risulta da una sua dichiarazione, stampata nel 1850 nel volumetto: Opuscoli politici di Francesco Orioli, Roma, tipografia delle Belle Arti, 1850, nella quale è detto:
«Per altra parte, a me tocca ricomperare il tempo perduto, ed affrettarmi a farlo. Troppo mi dorrebbe di lasciare di me tale memoria in questo mondo che dia giusto diritto a suppormi quale certe antecedenti particolarità della mia vita possono aver fatto credere che io mi sia. Non nego, e sarebbe ridicolo il negarlo, d’aver avuto anch’io le mie politiche illusioni (certo però non quelle di gran lunga, le quali oggi corrono il mondo, e sono in gran favore presso a tanti). Sento il dovere di far conoscere a qualunque prezzo ch’io non sono mai stato da confondere col più de’ così detti liberali d’oggidì, e che, istruito ornai dall’esperienza, non sono nemmeno da confondere con quell’io che già fui, e molte mutazioni ho in me fatto. Costi ciò tutto ch’abbia a costare al mio amor proprio, voglio che lo si sappia. Gli altri possono tacere; io non lo posso, nè lo debbo. E so che dirassi da taluni che io adulo que’ che regnano. Veramente crederei che tutta la mia vita passata m’avesse da essere scudo contro alla bassezza di guest’accusa: tanto più che quegli stessi i quali la daranno - dove tuttavia questo ardiscono dovrebbero ricordare se quando essi regnavano pur testè, io li adulava. Sarebbe avere aspettato un po’ troppo tardi a mutar natura. . . .». Prefazione, pag. vi.
Fiere e altisonanti parole, che sono in contraddizione con la umiltà remissiva e rinnegatrice delle precedenti e che vengono smentite completamente dall’indole e dalla forma delle due scritture cui sono premesse: giacche il primo degli opuscoli dell’Orioli tratta De’ Fidecommissi e dell’Aristocrazia, nel senso di difendere gli uni e l’altra, con molto ardore polemico, ma con sofistici ragionamenti, inspirati alle più stantie e viete dottrino o ai reazionari pregiudizi di un tempo che fu e le cui istituzioni non potranno tornare mai più. L’altro opuscolo dell’Orioli tratta Della libertà e dell’uguaglianza civile, del governo e della sovranità in generale, della così detta sovranità del popolo e della Democrazia, del voto universale, delle rivoluzioni e delle riforme dei governi, e in esso queste importantissime tesi di diritto naturale e pubblico sono svolte con una disinvoltura, che potrebbe parere anche superficialità e leggerezza, e con tali argomenti che di diversi e di migliori non no avrebbe potuto adoperare uno dei "più zelanti redattori della Civiltà Cattolica per combattere, come l’Orioli combatte, l’uguaglianza civile, gli ordinamenti democratici, la sovranità popolare, tutte le dottrine, insomma, che formano oggi i principii fondamentali del nuovo diritto pubblico nel mondo civile. Il libretto ebbe - manco male! l’imprimatur del P. Buttaoni e le congratulazioni dei reazionari.
Sarebbe un curioso studio lo istituire in parallelo fra le cose scritte dell’Orioli nella Bilancia e quelle dette nei suoi discorsi del 1847 e del 1848 e le altre contenute ed espresse in questi due opuscoli.
