La vita militare/Partenza e ritorno. Ricordi del 1866
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PARTENZA E RITORNO.
RICORDI DEL 1866.
Alberto, amico mio, copio qualche pagina dal libro dei tuoi ricordi; non te n’avere a male; se queste pagine non ti faranno onore come letterato, non ti faranno torto sicuramente come soldato e figliuolo. Acconsenti e contentati della mia discrezione, chè se volessi veramente abusare della nostra intimità, potrei pubblicare di te ben altri segreti.
IN CASA.
I.
Perdute le illusioni e le gioie della giovinezza, quando non mi resterà che il conforto di ricordarle, più che ad ogni altro giorno della mia vita ripenserò spesso e lungamente e con sempre viva tenerezza agli ultimi d’aprile e ai primi di maggio del mille ottocento sessantasei.
Io non aveva mai veduto Torino così allegra, così bella. L’imminenza della guerra nazionale da tanti anni aspettata e invocata, aveva risvegliato improvvisamente tutta l’indole generosa e guerriera di quella città. Bastava passare la sera in una delle strade principali, per accorgersi dal brulichìo, dall’atteggiamento insolito della gente, da quei drappelli d’operai, di studenti e di fanciulli, che qualcosa v’era, che qualcosa bolliva nell’animo di quel popolo, che qualche gran fatto era seguito o stava per seguire. Parevan tutte sere di festa.
Eran que’ giorni che, incontrando un soldato, si guarda; e si almanacca sul cavalleggere che traversò la strada con un plico nell’abbottonatura della tunica; e la gente si ferma a veder passare i convogli del treno d’armata; e nelle scuole de’ ragazzi non c’è più modo di tenere un po’ di quiete; e i vecchi ufficiali pensionati parlano ad alta voce nei crocchi dei caffè battendo il pugno sul tavolino; e le madri si fanno pensierose; e i giovanotti diventano pazzi; e le donne si veggono guardate un po’ meno del solito, e cessano un po’ d’intromettersi, come fanno sempre, in tutti i pensieri, in tutti i desiderii, in tutti i disegni; ch’è una fiera tirannide anche quella.
E Torino sentiva quei giorni; essa è la città di quei giorni. La mattina, i viali della piazza d’arme eran pieni di gente; le famiglie, i parenti, gli amici dei soldati della seconda categoria, chiamati da pochi giorni alle armi, la più parte ancora coi loro vestiti: cappelli a cilindro e papaline rosse, eleganti calzoncini chiari e grandi ghette da pastore alpigiano, soprabiti neri e giacchette cenciose, tutti alla pari: bello! Intorno alle caserme un girandolare continuo di mamme co’ fagotti sotto il braccio, un va e vieni di ufficiali e di messi della Divisione e della Piazza, e una folla di curiosi davanti alla porta; dentro, un chiasso assordante. La sera, dietro le fanfare e i tamburini della ritirata, una immensa turba che marciava in cadenza, a schiere di dieci o dodici insieme a braccetto; canti, fischi, grida, che n’echeggiavano tutte le strade d’intorno. Nel punto che la musica e i soldati rientravano in caserma, applausi, evviva, strette di mano, saluti: — a domani! a domani! — Parevan tutti soldati. Là ti sentivo, Piemonte!
II.
Quanto eravamo tutti migliori in quei giorni!
L’aspettazione di quella guerra solenne per cui doveva esser rivendicata la libertà e restituita la patria a un popolo tanto illustre, tanto amato, che aveva tanto patito; il sapere che anche il popolo delle classi più povere capiva, sentiva che quella era una guerra giusta, santa, ch’era necessità e dovere di farla; il vedere que’ poveri giovani della campagna, rozzi, ignari di tutto, venire anch’essi a fare i soldati con tanto buon volere, con tanto buon cuore, e partecipare così presto, se non dell’entusiasmo, dell’allegrezza comune; l’udire che dappertutto seguiva lo stesso, che dappertutto accorrevano ad iscriversi fra i volontari centinaia e centinaia di giovani d’ogni condizione, e che i padri e le madri stesse li accompagnavano, e il popolo li salutava e li benediceva; che in quella meravigliosa unanimità di speranze e di voti si componevano le discordie politiche e non si udiva più che un sol grido; tutto questo metteva negli animi una serenità, una letizia così piena e viva che pareva felicità. Ogni mala passione ci fuggiva dal cuore; si perdonavano antiche offese, si sopivano antichi rancori, si cercavano, o si ritrovavano, per ufficio d’amici comuni, i nemici, e si metteva una pietra sul passato. Quel pensiero sempre presente, quell’affetto profondo che ci occupava di continuo, ci dava un’energia, una vitalità insolita e vigorosa, che traspariva dagli accenti, dagli sguardi, dagli atti, dai passi. Che giovialità, che affettuosa armonia tra gli amici! Come tutti i nostri pensieri eran più alti, più puri, e tutti i nostri affetti più forti! La primavera non rideva soltanto nei fiori, non si sentiva soltanto nell’aria e nel sangue; rideva nell’anime, si sentiva nei cuori; era come il soffio di una vita vergine che ci aveva penetrati. Che giorni! O patria! se potessimo sentirti sempre così!
III.
Fin dai primi giorni che si parlava della probabilità della guerra, mi s’era cominciato a far nella testa un po’ di confusione; la quale crebbe poi a mano a mano che la probabilità si venne mutando in certezza. Confusione, dico, e non saprei dir altro: pensavo, parlavo e operavo come per l’effetto d’un liquore inebriante. Dapprima agitazione, poi irrequietezza, poi febbre addirittura; ondate di sangue infuocato alla testa, gran prurito di menar le mani, grande smania di moto, d’aria, di luce, di musica e di versi, e assoluta impossibilità di fissare la mente in un qualunque pensiero. Neanco nel pensiero della guerra; però che il rappresentarmene coll’immaginazione gli avvenimenti, per quanto meravigliosi e terribili, gli era pure un togliere qualcosa a quell’idea d’un avvenire indeterminato, avventuroso, che m’infondeva tanta allegrezza e tanta pienezza di vita.
Entrato io in casa, non c’era più quiete. Tiravo giù dallo scaffale una dozzina di libri, ne scorrevo una pagina per ciascuno, sbuffando e contorcendomi sulla seggiola e pestando i piedi, e poi li buttavo tutti all’aria ad un tratto. — Non bastano! gridavo; non bastano i libri! I libri non dicono quel che mi bolle qui dentro! — Aprivo un giornale; in que’ giorni i giornali eran di fuoco; — davo un’occhiata al solito articolone entusiastico, e stracciavo il foglio in cento pezzi. — Ma questo è fiacco, Dio mio! questo è freddo! — E preso da un estro improvviso, sedevo a tavolino e mi mettevo a scrivere in furia. — Lo scriverò io un articolo! — dicevo; e subito dopo gettavo via carta, penna e calamaio e sclamavo: — Tutto freddo! È una disperazione! Ma di’ tu, mamma, in nome del cielo, ma che in tutta la letteratura italiana non ci siano dei versi che mi esprimano questa febbre che mi divora? — Berchet! — ella mi suggeriva timidamente. — No, no, Berchet, — io le rispondevo con accento drammaticamente soave; — Berchet è irato, Berchet odia, Berchet maledice, ed io amo in questi momenti, amo immensamente, amo tutti, mi sento fratello di tutti, getterei le braccia al collo a tutti quelli che incontro per la strada. Amo anche gli Austriaci, sissignora! Tirerò a freddarne molti; ma li amo, perchè gli è grazie a loro che l’Italia si riscuote così, e solleva la testa, e si rivela così potente e bella e cara, e diffonde in tutti i suoi figli questo sentimento ineffabile di orgoglio e di gioia! Morte agli Austriaci, ma viva anche loro! Non mi son mai sentito tanto cristiano! — Poi mi slanciavo alla finestra e mi stizzivo del silenzio che regnava nella strada. — Ma guardate che tranquillità vergognosa! Ma è possibile? Ma perchè non scendon tutti giù a fare strepito? Ma che gente sono costoro?... Oh! domiamo questa febbre. — E chiusomi in camera e dato di mano alla sciabola, supponevo d’aver a fronte un ufficiale austriaco di que’ lunghi, magri, con un par di baffoni irsuti e d’occhioni stralunati, e mi mettevo in guardia, e giù botte, parate, molinelli, salti e grida, finchè cadevo sul sofà rifinito. Matto, via.
Non è a dire se il vicinato s’accorgesse della mia esistenza. Oltre che le mie declamazioni poetiche si sentivano dalla strada, solevo passar tutta la sera sul terrazzino del cortile; e tutti sanno come sono i cortili delle case nuove di Torino (stavamo in uno de’ tre grandi palazzi di via Nizza, dirimpetto alla stazione della strada ferrata); sono grandi piccionaie, dove c’è più gente che pietre, e dopo desinare tutti fan capolino alle finestre, e quei di sopra guardano in casa di quei di sotto, e quei di sotto vedono le gambe di quelle di sopra, e nelle soffitte si fa all’amore, e sui terrazzini i bimbi fanno il chiasso e gl’impiegati leggono i giornali, e dai letti in giù fino al pian terreno, e dal pian terreno in su fino ai tetti, que’ d’un piano dicon male di que’ dell’altro, e tutti si salutano e si sorridono da buoni amici. Stavamo al secondo piano. Avevamo da un lato una gentile, colta ed arguta signora napoletana, nostra grande amica; una donna alla Cairoli, piena di energia e di slancio, immaginosa, faconda; la quale, un giorno che suo figlio dovea battersi in duello, aveva colpito di meraviglia e di ammirazione mia madre, dicendo tranquillamente: — Egli farà il suo dovere. — Dall’altra parte stava un vecchio ingegnere, pittore, ottuagenario, cieco, veterano di Napoleone primo, circondato da una mezza dozzina di nipotini piccini e carini ch’erano la mia delizia; un bel vecchio, un cuor santo; mi voleva un gran bene, mi chiamava suo figliuolo, e quand’ero lontano e tardavo un paio di giorni a rispondergli, andava a domandar timidamente a mia madre se nell’ultima sua lettera io avessi trovato nulla che mi potesse offendere. Allo stesso piano, dirimpetto a noi, abitava una vedova sui quarant’anni, elegante, languida, magra, bruttina, furiosa divoratrice di romanzi, solita ad affacciarsi alla finestra ogni volta che c’ero io, e a darmi certe occhiate lunghe e stanche, stringendo la bocca e piegando malinconicamente da un lato la testa finto-ricciuta. Alla finestra accanto alla sua stava pel solito la sua cuoca affetta d’incipiente passione per la mia ordinanza (bel giovinetto, tra parentesi); un faccione tondo, porporino, gonfio che parea che soffiasse; due gran labbra, due grand’occhi, due gran spalle, e qualche ardita curva qua e là, che dava nell’occhio fino alle ultime lontananze della casa. Al terzo piano, sopra la ninfa languida, ci stava uno studente d’Università, giovanissimo, buon figliuolo, smanioso della guerra, già iscritto nel ruolo dei volontari, un capo ameno dei più curiosi e più cari. In qualunque ora del giorno, a un mio batter di mani, balzava d’un salto sul terrazzino colle braccia e il viso in aria a guisa di poeta improvvisatore, e m’interrogava e mi rispondeva in versi, e intavolava discorsi di alta politica, di alta guerra, di alta filosofia, di alta letteratura (stava al terzo piano), declamando, gesticolando, canterellando, ch’era una festa a sentirlo. Al suono della sua voce tutto il vicinato si faceva alle finestre.
