Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo II

Capitolo II

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Capitolo I Capitolo III
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Capitolo Secondo.


Le fissazioni dello storico Spada. — Madornale e fondamentale suo errore agevolmente distrutto. — Sue insinuazioni sulla spontaneità delle popolari manifestazioni. — La verità storica sulla situazione. — Feste, epigrafi e poesie a Roma. — Angelo Brunetti detto Ciceruacchio. — Giudizi storici su di lui.— Feste a Bologna. — Pio IX e Adelaide Ristori. — Pio IX e il domenicano padre Bandini. — Abati e frati in preda a furore apollineo. — Feste nelle città di Romagna, delle Marche e dell’Umbria.— Pio IX e mons. Giuseppe Pecci. — Pio IX e l’Ernani del maestro Verdi a Bagnacavallo. — Pio IX e l’improvvisatrice Rosa Taddei. — Un poeta viennese inneggiante a Pio IX e il cav. Angelo Maria Ricci. — Un’ode di Cesare Malpica. — Salvatore Muzi e Pio IX. — Pio IX e Corrado Politi. — Pio IX, Dionigi Strocchi e Antonio Mezzanotte. — I poeti romani. — Pietro Guerrini. — Giuseppe Checchetelli. — Luigi Masi. — Pietro Sterbini — Filippo Meucci. — Giuseppe Benai. — Il Poeta pastore. — Si dà la ragione storica dell’entusiasmo per Pio IX. — L’arco trionfale e la festa dell’8 settembre. — La contraddizione comincia a stridere attorno a Pio IX.

Fra gli storici della rivoluzione romana è notevole il commendator Giuseppe Spada, nato a Roma nel 1796 e ivi morto nel 1867, uomo di grande onestà e rettitudine, che la vita trascorse nel Banco Torlonia, dai più umili, salendovi ai più alti uffici, fino a divenire, nel 1863, uno dei comproprietari del Banco stesso. Agli scarsi studi cui fu iniziato da giovane egli aggiunse estese cognizioni, acquistate con ammirevole tenacia di propositi, per mezzo di una assidua auto-didattica. Uomo di profondi sentimenti religiosi dotato, egli fu sempre un sincero e devoto papalino e dettò la sua Storia della rivoluzione romana1 con aperto intendimento di dimostrare quanto inique e subdole fossero le blandizie, con cui le consorterie rivoluzionarie e le sètte, fin dal giorno dell’amnistia, avvinghiassero l’ingenuo Pio IX col preconcetto di condurlo, di festa in festa, fin dove lo [p. 56 modifica]condussero2, e per dimostrare altresì essere stata la rivoluzione mossa, proseguita e compiuta, non dall’elemento romano, ma dagli estranei3.

Uomo calmo e pacifico, temperato e moderato nel dire, procura e si sforza di comparire obiettivo e imparziale, ma non vi riesce cosi che, spesso spesso, il suo spirito papalino non si palesi in loiolesche insinuazioni, o in aperte diatribe, o in riflessioni casuistiche e subiettive.

Analitico e minuzioso, accuratissimo raccoglitore di infiniti documenti, giornali, opuscoli, biografie, foglietti volanti, proclami, editti che si pubblicarono nel triennio 1846-1849, cita continuamente, a pie di pagina, tutte quelle parti e quei frammenti di documenti che giovano al suo assunto, ma si guarda bene dal citare tutte quelle altre parti, che dimostrerebbero il contrario di ciò che egli vuol provare. Non fornito da natura di sguardo sintetico, miope, gretto, piccino, come storico, lo Spada non abbraccia e non considera nel loro complesso le relazioni delle cause e degli effetti, ma con quella sua calma apparente, con quel suo stile mite e casalingo, cerca di sottilizzare, nella indagine particolare delle cause minuscole, obliando le maiuscole, e a quelle ricollegando, con faticosi sofismi, ma sempre arbitrariamente ed erroneamente, i massimi effetti. Insomma è storico pericoloso per gl’intelletti volgari ed inesperti perchè, passionatissimo quale pure egli è, appare, sovente a chi non sappia penetrar bene il veleno dell’argomento, temperato e imparziale.

Ora mi è sembrato che non fosse opera difficile - man mano che mi inoltrerei nella narrazione degli avvenimenti, in questo mio volume, - il combattere le fallaci argomentazioni e le più fallaci deduzioni dello Spada, e di fatto lo farò, siccome i lettori vedranno; ma intanto importa, fin dal principio, dimostrare la puerilità dell’argomento principale, su cui fonda tutto il suo sistema di giudizi e di apprezzamenti lo Spada.

Lascerò da parte che è falso assolutamente che l’elemento cittadino di Roma fosse quasi estraneo alla rivoluzione e che in quella piccola parte che esso vi ebbe, vi venisse, [p. 57 modifica]inconsapevole e raggirato, trascinato dagli elementi estranei, stranieri, forestieri - sono epiteti che continuamente usa lo Spada. Lascerò da parte che - fosse pur tutto vero ciò che lo storico papalino viene asserendo - resta pur sempre argomento insulso, puerile e ridicolo quello col quale egli si ostina a considerare come estranei i cittadini dello Stato romano, e pel quale, in una lotta fra il Papato e i suoi sudditi, egli non avrebbe voluto che avessero partecipato il Mamiani, il Campello, il Minghetti, il Pepoli, l’Audinot, il Gabussi, il Saffi, il Pasi, i due Caldesi, Galletti Giuseppe e cento altri valentuomini, sotto lo specioso pretesto che essi erano marchegiani, umbri, romagnoli e bolognesi.

Lascerò da parte che più ridicolo ancora è il suo ostinarsi a considerare come cnfranel Livio Mariani perchè nativo di Marano Equo, Pietro Sterbini perchè nativo di Vico nel Lazio e Serafino Cola perchè nativo di Leprignano, terre tutte della provincia romana e lontane appena venti o venticinque miglia dalla capitale, e cosi via di seguito.

Ma occorrerà ribattere, con una argomentazione storica alla quale non è possibile opposizione e resistenza, il gretto, municipale, falso ed insulso concetto, che forma la base di tutto il grottesco edificio di argomentazioni dello storiografo papalino.

Se - a parte le premesse considerazioni e tutte le altre che si potrebbero ragionevolmente aggiungere - vi è una città ed uno Stato, nella cui storia non sia permesso ad alcuno di invocare principi municipali, nella cui storia non sia lecito ad alcuno di rifiutare l’introduzione e l’influenza degli elementi non cittadini, questa città è Roma, questo Stato è quello romano. Poichè l’attitudine di attrazione a sè e di assimilazione in sè di tutti gli elementi italici e stranieri è caratteristica speciale, è stimma fisionomico singolare della stirpe latina da ventisei secoli a questa parte, fin dal suo primo apparire nella storia. A Roma si fusero, si confusero e armonicamente si amalgamarono tutti i popoli che avevano abitato, prima che essa sorgesse, le italiche contrade, Pelasgi, Liguri, Siculi, Etruschi, Osci, Latini: a Roma, posteriormente, si fusero, confusero e armonicamente si amalgamarono Volsci, Ernici, Equi, Sabini, Marsi, Sanniti, Piceni, Peligni, Campani, Maruccini; qui, durante l’ultimo secolo della repubblica [p. 58 modifica]e durante l’impero si fusero, confusero e amalgamarono armonicamente Spagnoli, Galli, Dalmati, Illiri e gli intelletti più elevati di tutto il mondo mediterraneo, e tutti si incivilirono, si latinizzarono e divennero Romani. Qui tutti i popoli furono raccolti sotto la equità sapientissima del romano diritto, con l’editto di Caracalla del 996 dalla fondazione di Roma, che il beneficio di quel diritto estendeva a tutto l’impero, onde essi furono unificati nel nome di Roma. Per cui il poeta nostro - e a questo i seguaci dello Spada, concederanno il permesso di parlare, perchè è romano di Roma - potè far dire, con pensiero profondo, a Claudio Nerone:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . romana
È per noi quanta gente abita il mondo4.

E la Chiesa cristiana, annidatasi, qui, in Roma, e sostituitasi, man mano, all’Impero, e il Pontefice sostituitosi, man mano, all’Imperatore, qui trovarono, nella lingua latina, nella tradizione latina, nella civiltà latina, nella sapienza latina, la loro forza di espansione, di unificazione e di universalizzazione dell’autorità e della potestà loro: qui la Chiesa, perchè divenuta romana, divenne cattolica e universale.

Ora è puerile e ridicolo, e, diciamolo pure, falso e disonesto il venire, in un parziale periodo della storia di questa città e dello Stato di cui essa è centro e capitale, ad eccepire sulla municipalità nazionalità degli uomini che a quel periodo di storia danno movimento e svolgimento e il venire ad invocare questa grottesca eccezione in nome e nell’interesse di una teocrazia, reclutata in tutte le parti del mondo; nell’interesse di una teocrazia, il cui episcopato è composto di uomini di tutte le nazioni e nel quale i romani di Roma non rappresentano neppure la novecentesima parte; nell’interesse di una teocrazia, il cui Senato cardinalizio, nel 1846, alla morte di Gregorio XVI, sopra 62 cardinali, non ne contava che cinque romani, mentre gli altri 57 appartenevano a tutte le provincie d’Italia e taluni ad estere nazioni; in favore di un Governo clericale, i cui soldati erano svizzeri, nelle cui legioni di preti e di monaci, residenti in Roma, e [p. 59 modifica]composte di migliaia e migliaia di individui rarissimi erano i romani

in favore di un Governo clericale, 1 cui ministri, i cui legati e delegati, i cui nunzi ed ambasciatori, i cui magistrati non erano romani di Roma, ma di tutte le provincie d’Italia ed anche stranieri.

Avrebbe saputo dire il gretto e piccino comm. Spada perchè mai il genovese cardinale Lambruschini potesse, non per elezione di popolo, ma per capriccio del sovrano, occuparsi, come ministro, degli affari di Roma, e perchè mai il genovese Mazzini non potesse degli affari di Roma occuparsi, chiamatovi dalla elezione popolare a suffragio universale? Perchè mai il cardinale Antonelli, ciociaro, potesse essere ministro dello Stato romano e perchè non potesse esserlo il ciociaro dottor Sterbini? Perchè potesse esserlo il carrarese Pellegrino Rossi e perchè non potesse esserlo il napoletano Aurelio Saliceti? Perchè mai potessero sedere nel collegio cardinalizio e occuparsi degli affari politici dello Stato romano i cardinali Amat, Riario Sforza, Gazzoli. Spinola, Fieschi, Piccolomiui, Carafa, Serra Cassano e Pignatelli, sardi, genovesi, toscani, napoletani, elevati all’onore della porpora dal capriccio del Pontefice e perchè non potessero sedere nella costituente romana i soli sette deputati non appartenenti allo Stato, Dall’Ongaro friulano, Mazzini genovese, Cernuschi milanese, Garibaldi nizzardo, Cannonieri modenese. Saliceti napoletano e De Boni veneto, all’onore di occuparsi degli affari politici di Roma delegati dal voto del popolo?

Onde io concludo: che il principio sostenuto dallo Spada è essenzialmente falso ed erroneo sotto il riguardo storico, falsissimo nel caso speciale, perchè - ripeto - se v’è città alla quale, sia per il suo carattere universale, sia per la sua tradizione, sia per la sua storia, quel gretto, insulso e meschinissimo principio non può in verun modo essere applicato, questa città è proprio Roma.

E, per tornar al pontefice Pio IX e all’amnistia da lui largita, dirò delle feste a cui quel misericordioso e benefico atto del nuovo Papa diede legittima e ragionevolissima occasione.

Le quali feste nacquero spontanee, la sera del 17 luglio 1846, appena, cioè, si propagò, come lampo, per la città, la notizia della pubblicazione dell’editto di amnistia, con una duplice [p. 60 modifica]dimostrazione narrata dal Grandoni, storico, come già avvertii nel proemio, devotissimo e sviscerato di Pio IX, e che ne fu testimone oculare. «Il 165 luglio pertanto circa le ore 22, un mese appunto dalla sua fausta elezione, si vide affìsso per la città l’editto dell’amnistia. Non può descriversi qual contento apportasse questo desiderato tratto di beneficenza. Dopo la mezz’ora di notte una moltitudine immensa di popolo accorreva al Quirinale per rendere grazie al sovrano. Questi si degnò presentarsi alla loggia maggiore del suo palazzo, donde diè la benedizione. Mentre però tutti si partivano commossi insieme, ed ebbri di gioia, dall’interno di Roma si avvicinava al Quirinale altro numerosissimo stuolo di gente con torcie accese, che, dopo le più vive acclamazioni, fu benedetto pur esso. Fu lo spettacolo sopra ogni dire imponente, e del tutto nuovo ai Romani, e quanto ad essi gradito altrettanto di soddisfazione al principe; e per verità non potevano tributargli maggiori prove di affetto e di riconoscenza»6.

Tale racconto è pienamente confermato dallo Spada stesso. «Per ogni dove leggevasi l’atto sublime, estollevasi al cielo il Pontefice, ed il nome suo ripetevasi per mille e mille bocche, accompagnato dalle lodi e dalle benedizioni e dalle manifestazioni di liete speranze. Tutto poi favoriva la letizia: stante ti caldo della stagione non solo le vie tutte della città erano gremite di gente a diporto, ma oltracciò una festa serale d’indole religiosa, che suole attrarre ogni anno molto popolo sulla piazza della Maddalena, tenevalo in moto quella sera anche più del consueto. Sentesi raccontare che una mano di giovani plaudenti eransi recati con faci accese sulla piazza del Quirinale, e che erano stati benedetti dal Pontefice, se ne diffonde come lampo il racconto; tutti di qua, di là, ansanti e festosi [p. 61 modifica]concergono sulla vetta del colle. L’orchestra che era sulla piazza della Maddalena è strappata a forza, e condotta fra un’agglommerazione di popolo immenso, per recarsi insieme con esso in faccia al palazzo del pontefice. Esso per la seconda volta apparve sul balcone per benedirlo. Più tardi ancora si rinnovò, e per la terza volta, una scena sì nuova e commovente che né parole, nè mente umana potrebbero esprimere o concepire»7.

Come si vede, lo Spada è più caldo assai del Grandoni nel colorire l’entusiasmo popolare: e giova notarlo.

La narrazione dei due testimoni oculari intorno ai modi e alle forme con cui spontanea scattò e si svolse quella prima dimostrazione, è pienamente confermata da sincrone narrazioni di altri testimoni, i quali anzi entrano in assai maggiori particolari, e si diffondono nelle entusiastiche loro descrizioni quasi in inni di gloria al Pontefice largitore di tanto beneficio, e al popolo che seppe apprezzarlo e lodarlo e levarlo a cielo8.

E il conte Pellegrino Rossi, ambasciatore del re dei Francesi presso la Santa Sede, testimone oculare egli pure, e non sospetto, descriveva coi più vivi colori della sua tavolozza di artista la spontaneità, commovente fino alle lacrime, di quella veramente imponente popolare dimostrazione in un suo dispaccio officiale, indirizzato al ministro degli esteri Guizot, nel successivo giorno 18 luglio9.

Ora quale dei lettori immaginerebbe che, dopo le parole cosi calde e vive con le quali lo Spada aveva descritto la spontaneità della dimostrazione a pagina 56 del I volume della sua [p. 62 modifica]Storia, spontaneità confermata pienamente da tutti gli altri testimoni oculari, lo Spada stesso, due pagine dopo, avrebbe aggiunto questa impreveduta e imprevedibile considerazione, la quale fa l’effetto di una scoperta di un altro nuovo mondo? Ecco la doccia che, sul proprio entusiasmo di poco prima, getta il terribile comm. Spada.

«Ad onta di ciò per altro diciamo e sosteniamo che mancò la spontaneità della prima dimostrazione, dalla quale tutte le altre sono derivate, e che se non fosse stata cosi bene organizzata preventivamente in guisa da fare comparire spontaneo e naturale quello che era calcolato e artificiale, il tripudio non accadeva, il papa non si mostrava alla loggia del Quirinale, la benedizione non avrebbe avuto luogo, le muse si tacevano, i giornali non parlavano, e le Provincie non avrebber fatto eco alla capitale, se la capitale fosse restata muta. L’atto avrebbe esistilo, i beneficati avrebbero fruito del beneficio, ma tutto ciò si sarebbe passato tranquillamente, mentre coll’astuzia della prima dimostrazione il mondo andò a poco a poco in fiamme»10.