Ad ogni modo dell’Orioli diede giudizio severo, ma giusto, con manifestazione di carattere libero ed energico, in tempi di governo assoluto, un valoroso patrizio romano, che qui mi piace di ricordare a meritato titolo di onore, Don Giovanni Torlonia, quando, incaricato dall’Accademia romana di archeologia di cui egli pure era socio ordinario, di parlare dell’estinto collega Orioli nella prima adunanza del novembre 1857, faceva precedere alla pubblicazione del suo Discorso critico intorno alla vita di Francesco Orioli, un’avvertenza, nella quale il giovane e coraggioso scrittore diceva così:
«Gli ammiratori ad oltranza dell’illustre prof. Orioli giudicheranno questo discorso troppo severo; altri a lui nemici lo stimeranno troppo poco libero e ardito. Risponderò a questi che, sebbene il mio ragionamento non fosse politico e fosse anzi pronunciato in una radunanza dove era condannabile il parlar di cose politiche, pure son certissimo che chi attentamente legga vi troverà libertà d’animo non vile e franchezza di non dissimulati pensieri. Risponderò poi a quei primi, che può certo parere ardito che io, giovane e di niuna fama, mi levi a giudice di un uomo vecchio ed illustre, a cui mi lega tanta reverenza e gratitudine. Ma da che la fiducia dei miei egregi colleghi mi aveva chiamato a parlar loro pubblicamente dell’Orioli, io doveva assumere l’ufficio, e caricandomi dei doveri di uuo storico imparziale. In tutte le ultime vicende italiane l’Orioli volle essere e fu veramente uomo pubblico e pubblici furono i suoi fatti, quindi severamente sottoposti al giudizio della storia; e il tacerne sarebbe stata viltà. Né, cred’io, la vastità dello ingegno e della dottrina valgono a scusare la incostanza nei principii politici; e tra l’urto delle popolari passioni e degli avversi partiti, la fermezza del pensiero è più che mai necessaria, segnatamente in quelli cui la fama del sapere, l’antica esperienza e la facilità della parola danno qualche potenza sugli altri, ed ai quali il popolo è solito rivolgersi come a consiglieri e maestri nelle più difficili vicende della patria. Ohe se dopo questa mia parola gli amici e i nemici del mio chiarissimo collega non saran paghi, io facilmente me ne consolerò colla sicura coscienza di aver detto la verità con giovanile franchezza, senza pregiudizio di parte, senza adulazioni e senza ira. (Archivio Storico Italiano, nuova serie, Firenze, presso E. P. Viesseux editore, 1858, tomo VII, parte IL Cfr. con F. Gigliucci, Memorie della rivoluzione romana, citate, vol. II, lib. V, pag. 176, in nota). - ↑ Contemporaneo dell’8 maggio, n. 19.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol I, cap. XIII.
- ↑ Lo stesso, op. cit., vol. I, cap. XIII, pag. 224.
- ↑ G. Spada, ivi, pag. 226.
- ↑ Contemporaneo dal 17 luglio, n. 19; Bilancia del 2 giugno, n, 1 1, e del 2 luglio, n. 17, Cf. con la Pallade dei 27-«S giugno, n. 8.
- ↑ C. Belviglieri, op. cit., vol. II, lib. XII, pag. 293. Giudizi severi ed affatto consimili danno sul motu proprio del 14 giugno: G. La Farina, op. cit., vol. II, lib. m, cap. IV; L. C. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. IV; B. Grandoni, op. cit, anno II, pag’. 58; F. T. Perrens, op. cit., II, pag. 26; R. Rey, op. cit., liv. III, chap. Ier, pag. 189 e suiv.; F. Ranalli, op. cit., lib. I, pag:. 71 e 72; L. Anelli, op. cit., vol. III, cap. I; G. Ricciardi, op. cit, cap. III, pag. 28; T. Flathe, op. cit, lib. II, cap. IV, pag. 693; F. Bertolini, op. cit., cap. IV, pag. 185; A. Oriani, op. cit., lib. V, cap. I; A. Saffi, op. cit., cap. III, pag. 68
- ↑ Contemporaneo del 19 giugno, n. 25; Pallade del 17 giugno, n. 2 e del successivo 18, n. 3.
- ↑ Luigi Pompili Olivieri, Il Senato romano nelle sette epoche di svariato governo da Romolo fino a noi, Roma, tipografia Editrice Romana, 1886, Voi. II, pag. 61-62.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIII, pag. 229.
- ↑ Lo stesso, ivi, ibid.