— «O risorta per voi la vedremo....» — gridava tendendo un braccio verso di me, e battendo la cadenza coll’altra mano sulla ringhiera del terrazzino. Ed io a lui: — «Al convito dei popoli assisa....» — E lui: — «O più serva (la serva volgeva gli occhi in su), più vil, più derisa....» — Ed io: — «Sotto l’orrida verga starà. «E lui: — Sotto l’or.... — Ed io: — Rida ver.... — E lui: — Ga starà. — E poi tutt’e due assieme: — Ga starà! ga starà! ga starà! —
Grande ilarità a tutti i piani. — Così mi piace la gioventù, — mormorava il buon vecchio. E la cuoca si nascondeva dietro un’imposta e dava in uno scroscio di risa. E la sua padrona faceva un bocchino ridente che voleva dire: — Che cari matti! — E la signora napoletana mi lanciava un frizzo, e mia sorella scappava, e mia madre mi tirava pel vestito, e mio fratello brontolava: — È troppo, — e mio cugino il colonnello, quando c’era, soldato rigido, austero, che mi voleva un gran bene, ma mi faceva delle gran lavate di testa, per cui gli avevo posto il nome di burbero benefico, mi diceva seriamente: — Sii serio. —
E davanti a lui, non lo nego, restavo un po’ mortificato; ma tutt’ad un tratto scappava fuori l’amico con un’altra strofa, e allora addio serietà, e più matto di prima.
Codesta era la commedia pubblica, seguiva poi la privata. Veniva a trovarmi il nipotino più grande del vecchio soldato, ed io: — Animo, in riga! — e pigliavo pel braccio mia madre, e mia sorella, e il bambino, e volere o non volere li mettevo in riga, e ce li facevo stare, e se mia madre rideva le battevo una mano sulla spalla e le dicevo: — Ferma, cara signora, e dritta, e seria, se no noi chiuderemo le porte e vi declameremo cinquanta ottave con tutta la forza dei nostri polmoni, e voi sapete che ce li avete fatti robusti. — No! no! per pietà! — essa rispondeva. — Dunque silenzio! — gridavo io. — E bisogna starci! — mormorava ella ridendo di nuovo e rivolgendosi a mia sorella, ed era tanto caro, tanto gentile quel suo riso! — Attenti! Marche! — Il grido era così tonante che i miei soldatini si disordinavano e se la battevano chi di qua chi di là turandosi le orecchie; e io dietro, e uno per uno li riconducevo al posto, e li lasciavo poi liberi a patto che gridassero tutti insieme: — Viva la guerra! — Ma mia madre mi diceva: — E io non grido. — E tu griderai. — E io no. — Allora pigliati un bacio, angelo. —
Ma di giorno in giorno ella diventava più pensierosa. Parecchi reggimenti erano già partiti; da un’ora all’altra s’aspettava l’ordine di partenza pel mio; essa lo sapeva. Spesse volte, mentre facevo il chiasso, la sorprendevo che stava guardandomi con aria malinconica, e le dicevo: — Cosa pensi? — Figliuolo, — mi rispondeva tristamente, — penso che non abbiamo più che pochi giorni da stare insieme.... Godo che tu sia allegro così, e nello stesso tempo.... questa tua allegria.... mi fa male, perchè.... penso che sentirò assai più dolorosamente il vuoto e il silenzio.... che ci sarà in questa casa.... tra poco. —
È vero, io pensava. Povere donne! Coraggio, coraggio! noi diciamo loro; noi che andiamo alla guerra pieni d’entusiasmo, di ambizione, di sogni di gloria, allegri, spensierati, circondati d’amici; ma esse restan qui sole, senza conforti, senza, distrazioni, sempre con quel pensiero, con quel dolore fisso, immobile....
— In questi giorni.... — soggiungeva mia madre — io capisco, io sento che in questi giorni non son più nulla per te.... No, no, lascia ch’io lo dica; non me ne lamento mica, sai!... Povero figliuolo, è naturale... ma....
— Senti, — io le dicevo per consolarla; — tu che hai un cuore così nobile, così eletto, tu puoi trovare un conforto in te stessa, assai più facilmente di molte altre donne. Non siamo egoisti. Credi tu che questa guerra si debba fare? che sia giusta? che sia un sacro dovere per il paese?
— Oh questo sì — essa rispondeva asciugandosi le lacrime.
— E dunque, se non la facessimo noi, generazione adulta, la dovrebbero far dopo noi i nostri figliuoli. Se non ci fossero adesso cinquecentomila madri che piangono, ci sarebbero fra venti, fra trent’anni. Noi ci sacrifichiamo pei nostri figliuoli, pei cinquecentomila bambini e le cinquecentomila bambine che adesso stanno ancora nelle fasce; queste hanno in quelli i loro predestinati amanti, i loro predestinati sposi; non vorremmo noi assicurare, per quanto sta in noi, il loro avvenire da ogni dolore, da ogni sventura, e fare che un giorno essi possano innamorarsi, sposarsi, e moltiplicarsi in pace? —
Mia madre sorrideva, ma tornava subito trista. — Tutto questo è vero.... — diceva sospirando; — ma non basta, figliuol mio, non basta a consolare una madre! —
E appoggiati i gomiti sulla tavola e abbandonata la fronte sulle mani, piangeva tacitamente. Io tentavo di consolarla. — No, figliuolo; vattene fuori, va a cercare i tuoi amici, io non voglio rattristarti; lasciami pianger sola; va. —
Era di sera; ella stava là al buio in un cantuccio della stanza, sola, muta, e pensava e pensava.
Non ho esperimentato mai quanto in que’ giorni la meravigliosa potenza dell’immaginazione sul sentimento. Cominciavo talvolta, così per ozio, a fantasticare intorno ai casi possibili della guerra, e poi a poco a poco mi raccoglievo e m’internavo così profondamente nella immaginazione delle battaglie, delle entrate trionfali, dei ritorni, che mi pareva proprio d’esserci, di sentire, di vedere, e mi si rimescolava il sangue, e mi stringevo la testa fra le mani che pareva la mi dovesse scoppiare tant’era il tumulto delle idee che vi turbinavano dentro, e il petto mi ansava, e mi pigliavano degl’impeti di tenerezza infantile.
Una notte ero di guardia al Palazzo Madama; ero solo nella mia camera, seduto a tavolino, col lume davanti, e fantasticando più stranamente del solito, supponevo di essermi levato a sì grande altezza da abbracciar collo sguardo il paese intero, monti, valli, fiumi, foreste; e sentivo e vedevo in tutte le città le strade brulicare di popolo, e le piazze d’armi sfolgorare di baionette; e dalle fortezze, dagli arsenali, dai porti, uscire un suono confuso di armi e di canti, lo strepito cupo d’un lavoro concitato, febbrile; e per le strade ferrate, convogli sterminati, pesanti, lenti, percorrere il paese in tutte le direzioni, incontrandosi, incrociandosi, inseguendosi, salutati a festa dal popolo della campagna accorrente, e fermarsi qua e là, e versar cannoni, carri, cavalli, onde d’armati; e ad un tratto scoppiare concordemente da tutte le parti un formidabile frastuono di tamburi e di trombe, e da ogni città spuntare e allungarsi per la campagna le colonne dei reggimenti, convergere, congiungersi due a due, tre a tre, e avanzar lentamente verso i confini, incoronando le alture, serpeggiando lungo i fiumi, allagando le valli, spiegandosi in immense linee di battaglia sui piani; e sui monti del Tirolo, dal Lago di Garda su su a perdita d’occhio, rosseggiare in mille punti le bande dei volontari, inerpicarsi, precipitar giù per le chine, sparir nei burroni, riapparire in vetta alle rupi; e intanto tutta la vasta pianura lombarda popolarsi di tende e di parchi, risonar di musiche e di grida; e poi calare la notte, e tutto quetarsi; e finalmente, al primo chiarire d’una bell’alba di primavera, un nuvolo di cavalieri spiccarsi colla rapidità del fulmine dal quartier generale, spargersi in tutti i sensi, e propagare un grido di campo in campo; e tutto l’esercito rimescolarsi violentemente, e riordinarsi, e avanzare.... E qui l’immaginazione non potendo abbracciar tutto il quadro della smisurata battaglia, m’appariva un immenso velo di nebbia rotto qua e là a grandi tratti, d’onde si vedevano i nostri giovani reggimenti lanciarsi all’assalto dei colli, retrocedere, risalire ostinati; e squadroni di cavalieri a lancia calata irrompere pancia a terra contro i quadrati; e batterie raggiungere di volo altre batterie, e dal sommo delle alture fulminare e squarciare i fianchi delle colonne fuggenti; e stormi infaticabili di bersaglieri sparpagliarsi e riannodarsi e inseguire e recedere e celarsi e ridistendersi in lunghe catene; e in ogni parte assalti succedere ad assalti, linee succedere a linee, e il cielo rimbombare dell’orrendo fragore. Quand’ecco tutto ad un tratto si fa un alto silenzio, la nebbia si dissipa, la polvere dispare, sulle creste di tutti i monti ondeggiano i nostri battaglioni, sventolano le nostre bandiere, echeggiano le nostre fanfare, e dall’uno all’altro capo d’Italia un grido di gioia lungamente preparato, lungamente compresso, si sprigiona e.... Sii pure immenso, o grido, e risuonino di te tutte le volte del cielo; ma non me lo copri, no, non me lo copri quel filo di voce tremola che prorompe dal seno.... Oh Dio! la mia testa, la mia testa!
Mi slanciai fuor dalla camera, uscii dal Palazzo; Piazza Castello era deserta e queta come il cortile d’un vasto convento; la collina di Superga si disegnava distintamente sul cielo limpido e stellato, e la facciata della Gran Madre di Dio, rischiarata dal raggio della luna, pareva che fosse lì a due passi. — Che bella notte! — esclamai. — Oh! io sono veramente felice! —
Ma un’immagine turbava quella mia felicità: l’immagine di una povera donna, seduta in un cantuccio della sua cameretta, colla fronte appoggiata sulle mani, al buio, che pensava, pensava.
partenza.
I.
Il 6 di maggio, verso le cinque di sera, stavamo in crocchio una diecina d’ufficiali sulla porta della caserma, quando s’udì un passo precipitoso giù per le scale e subito dopo comparve l’aiutante maggiore affannato gridando: — Signori! Si parte questa sera alle otto. Bagagli in caserma alle sette. Montura di marcia. —
Un grido di gioia, e senza neanco domandare dove s’andava, via di corsa, chi al caffè vicino ad avvisare gli amici, chi in caserma a chiamare l’ordinanza, e chi a casa. Di lì a un momento scoppia nel quartiere uno strepito d’inferno, sonano i tamburi, si sparge la notizia nel vicinato, la gente accorre, e in pochi minuti, di casa in casa, di strada in strada, vola la voce per mezza la città, e si propaga l’allarme fra le mamme.
Corro a casa, salgo le scale a tre scalini alla volta, picchio, m’aprono, è mia madre.
— Dio mio! cos’hai? cosa c’è? —
Ansavo come un cavallo.
— Bisogna partire.
— Oh!
— Già.... e non c’è tempo da perdere.
— Quando?
— Alle otto.
— Alle otto; — ripetè collo stesso accento mia madre, come per eco, e restò li senza far motto nè gesto, guardandomi con aria di stupore.
— Presto, presto; bisogna fare il baule; alle sette bisogna che sia in quartiere; a momenti verrà l’ordinanza; intanto bisogna cominciare; animo.... —
E dopo un istante, vedendo che mia madre non si moveva: — Dunque?
— Ah! — diss’ella, come riavendosi da uno stordimento. — Eccomi pronta. Erminia! —
Mia sorella comparve subito.
— Parte — le disse in fretta mia madre; — bisogna mettergli al posto la roba; è tutta pronta, non è vero? Oh bene. Adesso.... aspetta. Dov’è il baule? Ma no; è meglio prima.... guarda.... o piuttosto.... —
E guardava di qua e di là come smemorata. — In queste occasioni, è fatta apposta per perder la testa quella povera donna. — Dunque? domandò poi, per levarsi d’impiccio, a mia sorella che stava lì anch’essa immobile e come trasognata.