E si può legittimamente inferire che, se non era quella maledetta organizzata dimostrazione artificiale, tutti sarebbero rimasti quieti e mogi a deliziarsi nella felicità di un Governo che, fino dal memorandum delle cinque potenze del 1831, era giudicato medioevale, negazione di civiltà e di progresso, e assolutamente insostenibile e impossibile; in Francia non sarebbe avvenuta la rivoluzione di febbraio; a Milano non sarebbero succedute le cinque giornate; i Viennesi non si sarebbero sollevati; in Germania e in Ungheria non sarebbero accadute le rivoluzioni che accaddero, e oggi, anche oggi a Roma avremmo il Governo teocratico col Santo Uffizio, col tribunale dell’A. C., con la Congregazione del Caravita, viaggeremmo pacifici in diligenza, gireremmo per la città allo squallido chiarore dei lampioni ad olio, senza l incomodo della luce elettrica, delle ferrovie e di tanti altri pretesi miglioramenti, prodotti dalle cosi dette conquiste della noiosa civiltà e dell’abominevole progresso!

[p. 63 modifica]E la meravigliosa scoperta dello Spada sta appunto in che egli ha ritrovato un nuovo metodo storico, nel quale non è una lunga serie di cause remote e immediate, ma complesse, che producano i grandi rivolgimenti umani, ma una cagione piccina, minuscola, impercettibile che dà origine e moto a terribili e colossali avvenimenti. Onde dalla dimostrazione popolare del 17 giugno, organizzata artificialmente a Roma - e bisogna aggiungere dal diavolo - deriva niente di meno che una rivoluzione europea, durata formidabile e sanguinosa più di due anni, e i cui ultimi effetti furono il risorgimento e l’unità della nazione germanica e dell’italiana!

Ma, lasciando l’ironia a parte, e tutto ciò che vi è di sommamente ridicolo sotto i riguardi della filosofia della storia nella insulsa affermazione dello Spada, è, almeno, vero che quella povera dimostrazione non fu sincera, ma artificiale, non spontanea, ma organizzata?

Lo Spada, per dimostrare la verità della sua affermazione, ricorre a tre autorità rivoluzionarie, e cita le istruzioni inviate dal Mazzini ai suoi seguaci nell’ottobre del 1840 - noti bene il lettore la data - e nelle quali il promotore della Giovine Italia scrive: «Profittate della menoma concessione per riunire le masse, non fosse che per attestare riconoscenza; feste, canti, raduni, rapporti numerosi, stabiliti fra uomini di ogni opinione, bastano per far nascere delle idee, e dare al popolo il sentimento della sua forza e renderlo esigente».

E quindi adduce un frammento di uno scritto pubblicato dal Montanelli nell’Archivio triennale storico delle cose d’Italia, pubblicato a Capolago nel 1850, frammento che dice cosi: «Pio IX saliva al pontificato. Convinto come io era che l’unità nazionale si potesse conseguire soltanto col gravitare tutti verso un centro comune, e che l’idea unitaria tanto più sarebbe stata facilmente eseguibile, quanto meno per incarnarsi avesse avuto bisogno di eliminazioni, mi applicai a fare di Pio IX l’insegna della fratellanza italiana. Se l’amnistia fosse stata festeggiata – noti bene il lettore questo periodo - fosse stata festeggiata soltanto in Roma e nelle Romagne, non sarebbe divenuto avvenimento nazionale, e per imprimerle questo carattere, appena se ne ebbe notizia, io promoveva a Pisa la sottoscrizione a [p. 64 modifica]favore degli amnistiati indigenti, eccitando i miei amici dì altri Stati italiani a fare altrettanto, e mandando a Roma persone di mia fiducia affinchè fosse costituito in quella metropoli il comitato centrale per ricevere le oblazioni di tutta la nazione».

Da ultimo, lo Spada, pur confessando che non risulta dalle carte stampate che egli ha sott’occhio che il Mamiani prendesse una parte attiva nella direzione delle ovazioni dei perdono, afferma che egli la prese però attivissima per consigliare più tardi, mediante una circolare ai suoi amici d’Italia, e tracciare perfino le norme di quella contro gli Austriaci il 5 dicembre 1846,

Ora le prove addotte dallo Spada per dimostrare come il Mazzini, il Montanelli e il Mamiani fossero i segreti organizzatori di quella prima artificiale dimostrazione, causa prima ed unica di venticinque anni dì storia europea, sono erronee e inconcludenti, e non dimostrano nulla, proprio nulla; perchè le istruzioni del Mazzini sono dell’ottobre ’46 e la dimostrazione avvenne in luglio, cioè più di tre mesi prima; perchè il Montanelli, il quale, del resto, nel tempo in cui Pio IX diede il perdono non era ancora venuto a Roma, e non vi aveva nè amici, nè relazioni, parla dell’organizzazione da lui fatta in Pisa di un comitato a favore degli amnistiati, dopo che ebbe notizia del perdono e della dimostrazione, e afferma di essersi dato attorno per fare del nome di Pio IX un segnacolo di fratellanza, ma dopo che ebbe saputo che egli aveva dato l’amnistia, cosa che il Montanelli, il quale stava a Pisa - come il Mazzini che stava a Londra, come il Mamiani che stava a Parigi - prima del 17 luglio, non potevano menomamente prevedere, nè divinare; e perchè, finalmente, in quanto al Mamiani, lo stesso Spada afferma di non aver prove per ritenerlo immischiato nell’artificiale secondo lui - dimostrazione del 17 luglio, e l’avere esso partecipato all’organizzazione di dimostrazioni posteriori a quella di oltre cinque mesi non può, onestamente e logicamente parlando, in modo alcuno avvalorare la immaginata sua ingerenza nella dimostrazione romana del 17 luglio ’46.

Ma, per ciò che riguarda il Montanelli, occorre aprire una parentesi, perchè vi ha di peggio e di più assai che lo Spada [p. 65 modifica]non abbia detto a favore dell’illustre ferito di Curtatone e contro le proprie loiolesche insinuazioni. Imperciocchè, se lo storico Spada fosse stato leale a proposito della pretesa ingerenza esercitata dal Montanelli nella prima dimostrazione romana per l’amnistia, avrebbe dovuto confessare ai suoi lettori che il Montanelli, quasi presago delle future e bugiarde accuse, il Montanelli, di cui tutti gli scrittori che lo conobbero, o poco, o tanto, ammettono ed ammirano, concordi, la lealtà, la ingenuità ed il candore, ha scritto nelle sue Memorie queste parole delle quali lo Spada non poteva ignorare resistenza: «Benchè tornato a professione di idea cattolica, io m’era creduto irreconciliabile coll’idea papale, e quando Gregorio XVI morì, davo gli ultimi tocchi ad uno scritto indirizzato ai preti italiani, in cui impigliando le tradizioni della protesta cattolica antipapale inaugurata da Dante, e proseguita da Savonarola, mi sforzavo a provare al clero italiano la necessità di andare per quella via. Ma al raggio inaspettato che spuntava dal Vaticano, considerai le vie della Provvidenza essere più che quelle dell’uomo e Dio aver forse destinato un papa ad essere il demolitore del papato politico e restauratore del cattolicismo evangelico. Con tutta la sincerità del credente ripetei il grido del Quirinale: Viva Pio IX»11.

E ciò che più scagiona il Montanelli e che più aggrava la slealtà dello Spada si è che il professore pisano nello stesso capitolo, poche pagine appresso, si incarica di smentire, ad una ad una, tutte le insinuazioni dello scrittore papalino, sulla origine, sul carattere e sullo svolgimento delle dimostrazioni romane, scrivendo: «1° La parte popolare romana applaudì Pio IX sinceramente perchè lo credè risoluto a separarsi dalla casta cardinalizia e dalla diplomazia austriaca e a stare col popolo» (Qui segue una lettera del luglio 1846 inviata da Roma dal Masi al Montanelli); «2° La parte popolare romana stimava necessarie le dimostrazioni per incoraggiare e fortificare il Pontefice nell’intrapresa riforma contro le mene dei nemici interni ed esterni». (Qui seguono tre successive [p. 66 modifica]lettere del Masi al Montanelli, ingenue di entusiasmo giovanile); 3° I capi della parte popolare romana, benchè detti esaltati, erano loro i veri moderatori del movimento». (Qui segue un’altra lettera del Masi; «4° I capi della parte popolare romana non avevano che fare colla Giovine Italia, nè con cospiratori fuorusciti, e si governavano dalla coscienza delle necessità locali e avevano in uggia gl’impiccioni venuti a cianciare di fuori»12.

Ma lo Spada ha un’ultima formidabile trincea in cui asserragliarsi: essa è costituita da una confessione dell’ex-deputato alla Costituente romana avv. Guglielmo Gajani, il quale, in un suo libro pubblicato, in lingua inglese, a Boston, scrive: «Era già stato convenuto fra i miei amici e me che alla pubblicazione dell’amnistia noi dovessimo ritrovarci nel giardino pubblico vicino al Colosseo, ed io colà per conseguente mi recai. Noi nulla avevamo da discutere, imperocchè il nostro piano era stato concertato dapprima, mxi furono dati gli ordini per la sua esecuzione, e l’ora e il luogo furono fissati per una riunione generale - noti bene il lettore - da tenersi alle 9 sulla piazza del popolo»13.

Se non che questo terribile documento prova appunto la sincerità e spontaneità del moto popolare del 17 luglio, perchè le dimostrazioni in quella sera del 17, per confessione stessa precedentemente fatta dallo Spada14, e come confermano l’autore del Ragguaglio storico15, il Gigli, il Gualterio, il Belviglieri, il Poggi, il Tivaroni, furono tre. E la prima mosse dal giuoco del pallone, in via delle Quattro Fontane16 dove, sparsasi la voce dell’editto del perdono, la gioventù numerosissima ivi raccolta, si diresse per moto impulsivo di gioia, alla vicina piazza del Quirinale verso le sette e mezzo; la seconda mosse dalla piazza [p. 67 modifica]della Maddalena, ove era adunata gran folla e suonava un concerto per la festa di san Camillo de Lellis17, e questa seconda folla plaudente si mise in movimento dopo le otto e giunse al Quirinale, conducendo con sè il concerto musicale, verso un’ora di notte18; la terza, che sopraggiunse con fiaccole accese e che lo Spada soltanto asserisce muovesse alle nove da piazza del Popolo e provocata, secondo lui, da Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, amico e confratello in associazione segreta del Gajani, come egli insinua, ma non prova, giunse sulla piazza del Quirinale intorno alle tre ore di notte.

Notando di passaggio e alla sfuggita che nè il Gualterio, nè il Grandoni, nè il Gigli, nè l’autore del Ragguaglio, tutti testimoni oculari, fan punto cenno della presenza di Ciceruacchio, e che nessuno di essi dice che la terza dimostrazione muovesse da piazza del Popolo, ma tutti usano le parole generiche dal centro di Roma, dall’interno di Roma e simili, io vorrò pur tuttavia concedere allo Spada che la terza dimostrazione fosse quella concertata dal Gajani e da Ciceruacchio; ebbene essa giunse ultima, quando per moto spontaneo e improvviso di popolo erano avvenute due altre imponenti dimostrazioni di affetto e di devozione al Pontefice.

Del resto lo Spada stesso, non ancora sicuro se avrebbe o non avrebbe messa fuori quella sua ridicola obiezione più tardi, aveva già scritto, in principio dello stesso capitolo III: «Esso (l’editto del perdono) piacque generalmente, e tutti furono colpiti dalla soavità delle espressioni, indicanti un cuore veramente paterno, e temperato a beneficenza e generosità per parte di chi lo largiva (sic). Ma alcuni rimasero siffattamente inebriati dalla gioia, che, senza esagerazione - noti bene il lettore - dessa confinava col delirio. Per ogni dove leggevasi ratto sublime, estollevasi a cielo il Pontefice, ed il nome suo ripetevasi per mille e mille bocche, accompagnato dalle lodi, dalle benedizioni e dalle manifestazioni di liete speranze»19. O allora? Poteva avvenire cosa più naturale e più logica e più [p. 68 modifica]spontanea che l’irrompere, senza bisogno del sognato e miracoloso intervento profetico del Mazzini, del Montanelli e del Mamiani, senza bisogno dei preventivi accordi di Ciceruacchio e del Gajani, poteva avvenire cosa più naturale e più logica e più spontanea che l’irrompere subitaneo di quella gioia universale in quella triplice dimostrazione?

Della spontaneità e sincerità poi di quelle popolari manifestazioni fanno solenne testimonianza trenta scrittori, fra i quali mi piace di addurre quella di due specialmente e non sospetti, per il loro dottrinarismo e per la loro moderazione, essendo essi assai poco benevoli verso i rivoluzionari e uno dei quali fu testimone oculare del festeggiamento.

«Quale esplosione di gioia, quale espansione di riconoscenza seguissero quella scrittura (l’editto del perdono) è impossibile raccontare. In un batter d’occhio, la fortunata notizia fu sparsa per la città. Tutte le case videro i loro abitanti sulle vie e sulle pubbliche piazze; poi tutt’a un tratto, prima che qualsiasi parola d’ordine fosse stata data, per un movimento irreflessiro partirono dai differenti quartieri di Roma interminabili processioni d’uomini, donne, vegliardi, nazionali e stranieri, gente di tutte le classi e di tutte le professioni, i quali, senza capi, ma con un ordine ammirevole, andarono a recare al Santo Padre la testimonianza spontanea della gratitudine pubblica. Bue volte in brev’ora la vasta piazza del Quirinale era stata invasa, e a questa folla estasiata, due volte, già prima della sera. Pio IX aveva impartita la sua benedizione. Frattanto gli abitanti dei quartieri più lontani non erano giunti ancora. Un’ultima torma, la più numerosa di tutte, non sbocca sulla piazza che dopo calata la sera. Il Papa era rientrato nei suoi appartamenti. Tutte le finestre del palazzo erano già chiuse. Nonostante l’etichetta che vieta che i Papi si lascino vedere dopo tramontato il sole, Pio IX acconsentiva ad apparire una volta ancora al balcone e a ricevere questo ultimo omaggio dei suoi sudditi! L’ansia era grande fra la folla» ecc. E qui l’autore narra la terza apparizione e la terza benedizione del papa data alla folla e l’ordine con cui questa si sciolse20.

[p. 69 modifica]Più esplicito, più energico è il Gualterio, il quale, quasi avesse preveduto le sottili insinuazioni dei gesuiti e dello Spada, come se avesse intuito che la espansione improvvisa e caldissima di sessantamila persone di ogni ceto e di ogni età sarebbe stata ridicolmente attribuita alle suggestioni e al magnetismo di un povero e allora oscurissimo avvocatuccio Gajani qualunque, scrive: «Chi vide e ricorda la sera dei 16 luglio21 1846, non può disconoscere due cose: che l’ardore universale non era nè fittizio, nè artificiosamente preparato: e che il Papa, concedendo l’amnistia, fece un atto, non solo bello ed onorevole, ma necessario. I cittadini perdonati, alle mene ed all’ingratitudine del quali si volle attribuire interamente quell’entusiasmo e quella febbre che produsse gli avvenimenti posteriori, erano tuttavia o nelle prigioni, o nell’esiglio; ma anche senza la loro presenza e cooperazione la possa delll’opinione era già grande, o piuttosto irresistibile. Io che certo non adulai, nè adulerò giammai le passioni, le follie, le iniquità di alcuno, debbo questo notare perchè alle esagerazioni dello spirito di parte non si faccia luogo. Questo atto, torno perciò a ripeterlo, che fu appresso si lungamente rimproverato al Papa, e forse in mille guise subdole od aperte a lui viene rinfacciato tuttavia, quasi cagione dei rivolgimenti del continente, non che della penisola Italica, questo atto che è senza dubbio il soggetto delle maledizioni del nemici della libertà anche nei giorni della fortuna e nella ebbrezza dei trionfi loro, era imposto al Papa dalla necessità; e quando anche non fosse stato, la rivoluzione si sarebbe senza esso ugualmente compiuta entro breve tempo

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L’entusiasmo prodotto da quel decreto si propagò come elettrica scintilla per tutte le parti di Roma

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L’entusiasmo era sempre crescente, ed il Papa non isdegnò tornare cosi per ben tre volte sul balcone a salutare e benedire il suo popolo. Spettacolo tutto nuovo era una benedizione papale, [p. 70 modifica]accolta dal popolo romano con entusiasmo, come nuovo era il vedere il Pontefice usare cosi familiarmente con esso, in quel modo e in quell’ora. O voi, che con viso di scherno ricordate quelle manifestazioni, e disapprovaste il Principe che le accettò, voi non direte certo che quella fosse predisposta ed artificiale. La rivoluzione che traboccava, aveva libero sfogo per una via ed in un concetto che voi non comprendeste per isventura degli uomini, innanzi che turpi passioni lo turbassero e signoreggiassero il mondo, Quell’entusiasmo fu universale, e chi dice di non aver pianto a quello spettacolo, mentisce a sè medesimo» . . . . . . .22.

La scoperta dello Spada adunque è effimera e ridicola; e la dimostrazione che egli ha tentato di farne è più infelice ancora della falsa scoperta stessa.