- ↑ L’aneddoto mi fu concordemente riferito dal cav. Benai, da Mattia Montecchi e dal cav. Angelo Berni.
- ↑ G. La Farina, vol. II, lib. III, cap. IV.
- ↑ H. Reuchlin, op. cit., vol. I, cap. IX, pag. 297.
- ↑ Grandoni, Farini, Ranalli, Perrens, De Boni, Belviglieri, Saffi, Tivaroni.
- ↑ L. C. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. IV.
- ↑ L. C. Farini, op. cit, vol. I, lib. II, cap. YV.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit., vol. VI, cap. XXI.
- ↑ Contemporaneo del 29 maggio, n. 22.
- ↑ Contemporaneo del 3 luglio, n. 27.
- ↑ F. A. Gualterio, op. cit, vol. V, cap. IV; G. La Farina, op. cit., vol. II, lib. III, cap. III.
- ↑ F. A. Gualterio, opera e luogo citati. Per la dottrina, per il potente ingegno e pel valore e l’autorità del padre Ventura cf. C. Cantù, Cronistoria, vol. II, cap. XXXVI; H. Reuclin, op. cit., vol. I, cap. IX, pag. 296; E. Lubienscki, Guerres et révolutions d’Italie, Paris, Jacques Lecoffire, édit., 1852, chap. IV, pag. 6.5, e il Poggi, il Belviglieri, il Ranalli, il Farmi, il Hay, il Rusconi, il Grandoni, lo Spada e Anatole De La Forge.
- ↑ Cf. Contemporaneo del 3 luglio, n. 21; la Pallade del 29-30 giugno, n. 9, e del 10 luglio, n. 10, nei quali con caldissimi elogi è riassunta l’orazione. Anche il Contemporaneo del 10 luglio, n. 28, e del 17 luglio, n. 29, consacrò due lunghi articoli al discorso del P. Ventura. Cf. pure l’opuscolo O’Connell e il Padre Ventura, Cenni di Francesco Borgatti, Roma, tipografia delle Scienze, 1847.
- ↑ Contemporaneo del 17 luglio, n. 29.
- ↑ Elogio funebre di Daniele O'Connell pel P. Gioacchino Ventura, Roma, Filomeno Cairo, editore, 1847.
- ↑ F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. II, pag. 127. Cf. con De Boni, Spada, Colombo e con Massimo D’Azeglio, Dell'emancipazione degl’Israeliti, Firenze, Felice Le Monnier, 1848. Vedi anche la Pallade del 2-8 luglio, n. 11, e dell’8 luglio, n. 14, e Contemporaneo del 26 giugno, n. 26, del 10 luglio, II. 28, e del 24 luglio, n. 30.
- ↑ F. De Boni, op. cit, parte I, § 10, pag. 40 e seguenti; A. Colombo, op. cit, pag. 50 e seguenti; A. Saffi, op. cit, cap. IV, pag. 81 e 82; C. Tivaroni, op. cit., parte VII, § 3, pag. 287-288. Cf. Pallade del 6-7 luglio, n. 14.
- ↑ L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. IV, pag. 200.
- ↑ Molti fra gli storici che scrivono sugli avvenimenti di quei tempi, Anelli, Bertolini, Belviglieri, Bianchi N., Cattaneo, D’Azeglio, De Boni, Gabussi. La Farina, Montanelli, Pandullo, Ranalli, Reuchlin, Ruth, Saffi, Tivaroni, ecc., narrano i brutti fatti di Parma. Cf. Bilancia del 6 luglio, n. 18; Pallade dell’8 luglio, n. 14, del 13 luglio, n. 16 e del 15 luglio, n. 18 e Contemporaneo del 3 luglio, n. 27, del 10 luglio, n. 28 e del 17 luglio, n. 29.
- ↑ F. Ranalli, op. cit., lib. II, pag. 117. Cfr. gli storici e i giornali suindicati.
- ↑ N. Bianchi, op. cit., vol. V, cap. I, S 5o, pag. 18.