Ah! — rispose scuotendosi ella pure tutt’ad un tratto; — Presto, sì, bisogna sbrigarsi. —
E corsero tutt’e due nell’altra camera.
Una scampanellata; apro: è l’ordinanza. — Eccomi! — esclama trafelando.
— Maria! — grida mia madre tornando in fretta. La donna di servizio accorre.
— Andate a chiamar subito mia figlia. Passando, dite al portinaio che venga a pigliare il baule. Fate chiamar Ettore qui al caffè vicino. Che vengan subito tutti. Presto. —
L’ordinanza porta il baule sul terrazzino; il rumor del baule chiama alla finestra la ninfa languida; la ninfa languida chiama alla finestra la cuoca purpurea; l’atto impetuoso con cui la cuoca purpurea spalanca la finestra chiama sul terrazzino gli altri vicini.
Intanto mia madre andava e veniva senza concluder nulla.
— Amico! — grido io battendo le mani.
— Italia! — egli risponde nello stesso punto apparendo sul terrazzino in maniche di camicia e in atteggiamento ispirato.
— Parto alle otto. —
Scompare, torna vestito, leva in alto il bastone: — Ti aspetto alla stazione! — esclama, e precipita giù per le scale urlando: — Viva la guerra! — e facendo scorrere il bastone sui ferri della ringhiera che faceva un fracasso di casa del diavolo.
L’ordinanza mette nel baule la tunica e i calzoni. Atto di languida sorpresa della ninfa. Grande spalancamento d’occhi della cuoca.
— Alberto, — esclama mia madre sostando dal suo affannoso andirivieni.
— Eccomi. —
Mi tira in disparte.
— Dimmi.... dove andate, lo sai?
— A Piacenza.
— A Piacenza. E.... dimmi un po’: è una città fortificata Piacenza, non è vero?
— Sì, è fortificata.
— Resterete là.
— Non credo.
— Ma.... non le difendono le città fortificate?
— Quella là no, perchè noi andremo avanti, ed essa resterà indietro.
— Già.... — ella disse coll’aria di chi perde una speranza. E ritornò di là.
Altra scampanellata; apro: è mia sorella maggiore. Mi stringe forte la mano e va di là.
Terza scampanellata. È mio fratello Ettore. Stretta di mano, e via.
Do un’occhiata alla ninfa: oh Dio, che sfinimento! La mia ordinanza osserva colla coda dell’occhio se le guancie purpuree danno segno di voler impallidire: — no. Io suppongo di avere un cerotto sul collo, e tento di piegare il capo in atto melanconico: invano; la patria è più forte.
Intanto ritorna mia madre, colle braccia cariche di biancheria, seria, impassibile, che mi fa stordire; dietro a lei tutti gli altri, silenziosi, colla testa bassa.
Mia madre si china sul baule; l’ordinanza fa un atto rispettoso per pigliarle la roba; ella si scansa e risponde: — No; lasciate fare a me. — Le mie sorelle stendon le mani per far lo stesso. — Lasciate fare a me — risponde un’altra volta mia madre; e si china per mettersi in ginocchio. — Mamma! — io le dico con accento di affettuoso rimprovero trattenendola pel braccio. Essa mi guarda. — Non voglio — io soggiungo. Ed essa con accento più affettuoso del mio: — Te lo domando per piacere. —
S’inginocchia e ripone la roba. Il soldato mi guarda tra intenerito e sorpreso come per dirmi: — Quanto siete fortunato, tenente! — Io lo guardo come per rispondergli: — Lo so; mi rincresce che non ci sia la tua. —
Mia madre s’alza e va via. Sento un respiro affannoso; mi volto; è mia sorella minore che piange.
Mia madre ritorna con un non so che tra le mani, lo pone nel baule e va di nuovo di là; guardo: è il suo ritratto.
Ritorna con tre libri e li mette sopra il ritratto.
— Che cosa sono, mamma?
— Sono I Promessi Sposi.
— Oh grazie! — e le baciai la mano; essa la ritirò in fretta; sempre impassibile; la guardavamo tutti stupiti, ci metteva inquietudine.
— Lèvati la sciarpa.
— Perchè? — domandai.
Essa senza dir nulla me la toglie e la mette nel baule.
— Mamma.... me la debbo mettere. — Non risponde: va nell’altra camera. Altro respiro affannoso: piange mia sorella maggiore.
Mia madre torna con una magnifica sciarpa di seta, me la mette al collo e mi dice: — L’ho fatta nell’ore che tu eri in piazza d’armi.
— Mamma! — e giunsi le mani in atto supplichevole come per dire: — È troppo! — Ella voltò la testa dall’altra parte.
L’ordinanza guarda mia madre cogli occhi lucidi.
— C’è tutto — essa dice guardandosi intorno. Breve pausa, e poi.
— Si può chiudere. —
Abbassa il coperchio, preme colla mano, non riesce a chiudere; preme col ginocchio respingendo coi gomiti chi la vuole aiutare, le scivola un piede, vacilla.... — Ma, mamma! ma cosa fai! — esclamiamo tutti noi sorreggendola.
Picchiano: è il portinaio che viene a prendere il baule.
— Già qui? — esclama mia madre volgendosi in tronco, con un accento di spiacevole sorpresa.... — Prendete.
Il portinaio si mette il baule in spalla.
— Alla Caserma di Porta Susa — dico io.
— So dov’è — egli risponde avviandosi.
— Fermatevi! — esclama improvvisamente mia madre; quegli si volta.
— Badate.... — e cerca qualcosa da dire; badate di non lasciarlo cadere.
— Non dubiti. —
Esce; mia madre lo accompagna fino alla porta; lo guarda scender le scale; — è scomparso; — stringe le labbra, batte le palpebre, ha vinto; il nodo di pianto è andato giù; impassibile come prima; comincio a turbarmi. — Come finirà! —
Ecco il burbero benefico. — Buona sera. — Nessuno risponde; ha già capito; mi guarda in viso; io alzo la fronte. — Via non c’è male — par che dica. E passiamo tutti nella stanza accanto.
Un’ultima occhiata alle finestre; languore mortale. Nuovo sforzo di collo: invano; vince la patria; addio per sempre!
Siamo tutti seduti in circolo nell’altra camera; nessuno parla. S’ode il fruscìo d’una veste, s’apre la porta, ecco la signora forte; tutti s’alzano in piedi.
— Mia buona amica — ella dice porgendo tutt’e due le mani a mia madre con quel suo garbo, con quel suo brio così vivo e sereno. — Ho saputo ora soltanto che vostro figlio doveva partire. Sono momenti dolorosi, certo; ma tutti bisogna che soffrano la loro parte per il paese. Gran giorni son questi per l’Italia! Gran guerra! Credete; è impossibile che il nemico regga lungamente a quest’onda di fuoco che lo investirà d’ogni parte. L’esercito ha alle spalle tutto un popolo pronto a scendere in campo. Gran giorni questi! Così si fanno le nazioni! —
Mia madre la guardava attonita.
— Poterla vedere un momento, da lontano, la gran battaglia! Vederla nel punto più bello, quando i nostri reggimenti avranno cacciato i nemici da tutte le colline della linea di battaglia, e giù per le chine, dall’altra parte, cavalli, soldati, carri, cannoni, tutto a precipizio e a rifascio!.... Coraggio, cara signora; questa è una vera crociata; anche le donne e i bambini anderebbero a combattere; se l’esercito si dissolvesse, in quindici giorni ne sorgerebbe un altro.
— Sì! sì! — proruppe mia madre con uno slancio che volea parere entusiasmo, ma non era altro che amor materno velato di amor di patria: — Sì! È una crociata! Dovrebbero andarci tutti alla guerra, tutti, da esserci a milioni a milioni, che i nemici avessero paura, e smettessero persino l’idea di resistere e aprissero le porte delle fortezze....
— Dov’è il mio figliuolo? — domanda una voce tremola dalla camera vicina; s’apre nello stesso punto la porta e compare il vecchio cieco, colle braccia tese in atto di chiamarmi a sè. Io lo abbraccio; egli mi tocca la sciabola, la sciarpa, le spalline e domanda con voce commossa: — Già pronto? — Poi mi mette le mani sulle spalle, mi appoggia la guancia sul petto e resta fermo così. Silenzio generale. Il burbero, ritto in fondo alla stanza, contempla il quadro colle sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate sul petto. Mia madre mi guarda fiso.
Trascorsero alcuni minuti, ed io, guardato in fretta l’orologio, dissi con grande sforzo: — È ora. —
Tutti balzarono in piedi e fecero un passo verso di me. Il burbero mi si accostò e mi susurrò all’orecchio: — Sii uomo. — Pausa.
— ....Dunque — io mormorai, mettendomi il cheppì.
— Dunque — disse risolutamente la signora stringendomi e scotendomi la mano ad ogni parola; — coraggio, fatevi onore, ricordatevi di noi, e scrivete. — Detto questo, si ritirò.
— Addio, Alberto! — esclamò mio fratello gettandomi le braccia al collo e baciandomi.
Le mie sorelle mi abbracciarono singhiozzando e fuggirono.
— Qua! — esclamò il vecchio aprendo le braccia; — qua figliuolo! E stringendosi la mia testa contro la spalla, mormorò colla voce tremante: Se questa fosse l’ultima volta che t’abbraccio.... voglia il cielo.... che questo segua per causa mia. —
Il burbero mi strinse la mano, mi guardò fiso, e si ritrasse.
Io e mia madre ci fissammo un istante; essa mi si slanciò tra le braccia, mi avvinse il collo con una forza virile, mi coprì di baci disperati, poi afferrandomi con una mano un braccio e premendomi l’altra sulla spalla, stretta, attaccata al mio fianco, si fece trascinare, più che condurre, sino alla porta. Là mi sciolsi a forza e mi slanciai giù per le scale. Nel punto istesso, come se m’avesse visto piombare in un precipizio, ella gettò un grido lungo, straziante: — Alberto! Alberto! —
Sentii, continuando a scendere, che erano accorsi tutti gli altri; udii un rumore confuso di voci; il mio soldato fra gli altri che diceva: — Coraggio, signora; io gli starò sempre vicino; glielo prometto!... — i singhiozzi disperati di mia madre; un ultimo e stanco grido di: — Alberto! — e poi più nulla.
Traversando frettolosamente il cortile incontrai i quattro nipotini del vecchio che tornavano dalla scuola; li fermai, li copersi di baci: — Oh! me li soffoca! — gridò la bambinaia spaventata.
— Signor tenente, se vedesse! — esclamò l’ordinanza raggiungendomi col fazzoletto agli occhi.
— Taci. —
E via di gran passo.
II.
Arrivai alla caserma ch’era quasi buio. Le compagnie eran già armate e schierate nel cortile. Fuori, una confusione indicibile; la strada stipata di gente e illuminata colle fiaccole da un gran numero di studenti dell’Università; la porta del quartiere ingombra di ufficiali; intorno a loro una moltitudine di mamme, di sorelle e di fratelli piccini che vogliono entrare e piangono e pregano a mani giunte: — Ce lo lascino vedere ancora una volta, un momento solo, appena una parola! — E l’ufficiale di picchetto a spingerli indietro e a gridare e a pregare anche lui: — Mi facciano questo favore, si tirino in là, lascino libero il passo; non possiamo lasciarli entrare; è proibito; noi facciamo il nostro dovere; li vedranno quando andranno via. — Un accorrere di mogli d’ufficiali coi bambini per mano venute a porgere gli ultimi consigli e l’ultime preghiere; più in là un va e vieni d’altre donne e d’altre ragazze, che non sono nè madri nè mogli nè sorelle, altre piangendo, altre fingendo di piangere per destare qualche utile simpatia in que’ che restano, altre in disparte malinconicamente atteggiate; drappelli d’operai che passano cantando e sventolando bandiere; grida, applausi, e un ondeggiamento e un mormorio confuso come di mare agitato.