Anzi la nessuna efficacia e il nessun valore delle prove addotte fa nascere un dubbio nell’animo di chi legge la storia dello Spada, se, cioè, egli per mancanza di perspicacia e di criterio non vedesse che quelle prove non reggevano alla stregua della logica più elementare, o se calcolatamente invece le adducesse cosi come le addusse, anche a costo di far brutta figura dinanzi ai lettori intelligenti, al solo fine di accalappiare, se gli veniva fatto, i lettori dall’ingegno più grosso e di maggior buona fede Da altra parte che, dopo le prime dimostrazioni, il Montanelli, il Mazzini, il Cattaneo e moltissimi altri patrioti e liberali soffiassero nel fuoco delle dimostrazioni, che alimentassero, ad arte, quel popolare fermento, che mantenessero viva l’agitazione e stimolassero il desiderio di sempre nuove riforme è cosa risaputa e scritta anche sui boccali di Montelupo; è cosa che nessuno nega, che tutti ammettono e confessano, perchè era cosa naturale, perchè, per tutti coloro che studiano la storia coi metodi razionali e sanno - cosa che non sa l’ottimo comm. Spada come essa sia retta e diretta da una legge logica che agisce nel mondo morale, con la stessa insita sapienza con cui una legge ugualmente logica regge e governa il mondo fisico, quell’azione eccitatrice dei rivoluzionari italiani era, e non poteva [p. 71 modifica]non essere, legittima conseguenza di legittime premesse. Erano trent’anni che l’opinione pubblica italiana invocava un completo rinnovamento politico e civile: erano trentanni che gli Italiani cospiravano, insorgevano, combattevano con le armi, con la parola, con gli scritti per veder distrutto il trattato di Vienna, per veder sottratta la patria dalla dipendenza dell’Austria, per veder inaugurato un regime civile e liberale, per veder costituita la nazione ad unità; erano trentanni che a migliaia e a migliaia affrontavano prigionia, esigli, e impavidamente la morte sui patiboli per conseguir tutto ciò, ed era quindi logico e naturale che essi approfittassero della occasione, che tutto quello indefesso lavorio, che tutti quei sopportati sacrifizi avevano - predisponendo l'ambiente e l’opinione - preparata e fatta sorgere e che cercassero, senza provar nessuno degli scrupoli del commendator Spada, di raggiungere, con tutti i mezzi che erano a loro disposizione e che le circostanze loro offrivano, il fine vagheggiato, invocato, desideratissimo.

Ed è perciò che la prima manifestazione popolare di Roma fu spontanea, sincera, non provocata, non preordinata, appunto perchè il fatto che quella dimostrazione applaudiva e celebrava, era atteso da trent’anni, appunto perchè esso appariva alla opinione pubblica come quell’aurora dell’èra nuova che tutti aspettavano, la quale, tutti istintivamente sentivano che doveva, di necessità, sorgere. Appunto perchè quell’editto doveva sembrare alle moltitudini arra delle maggiori concessioni attese da tutti, il popolo, con il suo buon senso complessivo, con il suo complessivo istinto,! quali, precisamente perchè complessivi, non si ingannano mai, il popolo, che, quando è unanime nel vedere, nel sentire, nell’apprezzare un dato fatto storico, ha le intuizioni del genio, il popolo applaudi entusiasticamente all’amnistia, non tanto per ciò che quell’atto del Pontefice effettivamente era in sè, quanto per quel di più che esso, agli occhi e nella coscienza delle moltitudini, ascondeva in germe e in sè racchiudeva23.

[p. 72 modifica]E non solo tale significato aveva e doveva avere l’editto di amnistia, ma un altro più recondito, non avvertito forse che intuitivamente dalle menti dei volghi, ma ben chiaro agli intelletti più veggenti ed altissimo, e di una importanza straordinaria ne aveva, ed era questo: per quanta arte di parole blande e di abili circonlocuzioni nel compilare quell’atto mettesse monsignor Corboli-Bussi, che ne fu l’estensore, pur tuttavia in quell’editto si biasimava, implicitamente e velatamente, la politica reazionaria e repressiva dei predecessori del Pontefice, e questi, implicitamente, riconosceva la giustizia della causa propugnata dagli sventurati che giacevano nelle prigioni, o ramingavano in terra straniera, implicitamente affermava che coll’antico sistema non si poteva e non si doveva più governare; in quell’editto si adombrava fra le linee un papa che santificava del suo implicito assenso le speranze e le aspirazioni degli Italiani

Ed è per tutte queste ragioni che io mi sono indugiato lungamente su quell’editto, sulle cagioni che lo produssero, sui primi effetti che esso ebbe e sul carattere e sul valore delle prime manifestazioni popolari che lo accompagnarono e lo seguirono.

Le dimostrazioni festose del popolo romano a Pio IX si rinnovarono nei successivi giorni 18 e 19 con luminarie, inni e accorrere di tutto il popolo plaudente al Quirinale24.

Intanto una prima leggerissima nube, non avvertita quasi da alcuno, e alla quale si guarda bene di accennare menomamente lo Spada, appariva su quell’azzurro e roseo cielo, ed era subito dissipata da quel turbine di acclamazioni, d’inni e di tripudi, e quella nube annunciava subito il dissidio fra le buone intenzioni del nuovo Pontefice e le tradizioni onnipotenti della vecchia curia, fra il desiderio del papa di liberaleggiare o la impotenza sua di farlo, secondo gli impulsi del suo cuore.

Il giorno 18 Pio IX «non volle defraudare dei meritati premi coloro che si segnalarono nel prestare opera più o meno energica, reprimendo i tentativi dei liberali di Rimini nel settembre del 1845, quali premi, decorazioni ed altro aveva predisposto e consentito il suo antecessore»25.

[p. 73 modifica]Così, nello stesso istante e con la stessa mano, il Pontefice assolveva e benediceva i ribelli di Rimini, e premiava coloro che quei ribelli avevano combattuto ed oppresso. Così cominciava, fin dal primo giorno, la politica dell’altalena, la politica - mi si consenta la frase volgare, ma così espressiva - di un colpo al cerchio e l’altro alla botte, la politica di inevitabile contraddizione, nella quale, per inesorabilità di legge storica, era condannato a dibattersi affannosamente Pio IX, nella quale doveva, lacrimata, ma fatalmente necessaria vittima, perire, miseramente, l’illustre statista Pellegrino Rossi.

Ora, tornando alle manifestazioni popolari di Roma, convien qui dire che in esse apparisce la maschia, bella e immacolata figura del popolano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio.

Chi era Ciceruacchio? Quali i suoi precedenti, le opere, le opinioni sue?

Angelo nacque in Roma, in quella parte del rione Campo Marzio, nota sotto il nome di rione del popolo o dei popolanti, e che propriamente si estende da Ripetta fino all’antico Mattatoio, e comprende tutte le viuzze che hanno per centro piazza dell’Oca e che stanno sulla destra della via di Ripetta a chi la percorra proveniente da porta del Popolo. Egli nacque da Lorenzo Brunetti e da Cecilia Fiorini, ambedue romani e discendenti da antiche famiglie popolane di quel rione, il 27 settembre dell’anno 180026.

Il bambino era bianco, roseo, biondo, dagli occhi azzurri, grosso e rotondo più dell’ordinario. Per quella abbondante rotondità di forme infantili, le comari del vicinato, togliendolo dalle braccia della sora Cecilia e vezzeggiandolo e palleggiandolo, cominciarono, in coro, a dire: Oh che bel Ciccio!... Oh che bel Ciccio!... e altre ad aggiungere: È grasso come un rocchio, oh che bel rocchio! Oh che bel ruacchio!27 E di lì derivò, fin dalla infanzia, il soprannome di Ciceruacchio28.

[p. 74 modifica]Lorenzo Brunetti di professione era maniscalco; uomo aperto, libero nel parlare, largo di cuore e inclinato al prodigo. Durante la dominazione francese si trovò coinvolto in gravi tafferugli; ma dopo la restaurazione pontificia attese al suo mestiere e lasciò da canto la politica29.

Angelo crebbe florido e vigoroso, ma un po’ riottoso e facile alle risse, non per perversità, anzi per generosità di animo; come quegli che, anche da fanciullo, per istinto era tratto a ribellarsi alle prepotenze e alle soperchierie, onde spesso avvenne che egli si cacciasse nelle baruffe, trattovi solo dal generoso impulso di difendere l’oppresso ed il debole30.

Angelo Brunetti aveva ingegno pronto e svegliato, ed era dotato di sufficiente accortezza e di molto buon senso. Ebbe scarsa istruzione; imparò a leggere, a scrivere e a far di conti: ma la sua calligrafia sta a provare che di buonora cessò dal frequentare le scuole dei Padri detti Carissimi, e che il volgo, argutamente, appellava ignorantelli.

Avveduto ed intraprendente, Angelo Brunetti si diè di buon’ora ad esercitare la modesta industria del carrettiere, trasportando, sopra un carro tirato da un cavallo di sua proprietà, il vino da Frascati, da Genzano, da Marino, da Zagarolo a Roma.

Della plebe romana in genere e del carrettiere in ispecie ha lasciato una stupenda ed efficacissima dipintura Massimo D’Azeglio.

«Come ognun sa, Roma è stata da secoli il refugium peccatorum della terra intera; e se non se ne fosse certi altrimenti, basterebbero i casati a provarlo. Ce ne sono d’ogni lingua, d’ogni nazione, nè quelli che li portano mostrano nulla che li faccia apparir forestieri. Ma, badiamo, questo accade nel mezzo ceto, ed in parte anche nel patriziato. Ma fra il popolo, in ispecie in Trastevere, alla Regola ed a’ Monti, non se ne trova esempio. Fra questo popolo stesso si distingua poi una oligarchia gelosa più delle altre di mantener puro il sangue romano, e quest’oligarchia sta principalmente ne’ due mestieri di selciarolo e di carrettiere del vino.

[p. 75 modifica] «È raro che nei matrimoni costoro escano dalla loro classe. A colpo d’occhio s’osserva la differenza che è fra costoro e la rimanente popolazione. La struttura quadrata dei loro corpi, il volume e il modello dei muscoli, le nobili attaccature, la complessione asciutta, senz’adipe, senza pancia, mentre a Roma ambi i sessi nelle altre classi tendono al tondo ed al rilassato, li mostra veri discendenti di quei legionari, che, portando nelle marcie oltre le armi, oltre i viveri, anche un palo per l’accampamento, ogni sera dolevano fortificare questo con fosso e spalto, prima di riposarsi. I bassorilievi ci mostrano, in marmo, come erano fatti questi antichi uomini di ferino, ed i carrettieri del vino ce li mostrano oggi in carne e d’ossa.

«Son gente rozza ed ignorante, è verissimo; ma nel loro aspetto, ne’ loro atti, nel modo di stare, d’andare, d’atteggiarsi, è un’espressione altiera, una sicurezza orgogliosa, che in nessun popolo del mondo m’è accaduto d’incontrare; ed è impossibile non rimanere colpiti dai caratteri di superiorità che appaiono in codesta parte della popolazione; la quale, nelle fattezze, nell’espressione, nel modo di vivere, e perfino nei materiali, negli attrezzi delle loro industrie, mostra un grandioso affatto speciale a loro; una maestà, un far da padroni, che si cerca invano nelle classi elevate»31.

Molti di questi tratti caratteristici si riscontravano in Ciceruacchio. Di statura appena superiore alla mezzana, robusta, dalle larghe spalle, dal largo torace, dalle gambe muscolose ed ercoline, Angelo Brunetti aveva viso largo ed aperto, di carnagione biancorosea, circondato da una folta chioma, alquanto ricciuta, di capelli castano-chiarissimi. Giusta egli aveva fronte, il naso profilato, occhi azzurri, espressivi, ridenti, attorno alle gote egli aveva la barba bionda, non molto lunga, e il capo, così vivo e spigliato, posava sopra un collo grosso e taurino.

Vestiva sempre, anche dopo che divenne assai agiato, anche dopo che ebbe acquistato una certa celebrità e una grande autorità, modestamente, ma non senza una certa eleganza, il [p. 76 modifica]costume del popolano romanesco. Giacca corta, per lo più di velluto, sopra corto panciotto, calzoni stretti al ginocchio e allargantisi a campana sul collo del piede: attorno alla vita larga sciarpa di seta, fazzoletto di seta a Aerami attorno al collo; io testa cappello a cencio, un po’ alto ed aguzzo verso la punta, quasi alla foggia calabrese 32.

Nei complesso la sua figura e la sua fisonomia piacevano a prima vista, e facevano apparire Angelo Brunetti per un bell’uomo, e, ciò che più importa, per un uomo grandemente simpatico.

V’era in lui quella certa fierezza, quella certa disinvolta alterigia e nobiltà di mosse e di atteggiamenti di cui parla il D’Azeglio, non disgiunta da una tendenza naturale alla giovialità e alla giocondità. Era uomo coraggioso e facile all’ira, ma nobile qual’era, facile al perdono e all’oblio delle offese. C’era un po’, anche in lui, quella specie di propensione, generale nei Trasteverini, nei Regolanti, nei Monticiani, ad atteggiarsi alquanto allo spavaldo ed al gradasso. Parlava alla buona, quasi sempre in dialetto, ma con facilità e - quando non era posto in soggezione dalla presenza di persone di qualità, di studi, d’ingegno anche con molta efficacia. Ma in presenza di gente colta più di lui, la sua modestia, il sentimento della propria inferiorità, la coscienza della propria ignoranza, lo facevano timido ed impacciato.

Cordiale, leale, compassionevole, soccorrevole, generoso, fin troppo, fin quasi alla prodigalità, ora amico delle liete brigate, dei ritrovi numerosi, delle merende, delle cene e alquanto dedito al vino.

Mai senti, o mai, almeno, dimostrò di sentire né orgoglio, né ambizione: uomo alla mano, affabile, ingenuo, primitivo, un po’ rozzo ne’ modi, fu sempre di grandissima buona fede, credulo oltre misura, e accessibilissimo quindi all’influenza che riuscivano ad esercitar su di esso coloro che no sapevano più di lui, e che conoscessero l’arte di pervenire - ciò che era assai agevole - a inspirargli fiducia e ad acquistarsi la sua benevolenza.

[p. 77 modifica]Fin da giovinetto dimostrò inclinazione alla poesia: onde lesse la Gerusalemme del Tasso e quasi tutti i Drammi del Metastasio, e poi, alla bettola, cominciò, di buon’ora, a improvisare, sopra un argomento dato, ottave - i cui versi spesso non ornavano - in contesa con qualche altro improvvisatore che, a quello stesso argomento, rimbeccava ottave, non meno sconclusionate e degne di un Parnasso che aveva sede nell’osteria di Francesco Mattei a piazza di Spagna, o in quella del Fornaio a via di Ripetta.

Insomma, tenuto conto di tutto, Angelo Brunetti fu piccolo di mente, ma grandissimo di animo, e adorno di una virtù comune, a que’ tempi, a molti altri, ma che pochi, anche allora, possedettero all’alto grado in cui la possedette lui: la virtù del disinteresse e dell’abnegazione; Ciceruacchio ebbe un cuore vergine, suscettibile di ogni entusiasmo, capace di qualunque sacrificio.

Del resto attivo, laboriosissimo, e negli affari molto avveduto, egli potè presto allargare la cerchia delle sue operazioni: a trenti anni, allorché condusse in moglie una buona e graziosa popolana, dello stesso suo rione, Annetta Cimarra33, con quel po’ di dote che gli recò la sposa, e coi suoi primi risparmi, potè acquistare altri due cavalli e altri due carretti, ed estendere la sua industria. Indi a poco principiò ad alternare il trasporto del vino con quello dei cereali e del fieno; poscia accrebbe il numero dei suoi veicoli; cominciò a negoziare direttamente e per conto suo e in vino, e in frumento, e in paglia, e in fieno, e, prosperando ogni di più le cose sue, fra il ’28 ed il ’30 acquistò larghe clientele di forniture di privati e di luoghi pii, e fra questi notevole fu quella dell’arci-ospedale di Santo Spirito.

Noterò qui un tratto che dimostra tutta la scrupolosa rigidezza di quell’anima onesta. Nell’agosto del 1840 egli inviò istanza al commendatore dell’arci-ospedale suddetto, monsignor Cioja, per ottenere la nomina di carrettiere pel trasporto dei vini occorrenti a quel grande Istituto. Ebbene, per non ledere i diritti di colui che in quel momento esercitava quell’ufficio, nella domanda - che esiste ancora nell’archivio dell’ospedale stesso - scrisse [p. 78 modifica]che «intendendo però di non fare alcun danno all’attuale carrettiere Antonio Casardi e volendo Vostra Eccellenza contentare il ricorrente gli potrebbe conferire la coadiutoria per quando verrà a mancare il suddetto Codardi, assicurandola che si presterà con tutta la sollecitudine ed onoratezza che si richiede nei suddetti carreggi«34.