- ↑ L. C. Farini, op. cit, vol. I, lib. II, cap. IV.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIV. — Non la nega il solo Spada, ma parecchi altri scrittori, alcuni dei quali veramente non potrebbero, con onestà, essere considerati e chiamati storici, quali il Balleydier, il Croce, il De Saint-Albin e il D’Arlincourt, ma o favoleggiatori insensati, o consapevoli calunniatori.
Quest’ultimo, per esempio (L’Italie rouge, ou Histoire des revolutions de Rome, Naples, etc., par le Vte D'Arlincourt, Paris, Allonard et Kaeppelin, Naples, Gaétan Nobile, 1850) inventa di sana pianta, senza nessuna testimonianza, o documento, una congiura di Carbonari, ordita in Roma nel luglio per la uccisione del colonnello Freddi e dal colpo fallito contro costui fa scaturire la falsa congiura immaginata e fatta creder vera dai settari. È inutile dire che questa invenzione romanzesca - e anche di cattivo genere - non trova alcun riscontro neppure nella storia dello Spada, cosi accurato raccoglitore di documenti e così meticoloso annotatore di qualsiasi nonnulla possa essere ascritto a fallo o a disdoro dei liberali.
Per far comprendere poi ai lettori quale curioso storico sia cotesto cattolico-legittimista diffamatore visconte D’Arlincourt citerò un solo fra i moltissimi errori onde è zeppo quel suo turpe libercolo: egli non parla affatto della occupazione di Ferrara per parte degli Austriaci! Ab uno disce omnes. - ↑ N. Bianchi, nell’op. cit., vol. V, cap. I, § 5° e nell’altra I ducati estensi dal 1815 al 1830, Torino, Società editrice italiana, 1852, vol. I, cap. IV; C. A. Vecchi, op. cit, vol. I, lib. VIII, pag. 214 e seguenti; L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. IV; F. De Boni, op. cit., parte II, da pag. 62 a 109 e parte III, da pag. 153 a 179; L. Anelli, op. cit., vol. II, cap. I, pag. 28 e 29; Carlo Cattaneo, op. cit.. Proemio al primo volume dell’Archivio triennale, pag. 232 e Considerazioni in fine di detto volume, pag. 245. Ivi il Cattaneo afferma recisamente che la famosa fuga di Pio IX, la quale fu poi compiuta in novembre del 1848, erasi già meditata e tentata a mezzo luglio del 1847, parecchie settimane prima che i buoni Milanesi si facessero ammazzare, cantando per le vie il santissimo nome. Però la connivenza di Pio IX in quelle trame reazionarie del luglio 1847, negata da molti storici - e fra questi dal Farini - e ammessa invece da molti altri, sembra provata, come acutamente osserva il Gabussi (G. Gabussi, Memorie citate, vol. I, in una nota a pag. 79 a 81) dalle parole stesse di Pio IX il quale, nella enciclica del 20 aprile 1849 da Gaeta, dice altamente: «In sì grande conflitto di cose ed in tanto disastro, nulla lasciammo intentato per provvedere all’ordine e alla pubblica tranquillità. Imperrocchè pria d'assai che avessero luogo quei tristissimi fatti del novembre, procurammo con ogni impegno, che si chiamassero in Roma i reggimenti svizzeri addetti al servigio della Santa Sede ... Né questo soltanto, ma anche prima d'allora, come in appresso, a fine di difendere l’ordine pubblico, spezialmente in Roma, e di opprimere l’audacia del partito sovversivo, rivoltammo le nostre premure a procurarci soccorsi di altre truppe che, per divina permissione, attese le circostanze, ci vennero meno». La connivenza del Pontefice, dopo queste esplicite afiermazioni, sembra non possa più essere negata. Cf. l’Archivio storico triennale italiano. Capolago, tipografia Elvetica, 1850, vol. I, da pag. 1 a 7.