Scoppia un rullo di tamburi; gli ufficiali spariscono, nella folla si fa un improvviso silenzio. Di lì a un minuto vengon fuori gli zappatori del reggimento a sgombrare la strada.
Mi colse un pensiero: — Si va alla stazione.... Dio mio! Bisogna passare sotto le sue finestre! —
Echeggia la musica, il reggimento è fuori, fiancheggiato da due lunghe file di fiaccole; le famigliuole danno l’assalto alle file; gli ufficiali e i sergenti le respingono; respinte di qua, tornano di là; la gente s’affaccia alle finestre sventolando le bandiere; qua e là piovon sigari e aranci; una moltitudine precede il reggimento cantando; una moltitudine lo segue. — Viva la brigata Piemonte! Viva il vecchio reggimento del 637! — gridò un signore da una finestra. — E un altro: — Viva i valorosi di Calmasino! —
Siamo in via Santa Teresa, siamo in Piazza San Carlo, siamo in Piazza Carlo Felice; a misura che vado innanzi il cuore mi si stringe più forte; mi tremano le gambe. — Sentirà la musica, sentirà queste grida quella povera donna! —
Alzo gli occhi; ecco la casa, ecco la finestra illuminata; c’è una persona, non è lei, chi sarà? Non si può distinguere; saluta colle mani; guarda giù; Dio mio, chi sarà?
Tutt’ad un tratto spunta un lume sulla finestra di sotto. — Ah! l’ho visto; è il cieco. Dio ti benedica, papà! —
Ecco il mio amico; m’abbraccia, mi bacia, mi grida: — Buona fortuna, fratello! viva la guerra! — e scompare.
Siamo nel convoglio; sporgo fuori la testa; sempre la finestra illuminata, sempre il cieco solo che agita le mani in atto di saluto. — E questa musica che non si quieta mai! Oh povera madre! —
S’ode il fischio; il convoglio si muove; il cuore mi dà una scossa tremenda: chi altri è venuto alla finestra? Vedo due braccia prostendersi verso di me.... Dio mio! Ho sentito un grido?
La casa è scomparsa.
— Addio, mio buon angelo! addio, madre santa e adorata! Il cielo mi consenta di rivederti, o di morire così nobilmente, che l’orgoglio d’essermi madre t’alleggerisca il dolore d’avermi perduto.
— Adesso a noi! — dissi volgendomi vivamente al mio vicino e battendogli una mano sul ginocchio.
Il vicino immerso sino allora nella malinconia d’un abbandono amoroso, si scosse tutt’ad un tratto, e gridò forte anche lui: — Viva la guerra! —
E tutti gli altri: — Fuoco ai sigari! —
In un momento la carrozza fu piena di fumo, di strepito e d’allegria.
in campagna.
A questo punto trovo nel libro una lunga serie di lettere d’Alberto, e accanto a ciascuna la risposta della madre attaccata al foglio. Dall’esame dei caratteri della madre si potrebbe cavar la storia della guerra; il tremito della sua mano è certo il più sicuro indizio degli avvenimenti. Su per giù, le sue lettere dicon sempre lo stesso, è naturale; ma in quelle del figliuolo c’è qua e là qualcosa da notarsi. E io noterò questo qualcosa, che riuscirà come una cronaca slegata, incompleta, ma schietta e viva delle varie vicende, o, meglio delle varie impressioni che alcune tra le vicende della guerra lasciaron nell’animo del mio amico.
Do la mia parola ai lettori che copio letteralmente.
Piacenza, 8 maggio.
.... Piacenza sembra una caserma; c’è più soldati che cittadini, e più medaglie che soldati; a ogni passo incontro qualcuno che n’ha il petto coperto; a ogni svoltata vedo un generale; i colonnelli non mi paion più niente. Come sento la mia piccolezza in mezzo a tutti questi galloni! Le grandi riunioni militari hanno questo di male, che noi poveri tenentucci nessuno ci guarda più; si scomparisce affatto. Scherzo, sai; io ho te, ho i miei soldati, ho i miei amici, ho il sangue pieno di fuoco, il cuore pieno d’Italia, l’anima piena d’avvenire; io son contento, io non desidero nulla, io non invidio nessuno. — Siamo alloggiati in un convento, e dormiamo sulla paglia. — È una disperazione con questi coscritti che non sanno nè vestirsi, nè camminare, nè mangiare. Si son fatte le cose troppo in furia. Se domani si aprisse la guerra ti dico io che ci troveremmo a cattivo partito; mezzo il reggimento non sa ancora caricare le armi; c’è un gran bisogno dei soldati provinciali; si aspettano. — In tutto il quartiere non s’è potuto trovare una camera per l’ufficiale di picchetto. L’altra notte mi son ricoverato nell’ufficio di Maggiorità e ho dormito sui registri....
In fondo alla risposta della madre trovo queste parole: — Bada di non guastare i registri; possono essere importanti. Hai almeno pensato a metterti qualche cosa sotto la testa? Erminia s’è ammalata dal dolore della tua partenza. L’altro giorno, spolverando la tua roba, piangeva; la vidi, glielo dissi, negò; ma piangeva proprio; tu non lo conosci ancor tutto quel suo bel cuore. — La lettera finisce: — Dove sono gli Austriaci? —
In un’altra lettera sua è posto questo quesito: — Di’ un po’, Alberto; mi hanno detto che i battaglioni degli Austriaci son più grossi dei vostri. Come va questo? Come farete? —
Il figlio risponde: — Ne manderemo due de’ nostri contro uno dei loro. —
E la madre di rimando: — Allora va bene. —
Tutte queste lettere e quelle che vengono appresso son piene di saluti affettuosi del vecchio e della signora napoletana che aspetta «grandi descrizioni di grandi cose;» — e v’è a quando a quando un poscritto della mamma che domanda: — Cosa fa l’ordinanza? —
Rilevo dal libro che il colonnello, il burbero benefico, era al quartier generale dell’Esercito, e che da quella «superba altezza» vegliava amorosamente sull’oscuro cugino, per via di lettere e d’informazioni indirette; ma il cugino non ne sapeva niente. Il «burbero» nascondeva il protettore, per non coprire il colonnello; e ne lo lodo.
Il reggimento d’Alberto era da quattro giorni accampato presso S. Giorgio a poche miglia da Piacenza, ed egli non aveva scritto a sua madre che il giorno della partenza per annunziarle «che andava a dormire sotto la tenda.»
— Quattro giorni che non scrive! Povero Alberto, dorme per terra; soffrirà, si sarà ammalato; chi sa cosa gli sarà seguito! Oh Dio mio! Un telegramma al colonnello, subito.
E mandò il telegramma: — Datemi notizie di Alberto. Vi supplico. Non ricevo lettere. Tremo per la sua salute. —
Il colonnello le rispose subito: — Sta benone. Ma è tanto delicato! —
Mia madre capì l’ironia, e si stizzì un pochino, e prese la penna e cominciò: — Carissimo amico. Non dico che Alberto sia delicato; ma credo di poter.... — Smise.
La divisione Cugia è partita per Cremona; da Cremona andrà verso Goito. Una lettera della madre dice così:
— .... Dirai che sono una sciocca, che parlo di cose che non capisco; ma tant’è, io questa gran necessità di passar subito il Mincio non la vedo. Se fossi il generale La Marmora, mi pare che aspetterei ancora; non si sa mai cosa possa accadere; ad ogni modo farei prima andare avanti i soldati del generale Cialdini, che hanno la flotta vicina e che in ogni caso... — Ci si potrebbero rifugiar dentro? — domanda Alberto ripigliando la frase nella sua risposta. E la madre ribatte: — Non sono momenti da scherzare. —
La divisione Cugia è sul Mincio. La lettera della madre è scritta a precipizio, tutta puntini e punti di esclamazione e parole che s’accavallano e righe che si confondono e aste che serpeggiano per la lunghezza d’un dito.
— .... Per carità, figlio mio; fa il tuo dovere, sono io la prima a dirtelo; ma non far troppo.... Gli eserciti hanno bisogno degli ufficiali, e se gli ufficiali si espongono più del bisogno, che cosa ne seguirà? Ne seguirà che i soldati resteranno senza guida e senza disciplina, e allora.... che cosa doventerà l’esercito? Per carità, pensa anche un poco ai soldati..., (o amor materno, come argomenti sottile!).... e pensa anche a me; fa il tuo dovere, sì, ma pensa.... — Qui c’è qualche parola che non si capisce. E poi: — ....La tua vita è la mia. Oh figlio mio! che giorni! che tremendi momenti! Non ti dico che cosa segue in casa tua per non contristarti, io prego per te.... — Il resto non si capisce. C’è un poscritto incominciato: — Oh Alberto! — e poi non c’è più niente. Veggo certe curve tracciate dal figliuolo, che a prima vista si possono prendere per isole; ma credo ch’egli abbia inteso di passare la penna intorno ai segni delle lagrime di sua madre, e che ne sian riuscite così quelle figure.
Qui trovo una pagina intitolata: — Ciò che seguì il 28 giugno. — E dice:
— Mia madre era seduta alla tavola da pranzo, e aveva davanti un giovinetto, il figlio della nostra amica napoletana, e al fianco il mio vecchio papà. In mezzo alla tavola c’era una carta topografica.
— Se ne persuada, cara signora; — diceva il giovane; — la divisione Cugia non ha nè può aver preso parte alla battaglia; è evidente.
— Oh sì.... evidente! — esclamava mia madre scrollando la testa e passandosi la mano sugli occhi umidi di pianto.
— Ma sì; ma lo creda; e poi già... che serve ch’io lo dica? Lo dice la carta; guardi, senta. O la divisione Cugia è passata per ec. (e stringeva e scoteva l’uno dopo l’altro i diti della mano sinistra fra l’indice e il pollice della destra), e allora è impossibile che si sia trovata là nel momento in cui.... O è passata per quest’altra strada, e in questo caso non è ammissibile che possa esser giunta in tempo.... O finalmente, e questa è l’ultima, è passata dietro alla divisione che le stava a sinistra, e se questo è vero, è anche fuor di ogni dubbio, è chiaro, è indiscutibile, ch’essa si è spinta affatto fuori del campo di battaglia. Non le pare, ingegnere? —
Il vecchio senz’aver nulla capito nè veduto rispondeva: — Sicuro.
Mia madre continuava a guardare attentamente la carta topografica, rigirandola da tutti i lati, scorrendo col dito tutte le strade, levando gli occhi in su come per raccogliere i pensieri, e poi tutt’ad un tratto prorompeva con voce di pianto: — Oh sì, sì, non è arrivata in tempo! Chi lo dice? Chi lo può sapere? La carta? Cosa prova la carta? Non basta la carta. Intanto son passati tre giorni e non m’ha ancora scritto, e se non fosse seguìto nulla io saprei qualche cosa, e questo vuol dire che la divisione è arrivata in tempo, e che lui ci è stato, e che.... Oh figliuolo mio! Oh mio Alberto! mio povero Alberto! —
E battendosi le mani sulla fronte rompeva in pianto dirotto.
— Signora! Signora! — esclamavano ad una voce gli altri due — si calmi, per carità, si calmi; non sarà seguìto nulla, non può esser seguìto nulla!... Ce lo creda; il suo amore materno...