Cosi Angelo Brunetti cominciò a farsi agiato e quasi ricco, onde, e per essere giudice e pacificatore di molte contese fra popolani, e per essere a tutti largo di aiuti e di affetto, e per esser sollazzevole e compagnone, e poeta estemporaneo, e coraggioso all’uopo e manesco, vide a poco a poco crescere il suo ascendente sulla plebe romana e la popolarità e l’autorità sua nei rioni Monti, Regola e Trastevere, nei quali aveva stabilito larghe attinenze e fitta rete di caldi e devoti amici.

Ma, intanto che in tal guisa egli provvedeva all’incremento della sua privata fortuna, non trascurava la politica, verso la quale lo traevano quella sua mente vivace e fantasiosa e il suo cuore, esuberante di entusiasmi e di affetti, e gli insegnamenti che in lui andavano insinuando il dottor Pietro Sterbini e il prof. Felice Scifoni.

Non c’è mezzo di stabilire con sicurezza il tempo preciso la cui egli fu ascritto alla Carboneria, affiliato alla Vendita di Trastevere: forse fra il 1827 o il 1828: ad ogni modo è certo che nel 1830 Ciceruacchio apparteneva a quella sètta35.

Là egli probabilmente conobbe anche il dottor Mattia Montecchi, dal quale, appena istituita a Roma la succursale della Giovine Italia nel 1833, a quella fu ascritto.

Certo è che, nel 1837, nella invasione del colera, morbo che rapì, nella sola Roma, cinquemila quattrocento diciannove cittadini in poco più di due mesi, uccidendone fino a duecentottantasei al giorno, Ciceruacchio si mostrò coraggioso e caritatevole [p. 79 modifica]nel prestar cure e soccorsi agli attaccati dal male, specialmente dei rioni popolari36.

Durante il colera, o poco tempo dopo, pare che fosse tramata una congiura a Roma, per dar fuoco ad alcuni edifizi a fine di attrarre colà le milizie e per tentare, nel frattempo, una insurrezione. Se tale precisamente fosse l’obiettivo della trama non è certo; certo è che trama settaria vi fu e parecchi furono i condannati: Angelo Brunetti fu coinvolto nella congiura e potè uscirne senza condanna a prodigio: però egli fu sottoposto alla vigilanza della polizia37.

Cosi, stimato per la sua probità, amato ed apprezzato assai dai patrioti e dai liberali, sorvegliato dalla polizia, adorato dai carrettieri, dai pescivendoli, dai barcaiuoli, dai facchini e in genere, da tutti gli artieri, il Brunetti giunse ad essere notissimo in Roma col nome di padron Angelo e con quello di Ciceruacchio, e allorché, nel 1846, Pio IX accordò l’amnistia, egli, così ingenuo e così facile all’entusiasmo, divenne, di un subito, e con piena buona fede, e con espansione vivissima e sincera - checchè ne dicano in contrario il D’Amelio, lo Spada, il D'Ideville ed altri - ammiratore sviscerato, adoratore devoto di Pio IX; e tale si mantenne, nonostante i molteplici e crudeli disinganni a cui la politica a partita doppia del Pontefice sottopose il suo entusiasmo e il suo ottimismo fino al 30 aprile del 1849: quando il cannone francese tuonò a porta Angelica e a porta Cavalleggieri, allora soltanto l’ultima illusione e l’ultimo rimasuglio di credulità sgombrò dall’animo del forte popolano, ed egli finalmente maledisse colui che egli considerò come il carnefice della sua patria38.

Perchè poi meglio e più autorevolmente sia lumeggiata, secondo verità, la figura del nobile patriota dal quale, in parte, ^i intitola questo libro, recherò qui alcuni dei tanti ritratti e [p. 80 modifica]dei tanti giudizi messi fuori su quest’uomo così degno della gratitudine e dell’ammirazione di quanti credono che sia santo e che debba essere lacrimato il sangue per la patria versato.

Ecco come parla di Ciceruacchio il moderatissimo e valoroso storico Gualterio:

«Allora fece di sè mostra per la prima colta un uomo che poscia in Roma e presso gli estranei diventò celebre, ed ebbe nome di capo e quasi di Gracco della romana plebe, mentre altro non era in verità che docile e passivo istrumento in mano di accorti agitatori. Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, uorm di rozzi e semplici costumi, di franche maniere, in credito di onesto presso il popolo, agiato commerciante di vini, e quindi centro di popolari ritrovi, fu quelli che sorse d’un tratto quasi a dominare quelle masse inerti, a condurle a suo bell’agio, e ad inspirarne e a riscaldarne le volontà»39.

E il La Farina scrive dal canto suo: «... negli ordinamenti e apparecchi di queste feste popolari - allude a quelle dell’otto settembre 1840 - acquistò rinomanza Angelo Brunetti, soprannominato Ciceruacchio, uomo semplice, ardito, fiero, generoso, vero tipo del popolano romano; viveva con qualche agiatezza, frutto dei suoi lavori e dei suoi umili traffichi; era liberale coi bisognosi, affettuoso e servizievole con tutti; aveva molta clientela ne’ vetturali, bettolieri, vinai, mercantini ed altra gente di simile condizione; lo tenevano in pregio e l’osservavano per l’anima caritatevole, la facilità della loquela, la spontaneità dei canti e la persona grande, complessa, forte ed avvenente. Egli era fra i più caldi ammiratori di Pio IX,» ecc.40.

Il Montanelli, che lo conobbe di persona e l’ebbe caro, così favella di lui:

«Vedevi la mattina sulla piazza di Spagna, colla giaccheiia del popolano, girondolare, per lo più in compagnia di Mattia Montecchi, un uomo sulla cinquantina. Era Ciceruacchio, che avendo bottega giù di lì, dava udienza in piazza a tutti che lo cercassero, A Ciceruacchio non mancava un ette per essere il vero tipo del popolano di Roma: un non so che di altero che [p. 81 modifica]ricorda la maestà dei padroni del mondo: un cuore di Cesare, buon senso squisito, tenacità di propositi, orgoglio di indipendenza individuale.

«Ciceruacchio non si lasciava da alcuno menare per il naso, nè conduceva egli il popolo, coma pastore l’armento. Diceva a coloro che andavano a fargli dei progetti: - Capacitatemi, perchè io non fo nulla senza persuasione. - E dopo che egli era capacitato, chiamava a crocchio i popolani più di credito e cercava di trasfondere in quelli la sua convinzione, nè dava il benestare del popolo, se non. che vinto il partito in comune consulta» 41.

E, sebbene più severo proceda verso Ciceruacchio, anche il Ranalli non può non dipingerlo adorno di certe virtù che l’ottimo popolano in alto grado realmente possedeva:

«.... sempre seguito dalle festeggianti turbe capitanate di ordinario da un cotal Angelo Brunetti, soprannominato Ciceruacchio. Il quale era un rozzo carrettiere, fatto piuttosto ricco per traffichi, e acquistatosi gran favore nel minuto popolo, ora con benefizi, e più spesso col bere e gozzovigliare nel raddotti. Né di certo coraggio, consueto nella plebe romanesca, era privo: come altresì avea talora istinti generosi che sopra la sua condizione lo innalzavano. Ma lo ingegno aveva grosso, e da essere di leggieri tratto a sconsigliatezze e avventataggini,» ecc.42.

E il Farini:

«. . . . . Angelo Brunetti, conosciuto sotto il nome di Ciceruacchio, il quale già nelle prime dimostrazioni pubbliche erasi reso notevole fra’ popolani, che molti aveva affezionati ed obbligati. Era un uomo semplice, rustico, fiero e generoso ad un tempo, come è il popolano di Romx; travagliativo ed industrioso, aveva folta una tal qual fortuna; soccorrevole e caritativo, aveva acquistato una specie di primato fra gli uomini di sua condizione, condottieri di vetture, bettolieri ed altra minuta genie,» ecc. 43.

[p. 82 modifica]E lo Spada, il quale, non ostante la grandissima onestà sua e il desiderio ben chiaro in lui di essere imparziale, non può vedere e non vede di buon occhio Ciceruacchio, uno dei più po- tenti strumenti della romana rivoluzione, pur tuttavia, dopo essersi affaticato a dimostrare come il Brunetti fosse un vecchio arnese di Carboneria, un furbo, un ingannatore, così è costretto a parlare di lui:

«Bel resto il Ciceruacchio era un uomo più che volgare, di un bell’aspetto, possedeva franche e risolute maniere; e, comecchè agiato abbastanza, stante i suoi negoziati in foraggi e trasporti che con profitto esercitava, passava per essere soccorrevole ai miseri della sua classe, e su di essi per necessità esercitare doveva un ascendente. Ed appunto perchè dominare sapeva i popolani d’indole riottosa e manesca, sapeva assai bene recitare la sua parte nei trambusti, veri o fittizi che fossero, e quale nuovo Menenio Agrippa recavasi a calmare con grossolane parole la plebe concitata e sommossa, e agevole riuscivagli o col discorso, o coll’invito ad una svinazzata di ricomporla nella pristina calma; dopo di che compiacevasi nel ricever le congratulazioni che a lui, come ad un pater patriae, tributavansi, e che il fecer salire in fama di uomo abile e necessario per mantenere la quiete della città ...» 44.

Più leale verso il valoroso popolano si manifesta, tuttochè fervente clericale, il Balleydier, che scrive: «Un uomo del popolo, di cui si è molto parlato, si trovava sempre alla testa delle dimostrazioni. Angelo era il suo nome di battesimo, Brunetti il suo nome di famiglia, Ciceruacchio il suo soprannome. Nato da parenti poveri, che gli avevano lasciato per unica eredità tradizioni d’onore, ed esempi di probità, Ciceruacchio, così chiamato dalla madre per le sue grasse guance, si assuefece di buon’ora alle fatiche dell’operaio, L’uomo robusto rimpiazzò ben presto il fanciullo. Attivo, laborioso, d’una economia senza avarizia, d’una intelligenza limitata, ma sufficiente per i bisogni della sua condizione, Ciceruacchio, dapprima carrettiere, dopo affittò cavalli e divenne in appresso negoziante di vino, di legna e di foraggi. Dotato di tempra [p. 83 modifica]vigorosa, di petto sporgente, di spalle larghe e quadrate, colato, per così dire, tutto d’un pezzo da un’antica stampa, egli possedeva un braccio di ferro. La sua volontà non conosceva ostacoli: gli ostacoli accrescevano la sua volontà. Sensibile e compassionevole egli si compiangeva di proteggere con la sua forza l’altrui debolezza, e di consolare con la sua carità l’altrui miseria45.

Che l’eloquenza naturale, spontanea nella sua forma dialettale, impetuosa e vera, perchè prorompente dal cuore, usata spesso da Ciceruacchio non fosse quale la descrive lo Spada di grossolane parole, lo attesta Antonio Pandullo di Tropea, che lo udì parlare al Circolo popolare, la sera del 2 maggio 1848, per persuadere gli animi concitati dalla pubblicazione dell’allocuzione papale del 29 aprile ad attendere qualche altro giorno per giudicare della validità delle promesse già fatte dal Papa e dai ministri per riparare agli effetti disastrosi dell’allocuzione medesima. «Il benemerito e tanto famoso Ciceruacchio — scrive Pandullo — prese la parola con ben altra eloquenza che con quella dell’arte, l’eloquenza veemente ed istintiva, quella d’un cuor franco e generoso che sente il bene della patria in periglio»46.

Tale era dunque Angelo Brunetti nel momento in cui in Roma cominciarono le feste e i tripudi in onore del pontefice Pio IX; nelle quali «mirabil cosa fu poi e più vera che credibile, come, in tanto universale commovimento d’una città immensa, l’ordine non fosse mai, benchè menomamente turbato»47.

Ma che spontanee fossero e sincere quelle impetuose manifestazioni di gratitudine lo prova il fatto che esse avvennero ugualmente e contemporaneamente in tutte le città dello Stato, non appena l’editto di amnistia vi fu pubblicato48.

[p. 84 modifica]Fin dal 18 luglio a Bologna si adunavano ogni giorno centinaia, di persone all’angolo del Grand’Albergo, ove si fermava il corriere che giungeva da Roma, giacché, avendo il Papa nominato,, fin dal 30 giugno, una Congregazione cardinalizia composta dei cardinali Amat, Bernetti, Gizzi, Lambruschini, Macchi e Mattei, monsignor Corboli-Bussi segretario, con l’incarico di esaminare la opportunità di un’amnistia generale pei reati politici, ed essendo tutto ciò noto al pubblico, l’amnistia era aspettata. Quindi a Bologna dal 18 al 20 la gente si affollò, invano all’arrivo del corriere, ma la mattina del 21 l’aspettazione di quei desiosi fu soddisfatta e allora l’entusiasmo e il tripudio non ebbero limite. Una folla immensa si recò sotto il palazzo dell’arcivescovo cardinale Oppizzoni, per la sua moderazione, temperanza d’idee e bontà d’animo, assai amato dai Bolognesi, ad applaudire Pio IX. Tutta la città fu ad un tratto piena di bandiere, di paraii e di arazzi: agli esemplari dell’editto affisso per le vie erano sovrapposte ghirlande di fiori; le campane delle chiese suonavano tutte a distesa; alla sera una splendida illuminazione irradiò la città; dovunque trasparenti recanti ritratti del Pontefice, epigrafi e brevi poesie a sua lode ed esaltazione.

Notata questa del conte Giovanni Marchetti, amico personale del nuovo Pontefice:

Quante fai sparger lacrime
Di gioia non mendace,
Tanti per te risplendano
Giorni di gioia e pace.

E questa quartina affermava la verità; che moltissime centinaia di persone, incontrandosi ed abbracciandosi per la lieta novella, di gioia, come fanciulli, piangevano 49.

Le feste si protrassero a Bologna per parecchi giorni sempre con uguale entusiasmo e non so spiegarmi come lo Spada [p. 85 modifica]non abbia lamentato questo prolungarsi di tripudi e di acclamazioni e non l’abbia attribuito alle mene tenebrose delle sètte.

Il canonico Golfieri scrisse un inno in lode di Pio IX e dell’amnistia, al quale, il celebre maestro Gioacchino Rossini, adattò la musica del coro dei Bardi, nella sua opera La Donna del Lago, e 200 artisti, accompagnati dalla banda del reggimento svizzero, lo cantarono sopra un gran palco, eretto in piazza San Petronio, la sera del 24 luglio, alla presenza e fra gli applausi di oltre ventimila persone50.

Ud altro inno fu dettato dal dottor Bonetti, e posto in mugica del maestro Magazzari.

La celebre attrice Adelaide Ristori, unitasi con alcuni valenti fllodrammatici, in meno di due giorni, con frequenti prove, allestì, la sera del 22, una rappresentazione al teatro del Corso del vecchio dramma Il Proscritto, destinando le somme incassate a soccorso dei reduci poveri dalle carceri e dall’esilio.

I poeti, i versaiuoli diedero la stura al loro estro, e in pochi giorni Bologna fu inondata di inni, sonetti, canzoni; che il popolo italiano, eccitabile, immaginoso e pieno sempre, nel suo grande complesso, di un istintivo, ma vivo e profondo sentimento artistico, non può e non sa esprimere gioia e dolore senza grande effusione di inni e di poesie, di canti e di melodie.

Tanto poco artificiale era poi l’entusiasmo che, oltre il canonico Golfieri, che scrisse l’inno musicato dal Rossini, anche il padre domenicano Pietro Bandini pubblicava un turgido e arcadico suo Canto profetico, tutto pieno di rombi frugoniani, nel quale non manca qualche buon verso e qualche bel pensiero, e che, ad ogni modo, è caldo di un certo impeto d’affetto.

Le prime tre delle quattro strofe, di cui si compone il Canto profetico del domenicano Bandini, cominciano con la stessa frase, quasi direi con lo stesso ritornello:

   Alza, mi dice Iddio,
Come arpa la tua voce, e suoni questa
Sovra l'inclito, il Pio,
Simile al venticel che april ridesta.

[p. 86 modifica]Cosi dolcemente s’apre la prima strofa; ma nella seconda il domenicano si leva sdegnato e grida:

   Alza, mi dice Iddio,
La voce in suon tremendo e frema questa
Per lo perverso e rio
Come il tuon che risveglia la tempesta.

Nella terza pare che il padre Bandini scenda a miglior consiglio, e prende una via conciliativa:

   Alza, mi dice Iddio
La tua voce qual cetra e suoni questa
Come risuona il rio
Che scorre il pian, la valle e la foresta.

Nel commiato, poi, pare che il padre Bandini - parlando sempre per la bocca dell’Altissimo - dia una sferzatina al passato Governo gregoriano, quando, nella chiusa, canta cosi:

   Ch'io dall'alto emisfero
Guiderò a santa meta il suo pensiero.
Nè paventin mai più nembi e procelle
Sotto il suo regno le innocenti agnelle.