- ↑ La sera del 16 luglio il governatore di Faenza aveva ricevuto trentotto querele di cittadini liberali faentini, individualmente assaliti per le vie, percossi e taluni feriti dai sanfedisti del Borgo e il giorno 18 dello stesso mese sette cittadini rimasero feriti dal fuoco ordinato ad alcuni soldati svizzeri, contro la innocua gente raccolta sulla piazza, da un maresciallo dei carabinieri; il 16 a Terni si dovette sospendere un banchetto, fissato dai liberali per celebrare l’anniversario dell’amnistia e al quale dovevan presiedere il vescovo e il governatore, per l’atteggiamento provocatore e minaccioso assunto dai reazionari; a Città della Pieve il 18 fu ucciso il capo- popolo Domenico Baldenti; e audaci provocazioni contro i liberali si compievano fra il 16 e il 18 a Viterbo, Macerata, Senigallia, Cesena e Bologna. (F. De Boni, op. e luoghi citati. Cf. con Farini, La Farina, Anelli, Belviglieri, Perrens, Gabussi, Montanelli, Saffi, Gramier-Pagès, Ruth, D’Azeglio, Vecchi, Leopardi e Del Vecchio, e coi giornali del tempo, Contemporaneo, Bilancia e Pallade nei loro fogli dal 1° ai 31 luglio 1847.
- ↑ A. Balleydier, Roma e Pio IX, prima versione italiana, Torino, stabilimento tip. di Alessandro Fontana, 1841, cap. Vili, pag. 174; Edouard Lubienscki, Guerres et révolutions d’Italie, Paris, Jacques Lecofire et C.te, éditeurs, 1852, cap. IV, pag. 67; G. Massari, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, Milano, Fratelli Treves, editori, 1878, vol. I, § 2°, pag. 12; Adam Mickiewicz, Mémorial de la Légion polonaise de i848, créée en Italie, publication faite d’après les papiers de son pére avec préface et notes par Ladislas Mickiewicz, Paris, librairie du Luxembourg, 1877, tom. I, chap. I, § 2°.
- ↑ G. La Farina, op. cit., vol. II, lib. Ili, cap. IV.
- ↑ Oltre i parecchi storici, che lodano lo zelo patriottico con cui si adoperò Ciceruacchio a ricondurre la concordia negli animi irritati, quali, ad esempio, il Colombo, il De Boni, il D’Azeglio, il Gabussi, il Miraglia, il Pinto, il Saffi, il Tivaroni, altamente plaudono all’opera pacificatrice di lui la Bilancia del 9 luglio, n. 19, nella quale Paolo Mazio scrive: Il tuo nome, o Angelo Brunetti, sarà scritto nelle croniche popolari del secolo xix, ecc. e la Pallade del 6-7 luglio, n. 13.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIV. Monsignor Morandi, nuovo governatore di Roma, nel suo editto del 20 luglio, loda altamente il popolo romano o la guardia civica per la loro bella condotta.
- ↑ Lo Spada, e il La Farina, il Bertolini e il Saffi, il Belviglieri, il D’Azeglio, il Colombo, il De La Forge (Des vicissitudes politiques de l’Italie dans ses rapports avec la France, Paris, Amyot, 1850, vol. II, § 7, pag. 126 e seguenti) e moltissimi altri sono concordi nel lodare la guardia civica romana, specialmente per l’atteggiamento energico e patriottico da essa tenuto in tale occasione.
