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Per te queta di leggi al tempo antiquo
Da Dio diviso e cieco;
E poi sull’ossa
Del primo impero
Ergesti possa
Di forza no, ma d’immortal pensiero,
Muovendo a sacro acquisto,
Spezzando empie ritorte,
Armata della morte
E del voler di Cristo.

E qui il poeta napoletano - che, fra poco, lascierà le proprie ossa, valorosamente combattendo, sugli spalti dell’eroica Venezia - entra a parlare delle gesta latine e delle glorie del Campidoglio:

Terra e ciel poser mano
Allo splendor sovrano
Che veste ed incorona i colli tuoi.
S'empiea d’orgoglio
Il Campidoglio,
Mèta alla via de’ catenati regi,
De’ trionfanti eroi;
Intanto usciva
Libera voce,
Qual fonte viva,
In altre opere eterne a metter foce.
È pauroso il suono
Di tue glorie potenti;
Non isperate, o genti,
Mai pareggiar quel tuono.

Ma chi con umil core,
Con verecondo amore,
A te, Roma, si tragge pellegrino,
Come sovr’ale
Levato, sale
A vita nova di più alto affetto,
A non so che divino.
Risponder ode
D’eterei canti
Alla melode
Dal cupo de’ sepolcri inni esultanti;
E in fede acceso, ei vede
Tutte cose d’intorno,
Come per nuovo giorno,
Disfavillar di fede.

Il dotto e fervente cattolico, che adora la religione e la patria e che per la patria morrà, come sarebbe morto per la