Il qual padre Bandini, una volta preso l’aire, non si ristette a questo primo canto, cui ne fece seguire altri due, uno dei quali comincia cosi:

   Piovetemi in seno rugiade celesti,
La lena affrancate, che il genio si desti
Al canto inusato — sull'ali del ver,
Nel giorno beato — che allegra il pensier.

   Rugiade celesti piovetemi in seno,
Mi ergete la mente dal fango terreno.
Risponda animata — la cetra al desir,
E sorga più grata — la foga del dir.

Pare che le rugiade piovessero, e che la foga del dire sorgesse, non so quanto grata ai gregoriani, perchè proseguendo, il buon padre canta:

   Sia lode al Signore che in mar procelloso
Di Pietro il naviglio soccorse pietoso,
E lieto e sereno — su quel s'adagiò:
Rifulse il baleno — ma il tuon non scoppiò.

   Mancava al timone l'esperto nocchiero,
Ma Iddio lo creava nell'alto pensiero;
Già il fremito tace — del vento e del mar,
Già vede la pace — la calma tornar.

[p. 87 modifica] Se l’eminentissimo cardinale Lambruschini avrà letto questo canto del frate domenicano, non dovrà esserne rimasto molto lusingato.

A proposito: che fosse un mazziniano lui pure, quel frate?!

Me ne nasce più forte il sospetto, quantunque lo Spada non ne parli nella sua storia, leggendo questa quartina del terzo canto, nella quale il padre Bandini mostra di non volersi contentare dell’editto di amnistia e di crederlo arra di maggiori concessioni ai bisogni e ai desideri dei popoli.

   Al fiero scompiglio, o forte, o clemente,
Sarai tu qual argin che frena il torrente,
La speme appagando — che fitta è nei cor
Col dolce comando — di padre e pastor.

A questi tre canti, il domenicano fece seguire una Imitatio davidica, psalmus, in discreta prosa latina, della quale poi diede una Parafrasi in quartine italiane.

Nel Salmo è detto, per esempio, al versetto sesto: «Dominatio eius est rectum iudicium: veritas et misericordia erunt splendor Regni sui», concetto che il frate diluisce, nella sua parafrasi, nella seguente quartina:

   Governati i fedeli saranno
Da quel senno che in lui trasfondesti,
La pietà, la virtude saranno
Del suo regno il più vago splendor.

Entusiasmato il padre Bandini, e non prevedendo di poter recar tanto dispiacere allo Spada, sconvolgendo, con le dimostrazioni popolari, tutto il postumo singolarissimo sistema storico di lui, eccita i popoli agli applausi nel versetto ottavo:

«Surgite cum psalterio et chitara, et vos manu plaudite populi, quoniam Deus magnum sacerdotem Pium mirificavit».

Eccita proprio i popoli ai battimani: non c’è dubbio, colui è un mazziniano!

E a compir l’opera, il padre Bandini dettò quattro epigrafi poste in Bologna, in una delle quali conferma che

a tutelare la chiesa di gesù cristo
savio e prudente nocchiero
della mistica navicella
in tempi difficilissimi
iddio lo eleggeva
o figli della chiesa lodate l’eterno.

[p. 88 modifica]Nè, lodando il perdono concesso da Pio IX, pare che meno proceda implicitamente aspro al passato regime l’abate A. Garelli, bolognese, nel seguente mediocrissimo sonetto, dettato di quei giorni:

   Quando lume del elei splende verace,
E spira carità ne' petti umani,
Cedon l' invide gare e g'ii odi insani,
E si sposano insiem giustizia e pace.

   Allor d'inclite glorie non fellace
Fiamma raccende gl'intelletti sani.
Arbitra allor fra' popoli lontani
Siede concordia ed ogni turbin tace.

   Quante aspre sorti più fan tristo il mondo,
O quanto gaudio i cor move sovrano
Stringon le genti in vincolo più forte.

   Nè il Tebro o il Reno appar meno giocondo
Oggi che Pio trionfo in Vaticano
Ed infrena al suo pie fortuna e morte.

E poichè sono sul favellare del furore apollineo onde furono accesi preti e frati nell’impeto di quel popolare entusiasmo, accennerò a due un po’ gonfi, ma robusti Salmi, pubblicati dall’abate Cesare Contini in Roma per le posteriori feste dell’8 settembre, uno intitolato il Perdono, l’altro il Perdonato. Do un saggio del suo stile, riportando qui i versetti con cui comincia il primo Salmo:

«Una parola d’oro usci dalla bocca del polente; e innanzi a lei frascheggiarono i cedri, che altissimi s’inchioììiano sulle cime del Libano.

«Chi spirò sul labbro quella cara parola, che suonò più mite dell’aura, che molle carezza i roseti di Gerico, e siconò più salda che il vento che crolla i palmeti di Cades?

«L’udirono gli sconsolati e s’allietarono; dopo un lungo singultar doloroso la bocca s’atteggiava al sorriso.

«L'udirono gli sconsigliati, e dissero addio ai sogni e stornarono i piè per sempre dalle vie dell’errore.

«Oh! il potente non s’inganna. Dai colli eterni a lui viene arcana luce nell’intelletto; s’aprono i cieli invocati, e gli piovono nella mente rugiade di consigli».

Il canonico Giovanni Silvestri dettò un distico e una epigrafe in latino, il padre somasco Giuseppe Giacoletti un sonetto, con [p. 89 modifica]la versione in dìstici latini, e il cappellano cantore pontificio Pietro Aranci, sacerdote romano, spifferò pure lui il suo bravo, sebbene brutto, sonetto in occasione della SS. Comunione, esemplarmente ricevuta da cinquantuno amnistiati in Roma nella chiesa di S. Pietro in Vincoli il 4 agosto 1846.

A Bologna le feste, protrattesi per parecchi giorni, si chiusero con la istituzione di una Commissione centrale per raccogliere le offerte che la pietà dei cittadini volesse fare a vantaggio degli amnistiati poveri, e composta del marchese Camillo Pizzardl, presidente; conte Giovanni Massei; canonico Giuseppe Redotti; dott. Andrea Bovi; Marco Minghetti, segretario.

L’editto del perdono fu, con popolare manifestazione, festeggiato a Rimini, e con splendide illuminazioni e col più vivo entusiasmo il 22 luglio a Lugo, a Ravenna, a Faenza, a Ferrara, dove le feste si protrassero molti giorni, e dove, in segno d’esultanza, furono incendiate sulle pubbliche vie quaranta botti ripiene di fascine; e il 24 in molte altre città di Romagna.

In Bagnacavallo alcuni esemplari dell’editto del perdono giunsero la mattina del 21, e l’entusiasmo popolare eruppe in un istante: alla sera la popolazione, con faci accese, percorse plaudente le vie della città. E siccome, nell’autunno antecedente, era stato, in quel teatro, rappresentato l’Ernani del Verdi, e aveva destato un vero fanatismo in quella cittadinanza, così avvenne che, improvvisamente, «quasi per incantesimo, ed evocato da un’amorosa e filiale inspirazione si alzasse armonioso canto: era l’inno di lode che in quel dramma i cospiratori d’Aquisgrana innalzavano perdonati a Carlo V, se non che a questo nome sostituivasi quello del clementissimo Nono Pio.

   Sia lode eterna — - o Pio al tuo nome
Tu re clemente — tu giusto e pio
Perchè l’offesa — copri d’oblio
Perchè perdoni — agli offensor.

   Il lauro augusto — sulle tue chiome
Acquista insolito — nuovo fulgor
A Pio Nono — sia gloria o onor!

«Canto improvvisato, non istudiaio, non preparato, ma tale che a queste ultima frasi: a pio nono - sia gloria e onor! costringeva ciascuno a fragoroso applauso
· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

[p. 90 modifica]«Tutte le vie, le piazze, le chiese, i pubblici edifizi, i palagi e le case furono illuminale a modo, che pareva la notte convertita in giorno»51.

Per tre giorni consecutivi festeggiò l’amnistia la cittadinanza di Pesaro: e grandi feste furono fatte a Senigallia, Fano, Urbania, Iesi, Fabriano, Recanati, Osimo e Sanginesio; por tre giorni consecutivi durarono le pubbliche esultanze a Macerata e ad Ancona; infine non vi fu comune o paesello delle Romagne e delle Marche dove non si facessero palesi l’entusiasmo e la gratitudine delle popolazioni per il pontefice Pio IX.

Nè meno spontanei ed espansivi furono i festeggiamenti nelle citta dell’Umbria, avvenuti a Narni il 19, a Todi il 20, a Perugia il 21 e 22, ad Assisi il, 22, a Foligno e a Gubbio il 24, a Terni il 25, a Spello il 29.

Dovunque le magistrature comunali e le civili ed ecclesiastiche autorità partecipavano alle popolari manifestazioni; non già che da per tutto i delegati, i governatori, i legati e i vescovi vi prendessero parte con leale giubilo dell’animo; ma quelli fra essi che erano, nel chiuso animo, ostili al decreto del perdono, v’erano tratti a forza dalla foga del popolare entusiasmo. E se non mancarono uomini, fanatici del passato sistema di reggimento, come il cardinale Vannicelli-Casoni, legato di Bologna, il cardinale Della Genga, legato di Urbino e Pesaro, monsignor Rossi, delegato di Ancona, e il cardinale Patrizi, vicario di Roma, i quali non si curarono di celare la loro avversione all’amnistia, anzi fecero atti palesi di ostilità contro di essa52, non mancarono pure eminenti personaggi ecclesiastici, i quali manifestassero la loro piena approvazione e il loro plauso per il prudente e avveduto editto del perdono, e fra questi si segnalaroìio il cardinale Oppizzoni, arcivescovo di Bologna; il cardinale Cadolini, arcivescovo di Ferrara; monsignor Giuseppe Pecci, vescovo di Gubbio, e il padre Gioacchino Ventura ex-generale dell’ordino dei Teatini53.

[p. 91 modifica]La lettera pastorale di monsignor Pecci54, in data 24 luglio, era un vero inno di lode al Pontefice che aveva largito il perdono, e nel quale egli riconosce «l’uomo mandato da Dio a dar principio ad una nuova èra di pace, di concordia, di armonia universale. Figli tutti del medesimo padre Iddio, che è in cielo, I eccoci anche tutti fratelli amorevoli, mercè la clemenza di un padre in terra, che di tutti riunisce i acori e le anime. Il perdono accordato da Pio IX non è un bene particolare pei compromessi politici, è un bene universale. Chi non ne gioisce, figlio si mostrerebbe degenere di un tanto padre. Pio IX col proclamato perdono ha dato fine a tutte le differenze di partiti, di opinioni, di tendenze, come Gesù Cristo colla sua carità predominante nel Vangelo riconciliò a sè tutti i cuori, tutti i geni, tulle le generazioni dell’universo». E, dopo aver continuato nelle laudi e nell’esultanza, finisce ordinando che «alle pubbliche testimonianze di gioia per sì fausto avvenimento non siavi alcuno de’ luoghi e persone da noi dipendenti che non vi prenda la sua parte»55.

Monsignor Giuseppe Pecci doveva essere un settario anche lui, dal momento che, come un Gajani o un Ciceruacchio qualunque, organizzava dimostrazioni popolari in onore di Pio IX, e mi meraviglio forte che lo Spada, al quale quella pastorale non doveva essere ignota, non lo abbia addirittura messo a fascio con quegli altri.

Il 26 luglio si riunì in Roma l’Accademia Tiberina a celebrare, con prose e versi, l’elevazione di Pio IX al pontificato e la clemenza che gli era di guida nell’accordare benignamente, ai condannati per reato politico, il perdono. A questa tornata intervenne la celebrata improvvisatrice Rosa Taddei, la quale declamò ventiquattro terzine, probabilmente non soltanto non improvvisate, ma meditate, e che, dato l’ambiente retorico del tempo e il carattere della poesia in voga, non mancano di una certa grazia e di una tal quale espertezza nel magistero di tornire il verso [p. 92 modifica]e di far sembrare spontanea la rima. Le terzine si intitolano La virtù del perdono e cominciano così:

   Mesti gioite, non più duol nè affanni;
Ogreri tutto per voi cangria d'aspetto;
Dio spedì l'uomo e si chiamò Giovanni;

   E la Vergin clemente al fonte eletto
Lo guardò, gli sorrise e aggiunse a quello
Anche il dolce suo nome e benedetto. —

   Oggi è surto di cose ordin novello:
Amor di prence e di popoli amore
Il diadema di Pio faran più ballo. —

e, dopo lungo divagare sulla clemenza, sul perdono e sui loro effetti, chiude:

   Dio di bontà! Deh serba alla tua Chiesa
Il Pastor che al Vangelo appien rispose,
E raduna all'ovil la greggia illesa.

   Strinse il vincastro e lo copri di rose;
E come è buon pastor, sarà nocchiero,
E fra l'onde mugghianti e tempestose

   La nave in porto guiderà di Piero.

Da Napoli il 23 luglio inviava «alla Santità di Pio IX, padre amorosissirno dei suoi sudditi» un’ode, dato lo stile e il tempo, non spregevole di certo, il più umile dei fedeli - Cesare Malpica. Noterò qui cinque delle venti strofe onde si compone l’inno, perchè il lettore possa formarsi un criterio esatto dei sentimenti, dei pensieri e dello stile di questo, un po’ mistico e un po’ fatidico, signor Malpica:

   Salve! — A questa età che pende
Tra l'errore e la ragione,
Che delira e il giusto offende,
Che nel falso il ben ripone,
Che ora vile ed ora ardita
Ha la dritta via smarrita,
Che distrugge, urta, scompone
E crear non può nè sa . . .

   Or tu mostri il vero Lume
Che salvar sol può la terra?
La superbia che presume
Il furor che cieco aberra.
Vince l'umile Parola
Della santa e pura Scuola
Che fu invitta e che rinserra
Il trionfo che verrà.

[p. 93 modifica] Dopo avere ancora filosofato sulla luminosa stella del Vangelo e dopo aver narrato l’opera caritatevole di Pio IX e gli osanna dei popoli entusiasmati» il poeta prosegue, descrivendo Roma letificata e ravvivata dal Pontefice:

   Padre Eccelso! Oh quanta luce,
Ch'ogni spirto fa sicuro,
Quanta fede nel suo Duce,
Quanta speme nel futuro,
Quanta calma nel desire,
Quanta pace nel gioire
Or circonda l'aer puro
Della Santa tua Città!

   Dalle tacite rovine
Di una possa rovesciata,
Palle floride colline
D'una gloria invulnerata.
Dai delubri del Possente
Che fa il sole risplendente.
Dalla polve consacrata
Dal martirio e dal valor.

   Dalle sale che famoso
Fé' del genio la possanza,
Dalle torri maestose,
Dalle moli che le avanza . . .
L'ombre s'alzan di quei forti
Dalla terra al cielo assorti,
E fanao eco all'esultanza
D'ogni mente e d'ogni cor.

Credo di non far cosa ingrata ai lettori riportando qui qualche quartina di una poesia di anonimo tedesco, dettata pel solenne Te Deum cantato nella I. e R. Cappella di Corte a Vienna per la compiuta faustissima elezione di Pio pp. IX P. O. M, il dì 26 giugno 1846, tradotta dal cav. Angelo Maria Ricci, letterato e poeta di grandissima fama a quei dì, troppo lodato allora, oggi troppo dimenticato. Il poeta alemanno ignorava, quando dettava i suoi versi, la pubblicazione dell’editto di amnistia: quindi egli tesse brevemente la storia degli otto Pii, i quali precedettero Gioovanni Maria Mastai sulla cattedra di Pietro; e questa storia tesse con intendimenti parziali e sentimenti di uomo devoto ai principi della Santa Alleanza. Curioso è il giudizio contenuto nella quarta strofa sul dotto umanista Enea Silvio Picolomini, papa col nome di Pio II:

[p. 94 modifica]

   Caro al buon Federigro, i dritti vendica
E de' padri e de' figli il dotto Pio
E vuol che renda ognun quel che è di Cesare
A Cesare, ed a Dio ciò che è di Dio.

E nella sesta così oscuramente parla di Pio IV:

   Vedemmo il Quarto - cui la musa additami —
A Massimilian stender la mano,
Librar Tedesca reda e con lui stringere
Del trono e dell'altar il nodo arcano.

E, quindi, degli altri favellando, prosegue:

   Ma quando al soffio di larvata Furia
Sconobbe il servo audace il padron vero.
Quando il pudore e l'onestà disparvero
Mostrossi il Quinto Pio giusto e severo.

   Ahi! che feroce ambizione i popoli
Poi scompose, e turbò cittadi e lande;
Fra sacrileghi lacci avvinto ed esule
Il Sesto Pio mori libero e grande.

   Assai fu che non giacque in ceppi il Settimo
Pio, che de' tempi suoi sfidò l'orgoglio.
Ligia a Cristo dei Re l'alta vittoria
Serbava al mondo il più vetusto soglio.