Ma anche i giornali del tempo, a cominciare dal Diario di Roma, foglio officiale, lodarono ampiamente la fermezza, la concordia e la moderazione del popolo romano in quelle gravi congiunture e il patriottico ardore della guardia civica. Abbiamo il piacere d’annunziare - scrive il Diario di Roma, in uno de’ suoi fogli aggiunti, che esso intitolava Notizie del giorno - che in tal sera - cioè del 15 luglio - oltre i chiamati corsero ad offrirsi volontari molti altri individui della età prescritta dalla legge, e con essi non pochi giovani inferiori agli anni ti e vecchi superiori agli anni 60. Vari giovani principi si vantano nobilmente di servire da semplici soldati. Il servizio si eseguisce con calma e regolarità quali convengono ai veri amici della quiete pubblica. Notizie del giorno del 22 luglio, n. 29. Vedi Bilancia del 23 luglio, n. 23 e del 27 luglio, n. 24; Contemporaneo del 17 luglio, n. 29, del 17 luglio, n. 30, e del 31 luglio, n. 31; Pallade del 16 luglio, n. 18, e per molti numeri successivi nei mesi di agosto e di settembre, e Speranza nel n. 4 del 25 agosto e nei successivi numeri 5, 6, 9 e 11.
La guardia civica di Roma, lodata anche da P. Rossi, dal Gabussi, dal Perrens, dal Rey, dal Reuchlin, è lodata finanche dal Lubienscki nell’opera di sopra citata, chap. I, pag. 73 e 74); ciò vai quanto dire che essa è lodata anche da uno degli storici favoleggiatori (di cui è cosi abbondevole il manipolo dei Francesi che scrissero delle cose nostre di quel tempo) e il quale, per esempio, senza recarne noppur l’ombra della prova, neppur l’ombra del documento, inventa ed afferma, come se fosse fatto provato e documentato, le notturne periodiche riunioni dei giornalisti liberali per leggere le lettere del loro capo - e non dice punto chi fosse - e per dividersi le parti da rappresentare ognuno nel proprio giornale, come altrettanti commedianti! (E. Lubienscki, op. cit., ib., ib., pag. 63). - ↑ Al merito dell'esimio popolano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio,
sestine, Roma, con approvazione (senza indicazione di stamperia e senza
data). Esemplare raro, presso di me. - ↑ Paìlade n. 5, del 21-22 giugno 1847.
- ↑ Pallade, n. 6, del 23 giugno 1841. - Per le lodi tributate in quei giorni a Ciceruacchio, oltre la Pallade, che dal 15 luglio al 15 agosto, ogni due o tre giorni pubblicava un articoletto di plauso pel tribuno, cfr. anche la Bilancia del 24 luglio, n. 23, nella quale il Mazio si diffonde ancora in ampie testimonianze di reverenza e di affetto per Ciceruacchio e il n. 24 del 27 luglio, in cui rincara la dose con nuovi elogi l’avv. Cattabeni.
- ↑ Circa alla congiura di Roma ne affermano in modo positivo l’esistenza l’Anelli, il Beghelli, il Belviglieri, il Bianchi N., il Bianchi-Giovini, il Cattaneo, il Colombo, il D’Azeglio, il De Boni, il De La Forge, il Del Vecchio, il Galani, il Gioberti, il Garibaldi, il Grandoni, il Garnier-Pagès, il Gabussi, il Guerzoni, l’Hamel, il La Farina, il Leopardi, il Mariani, il Miraglia, il Montanelli, il Mazzini, il Nisco, il Pandullo, il Perrens, il Pianciani, il Pinto, il Perfetti, il Régnault, il Reuchlin, il Riccardi il Saffi, il Tommasoni.
Benchè non si palesino completamente persuasi che propria e vera congiura vi fosse, sono tutti, dal più al meno, proclivi al credere che provocazioni, minaccie per parte dei reazionari e financo trame vi fossero, il Balbo, il Descamps, il Farini, il Flathe, il Giusti, il Lubienscki, il Martini, il Pasolini, il Ranalli, il Rey, il Rossi, il Rusconi, il Ruth, il Tivaroni e lo Zeller.