— Dio mio! — gridava mia madre, con un accento d’angoscia quasi disperata; — Dio mio! il mio amore materno! Ma se non ha scritto! Ma se due mie amiche che hanno un figliuolo ufficiale ne han già ricevuto notizia! Ed io no! io niente! Oh Erminia! — Mia sorella accorreva: — Che c’è?
— Signora!...
— Alberto! Alberto!
— Dio mio! Che è seguìto?
— Una disgrazia! Io la sento! Io morirò! Presto, un telegramma al colonnello, che dimandi, che cerchi, che sappia dire qualcosa, che mi tolga questa disperazione dall’anima, che....
Una sonata di campanello. — Silenzio. — Ecco la donna di servizio.
— Signora, una lettera.
Mia madre si slancia sulla donna, le strappa la lettera, la guarda, manda un grido, la riguarda, se la preme sul cuore con un gesto convulso, ansa, sorride, leva gli occhi al cielo ed esclama: — Grazie! Grazie! — e bacia e ribacia il foglio, e si stringe sul seno la testa della figlia, e mormora con voce fioca: — Alberto! — e si abbandona sulla seggiola. I due amici le sorreggono la testa e tentano di levarle la lettera di fra le mani; — indarno; — sono tanaglie.
Ecco alcuni squarci della lettera.
Cerlungo, 25 giugno.
— .... T’ho detto tutto quello che ho visto, che è poco; non so però darmi ragione di certe lacune rimaste nella mia memoria; le quali, se non ricordassi molte altre cose, mi farebbero dubitare di aver perduto la ritentiva, tanto son strane e incredibili. Ho dimenticato affatto dove e quando si sia fermato il mio battaglione per la prima volta, e mi ricordo lucidissimamente d’un soldato d’un altro reggimento ch’io fermai mentre correva, e gli chiesi: — Donde vieni? — ed egli mi accennò una piccola casa sulla china del monte, esclamando: — N’avimmo fatta na ’nzalata, — per dire che in quella casa s’era fatto strage d’Austriaci, ed era vero. Me ne ricordo un altro ch’ebbe una palla nelle dita nell’atto che si chinava per toccare un morto; mise un grido, e si guardò intorno stupefatto ritraendo la mano dietro le reni, e mormorando lamentevolmente: — A’m fa mal! — Ricordo l’arringa fatta dal mio maggiore al battaglione, pochi minuti prima che ci movessimo, la quale fu d’una semplicità e d’un laconismo veramente singolare. — Soldati! — disse freddamente senza neanco voltare il cavallo verso di noi: — temo che oggi non avremo da far nulla; ma caso mai.... voglio credere che.... siamo italiani, diavolo! — E qui finì; precise parole. Poco prima, porgendo la sua fiaschetta piena di rhum a un piccolo crocchio di ufficiali che non gli parevano allegri, aveva detto sorridendo: — Prendano; si rinfranchino gli spiriti infermi. —
Mi sono profondamente convinto che il vero coraggio deriva dal cuore e dalla coltura dello spirito; e il vero coraggio consiste meno nel non aver paura che nel mostrarsi e nell’operare, avendola, come se in realtà non s’avesse; il che è effetto di ragionamento, o piuttosto d’un’infinità di ragioni, di ricordi, d’immagini, di esempi, che in quei momenti ti passano con fulminea rapidità per la mente e ti dicono: — Fermo. — E passano anche delle intiere strofe di poesie patriottiche; e mi passò e ripassò la tua immagine col braccio tremante, ma teso, e l’indice appuntato verso il nemico, e gli occhi lacrimosi fissi nei miei, e le labbra contratte dai singulti; ma che dicean con voce franca e vibrata: — Fa il tuo dovere. — O madre, quant’ero vicino a te in quei momenti!
.... Non lo credere; i morti non fanno quell’orrenda impressione che si suol dire, almeno fin che il pericolo dura. Il mio battaglione era in ordine di colonna, e andava avanti, e i pelottoni si soffermavano man mano sull’orlo d’un fosso a guardare il cadavere d’un soldato a cui la mitraglia avea deformata la testa; io vi feci stendere una tenda sopra, e nessuno guardò più. È penoso il vedere quei soldati feriti, che a furia di avvoltolarsi per terra e di toccarsi qua e là, si riducono la camicia e i calzoni di tela a non vederci più un palmo di bianco, tutto sangue; e il più delle volte non hanno che una ferita leggera. Da principio si è così profondamente assorti nello spettacolo del campo, che non si bada, e non si pensa nemmeno che ci abbiano ad essere dei feriti. Ed è quasi una sorpresa il vederli poi venir giù a gruppi, colle teste fasciate, colle braccia al collo, sorretti sotto le ascelle, portati a quattro mani, bianchi come morti, chi premendosi una mano sur un fianco, chi sul petto, chi traendo alte grida, chi gemendo fioco; e i medici correre affannati di qua e di là, senza sapere dove cominciare, o da chi; e poi esaminare, lavare, tagliare, fasciare, alla lesta, dopo l’uno l’altro, dopo l’uno l’altro, e poi via tutti all’ambulanza, e poi altri gruppi, altre grida, altri lamenti; Dio, che scene! Ho visto un gruppo di soldati intorno a un medico che curava un ferito e ho sentito gridare: ahi! ahi! Mi sono avvicinato, il ferito era già in piedi. — Va all’ambulanza, va — il dottore gli disse. Quegli s’avviò a passo lento e tremante. — È già guarito? domandai. — Guarito? Vivrà ancora qualche ora, — mi rispose il dottore. Ne fui meravigliato. — Scherzi delle palle, — egli soggiunse.
Ho visto dei begli atti di fermezza e di coraggio. Un bersagliere venne a farsi cavare una palla dalla gamba e tornò indietro a raggiungere il suo battaglione sul campo. Un soldato di fanteria, gravemente ferito, portato a braccia da due compagni, pallidissimo, cogli occhi semispenti, teneva tuttavia un mozzicone di sigaro fra i denti e sporgeva il labbro di sotto in atto di noncuranza e di disprezzo. Passò accanto al mio battaglione; molti corsero a guardarlo; egli volse lentamente lo sguardo intorno e, vistosi osservato, per far parere anche meglio la sua freddezza, fece un movimento della bocca come per addentar meglio il sigaro che gli stava per cadere.
.... È morto uno dei miei più buoni e più cari amici, di cui t’ho parlato molte volte, un sottotenente dei granatieri, lombardo, un bellissimo giovine, Edoardo B. Era nella mia compagnia in collegio; tu hai una fotografia in cui ci siamo tutti, cercalo, è il primo a destra, seduto in terra, col sigaro in bocca; me ne ricordo. Vedi com’è morto: il suo reggimento era fermo in faccia ai cannoni del nemico; egli stava seduto sopra un tamburo, a capo basso, e colla punta della sciabola andava sforacchiando per trastullo le zolle che aveva tra i piedi. All’improvviso cadde riverso mandando un grido; una scheggia di mitraglia aveva ferito lui nel petto e ucciso il cavallo dell’aiutante maggiore che gli stava dietro. Morì dopo cinque ore di spasimi atroci. Povero amico! Chi te l’avrebbe detto quando studiavamo pel nostro ultimo esame di collegio, in quelle stanzuccie del quinto piano, al lume di quel moccolo, con quei quaderni e quella brocca d’acqua tinta di fumetto; allora che avevi tante belle speranze, ed eri così felice!....
La risposta a questa lettera è del fratello; la madre s’era messa a letto colla febbre. — Di tratto in tratto — scrive il fratello, — essa cade in delirio e ti chiama.
L’esercito retrocede verso l’Oglio.
Piadena, 5 luglio.
.... È una tristezza, è un dolore questo continuo attraversare villaggi e città, in mezzo a due ali di popolo immobile, muto, freddo, che ci guarda con gli occhi stralunati come se fossimo un esercito sconosciuto. Chi ha il coraggio di alzare gli occhi in faccia alla gente? Mi par di leggere su tutti i volti: — Ma bene! ma bravi! O che metteva conto di far tanto chiasso, per far poi di coteste figure? — I reggimenti sfilano a capo basso, silenziosi, che paiono una processione di frati. È uno spettacolo che mi fa male; il mio pensiero ricorre a te, madre; ho un infinito bisogno di te. Perdonami: avessi almeno la consolazione di tornare a casa senza un braccio; potrei dire: — per conto mio ho vinto un braccio di meno. — Ma tornare a casa intatto e sano e grasso e rosso da mettere invidia a un pascià, è veramente vergognoso e insoffribile. Quanta bile mi dà questo specchietto che per quanto io fatichi, e sudi, e mi roda dentro, s’ostina a riflettermi sotto il mento un altro mento che fa capolino! Io l’odio questo neonato insolente che ride sulle sventure della patria! Scherzo; ma è uno scherzo che va poco giù. Marciamo sotto il sole di mezzo giorno; a destra e a sinistra della strada, orti, campi floridi e ville; a traverso il cancello dei giardini vediamo in lontananza, in fondo ai viali, signori in maniche di camicia sdraiati all’ombra dei pergolati, e signorine vestite di bianco, vaganti pei poggi in mezzo ai pini e alle mortelle. Oh loro felici! Non perchè stanno all’ombra e riposano; ma perchè non portan sull’anima questo terribil peso di sconforto e di tedio.
Risposta: — Capisco; capisco tutto; le madri capiscono tutto; coraggio, figliuolo.
La divisione Cugia è a Parma; parte per Ferrara.
Parma, 10 luglio.
.... Benedetti soldati! Mi par d’amarli di più dopo quella nostra sventura; son sempre gli stessi loro, sempre rassegnati, buoni. In marcia, quando cominciano a curvarsi e a zoppicare, li guardo, li guardo: mi ci struggo, proprio. Qualche volta, quando me ne fanno qualcuna, io fo tra me un ragionamento lungo e sottile per provarmi che quello è veramente il caso di andare in collera, e poi alzo la voce: — Insomma, è tempo di finirla! Così non si va avanti! Fareste perder la pazienza a un santo! Or ora.... — Impostore — mi dice una voce di dentro — tu non sei mica in collera. — È vero! — io rispondo sorridendo, e smetto. Ma poi fermo il proposito di non amarli più, o almeno di non farmi scorgere, chè se no addio disciplina. — La vedremo, — dico, — vedremo se riusciranno più a intenerirmelo questo core di sasso. — E cammino duro, con un cipiglio da metter paura, sicuro della vittoria. Ed eccotene subito uno: — Tenente, glielo porto io il cappotto? — Ed io brusco: — No. — Lei è stanco. — No. — Si! — Come! Stiamo a vedere che ho da essere stanco quando vuoi tu! Al posto. — Ne viene un altro con una borraccia: — Tenente, questa è fresca. — Non ne ho voglia. — Assaggi. — Non assaggio. — Una goccia, e vedrà. — Nemmeno una goccia. — Ed egli mi mette la borraccia sotto il mento: — Vedrà che è fresca. — So bere da me. — Piglio la borraccia, m’inumidisco la bocca e gliela ridò. — Tenente! — Cosa? — Lei non ha bevuto. — Ho bevuto. — Ma se c’è ancor tutta! — e scuote la borraccia. — Oh insomma! la volete capire che sono stanco e stufo che non ne posso più? Andate al vostro posto, subito, di corsa, o vi faccio mettere alla guardia del campo per quindici giorni.... Che modo è questo? — Impostore! — mi ripete la solita voce. — È vero, io rispondo un’altra volta, e smetto. — Oggi il signor tenente è di malumore! — dicono i soldati. — No, no — io rispondo sollecitamente tra me; — no, razza di bricconi. —
Risposta: — Io lo dico spesso con tua sorella Erminia: Alberto se l’è proprio conservato tutto, tal’e quale, il cuore che aveva da fanciullo. Non dico che sia merito mio; ma però....
La divisione è partita da Ferrara alla volta di Padova.