   Per poco tempo la tiara triplice
Fu dell'Ottavo Pio data ai disegni;
Ma pur bastogli, onde le genti attonite
Vider che la pietate infiora i regni.

   Ordì la sacra lega indistruttibile
Nodo che non può sciorre arte o sospetto;
Cinse il Prence e il colono un ugual vincolo,
Che la fè de' monarchi in pugno ha stretto.

   Sorvenne il Nono Pio, che in faccia ai secoli
Sol coronar potea tante vicende,
Il cor ne aperse; e il saggio, e l'egro e il povero
Del mondo all'eco a lui mercè ne rende.

   Salve, Signor. — Scienze ed arti avanzano,
E tu come il Levita ogni mal curi.
E se l'orgoglio, od il timor ne separa
L'anel del piscator ci fa securi.

E tutte queste belle cose, compreso l’avanzamento delle scienze e delle arti, nel breve spazio di dieci giorni, tanti quanti ne corrono dalla elezione avvenuta il 16 giugno e il canto del Te Deum intonatosi a Vienna il 26 dello stesso mese!

[p. 95 modifica] Ed ecco la strofa di chiusa:

   Non fia chi rompa il sacro giuro; ed abbiano
Vita, e ville e città pe' santi auspici»
E tu, Padre qual sei, tutti in un popolo
Sul capo di Fernando benedici.

Il poeta viennese apparve gran veggente; perchè di tante belle cose, Tunica che rimase sempre vera, fino all’ultimo, nel ventenne pontificato di Pio IX, fu la benedizione sugli Austriaci.

In onore di Pio IX, a nome dei Bolognesi, Salvatore Muzzi, venuto in fama di grande glottologo e grecista valoroso, dettava una delle più lunghe e delle meno belle fra le sue iscrizioni, e, cangiato in poeta, dettava un inno intitolato: Il Perdono coro popolare ispirato dalle virtù di Pio IX pontefice massimo sovrano augusto clementissimo, che cominciava così:

   Voce augusta deriva dal Trono
E si spande per mille contrade;
Voce santa d'immenso perdono
Di clemenza, d'immensa bontade;
Che gli affanni dannava all' oblio
Che la gioia ne' petti destò.

Viva il senno immortale di Pio
Che un'etade novella segnò.

Il coro si componeva di quattro strofe e ad ognuna seguiva l ritornello:

Viva il senno immortale di Pio, ecc.

Una circostanza notevole è questa, che la corrispondenza da Recanati alla tipografia Ajani, editrice del Ragguaglio storico di quanto è avvenuto in Roma e in tutte le Provincie dello Stato pontificio, ecc., è dettata e sottoscritta da Corrado Politi, il quale fu, poi, ufficiale dei volontari nella successiva guerra del 1848 e, più tardi, rappresentante della provincia di Macerata alla Costituente e uno dei più focosì oratori contro il potere temporale dei Papi e a favore della Repubblica. In quella corrispondenza, tutta piena degli entusiasmi sinceri dell’ingenuo Politi, il quale, in quel momento, trovavasi egli pure, in preda a quello stesso delirio di illusioni, di desideri e di speranze sotto l’impulso irresistibile del quale si trovava il novantotto per cento dei sudditi dello Stato romano, lo scrittore, che non sapeva e non [p. 96 modifica]prevedeva, e non poteva sapere e prevedere, dove la inconciliabilità di Papa e di Principe nella stessa persona avrebbe, fra tre anni, condotto lui stesso e Pio IX, chiudeva la sua corrispondenza sui festeggiamenti di Recanati, con le seguenti parole: «Forse non è sua mercè - allude a Pio IX - se l’atto del 16 luglio ha avanzato di centi anni la civiltà delle sue Provincie e del suo Stato, che vede ogni giorno ravvivarsi, la speranza di istituzioni benefiche della istruzione, della religione e del commercio, che. sono la triplice pietra per cui sorge l’edificio del benessere dei popoli?»

Ma fra i tanti poeti che inneggiarono al nuovo Pontefice, non perchè Pontefice soltanto, ma perchè Pontefice riformatore, non possono non essere notati due letterati, illustri molto a quei tempo, il cav. Dionigi Strocchi, faentino, e il prof. Antonio Mezzanotte, perugino.

Lo Strocchi, oltre all’aver dettata una epigrafe, da essere scolpita in marmo, a celebrar l’amnistia, nella sua Faenza, diede fuori anche un’ottava, la quale, se era molto libera nei sentimenti, non era composta degli otto migliori versi usciti, fin lì, dalla penna dell’autore. Eccola; ne potranno giudicare i lettori:

Del Re dei Regi immagine vivace
Fulgida speme alla discordia nostra.
Or tua mercè succede Iri di pace
Al bollor cieco di fraterna giostra;
Adempia altri desir Tempo seguace;
Di libero voler gli effetti mostra;
E ponendo confine ai casi amari
L'orbe di Te meravigliando impari.

Tutta molle di arcadiche rugiade procede, invece, l’ode del professor Mezzanotte, il quale aveva già cantato l’amnistia nel 1838, largita alle popolazioni Lombardo-Venete dal nuovo imperatore Ferdinando e che grida:

   Or del Tebro appo le ondisene
Rive assiso, in suon più lieto
Di dolcezza inenarrabile
Questa or io voce ripeto:
Che Dio stesso ogrgi perdona,
Se perdon da Pio si dona
Che somiglia al sommo sol.

[p. 97 modifica]

   Inni a Pio! Tutte ne esultano
Del cristiano orbe le pronti:
Vede Italia in luce insolita
Rider suoi campi fiorenti:
Roma alfln dai sette colli
Di gioioso pianto molli
Le pupille innalza al ciel.

Dopo avere descritte le lagrime delle madri e delle spose dei prigionieri ed esuli politici e le gioie e le letizie del ritorno gli sventurati fra le braccia dei loro cari, il prof. Mezzanotte audacemente afferma che il perdono non è che l’inizio dei benefizi del pontificato di Pio IX e non si contenta di affermare sulle generali, ma partitamente indica le riforme che il nuovo Papa debbo introdurre nell’amministrazione dello Stato, e che suoi sudditi attendono da lui:


   Roma, e Felsina, e la dorica
Lungo il mar sublime Ancona,
E Perugia, e il bel Pisauro,
Che son gemme a la corona
Onde adorne in vivo lume
Fe' di Pio la fronte il Nume
Ne l'arcano suo voler;

   Iterando plausi, adorano
A l'eccelsa maestate
Del Gerarca, e Sir mitissimo
Ch'or di sè le fa beate,
E di Lui speran bramose
Vie più bello ordin di cose
Da l'onnipote saver.

· · · · · · · · · · · · ·

   Deh! si come già si schiudono
D'ordin tuo ferrei sentieri,
Più navigli Tonde corrano
Rapidissimi e leggieri
Per vapor che gli sospinge,
Onde grado ultimo attinge
Or l'accorto umano ardir.

   Splenderà così più florido
Il Commercio, e in vuote vene
Vital sangue fia ricircoli,
Di conforto unica spene;
E non più Cerere a noi
E Lièo con Palo i suoi
Doni indarno largiran.

[p. 98 modifica]

   Deh; nel fôro serbi Temide
Più solenni e rito e forma
E più rette ella da provvide
Leggi or s'abbia ed arte e norma;
Così il dardo della pena
Su le colpe che essa infrena
Scenderà da un'equa man.

   De la plebe anco più ignobile
Sia men rude il cuor, l'ingegno,
E d'uscir d'umana origine
Così mostri aperto segno;
Non di giuste opre leggiadre,
Ignoranza è sol rea madre
D'ogni colpa la più vil.

Cosi questo poeta, non soltanto non si accontenta della sola amnistia, ma vuole una serie complessa di riforme nelle comunicazioni nazionali e internazionali, nei commerci, nelle leggi civili e penali, nell’istruzione e nella educazione popolare.

Ma a cantare le lodi di Pio IX, ad applaudire il suo editto del perdono, ad eccitarlo a proseguire sulla via delle riforme e del progresso non si levavan soltanto vescovi e frati, accademici ed arcadi, scienziati e professori, ma dal seno stesso delle plaudenti popolazioni uscivano valorosi giovani della borghesia, quali il dottor Pietro Guerrini, il dottor Giuseppe Checchetelli, romani ambidue, il dottor Pietro Sterbini di Vico nel Lazio, il dottor Filippo Meucci di Santo Polo dei Cavalieri, il dottor Luigi Masi di Perugia, e anche dalle file della plebe il poeta dialettale Giuseppe Benai e uno spontaneo dicitore in rima, Giuseppe Rosi nativo di Ussito di Visso, circondario di Camerino, celebrato e notissimo a quei dì sotto il nome di Poeta pastore, perchè pastore realmente egli era, conducendo le mandrie dall’Appennino a pascolare nelle praterie della campagna romana.

Il dottor Pietro Guerrini era nato a Roma nel 1821. A Roma aveva iniziato i suoi studi, che andò poi a compire nella università di Bologna, ove si addottorò in legge, e dove il suo animo ardente di affetto per la patria ebbe nutrimento di insegnamenti rivoluzionari, onde ben presto fu ascritto alle file della Giovine Italia, nelle quali rimase fido e operosissimo sino alla morte di Gregorio XVI, nella fratellanza di Roma.

[p. 99 modifica]Egli frequentava il caffè delle Belle Arti, dove non gli riesciva dì frenar sempre i pensieri che gli turbinavano nella testa; onde era dalla papale polizia rigorosamente invigilato, di guisa che nel 1845 fu arrestato e processato come settario: ma seppe così bene schermirsi dalle accuse che, dopo qualche mese, fu prosciolto dal carcere per mancanza di prove del reato imputatogli. Dotato d’ingegno perspicace e pronto, nudrito assiduamente di letture rivoluzionarie, il dottor Pietro Guerrini vagheggiava, in cuor suo, una repubblica sullo stampo di quella francese del ’93, della quale, con accesa fantasia, idoleggiava gli eroi. Fin da giovinetto aveva sentito in sé un forte impulso al verseggiare, e, all’apparire dell’editto del perdono, rabbonito verso il papato, se non completamente convertito, fu preso egli pure di entusiasmo per Pio IX, e a lui sciolse inni di laude.

Giuseppe Checchetelli, romano anche esso, era nato nel 1815 a Roma si era laureato in legge. L’ingegno suo, svegliato ed aperto, subi l’influenza dell’Alfieri, e più del Foscolo e del Pellico, e, la innata facilità al verseggiare, volse a tesser tragedie quali il Manfredi, la Congiura dei Baroni, Guisemberga da Spoleto, in cui, sotto la classica e arcadica fraseologia, si sprigionavano, di tanto in tanto, faville di patrio affetto. Credo fermamente, quantunque non ne abbia le prove, che esso pure fosse ascritto alla Giovine Italia: certo egli allora repubblicaneggiava un po’ per convincimenti, un po’ per studiato desiderio di seguire la voga; fu gagliardo polemista, uno dei fondatori e, per oltre un anno, direttore del giornale la Pallade, e, allora, non dava alcuna ragione di sospettare in lui il futuro deputato moderatissimo di destra alle assemblee legislative italiane dal decennio 1864-1874. Frattanto nel 1846 anche la musa del Checchetelli pagò il suo tributo di lodi a Pio IX.

Il dottor Filippo Meucci vide la luce in Santo Polo dei Cavalieri, circondario di Roma, nel 1805. Inviato nel seminario di Tivoli dai parenti, che si auguravano di fare di lui un canonico o almeno un cappellano, egli vi si segnalò negli studi delle umane lettere per singolare svegliatezza d’ingegno, per un gusto fine e delicato, e per una grande attitudine a poetare con sufficiente grazia ed eleganza. Con tali tendenze del giovine, il canonicato vagheggiato dai parenti si dileguò, e il Meucci fu inviato a [p. 100 modifica]Roma a studiare legge: ma egli, innamorato degli studi storici, artistici e letterari, in questi si infervorò e persevero, onde venne presto in fama, fra tutti coloro che lo conoscevano, dì elegante ed efficace scrittore di prose e di poesie. Era di animo dolce e mite, e costumato uomo e dabbene e virtuosissimo. Non so con certezza se egli fosse aggregato, a qualche sètta prima della elezione di Pio IX. Certo è che di vivo amore per l’Italia è per la sua redenzione aveva l’animo acceso, e che, poco a poco, dalla inesorabile marea degli avvenimenti fu tratto, entusiasta come era, a sostenere e difendere la repubblica. Mentre inneggiava a Pio IX, entrò nel giornalismo, e, insieme col Ghecchetelli e con il Teodorani, fu uno dei più ferventi e assidui collaboratori della Pallade e, negli ultimi mesi di esistenza di quel giornale ne fu anche direttore; esulò poi all’entrar dei Francesi e tenne altissimo nell’esilio l’onore del nome romano.

Pietro Sterbini, nato in Vico del Lazio, nel circondario di Frosinone, nel 1798, fu da natura dotato d’ingegno vivo ed acuto, di fervida fantasia, di animo torbido, irrequieto, ambizioso, forse generoso, di indole impressionevole e mutabile, non nei convincimenti, in cui fu saldo, ma negli avvenimenti quotidiani, e nel cercare e cogliere le opportunità per conseguire i fini che si era proposto. Avviato agli studi, vi si fece presto segnalare, e, compito il corso di medicina nella romana università, si die ad esercitare l’arte salutare, frammettendo alle cure mediche, l’assiduità sua alle cospirazioni carbonare e a dettare numerose e pregevoli poesie.

Ricordo ancora un suo canto, intitolato: L’ultimo giorno di Gerusalemme, che io lessi giovinetto e che - dato lo stile retorico e reboante in voga a quei tempi - era bello, robusto, pieno di immagini vigorose e colorite con molta efficacia. Quel canto merita, a giudizio mio, di essere riportato qui per intero, anche perchè i lettori possano formarsi uii’idea dello stile e dell’uomo:

L'ULTIMO GIORNO DI GERUSALEMME

ODE.

   Dell’ultimo sole coi raggi nascenti,
Fra tristi presagi, sui merli cadenti
incerto, sparuto, l’ebreo s’affacciò.

[p. 101 modifica]

Lo siegue dei vecchi il pianto, il dolore.
Lo siegue il lamento del figlio, che muore
In seno alla madre, che ieri spirò.

   Serrate nell’armi, saliti gli arcioni
Si muovon le altere romane legioni,
Secure segruendo dell’aquila il vol.
Risuonano intorno percosse le valli
Dall’urto» dall’onda di fanti e cavalli,
Si avanzano, e immense ingombran il suol.

   Oh nuova tenzone crudele tremenda!
U’ vengono in guerra con varia vicenda
L’audacia dei vinti, de’ forti il valor.
Combatton per quelli la rabbia, la fame,
Per questi di (gloria le fervide brame.
Gli sdegni imprecati d’un Dio punitor.

   Sionne ruina, si compie sua sorte.
Pei Fori, pei trivii passeggia la morte,
Penetra i sepolcri, profana l’altar.
Iniqui che schermo del Tempio vi fate,
Al sangue del giusto iniqui pensate,
Poi l’ira del Padre venite a placar.

   Addoppia, o Levita, i lunghi ululati,
Il sangue di agnelli sull’ara svenati
Il ferro di Roma ai tuo mescerà:
È falco rapace che stassi in vedetta
Di un Nume sdegnato l’orribil vendetta:
Ei scende, e il nemico più scampo non ha.

   Beate! felici! le madri, le spose
Fra immensi martiri, fra angosce affannose.
Dai lunghi digiuni condotte a morir.
Beata! felice la sterile odiata!
Felice la madre, che tolse affamata
Le carni del figlio sé stessa a nutrir!

   Le mura crollanti, le fiamme stridenti.
La gioia dei forti, dei vinti i lamenti,
L’inutile rabbia, il vano pregar,
Al pianto, all’addio gli schiavi tornanti,
Le torri, i palagi, cadute, fumanti
Di un Dio la vendetta a Tito annunziar.

   Un giorno vantavi, superba Sionne,
Le salde del Tempio eccelse colonne.
Pili il Tempio di Dio, tuo vanto non è.
Infranti i Cherùbi, l’altare disfatto.
In cener conversa è l’arca del patto,
Spezzata la legge donata a Mosè.

   Lasciate la tombe, Veggenti di Giuda:
La putta sfcciata, Sionne la cruda.
Che perfida i cento Profeti svenò,
Or vede l’orrenda bestemmia avverata.
Con che de’ suoi ladri la stirpe esecrata
Il sangue di un Dio sui figli chiamò.

[p. 102 modifica]

   La reggia, l’altare perquote quel Dio,
Che g’iusto nell’ira, in preda all’oblio
E sabbati, e feste per sempre darà.
Pei trivi fangosi, in lacero ammanto,
Invano a chi passa mostrando il suo pianto,
Le scarne sue mani Sionne alzerà.