O non credono alla esistenza della congiura, o la credono immaginata e inventata dai liberali, il Balan (Storia della Chiesa cattolica dall’anno 1846 ai nostri giorni, continuazione alla storia universale della Chiesa cattoica dell’aàate Rochrhacher, scritta da monsignor D. Pietro Balan; prelato domestico di sua Santità, 4* edizione, Torino, Giacinto Marietti, tipografo-libraio, 1891, vol. I, lib. I, pag. 134 e seguenti;, il Cantù, il Croce, il Cretineau-Joly, il D’Amelio, il D’Arlincourt, il D’Haunsonville, il De Saint-Albin, il Granier de Cassagnac, il Solaro della Margherita e lo Spada.
Non menzionano punto la congiura e le sue conseguenze il Beaumont-Vassy, il Cappelletti, il Carrano, il Riccardi, il Ricotti, il Bilvagni, il Torre, il Vecchi e la Withe-Mario.
Credono la congiura più desiderata dai reazionari che preparata il Bertolini e l’Oriani.
Non esprime alcuna opinione propria il D’Idevillc. - ↑ Biasimano, come ingiusta, o come intempestiva l’occupazione di Ferrara per parte degli Austriaci, gli scrittori Alison, Anelli, Balan, Balbo, Baileydier, Beghelli, Belviglieri, Borsezio, Bertolini, Bianchi-Giovini, Bianchi N., Brofferio, Cappelletti, Carrano, Casati, Cattaneo, Cibrario, Costa di Beauregard. Colombo, Correnti, Croce, Curci, D’Amelio, D’Azeglio, De Boni, De La Forge, D’Haussonville, D’Idevllle, Dall’Ongaro, De Michelis, Del Vecchio, Dyer, Farini, Ferrero, Flathe, Gabussi, Galani, Garibaldi, Garnier-Pagès, Gavazzi, Gioberti, Grandoni, Giusti, Guerrazzi, Guerzoni, Guizot, Hamel, La Farina, Lamartine, Leopardi, Liverani, Lubienscki, Mamiani, Massari, Mastcheg, Mazzini, Minghetti, Miraglia, Mickiowiz, Montaloinbort, Montanelli, Nisco, Orianl, Pandullo, Pantaleoni, Pasolini, Pepe, Perfetti, Perrens, Petruccelli della Gattina, Pianciani, Pinto, Ranalli, Régnault, Reuctilin, Rey, Riccardi, Ricotti, Rossi, Rusconi, Ruth, SafH, Settembrini, Sirao, Solaro della Margherita, Spada, Tabarrini, Tivaroni, Tommaseo, Tommasoni, Torelli, Vannucci, Vecchi, Webar, Zanoni, Zeller.
Non parlano della occupazione di Ferrara il Beaumont-Vassy, il D’Ar1incourt, il Ricciardi, il Silvagni, il Torre e la White-Mario.
Fra i novantasei scrittori sopra notati, che trattano della occupazione di Ferrara, vi sono uomini di tutti i partiti ed alcuni di essi sono anzi, quali 11 Balan, il Balleydier, il Croce, il D’Amelio, il D’Ideville, il Lubienscki, il Solaro della Margherita e lo Spada, fanatici del papato e di Pio IX, eppure, chi a lungo e chi per brevi cenni, chi per riguardo al diritto, chi sotto l’aspetto dell’opportunità, condannano tutti l’occupazione stessa, solo il Cantù, l’apologista dell’Austria, si affatica a dimostrare, con sofistiche interpretazioni del trattato di Vienna, che il Governo asburghese aveva diritto di occupare non solo la fortezza, ma anche la città di Ferrara (Cronistoria, vol. II, cap. XXXVIII, pag. 128). Cf. con la Storia degli Italiani dello stesso autore, ediz. citata, vol. XIV, cap. CXC, dove egli, più audacemente ancora, senza alcun ragionamento, senza ombra di documenti e di prove, riafferma autocraticamente che in tutto ciò non eravi di vero se non che voleasi farlo credere. - ↑ N. Bianchi, op. cit, vol. V, cap. I, § 8. Cf. Guizot, op. cit., vol. VII cap. XLVI; C. Cantù, Cronistoria, vol. II, cap. XXXVIII, pag. 728, ’729.