Monselice.... luglio.
Trista cosa marciar colla pioggia. Era già notte, eravamo ancora lontani quattro miglia da Rovigo, e cominciò a piovere a catinelle. In pochi minuti mi trovai ridotto come se mi fossi cacciato in un bagno bell’e vestito; l’acqua mi correva a rigagnoli giù per la schiena e pel petto; il cappotto mi s’era inzuppato che pesava da non poterlo più reggere; nella strada un palmo di fango; sicchè, figurati! Passando, vedevamo per le finestre delle case dei contadini «rara tralucer la notturna lampa» e qualche ombra far capolino un istante e sparire. Ed io pensavo a te, che quand’ero fanciullo, la sera, spingevi il mio letticciuolo verso la finestra, perchè mi piaceva sentir battere la pioggia sui vetri e il fischio lungo e lamentevole del vento, e addormentarmi fantasticando paurose avventure di pellegrini smarriti per le foreste, e misteriosi lumicini risplendenti da lunge, e fatali castelli ospitali. — Oh povero ragazzo, in che stato! — esclamavi giungendo le mani quand’io tornava dalla scuola un po’ fradicio; povera mamma, se tu mi vedessi adesso! — Era il giorno delle disgrazie. Arriviamo vicino a Rovigo, piantiamo il campo in un pantano, e poi via, in paese. Io e un mio amico troviamo una stanzuccia dove asciugarci e riposare, in casa d’una buona famiglia; ci mettiamo a letto, dormiamo; balziamo giù alle nove della mattina per andare al campo e partire.... Dio eterno! non m’entran più gli stivali; li ho lasciati accanto al fuoco, si son ristretti e induriti che non ci passa neanco la gamba d’un bambino. — Aiuto, amico, aiuto per pietà! — A noi! — egli grida; si rimbocca le maniche, e li tutt’e due, tira e tira e tira, e smetti per respirare, e ripiglia con nuova lena, e smetti daccapo, e ritenta ancora con tutte le forze della disperazione.... Ah invano! Le gambe intormentite si rilassano, le braccia spossate cadono penzoloni, e la testa si riversa all’indietro cogli occhi fuori dell’orbita e la fronte grondante di sudore. — Un estremo rimedio! — grida l’amico; scucir gli stivali. — Scuciamo! — Mano alle forbici e ai temperini, e all’opera. Ma i punti non si vedono, e più ci si affanna e meno si trovano, e le dita gingillano tremanti, e lo stivale scivola dalle mani, e il mio amico s’è ferito, ed io pure, e il tempo passa.... Ah! i tamburi! siamo perduti! — Il reggimento partì senza di noi; lo raggiungemmo in vettura un’ora dopo che s’era accampato. — Come mai? — domandarono gli amici. Io risposi mostrando i piedi: li avevo cacciati nel primo paio di barche postomi in mano dal primo ciabattino di Rovigo che avevamo mandato a chiamare: erano spettacolose. Un minuto dopo, un biglietto d’arresto a me e al mio compagno. Appena entrato nella tenda, sbattei in terra gli stivali gridando: — Là, carnefici! — Ma lei che non aveva l’impedimento della calzatura, — domandò poi il colonnello al mio compagno, — perchè non è venuto? — Colonnello! abbandonar gli amici nella sventura....
Risposta: — Quante volte non ho predicato, fin da quando eri bambino, contro questa maledetta manìa di portar le scarpe strette! Chi sa cos’avrà detto di te il colonnello! Ma non c’era almeno una donna che avesse un po’ la testa a segno in quella casa di Rovigo, che cercasse subito, mandasse a vedere, provvedesse, vi levasse in qualche modo d’impiccio? Pare impossibile! tutti senza giudizio.
Dalle vicinanze di Mestre, 20 luglio.
— ... Ho visto Venezia da lontano. Non credevo che si potesse amar tanto una città da provare, vedendola, quello stesso effetto che fa l’innamorata. Al primo vederla, così stupenda e gentile, che sembra a galla sul mare, non mi venne sulle labbra nè un «viva!» nè un «bella!» come parrebbe spontaneo; mi venne una parola più affettuosa e più dolce, ed esclamai: — Cara! — Dice un mio amico che Venezia, vista così da lontano e di sera, gli fa l’effetto d’una fanciulla pallida e melanconica, appoggiata sul davanzale, col capo reclinato da una parte sulla palma della mano, e lo sguardo teso sull’orizzonte del mare, in atto di chi pensa ed aspetta. E appena la vide gridò: — T’amo! — Sì, tale è il senso che ispira da lontano Venezia; dentro sarà grandiosa e magnifica e ne imporrà; vista di qui intenerisce e innamora. Cara madre, tu hai una rivale formidabile....
.... Gran buona gente questi contadini veneti. Ero di gran guardia vicino a una casipola, avevo sonno e picchiai per domandare ricovero; nota ch’eran le due dopo mezzanotte. Mi apre una donna, mi fa entrare nella prima stanza, mi porta un pagliericcio, una materassa, una coperta, un guanciale, mi dà la buona notte e va via. Mi corico e dormo da principe. La mattina appena desto, mi affaccio all’altra stanza per ringraziare la mia ospite, e la vedo che dorme stesa in terra, sopra un po’ di paglia, con due bambini, uno fra le braccia, l’altro da un lato, senza un lenzuolo, senza un guanciale, senza un cencio di coperta; aveva dato ogni cosa a me. N’ebbi rimorso, ira, vergogna; mi diedi dello snaturato, del poltrone, del villano, del tristo.... Non ricorderò mai quella notte senza dolore.
Risposta (ah pietosissima spietata!): — Un po’ di torto l’hai certamente; ma.... in fin dei conti tu avevi faticato e dovevi levarti per tempo; mentre quella donna aveva dormito fino allora e poteva dormir poi. Un’altra volta badaci però.
.... Dalle vicinanze di Mestre.... agosto.
.... — Senti questa ch’è nuova di zecca. Ieri l’altro ero d’avamposto dalla parte di Malghera. Allontanatomi un centinaio di passi dalla gran guardia, veggo venir verso di me tre signore, una attempata, le altre due giovanissime (eran sue figliuole), belline, vivaci; e tutt’e tre mi si ferman davanti, mi fanno un inchino, mi domandan nuove della mia salute, mi dicono che sono scappate da Venezia, che son dirette a Mestre, che vogliono andare a Padova dai loro parenti, e che intanto sono felicissime di vedere un ufficiale italiano, — non n’avevano ancora veduto nessuno, io era il primo, — e mi fanno festa, mi affollano di gentilezze, ridendo, girandomi intorno, giungendo le mani in atto di ammirazione e di sorpresa, e tutto questo con una ingenuità e una grazia veramente incantevoli. Dopo ch’io l’ebbi ringraziate tutt’e tre con grande effusione di cuore, la mamma si voltò alle ragazze e disse loro: — Fategli vedere che cos’avete sotto il vestito. — Oh che diavolo? — io pensai. Le ragazze si peritavano. — Animo, alzate. — Alzate! — pensai di nuovo. — Animo, su, o che c’è da vergognarsi? — Io cadevo dalle nuvole. Le ragazze fecero ancora un po’ le ritrose, ridendo e coprendosi il viso con una mano; e poi, tutt’e due assieme, facendomi un grazioso inchino, tiraron su delicatamente con tutt’e due le mani la gonnella del vestito, e mi mostrarono una bellissima sottana fatta di tre pezzi, uno verde, uno bianco, e uno rosso con una gran croce bianca nel mezzo....
Risposta. — Cosa viene a fare codesta signora colle sue figliuole in mezzo a voialtri? Abbi giudizio. Te lo dico perchè so che ce n’è bisogno; hai una testa!
Padova, 5 settembre.
.... — M’ha preso la febbre, sono venuto a Padova, sono entrato nel l’ospedale dei Fate-bene-fratelli, m’hanno curato, sono guarito, e domani torno al reggimento: ecco tutto. T’ho voluto scrivere a fatto compiuto, come suol dirsi, per impedirti di venir qua, chè certo ci saresti venuta. E adesso va’ in collera, grida, scrivi, protesta; la è tutt’una; è finito; bisogna rassegnarsi. Anzi, fa’ a modo mio, cara madre; ringrazia il cielo che non sia stata che febbre; pensa a questi poveri giovani che ho intorno, chi ferito di palla, chi di baionetta, condannati al letto chi sa per quanti altri mesi, e fortunati quelli che s’alzeranno ancora. Ho davanti a me un luogotenente dei granatieri, lombardo, che s’è preso una baionettata nel petto, a Custoza, da un sergente dei croati, e ferito com’era non s’è voluto allontanare dal campo. M’ha fatto veder la sua tunica; è ancor tutta macchiata di sangue. È quasi guarito, si leva, cammina; ma quando si sveglia, nell’atto che fa per mettersi a sedere sul letto, prova ancora dei dolori atrocissimi. Mi raccontò il fatto. — Mi ricordo di poco, — mi disse; — mi ricordo come di un sogno, d’aver veduto quattro o cinque ceffi orrendamente stravolti correre contro di noi mandando un urlo prolungato, e uno di essi mi guardava. Ho sempre presenti quei due occhi spalancati e la punta di quella baionetta; era un uomo alto, nero, con due gran baffi. In che modo sia riuscito a ferirmi non mi sovvengo. Ricordo che mi passò dinanzi, rotando la sciabola, un ufficiale austriaco senza barba, un viso femmineo, giovanissimo, che gridava disperatamente: — Jesus Mària! Jesus Mària! — Passò e scomparve. Quello lì lo vedo sempre, lo riconoscerei. Parecchi giorni dopo, essendo all’ospedale colla febbre e il delirio, mi sentivo ancora l’orecchio intronato da quegli urli e dal suono dei fucili cozzanti, e vedevo lontano lontano una punta scintillante che veniva innanzi, nella direzione del mio cuore, lentamente, lentamente, come se mi guardasse per riconoscermi; e me la sentivo entrar poi tutt’ad un tratto nelle carni, dura, fredda, e starci lungo tempo e andar sempre più giù. Ti parrà strano; ma per molti giorni, ad ogni rumore improvviso ch’io sentissi, allo sbatter d’un’imposta, al cader d’una seggiola, mi correva un brivido per tutta la persona.... — Questo povero giovane, ferito com’è, l’altra notte saltò giù dal letto in camicia e venne a domandarmi se avevo bisogno di nulla, perchè gli era parso ch’io mi fossi lamentato. Mi vergognai. Un imbelle e volgare febbricitante esser causa che un nobile ferito di baionetta s’incomodi per lui! Da quella notte in poi, ad ogni rumore ch’egli fa, sia anco russando, salto giù. —
— Il quartiere generale è a Padova, lo sai? Ieri, mentre dormicchiavo, mi vidi balenare sugli occhi un petto coperto di medaglie e di croci; guardo, è lui, è il «burbero benefico.» Ci stette un’ora. Entrai a discorrere della guerra; egli lasciò cadere il discorso; non sorrise mai; era molto tristo. Mi lasciò stringendomi a più riprese la mano e dicendomi con molta serietà: — Sii forte. —
La risposta è una protesta violenta, che dalle prime all’ultime parole va però gradatamente scemando di forza, tanto che comincia: — Sei proprio indegno dell’immenso bene che ti voglio.... Il cielo è ben crudele con me,... — e finisce: — Sia ringraziato il cielo; vedo proprio che ci protegge: e tu sii benedetto, mio buon Alberto.
Martellago, 15 settembre.
