Pagina:Ciceruacchio e Don Pirlone.djvu/156


capitolo terzo 149

 Anch'io fuggii dai Templi
E bestemmiai la Croce,
Perchè la vidi complice
Di codardia feroce;
Perchè in suo nome sparsero
Sangue i Leviti infami,
Perchè in suo nome imposero
A' generosi e grami,
E invan gagliardi, popoli
L'onta d'estranio Re.

 Ma tu salute additala
Agl'Itali frementi,
Ma tu vessil brandiscila
Contro airestranie genti;
E all'ardor dei martiri (sic)
Io tornerò a prostrarmi
Ad oscularla, a stringerla,
E sangue e vita e carmi,
O Redentor Pontefice
Tutto fia sacro a te.

      E qui mi occorre commentare queste strofe per richiamare l’attenzione del lettore sui sentimenti in esse espressi, e che rispecchiano quelli dominanti nell’ambiente italiano di quel tempo, massime dello Stato pontificio, nel quale «il più forte, il più efficace desiderio delle genti culte e liberali era il desiderio della nazionale indipendenza, confessato con lunghi sacrifici, e col sangue, celebrato dagli scrittori, e quasi direi benedetto e sacrato, dacchè il Papa aveva aperte le braccia a tre generazioni d’uomini che per l’indipendenza avevano cospirato, combattuto, sofferto. Si parlava e scriveva di riforme; ma il nome d’Italia andava per le bocche di tutti, il grido d’Italia veniva pur sempre mandato dalle moltitudini festeggianti le riforma ed il principe; desiderate e care erano le riforma non tanto per lo immediato bene che partorivano, quanto come mezzo di concordia fra principe e popolo, e questa concordia era desiderata e studiata siccome mezzo di unione fra gl’italiani principi, e l’unione come mezzo di lega, e la lega come propugnacolo di indipendenza, cioè, a dir tutto chiaro, come mezzo di resistenza intanto ad Austria prepotente per cacciarla poi, Dio aiutante, dal sacro suolo della patria, e finire una volta la più iniqua delle ingiustizie, la dominazione degli stranieri1.


  1. L. C. Farini, op. cit, vol. I, lib. II, cap. III in principio.