   Ai padri insepolti nè un pianto, nè un’urna,
Ma lupo montano, ma cagna notturna
Gli avanzi dei corvi verranno a rapir.
E i figli lontani dal patrio terreno
Col pianto, sull’urne dei padri nemmeno
Il pane de’ schiavi potranno condir.

Anche nella sua tragedia La Vestale, quantunque classicamente convenzionale, vi sono, qua e là, frammenti di robusta poesia.

Coinvolto nella cospirazione, in cui si era preparata la sommossa a Roma il 12 febbraio 1831, Pietro Sterbini riusci a sottrarsi a tempo alle persecuzioni della polizia e a rifugiarsi prima a Parigi poscia a Marsiglia, ove egli conobbe Mazzini, e dove fissò la sua dimora, un po’ esercitandovi la medicina e un po’ cospirandovi ed agitandovisi, come richiedeva la sua irrequieta natura. Assorbente, invadente, desideroso di primeggiare, egli si procacciò qualche ammiratore e parecchi nemici, che non tralasciarono di proseguirlo del loro odio e delle loro diffamazioni. Onde fu accusato di aver tenute pratiche segrete coi ministri del Borbone e di avere a quelli denunciate alcune trame della Giovine Italia ai danni del Governo napoletano56.

Il Gualterio afferma che, appena salito al trono Pio IX, lo Sterbini facesse indirizzare da’ suoi amici di Roma vive istanze al nuovo Pontefice perchè gli volesse accordare il perdono57. Ed è probabile che ciò sia vero. Ad ogni modo è certo che eglL tornò subito a Roma, vi riallacciò le vecchie e vi strinse nuove amicizie, si agitò, al solito, col pensiero, con la parola, con l’azione sempre turbolento e sempre con operosità febbrile ed instancabile lena. E certo è altresì che, in prosa e in poesia, egli lodò specialmente nei primi mesi, con sincero entusiasmo, Pio IX.

[p. 103 modifica]Il dottor Luigi Masi, nato a Petrignano, presso Perugia, nel 1814, e al quale natura aveva largito prontissimo l’ingegno, vivace la fantasia, facile ed efficace la loquela, compiti i primi studi a Perugia, venne a Roma ad apprendere medicina nella università romana, ove fu laureato nel 1840. Entrò in dimestichezza col principe Carlo Luciano Bonaparte di Canino, e ne divenne il segretario. Si unì con impeto di calda ammirazione ai laudatori del nuovo Pontefice, cui, nei ritrovi, nei comizi, nei banchetti, andava dedicando le fiorite e vivaci sue improvvisazioni.

Giuseppe Benai ebbe i natali in Roma nel dicembre 1817. Uscito di popolana e povera famiglia, non potè neppur compire il corso degli studi; che, di buon’ora, dovette procacciarsi una occupazione come computista, la quale gli desse i mezzi di sussistenza. Era alto, snello e assai magro della persona, il volto a linee regolari, gli occhi vivi e intelligenti. Era uomo franco e risentito, leale, un po’ ruvido, gioviale, motteggiatore. A contatto di Niccola Carcani e di Mattia Montecchi, fu presto conosciuto per la fermezza dell’animo, per la serietà dei propositi e per l’ardore de’ suoi patriottici sentimenti, e noverato fra gli affratellati della Giovine Italia. Fin dai più teneri suoi anni era trascinato da una naturale tendenza a verseggiare in dialetto.

Innamorato dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, si fece di quelli un modello, e, pur serbando netto ne’ suoi versi il carattere della propria individualità, dava fuori, di tanto in tanto, saporiti sonetti fra le liete brigate di Monticiani, di Regolanti e di Trasteverini e, al suono dei tintinnanti bicchieri, insinuava in quelle anime i principi nuovi di progresso e di libertà.

In quelle riunioni egli conobbe Ciceruacchio, e in quelle riunioni acquistò quella influenza che esercitò poi sempre sopra molti popolani.

Da prima inneggiò sinceramente a Pio IX, poi, mano mano che il prete sopraffaceva in questo il cittadino e il Pontefice cattolico il principe liberale, cominciò a satireggiare i gregoriani e i reazionari, che attorniavano e aggiravano il Pontefice, e fini, poi, col volgersi addosso allo stesso Papa fattosi, da Gaeta, banditor di eccidi e di ruine sulla patria.

[p. 104 modifica]Giuseppe Rosi, nato ad Ussito di Visso, provincia di Macerata, nel 1797 da agiati agricoltori, possessori di mandrie, dopo avere imparato a leggere, a scrivere, a conteggiare, e, dopo che aveva meravigliato i suoi maestri per la grande facilità sua nell’apprendere e per la prontezza e tenacità della sua memoria, fu avviato alla campagna e posto a vigilare gli armenti. E fu là, negli ozi del pascolo, che il giovinetto Rosi, con una larga lettura dei nostri principali poeti e anche di parecchi storici, venne svolgendo le sue naturali facoltà e la vena improvvisatrice: onde, mano mano, le sue poesie, gonfie del retorico turgore allora prevalente, vennero assumendo atteggiamenti quasi artistici, e piacquero immensamente ai volghi che, attoniti, le stavano ad ascoltare, perchè esse avevano un’impronta ingenua di spontaneità, un candore primitivo, una freschezza silvestre che loro derivavano dallo spontaneo impeto lirico del poeta; Il quale, alto della persona, dalle forme gagliarde, dalla maschia e aperta fisonomia, si levò in grido di valoroso, e fu notissimo sotto il nome di Poeta pastore fra le popolazioni dell’Umbria e del Lazio.

Anche il Rosi nel 1831 si trovava ascritto alla Carboneria; anch’egli fu annoverato fra i seguaci della Giovine Italia, onde, dolce e mite d’indole, benchè saldo di carattere e coraggioso, cominciò a levare a cielo, con le sue ottave e con le sue canzoni, il nuovo Papa, che appariva sulla scena politica in sembianza di iniziatore del patrio risorgimento.

E del resto è chiaro che i Romani, assuefatti alle frenesie reazionarie di Leone XII e alla rigida immobilità e insensibilità di Gregorio XVI, dovessero rimanere stupefatti, e, riavutisi dalla meraviglia, entusiasmati da un papa che, come Pio IX, fin dai primi suoi atti, sembrava l’aspettato, il desiderato, e profetato da Gioberti, messo da Dio alla liberazione e rigenerazione d’Italia. Naturale quindi che tutti, anche gli ostinati ghibellini, anche i repubblicani intransigenti, gridassero, in buona fede, al miracolo.

Perchè il grand’uomo, nella storia, non si fa tanto da sè quanto lo fanno gli altri. Sono le circostanze esteriori, le idee, le aspirazioni, i bisogni morali e materiali, l’ambiente, insomma, di una data età che conferiscono forza, virtù, grandezza all’uomo che sorge, e debbo sorgere, ad effettuare quelle idee, quelle [p. 105 modifica]aspirazioni, a soddisfare quei bisogni. E allora ogni individuo di quella data società, lavorando, inconsapevolmente, col desiderio e con l’immaginazione, presta ed attribuisce a queiruomo qualità che, forse, egli non ha, ma che si ritiene siano indispensabili nel tipo ideale che ciascuno in mente si è formato dell’attuatore di quel progresso o di quella evoluzione del pensiero e della storia umana; allora ogni individuo, in quell’uomo, col desiderio e con l’immaginazione, esagera, (ino alla virtù e alla perfezione, le qualità che quell’uomo possiede soltanto in parte.

Quanto poi e maggiore la coscienza che quell’uomo ha della missione storica che gli ó affidata - il che dipende dal maggiore minore numero delle doti necessarie all’adempimento di quella missione di cui esso è fornito, dalla maggiore o minore estensione, lucidità e comprensività del suo intelletto - e tanto maggiore è l’intuizione della situazione in cui esso si trova e della responsabilità che gli incombe, e tanto è più chiara la visione dei mezzi onde gli è d’uopo usare per raggiungere il fine che egli si propone, e che dalla situazione gli è imposto.

E quanto maggiori sono quella coscienza e quella visione e tanto maggiore e la consapevolezza che quell’uomo, allora, ha di essere il rappresentante della generale opinione, dei generali sentimenti, delle generali aspirazioni.

E allora si comprende quella perfetta rispondenza, quell’equilibrio, quella proporzione di rapporti, fra quella singola coscienza e la coscienza generale, donde scaturiscono le grandi evoluzioni e le grandi figure storiche, e allora appaiono ed operano Mosè, Alessandro, Giulio Cesare, Costantino, Maometto, Carlo Magno, Gregorio VII, il divino Dante, Cromwell, Napoleone; i quali non sono grandi soltanto perciò che ognuno di essi aveva in sè di qualità straordinarie, non sono grandi soltanto per le loro doti interiori e individuali, ma anche per quella gran parte di forza che vien loro dall’ambiente, dal favore, dall’aiuto, dalla fiducia di tutti coloro che li circondano e il cui pensiero e i cui sentimenti si svolgono e si agitano all’unisono coi pensieri e coi sentimenti di quei grandi.

Ecco dunque come e perchè, senza bisogno di ricorrere ai ridicoli amminicoli e alle bizantine e stranissime teorie dello [p. 106 modifica]Spada, Pio IX, per necessità logica e storica delle cose, per le condizioni della coscienza degli Italiani, per le condizioni dell’ ambiente, non italiano soltanto, ma europeo, fu salutato, quando apparve avvolto in quella candida veste di clemenza rigeneratrice, da tutti i liberali d’Europa come l’aspettato, l’invocato, il desiderato, come il missus a Deo che tutti gl’Italiani, da trent’anni, andavano vagheggiando, invocando, carezzando nei loro sogni dolorosi, in mezzo alle ambascio della terribile e detestabile realtà.

Ecco come e perché, razionalmente e naturalmente, ogni italiano prestasse, con la immaginazione innamorata e col febbrile desiderio, a Pio IX qualità che il poveretto non aveva, o ampliasse ed estendesse quelle che in minor proporzione egli possedeva; ecco come e perchè quasi tutti i liberali italiani, inebriati omai dal sogno sublime che si irradiava dalle pagine del libro del Gioberti, aspettassero da lui il miracolo della conciliazione di principii, fin li ritenuti opposti ed inconciliabili; ecco come e perchè, anche senza la propaganda del Montanelli, del Mazzini e del Mamiani, sul principio del pontificato di lui, essendo rimasta nascosta dai veli illusorii delle benevoli concessioni, la stridente contraddizione di quella situazione, Pio IX divenne naturalmente - e doveva divenire - l’idolo delle popolazioni. Le accese fantasie, gli animi innamorati del grande ideale riverberavano i desiderii e le illusioni proprie sulla figura del Pontefice. La quale veniva così avvolta nella nube dorata degli entusiasmi, cresceva a dismisura, assumeva l’aspetto di un fantasma fra l’umano e il divino; e le accese fantasie e gli animi ardenti, dopo averlo creato così grande e dopo averlo quasi divinizzato, aspettavano e pretendevano da quel povero uomo, mediocre d’intelletto, scarso di studii, debole ed esitante dell’animo, rivestito, per giunta, della cappa plumbea tessuta con le lamine dei dogmi cattolici, l’attuazione del grande ideale, aspettavano da lui mirabilia e pretendevano l’impossibile. Ecco dunque, come e perchè, anche senza nessuna cooperazione del Montanelli, del Mazzini e del Mamiani, diventava vero per legge storica ineluttabile ciò che di quel Pontefice, di quell’ambiente e di quella situazione scrisse il Cattaneo - le cui parole ho già riportato e qui giova ripetere - Pio IX fu fatto da altri, e si [p. 107 modifica]disfece da sè58 Pio IX era una favola immaginata per insegnare al popolo una verità; Pio IX era una poesia. Ecco come e perchè diventerà vero ciò che più tardi assai scriverà di lui sagacemente Aurelio Saffi: Il popolo romano e il rimanente degl’Italiani applaudivano in lui il tipo che si erano formati nell’animo. Il papa delle loro speranze e dei loro desidera non esistette mai nella storia»59; e altrove: «Pio IX fu il giuoco della Provvidenza in quella grande e religiosa opera, la quale nè da lui, nè da altra materiale forza di questa terra potrà più essere cancellata dalla memore tradizione del popolo e dai destini dell’avvenire».

Frattanto, per tornare alla narrazione dei fatti avvenuti in quei giorni, anche a Roma si costituiva un Comitato di soccorso a favore degli amnistiati poveri, il giorno 8 agosto il Papa nominava suo segretario di Stato il cardinale Pasquale Gizzi, lodato dal D’Azeglio nel suo libretto Gli ultimi casi di Romagna, e in voce di liberale, e il 22 dello stesso mese nominava una Commissione composta dei monsignori Antonelli, Grassellini, Marini, Roberti e del duca Mario Massimo di Rignano per esaminare i vari progetti presentati per le strade ferrate.

Fra questi progetti primeggiava, per idee democratiche, sebbene in gran parte utopistiche, quello presentato dalla Società presieduta dal principe Cosimo Conti, l’ultimo rampollo di questa antica e illustre famiglia, la quale avea dato undici fra papi e antipapi alla Chiesa di Roma e le cui origini si perdono nel buio del secolo ix. Alla Società Nazionale principe Conti e Compagni, di cui era segretario generale ed apostolo Ottavio Gigli, diedero il concorso del loro nome e della loro adesione e cooperazione le persone più autorevoli di Roma e dello Stato. Nel Comitato promotore figuravano i principi Conti, Corsini, [p. 108 modifica]Simonetti, i marchesi Potenziani, Monaldi, Melchiorri, Antinori, Guiccioli, Albergati, Constabili, Pepoli, Tanari, Bernabò, Bourbon di Sorbelio, Bandini e Benincasa; i conti Borgia, Canestri, Agucchi, Gaddi, Massei, Baglioni-Oddi, Beni, Campello, Morelli, Mastai, Carradori, Sinibaldi, Vinci, e Fiorenzi; gli avvocati Armellini, Silvani, Sereni, Lauri, Recchi, gl’ingegneri Berti-Pichat, Cerroti, Provinciali, Romiti, Ravioli, Martinelli, Lanzoni, Brighenti, Borromei, Brusa, Pallotti, Terlinì, Tosi, Monti, oltre parecchi altri uomini di valore, medici, professori e ricchi capitalisti e banchieri 60.

Tale disegno, col quale s’intendeva a costruire le ferrovie col concorso di capitali nazionali e con l’emissione di azioni di tenuissimo costo e il cui acquisto diveniva accessibile anche agli operai, era strenuamente sostenuto dal giornale l’Artigianello, pubblicazione popolare assai diffusa e dal direttore di esso Ottavio Gigli, romano, uomo dotato di gagliardo ingegno e versato assai negli studi economici.

Il giorno 2 settembre i gesuiti, simulando una gioia, che era, invece, nell’animo loro dispetto ed ira, per l’editto di amnistia, solenizzavano, nell’Archiginnasio romano, dove essi insegnavano, con una suntuosa - l’epiteto è dello Spada - accademia di poesia il sublime atto del perdono sotto il titolo «Il trionfo della Clemenza 61». A quell’accademia assistette il Grandoni, che scrive: «a dir tutto, senza tradire la verità, nei componimenti bene di rado si udì nominare Pio IX; e la clemenza fu in tutti esaltata qual somma virtù: anche le parole amnistia, patria, poche volte s’intesero profferire, ciò che fu da tutti notato, e che argomento a ridire. Spiacque poi sommamente il conteggio di alcuni, i quali, terminata già l’accademia, allorchè gli scolari applaudendo gridarono: Evviva i maestri, modestamente risposero: ma quando si udì una forte voce, che [p. 109 modifica]facea plauso a Pio IX e all’amnistia, a cui fecero eco moltissimi, imposero di tacere perchè erasi in luogo sacro»62.

Ma, frattanto, da oltre un mese, padron Angelo Brunetti, il principe di Canino, il Masi, il Garcani, Giuseppe Antonini, Luigi Paoletti, e molti altri cittadini avevano ordinato un Comitato per celebrare l’amnistia con un arco trionfale da erigersi in piazza del Popolo e sotto il quale doveva passare il Pontefice, il giorno 8 settembre per recarsi alla chiesa sacra a Maria e che sorge in quella piazza, presso la porta Flaminia.

L’arco era una copia esatta o di uguale grandezza di quello di Costantino. La materia adoperata legno, tela, gesso, carta. Lungo tutto il corso furono piantati un migliaio di pali e festoni recanti bandierette bianche e gialle, coronate d’alloro e recanti il motto Viva Pio IX.

Per un mese intero con febbrile attività si attese a preparare quel trionfo, un vero trionfo antico. Ciceruacchio si centuplicò: egli era da per tutto, dirigeva, aiutava, incoraggiava63 con una gioia, con un entusiasmo così vivo, così sincero che soltanto il furore partigiano di anime bugiarde potrebbe revocare in dubbio.