.... Finalmente! Siamo per la prima volta acquartierati a Martellago, poco lontano da Mestre; ho una camera! un letto! un tavolino! uno specchio! Oh felicità sovrumana! Tu non lo capisci, cara, che cosa voglia dire per noi possedere un po’ di casa dopo tanti mesi che si dorme in terra e ci si lava il viso nei rigagnoli. — È mia! — esclamo misurando in lungo e in largo la camera a passi lenti e gravi, e girando lo sguardo sulle pareti. — È mia; me la pago e me la passeggio e me la godo e tengo tanto di chiave in tasca! — La prima sera, nell’atto di salir sul letto, ho provato una certa peritanza, una certa soggezione; mi pareva d’essere un contadinaccio penetrato segretamente in un salotto di signori, e che da un momento all’altro mi dovesse calar sulle spalle una tempesta di bastonate. Poi, quando ho messo il ginocchio sulla sponda e l’ho sentita dar giù, credetti di cadere, mi trattenni, sorrisi e risalii, con una sorpresa, con un piacere, che mi ricordò quello che provavo da ragazzo aprendo la scatoletta da cui saltava fuori il mago sabino con quella gran barba. Che sonno delizioso! Che allegro svegliarsi!... Una camera! Ma io sono un re; voglio spassarmela, voglio fare il giovin signore; voglio goder la vita. Ho già cominciato. Mi son fatto portare il caffè a letto; mi son levato e vestito lemme lemme, sbadigliando voluttuosamente e domandando ogni momento del tempo e dell’ora; ho avuto l’impertinenza di mandarmi a chiamare un barbiere del paese, e di riceverlo sdraiato sulla poltrona, e di accendere un sigaro e di aprire un libro.... Gran bella cosa nuotar negli agi e nelle morbidezze! Cara, lo crederesti che io amo tanto la mia cameretta da curare la disposizione simmetrica delle seggiole? Tu riderai; eppure.... Adesso comincio a rendermi ragione del perchè e del come voi altre donne amiate tanto la casa; non ti burlerò più per quella tua cura religiosa che tutto sia al suo posto, pulito, lucido. Quante cose insegna la tenda! —
Risposta: — Per capir certe cose non ci dovrebb’essere bisogno della tenda, mi pare! Dormi colla finestra chiusa; non son più giorni da pigliar aria i primi di settembre; se non hai abbastanza coperte, chiedine alla padrona di casa. A proposito: è giovane questa tua padrona? è maritata? ha figliuoli? Che donna è? Queste padrone di casa mi dan sempre da pensare perchè per solito vogliono immischiarsi un po’ troppo nelle cose che non le riguardano. Tu poi sei un benedetto ragazzo!
Martellago, 16 settembre.
.... È strano; cioè è naturalissimo, ma in sulle prime mi parve strano, che fra noi, dopo una campagna, anche coloro che parevano più spensierati, più freddi, più cinici, sentano un prepotente bisogno d’affetto, e parlino ad ogni momento e con tutti della loro famiglia (molti avean persino dimenticato d’averla), e scrivano di qua e di là, e custodiscano religiosamente le lettere, e scongiurino gli amici lontani a mandare i ritratti, e cerchino per mare e per terra un amoruzzo sentimentale pur che sia. Questi mutamenti seguono più generalmente e in modo più pronto e più vivo dopo una guerra sfortunata; si capisce. Certuni sono andati a dissotterrare non so che cugine lontane, di cui forse non sapean neanche il nome, ed hanno intavolato con loro una corrispondenza letteraria disperata. Le cugine, sorprese e intenerite dalla subita e appassionata espansione di quei cuori, rispondono cose di fuoco; i ferri, come si dice, si scaldano; prevedo di gran matrimoni. Le guerre rubano molti figliuoli alla patria; ma gliene preparano anche molti. Se tu li vedessi, come li vedo io, certi don Giovanni in diciottesimo, certi crapuloni, che qualche mese fa ponevano la bottiglia, il sigaro e la bionda o la bruna al di sopra di tutti gli affetti e di tutte le felicità umane; se tu li vedessi la sera, appoggiati alle finestre, guardar la luna con occhio melanconico, e lamentarsi con me: — Son due giorni che non mi scrive! — È inutile, già; la donna è sempre la nostra riverita signora e padrona; l’ambizione, la gloria, qualche altra felicità aspettata o sperata, possono qualche volta illuderci, farci credere che si possa fare a meno di lei, nasconderla, per così dire, agli occhi della nostra mente e ai desiderii del nostro cuore; ma poi.... Ella non ci arresta, come dice il Manzoni, nel viaggio superbo;
Ma ci segna; ma veglia ed aspetta, |
Risposta: — E tu chi hai dissotterrato? Per carità: giudizio! giudizio! giudizio!
17 settembre.
— .... Un altro fenomeno da notarsi, dopo una guerra, è l’ardore della lettura che rinasce vivissimo in tutti, anche nei più alieni, o per indole d’ingegno o per insufficienza di coltura, da questa maniera di occupazione e di diletto. Tutti leggono, tutti cercan libri; il parroco del paese è stato costretto a mandare in giro tutti i volumi della sua biblioteca. A me che vado agli eccessi, come tu dici, in tutto, è venuta una vera manìa; non è più voglia di libri quella ch’io sento, è fame, fame rabbiosa. Ma son sempre fedele al mio amore antico. Tutte le ore libere del giorno e della sera le passo leggendo e rileggendo e pensando e sviscerando questo caro, questo benedetto, questo santo romanzo I Promessi Sposi, mio eterno compagno ed amico, fonte per me di tante dolcezze, di tante consolazioni, e di quella eguale e soave tranquillità d’animo e di cuore, in cui ogni mio affetto si purifica e si rafforza, ogni mio pensiero s’innalza, e le cose e gli uomini e il mondo e la vita, tutto mi si presenta all’intelletto sotto il suo aspetto migliore, tutto circonfuso d’amore e di speranza. Non so come; ma la mia patria, il mio reggimento, te, gli amici, tutto sento d’amar di più e più nobilmente, meditando questo vangelo della letteratura. E non v’è una pagina a cui non sia legato un ricordo delle nostre prime letture; quando tu tenevi il libro sulle ginocchia, ed io leggevo e tu ascoltavi, e le mie lacrime cadevano sulle tue mani, e a certi punti si chiudeva il libro e ci abbracciavamo; o s’io leggeva nella mia camera, uscivo e venivo a cercarti per piangere fra le tue braccia. L’ho qui dinanzi questo libro, lo tengo fra le mani, me lo stringo sul cuore e gli dico: — Per tutte le lacrime che hai fatto spargere a me e a mia madre, per tutti i santi affetti che m’hai destati e tenuti vivi nell’anima, per tutto l’amore che m’ispirasti agli uomini e alla vita e alle cose nobili e grandi, io ti giuro che come fosti la mia prima lettura, sarai l’ultima, e che fin che la mia mano ti potrà reggere ed il mio sguardo fissarti, cercherò te, sempre te, libro-paradiso! —
Dopo questa lettera c’è l’annunzio della partenza da Martellago, e poi, giorno per giorno, un cenno delle partenze e degli arrivi successivi, da Padova a Rovigo, da Rovigo a Pontelagoscuro, da Pontelagoscuro a Ferrara, da Ferrara a Modena, da Modena a Parma.
Parma, 16 ottobre.
— Senti che tiro m’ha fatto quel briccone di ordinanza. Due settimane fa, ricorrendo il giorno del suo nome, presi una bottiglia di barbèra dal vivandiere, ci attaccai sul collo un pezzo di carta con suvvi scritto — San Remigio — e, colto un momento ch’egli non c’era, andai a mettergliela sotto la tenda. Non seppi altro; non mi ringraziò; non die’ mai segno di nulla; credetti che glie l’avessero rubata. Ieri sera, tornando da una passeggiata fuori del campo, entro nella tenda e vedo al mio posto un gran monte di paglia fresca, ben raccolta e spianata, che pareva levata allora da un pagliericcio; e dalla parte dove metto la testa, un’immagine di santo appesa al sostegno della tenda, con foglie e fiori intorno, e un cerino acceso dinanzi; accanto, sul coperchio del baule, un astuccio di legno, fatto col coltello, che poteva passare per un portasigari; sotto l’astuccio un mazzetto di sigari legato con un nastrino rosso. Guardo l’immagine: c’è scritto su — Santa Teresa —; guardo l’astuccio — Santa Teresa; — guardo il nastrino dei sigari — Santa Teresa. — Ne rimasi commosso. Non credevo che il cuore di questo giovane, oltre all’esser tanto buono, fosse anche tanto delicato, da onorare e festeggiare il nome di mia madre invece del mio. —
La risposta della madre è un vero schiaffo al regolamento di disciplina. Se il soldato d’Alberto fosse diventato ad un tratto generale d’armata, essa non avrebbe potuto scrivere in altro modo. E pare che in seguito il signor Remigio non fosse mal ricompensato della sua delicatezza perchè un giorno si presentò all’ufficiale con una lettera di casa sua tra le mani e colle lagrime agli occhi, e fece con voce tremante un lungo ringraziamento....
— Ho capito — disse Alberto tra sè quand’egli ebbe finito; — le due madri sono amiche. —
Da Parma a Piacenza, da Piacenza a Pavia, da Pavia a Bergamo; altri quindici giorni di marcia, di cui la metà colla pioggia. — Penso alle scorticature dei tuoi poveri piedi — dice una lettera della madre, e non posso far altro che mandarti dei sospiri di dolore. — Mandami delle calze di filo — risponde il figliuolo.
Bergamo è l’ultima stazione, dalla quale ricomincia il racconto di Alberto.
ritorno.
Eran gli ultimi giorni di dicembre; io era sempre a Bergamo col mio reggimento, ricreandomi co’ libri dal servizio di guarnigione, che sempre, ma in ispecie dopo una guerra, è d’una monotonia e d’una noia.... Zitto! Non pensavo nemmeno a tornare a casa perchè il periodo dei lunghi congedi non era per anche aperto, e di brevi sentivo dire che il colonnello non ne voleva dare, se no l’avrebbero chiesto tutti; mia madre continuava a scrivermi che — assolutamente e a qualunque costo mi voleva rivedere e non poteva più durarla così, — ed io a risponderle: — abbi pazienza; aspetta un altro poco, — ed ella: — è impossibile; e io daccapo a quetarla, e intanto passavano i giorni e le settimane.
Una bella mattina sento picchiare all’uscio della mia camera, apro: — Chi veggo! Colonnello!
Mi salutò con molta gravità, non volle sedere, mi disse che veniva da Venezia, ch’era diretto a Milano, che aveva buone notizie della mia famiglia.... A questo punto mi guardò in viso e disse con una cert’aria di pietà e di rimprovero: — Io già capisco che tu hai una gran smania di tornare a casa.
— Eh.... dopo una campagna! — risposi umilmente.