L’arco riusci di un effetto stupendo sotto la direzione dell’architetto romano Felice Cicconetti. Sull’attico sorgeva un gruppo colossale in gesso di tre figure rappresentanti il Pontefice, la Giustizia e la Pace, opera di Carlo Deambrogi milanese, Silvestro Simonetta torinese e Zenone Garrovi del Canton Ticino, tutti pensionati delle Accademie di Milano e di Torino. Ai bassirilievi, nei fianchi del fornice medio, grandeggiavano altre figure quelle dell’Amnistia del romano Francesco Della Longa e l’Udienza pubblica di Angelo Bezzi di Ravenna, il quale fu poi uno dei più fieri repubblicani e implicato nel processo per la uccisione del conte Pellegrino Rossi. «Vedi in quest’opera - scrive il Gigliil papa seduto udire con affetto un figlio genuflesso del popolo, cui la condizione meschina, esposta dall’artista nel corto vestire, non sopprima la voce per impetrar giustizia dal padre comune.

[p. 110 modifica]Il quale accennandogli perchè si sollevi, dichiara abbastanza il grande principio sociale, che al trono di un principe giusto e saggio va Id ragione del suddito sceora d’ogni fallace distinzione di ceto. Orbene da questo soggetto sterile quanto alVarte, muove limpida per ingegno deW artefice una consolazione alla umanità» 64.

Ai bassorilievi dei fornici minori e sui pennacchi del fornice medio e dei minori diedero opera Ferdinando Battelli fiorentino, pensionato dell’Accademia fiorentina, Giuseppe Poli veneziano, pensionato dell’Accademia di Venezia, Fabio Provinciali romano, Antonio Bisetti piemontese, Giuseppe Nuoci e Scipione Ugo romani. Agli stemmi, ai festoni, agli emblemi sacri lavorarono a gara Eusebio Kelli di Carrara, Giuseppe Palombini, Bernardino Galluppi e Giovanni Testa romani 65.

Sull’arco trionfale leggevasi:

onore, gloria
a
PIO IX
cui bastò un giorno
per consolare i sudditi
meravigliare il mondo.

Lungo la via percorsa dal Pontefice dal Quirinale a piazza del Popolo, si leggevano altre epigrafi, tutte inspirate al più grande entusiasmo; tutte le finestre erano coperte di arazzi, di parati, di fiori, di bandiere; cinquantamila persone erano accorse dalla provincia a rendere più calda e affettuosa la festa.

La quale, tanto nell’andata quanto nel ritorno, riusci per Pio IX un vero trionfo, fra le acclamazioni frenetiche incessanti di duecentomila cittadini, esaltati fino al delirio.

Il Papa al ritorno benedisse dalla loggia del Quirinale la folla, festante, che lo aveva accompagnato e che gremiva la vastissima piazza.

La sera una splendida universale illuminazione per tutta la città: a piazza del Popolo furono cantati due cori, uno, breve, parole di Cesare Bordiga, musica del maestro Mancada, l’altro, più [p. 111 modifica]lungo, poesia di Angelo Maria Geva, musica del maestro Moroni.

Le folla di popolo, con fiaccole, concerti musicali e bandiere, trasse nuovamente al Quirinale a chiedere la benedizione papale.

Pio IX apparve sulla loggia, contemplò lungamente quello straordinario, meraviglioso spettacolo, benedisse la folla plaudente e si ritrasse commosso e pensoso, avvegnachè avesse già cominciata ad aleggiare intorno a lui quell’aura susurratrice assidua di insidiose osservazioni e di velenose insinuazioni, suscitatrice perseverante di politici sospetti e di scrupoli religiosi, aura che avvelenava quelle gioie e quei tripudii del debole Pontefice, il quale già, confusamente, presentiva la lotta terribile impegnatasi fra la curia ed il popolo, fra la reggia e la piazza e già, confusamente, intuiva, come egli, avvolto ormai nelle spire di quel vortice, oppresso sotto il peso del duplice ufficio, tirato a destra ed a sinistra, sospinto qua e là, non potrebbe uscire ad ogni modo da quel bivio fatale che rotto, menomato e disfatto.


  1. Storia della rivoluzione romana e della restaurazione del Governo pontificio dal 1º giugno 1846 al 15 luglio 1849, del comm. Giuseppe Spada, Firenze, stabilimento E. Pellas, editore, 1868, tre volumi in 8º
  2. Giuseppe Spada, op. cit., vol. I, Discorso preliminare, pag. 17 e 18.
  3. G. Spada, op. cit., vol. I, Lettera di G. Spada ai suoi concittadini, pag. 33.
  4. Pietro Cossa, Nerone, atto 1, scena II.
  5. Il Grandoni prende equivoco circa la data. L’editto del perdono è in data del 16 luglio 1846, ma fu pubblicato il successivo giorno 17, sul far della sera del quale avvenne la dimostrazione.
  6. Regno temporale di Pio IX, storia compilata da Benedetto Grandoni - anno primo e secondo - Roma, nella tipografia Salviucci, 1848, pag. 12.
          Nell’esemplare che possiedo io, e acquistato da un rivenditore, è scritto in inchiostro, sotto la data: Comprata da D. Lorenzo Imperoli in Roma in detto anno 1848, che se l’avesse creduta da un liberale scritta non certamente l’avrebbe comprata.
  7. Giuseppe Spada, op. cit., vol. I, cap. III, pag. 55 o 56.
  8. Ottavio Gigli, Le feste del popolo romano dal giorno 17. luglio del 1846 al 1° gennaio 1847 in onore dell’amantissimo (sic) sovrano Pio IX dono agli associati all’Artigianello - Roma, tipografia dei Classici sacri, via Felice, n. 121, 1847, pag. 5 e 6.
          Ragguaglio storico di quanto è avvenuto in Roma e in tutte le Provincie dello Stato pontificio in seguito DEL PERDONO, accordato dalla Santità di N. S. Papa Pio IX, Roma, pei tipi di Angelo Ajani, 1846, fascicolo I sono cinque fascicoletti - pag. 3 e seguenti.
          Primordi del glorioso pontificato di pio nono p. o. m. - Pensieri di un cattolico (che è il canonico Bartolomeo Fortunati di Spoleto) sacri al giorno natalizio del principe sapientissimo, Roma, tipografia delle Scienze, 1847, pag. 13 e 14.
  9. O. D’Haussonville, Histoire de la politique extérieure du Gouvernement français 1830-1848 Paris, Michel Levy Frères, libraires-éditeurs, 1850, tom. Ier, pag. 202.
  10. E. Spada, op. e luogo cit., pag. 59.
  11. Giuseppe Montanelli, Memoria sull’Italia specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1849. Torino, Società editrice italiana, 1853, vol. I, cap. XXI, pag. 135.
  12. G. Montanelli, ib. ib., pag. 143 e seg.
  13. The Roman Extle by Guglielmo Gajani, professor of civil canon law, and representative of the people in the year 1849, Boston, 1856, pag. 323.
  14. G. Spada, op. cit., vol. I, cap. III, pag. 55 e 56.
  15. Ragguaglio storico citato, pag. 3 a 4; Ottavio Gigli, opusc. cit, pag. 5 e 6; F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. III, pag. 49 e 50; C. Belviglieri, op. cit., vol. II, lib. XII, pag. 283; Tivaroni, op. cit., tomo II, parte VII, cap. V, pag. 268; E. Poggi, op. cit., vol. II, lib. V, cap. IV, pag. 417 e 418.
  16. Ottavio Gigli, opusc. e pag. citati; Ragguaglio storico, citato a pagina 4.
  17. Ragguaglio storico, cit., pag. 5; G. Spada, op. cit, vol. I, cap. III, pag. 55.
  18. Ragguaglio storico, cit., pag. 4; Ottavio Gigli, opusc. cit., pag. 6.
  19. G. Spada, op. cit., vol. I, cap. III, pag. 55 e 56.
  20. O. D’Haussonville, op. cit., tomo II, § 22, pag. 189 e seg.
  21. Anche il Gualterio, come il lettore vede, cade in equivoco sulla data della dimostrazione, che non il 16 a sera, ma il 17 a sera, avvenne.
  22. F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. III, pag. 49 e seg. Cf. con Rodolphe Rey, op. cit, liv. III, chap. I, pag. 183; e con M. Minghetti, op. cit, vol. I, cap. V, pag. 192.
  23. F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. III, pag. 53; G. La Farina, op. cit., vol. II, lib. III, cap. II, pag. 19; Carlo Rusconi, op. cit., Introduzione, pag. 4; Federico Torre, op. cit., lib. I, pag. 7; C. Belviglieri, op. cit., voi. II, lib. XII, pag. 284; E. Poggi, op. cit., vol. II, lib. V, cap. IV, pag. 419; C. Tivaroni, op. cit., vol. II, parte VII, cap. V, pag. 268.
  24. Giuseppe Spada, vol. I, cap. III, pag. 56; O. Gigli, opusc. cit., pag. 7 e 8; B. Grandoni, op. cit, pag. 13; Ragguaglio storico, cit., pag. 7 e seg.
  25. B. Grandoni, op. cit., anno I, pag. 13 e 14.
  26. Augusto Colombo, Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, cenni biografici, Roma, Capaccini e Ripamonti, editori, 1879, pag. 9 e 10.
  27. Parole del dialetto romanesco, con le quali si indica un bel pezzo di carne di bove, tagliato nelle parti posteriori dell’animale.
  28. Augusto Colombo, op. e luogo citati. Tale origine del soprannome dato al Brunetti mi fu pienamente confermata dal dott Pietro Guerrini, dal cav. Giuseppe Benai e dal colonnello Giacinto Bruzzesi, tre valorosi e onorandi patrioti romani, coetanei ed amicissimi di Angelo Brunetti.
  29. Augusto Colombo, op. cit, pag. 10.
  30. Augusto Colombo, op. cit, pag. 11. Le affermazioni del Colombo trovano piena conferma nella concorde testimonianza del Guerrini, del Bruzzesi e del Benai.
  31. M. D’Azeglio, I miei ricordi, undecima edizione, Firenze, P. Barbèra, editore, 1883, cap. XXII, pag. 304 e 305.
  32. Affermazioni concordi del dott. Mattia Montecchi, del conte Luigi Pianciani, del dott. Pietro Guerrini, del cav. Giuseppe Benai, di Luigi De Luca, del colonnello Giacinto Bruzzesi, del cav. Giulio Buti, i quali tutti ebbero consuetudine, familiarità. ed amicizia con Ciceruacchio.
  33. A. Colombo, op. cit, pag. 11.
  34. A. Colombo, op. cit., pag. 16.
  35. La rivoluzione romana al giudizio degl’imparziali, già citata, lib. I, cap. III, pag. 18, afferma che Ciceruacchio «fin dal 1831 fu notissimo alla sètta de’ Carbonari. . .» Per esservi «notissimo nel 1831» è evidente che ci doveva essere entrato da parecchio tempo prima; Giuseppe Montanelli, op. cit. (vol. II, cap. 30), afferma che, nel 1831, «della fratellanza di Trastevere, Angelo Brunetti, più tardi famoso col nome di Ciceruacchio, fu capo». È evidente, anche qui, che per essere capo nel 1831, il Brunetti doveva necessariamente essere stato ascritto alla Carboneria, almeno almeno, nel 1830.
  36. Carlo Tivaroni, op. cit., vol. II, parte VII, cap. III, 8 4, pag. 236.
  37. La rivoluzione romana ecc., lib. I, cap. III, pag. 19; Antonio Coppi, Annali d’Italia dal 1750; an. 1837, § 13, pag. 350; E. Poggi, op. cit., vol. II, lib. IV, cap. IV, pag. 209.
  38. A. Colombo, op. cit., pag. 71 e seg. Questa devozione ostinata di Ciceruacchio per Pio IX è confermata dalle concordi parole del Montecchi, il Pianciani, del Guerrini, del Benai, del colonnello Angelo Berni, del Bruzzesi e di molti altri contemporanei ed amici del generoso popolano.
  39. F. A. Gualterio, op. cit, vol. V, cap. VI, pag. 95.
  40. G. La Farina, op. cit., voi. II, lib. III, cap. II, pag. 23.
  41. G. Montanelli, op. cit., vol. II, cap. XXX.
  42. Ferdinando Ranalli, Le istorie italiane, già citate, vcl. I, lib. I, pag. 51.
  43. Luigi Carlo Farini, op. cit., lib. II, cap. II, pag. 168.
  44. G. Spada, op. cit., vol. I, cap. V.
  45. A. Balleydier, Storia della rivoluzione romana, Livorno, tip. G. Antonelli, 1851, cap. II, pag. 37 e 38.
  46. A. Pandullo, Fatti ed avvenimenti politici di Roma e di Calabria, di Sicilia e di Napoli, Palermo, 1849, pag. 585.
  47. O. Gigli, op. cit., pag. 11.
  48. Cesare Balbo, Lettere di politica e di letteratura, Firenze, Felice Le Monnier, 1855, dove nelle Lettere politiche al signor D⁂, scritte nel dicembre 1846 a proposito delle dimostrazioni per l’anniversario centenale della cacciata degli Austriaci da Genova, anzi contro le dimostrazioni — sempre con ottimo intendimento di far camminare la storia secondo i preconcetti proprii, - e non come essa deve, di necessità procedere — dice lealmente (a p. 322) «Mi parvero, mi paiono buone ed opportune quelle prime fatte, in Roma e nelle Provincie romane, per l’amnistia. Queste furono spontanee, non preparate, voce di popolo, voce di Dio, ecc.».
  49. Riassumo la descrizione delle feste delle provincia dai cinque volumetti del più volte citato Ragguaglio storico di quanto è avvenuto in Roma e in tutte le Provincie dello Stato pontificio in seguito al perdono accordato, ecc., ecc.; e: Per le feste di Bologna, vedi vol. I. dalla pag. 19 fino alla 48 ed, ultima.
  50. Ragguaglio storico, citato.
  51. Da una lettera di Gian Matteo Annichini, indirizzata ad A. Vasi, di Imola - che fu uno dei condannati pei moti del ’31, o almeno parente del condannato - pubblicata nel III volumetto del più volte citato Ragguaglio storico, ecc., ecc.
  52. Vedi, per tutti, Gualtiero, op. cit., vol. V, cap. III, pag. 56 e seg., e cap. V, pag. 70 e seg.
  53. F. A. Gualtiero, op. cit,, vol. V, cap. IV, pag. 60 e seg.
  54. Fratello dell’attuale pontefice Leone XIII, morto da poco tempo, Cardinale della Chiesa romana.
  55. La pastorale è riferita nel II volumetto del più volte citato Ragguaglio storico da pag. 19 a 21.
  56. La rivoluzione romana al giudizio degl’imparziali, lib. I, cap. XIII, pag. 132 e 133. L’accusa è confermata dal Gualterio, opera cit., vol. V, cap. I, pag. 342 e 343; ma non essendo confortata di alcuna prova non può essere dalia storia accettata come vera.
  57. F. A. Gualterio, ivi.
  58. Dimostrerò, a suo luogo, l’erroneità di questa seconda affermazione dell’illustre lombardo: Pio IX non si disfece da sè, fu disfatto dalla inesorabilità della contraddizione fragrante in cui si dibattè per oltre due anni; fu disfatto dalla logica inflessibile della storia, la quale non poteva consentire e non acconsenti nè la duplicità degli uffici di pontefice cattolico e di principe italiano, di uomo dogmatico e di liberale nella stessa persona, nè la conciliazione di interessi e di diritti in completo antagonismo fra di loro.
  59. Aurelio Saffi, Storia di Roma dal giugno 1846 al 9 febbraio 1849, Firenze, tipografia G. Barbèra 1893, parte I, cap. I, pag. 33 e cap. II, pag. 48.
  60. Vedi Programma Società Nazionale per le Strade Ferrate, Roma, tipografia dei Classici sacri, via Felice, n. 121, 1846. Cf. con il cav. Paolo Provinciali, Breve cenno sulle Linee delle vie Ferrate negli Stati Pontificii, Roma, tipografia dei Classici sacri, 1846; e con Benedetto Blasi Della Strada Ferrata Pia-Cassia, ecc., ecc., Roma, tipografia Contedini, 1846, e con il giornale La Locomotira, direttore Ottavio Gigli, anno I, n. 1, 21 gennaio e n. 2, 28 gennaio 1847, Roma, tipografia de’ Classici sacri.
  61. G. Spada, op. cit., vol. I, capit. IV, pag. 90.
  62. B. Grandoni, op. cit., pag. 18 e 19.
  63. O. Gigli, opusc. cit., pag. 13 e seg.; A. Colombo, op. cit., vol. I, pagina 25; G. Spada, op. cit., vol. I, cap. V, pag. 92 o seg.; B. Grandoni, op. cit, pag. 21.
  64. O. Gigli, opusc. cit., pag. 14.
  65. Ragguaglio storico al volumetto V, pag. 15 e seguenti.