— Campagna! campagna! — egli ripetè in suono di stizza; — non la chiamare così; sono state quattro marcie mal fatte e quattro schioppettate mal tirate. —
Io tacqui. Egli continuò serio serio: — Avvezzati a tenere il reggimento per la tua vera famiglia. —
Io continuai a tacere. E lui:
— Tu, per indurirti un po’ codesto cuoricino di cera, per diromperti un po’ alla vita del soldato, che non sai ancora cosa sia, lasciatelo dire, avresti bisogno di fare una campagna nelle Indie almeno almeno di cinque anni. —
Ed io zitto. E lui ancora:
— Tutta questa impazienza, tutto questo gran bisogno di riattaccarsi al grembiale della mamma, è molto antimilitare. —
Io sempre muto. Seguì una breve pausa, ed egli soggiunse raddolcendo appena sensibilmente la voce:
— Ho parlato col tuo colonnello; t’ha dato un congedo di cinque giorni; puoi partire anche subito. —
Caddi dalle nuvole; volli ringraziarlo, esprimergli tutta la mia riconoscenza, dirgli che gli andavo debitore d’una gran felicità, che mi sarei ricordato sempre.... Mi troncò la parola in bocca dicendomi che partiva subito; si accomiatò, e giunto sulla porta si voltò ancora una volta indietro per dirmi:
— Sii soldato. —
E se n’andò. Feci un salto da sfondare il pavimento, e urlai: — Remigio! — Remigio venne. — Fammi la valigia, subito. — Quando seppe dove andavo, ne parve più contento di me: — Che festa, figuriamoci, per la sua signora madre! Mi par di vederla. — Metti dentro l’immagine di Santa Teresa, i fiori secchi, l’astuccio e i sigari — io gli dissi. Egli mi guardò meravigliato. — Ah! tu non sai dove siano! Eccoli qua. — E aperta una cassettina che tenevo sempre chiusa, vi presi e gli porsi ogni cosa. — Ha conservato tutto! — esclamò quel buon soldato giungendo le mani in atto di grande sorpresa, e seguitò per un po’ di tempo a guardare ora me ora gli oggetti sorridendo ed esclamando affettuosamente: — Anche i fiori secchi! —
Di tutto quello che ho fatto prima di partire non mi ricordo altro se non che, visitato il colonnello, girai come un arcolaio per la città e pigliai a braccetto tutti gli amici che incontravo, non ristando mai dal magnificare le bellezze di Bergamo: — Guarda che cielo! guarda che colline! guarda che stupenda pianura! — e gli amici si stringevano nelle spalle. L’ordinanza mi accompagnò alla stazione; pagai il biglietto e mi dimenticai di pigliare il resto; mandai un dispaccio telegrafico a mia madre, dicendo non so che sciocchezza al telegrafista, che ebbe la bontà di ridere; fumai, o piuttosto disfeci a morsi due o tre sigari in pochi minuti, e finalmente.... — Signor tenente — mi disse l’ordinanza porgendomi la valigia quando cominciò a sonar la campanella; — mi faccia il favore di portare i miei saluti alla sua signora madre, e dirle che io non mi sono mai dimenticato della bontà che ella ebbe per me e per la mia famiglia e che le ho sempre....
— Che le hai sempre voluto bene, sì, dillo pure, mio buon Remigio; non mi dimenticherò di nulla; a rivederci presto; addio.
— Buon viaggio, tenente! —
Il convoglio era già in moto; misi fuori la testa e vidi ancora la mia ordinanza ferma dietro il cancello della stazione; appena mi scorse, alzò la mano alla tesa del cheppì e ve la tenne fin ch’io gli disparvi allo sguardo.
Dovevo arrivare a Torino alle dieci della sera.
Giunto alla stazione di Milano, vidi un battaglione di fanteria che si disponeva a salire su lo stesso convoglio; riconobbi un ufficiale mio amico, e lo chiamai. — Andiamo a Torino — mi disse; — s’aspetta che attacchino dell’altre carrozze; abbiamo con noi il colonnello e lo stato maggiore; il comando del reggimento resterà a Torino; ci si scrive di là di non so che accoglienza che ci sarebbe preparata alla stazione.... Anche questa ci mancava! Gli applausi, oramai, mi fanno molto peggiore effetto dei fischi. Oh speranze! Domanderò la dimissione, anderò a fare il consiglier comunale nel mio paesucolo, sarò capitano della guardia nazionale, mi abbonerò alla Gazzetta Ufficiale, porterò i calzoni larghi in fondo, piglierò moglie e tabacco, e morirò cavaliere. È il mio destino. Addio. —
Il suo reggimento, di cui non ricordo il numero, s’era splendidamente condotto alla battaglia di Custoza.
Quel viaggio da Milano a Torino fu eterno. — Che tormento — dicevo — star rinchiusi in questa prigione di carrozza! Non c’è aria, non si respira; ci dovrebbero essere dei posti sopra, che diavolo. Oh! intanto godiamoci il nostro arrivo colla fantasia. Supponiamo di essere già entrati nella stazione. No, è troppo presto; voglio godere lentamente. Supponiamo di essere ancora fuori della cinta di Torino, molto fuori. Il convoglio va, va, va; ecco la cinta; oh che respiro! Ecco le prime carrozze della stazione; oh Dio! supponiamo un impedimento qualunque; fermiamoci; va troppo presto questo maladetto convoglio. Avanti, s’entra nella stazione, il convoglio si ferma, no! non ancora! che fretta importuna! lasciami godere a mio bell’agio; così; avanti. Dio mio! eccomi sceso, ecco lì fuori la gente che aspetta, ecco.... Oh che caldo con questo cappottacelo pesante! Ma come fate voi altri a dormire, — dicevo guardando i viaggiatori che avevo intorno; — come fate a dormire voi altri con questa febbre che.... ho io?
Ah! non è più fantasia! Ecco le belle colline di Torino, ecco la cinta, ecco quei campi, quelle case, ecco le prime mura della stazione; oh chetati cuore! Coraggio, su lo sguardo; ah! ecco i tre palazzi di Via Nizza! La finestra! Cielo! chi c’è alla finestra che alza ed abbassa le braccia in atto di saluto? È lui! è lui! è il mio papà!... Che sento! la musica! le fiaccole! Tutto come quella sera! Il convoglio si ferma, salto a terra, esco di corsa, ecco la folla, eccoli! eccoli tutti! mi hanno veduto, m’apron le braccia.... — Ah! madre! — Sento ancora intorno al collo la stretta vigorosa di quelle due braccia convulse, odo ancora quella musica, veggo ancora quella luce.
Siamo davanti all’uscio di casa, si apre, mi getto nelle braccia del mio buon papà, che piange e ride senza poter far parola; ecco tutti i suoi nipotini, un bacio per uno, forte, che lasci il segno; ecco la signora napoletana, ecco suo figlio. — Grazie della carta topografica! — Risa generali; arrivano altri vicini; sostengo un assalto impetuoso di saluti, di felicitazioni, di strette di mano, di domande; mia madre mi si stringe ai panni, mi disputa a tutti, mi guarda, mi tocca le braccia, le mani, le spalle, se son tornato tutto intero; le mie sorelle girano di qua e di là per farsi un po’ di strada e venirmi a riabbracciare; i bambini mi saltano intorno; è una festa.
Finalmente, a poco a poco, i vicini e gli amici se n’andarono; se ne tornò a casa mia sorella maggiore; se n’andò a dormire, colle lagrime agli occhi, anche l’altra; mio fratello uscì, e non restammo che mia madre ed io.
Appena soli, ci sedemmo in gran fretta l’uno di fronte all’altra, avvicinando le seggiole e pigliandoci per tutt’e due le mani, come fanno gl’innamorati quando restano un momento senza testimoni, e mia madre, tratto un sospirone in cui si sentiva tutta la storia della guerra, cominciò a dirmi con voce commossa: — Che giorni ho passati, figliuol mio, che ansietà, che terribili batticuori! Non te lo scrivevo per non rattristarti; ma mi pareva deserta questa casa dopo la tua partenza! Non sentir più, a quella solita ora, il tuo passo concitato su per le scale, la tua voce allegra, quella scampanellata che ci faceva correre tutti a chi arrivasse pel primo, non esser più messa in riga coi nipotini del tuo papà; non aver più da starti intorno perchè non ti dimenticassi l’ora della piazza d’armi.... Che sere lunghe, eterne! E il giorno poi! Se splendeva il sole, — povero Alberto, in marcia con questo caldo! — Se pioveva, — povero Alberto, se la piglia tutta! — La sera avevo quasi vergogna di andare a letto pensando che tu dormivi sulla terra, e, quando tuonava, mi svegliavo, accendevo il lume e dicevo: È impossibile, è impossibile ch’io dorma con questo tempo! Chi sa dove sarà adesso quel povero figliuolo! — Ero persino diventata superstiziosa dal continuo tremare e tormentarmi per te; andavo a cercare una cosa, e dicevo tra me: — Se la trovo, non gli seguirà nessuna disgrazia: se non la trovo;... — come le donnicciuole. A guardare i tuoi vestiti, i tuoi libri, tutte le tue cose, mi si stringeva il cuore. Mi era un tormento il vedere e sentire che qui nel vicinato c’era della gente allegra; veder dei giovanotti della tua età e della tua condizione passeggiare per la città tranquilli e contenti mi faceva male; mi affacciavo alla finestra a guardare quei pochi soldati che passavano, e li guardavo sin ch’erano spariti; mi pareva che avessero un po’ di te. Leggevo e rileggevo tutte le tue lettere degli anni andati, e mi rifacevo in mente la tua storia, la nostra, a cominciare dalle notti che ti vegliavo bambino, e poi quando andavi a scuola, e io piangevo se tu tornavi col pensum e te lo facevo io ingegnandomi di imitare i tuoi caratteri, e guardavo, non potendo far altro, e bagnavo di lagrime l’Antologia latina quando tu non riuscivi a tradurre e ti disperavi. E poi ricordavo gli anni che sei stato in collegio, e il tempo che fosti qui così allegro, così felice, e quella sera ch’io sentii quella musica che mi lacerava il cuore e mi rannicchiavo in un angolo della mia camera turandomi le orecchie colle mani.... La paura di perderti da un momento all’altro mi faceva parer quasi un sogno l’aver questo figlio di nome Alberto! Mi parevano scorsi pochi mesi dal primo giorno che t’avevo veduto! E la sera, dopo che tua sorella era andata a dormire, ed io restavo qui, in questa camera, sola, cadevo in ginocchio là, guarda, accanto a quel letto, e pregavo Iddio come e quanto non l’aveva pregato mai pel passato, e gli offrivo cento volte la mia vita per la salvezza della tua, e pronunciavo cento volte il tuo nome, forte, come se tu fossi stato là presente a sentirmi; finchè mi mancavano le forze, mi sentivo un’oppressione qui sul petto, che mi pareva di morire.... Ma tu sei qui, tu sei salvo, sei mio, posso guardarti, parlarti, abbracciarti, stringermi sul seno questa cara testa. Oh mi pare un sogno! mi pare impossibile! Dimmi che sei proprio qui, Alberto; dimmi che mi ascolti, dimmi che mi vedi piangere.... —
Io le caddi davanti in ginocchio.
— Ma figlio, che cosa fai? alzati!
— Ma cara madre che cosa pretendi? Ascoltami. Se ho patito, non ho patito che per te, perchè ti voglio bene. Ero stanco? Avevo sete? Se lo immagina, pensavo, quella povera donna, e soffrivo. Ma questo immenso affetto che ti porto mi dava forza e coraggio. Patisco? dicevo; oh! mia madre ha patito molto di più per me, e con che animo, quando malata dissimulava il dolore e il pericolo per non atterrirmi. E pensando a te, al bene che mi vuoi, alla stima che fai del mio cuore e del mio carattere, l’idea, soltanto l’idea d’un atto ignobile e dappoco mi metteva orrore perchè mi pareva un oltraggio a te, e meglio che oltraggiarti morire. E anch’io, sai, mi rifacevo in mente la tua storia, in quelle lunghe sere passate sotto la tenda; e come i bambini fantasticano il paradiso a modo loro, io mi sognava di vederti bambina; e poi fanciulla; quando là nel tuo giardino di Savona leggevi i libri che mi ponesti tra le mani pei primi; e poi sposa e poi madre, quand’ero malato, e tu per ricrearmi facevi que’ cappellini di carta, ti ricordi? e te li mettevi in testa e sonavi il tamburo con due righe sulla spalliera della seggiola, e mi portavi il caffè a letto, e io non volevo, e tu mi dicevi: — Lasciatelo portare; queste sono le mie consolazioni. — E poi tutta l’assistenza che hai fatto al mio povero padre infermo, quelle lunghe notti vegliate: cara! santa! E poi quando son tornato la prima volta dal collegio e tu m’hai baciato la tunica. — Ma chi è questa donna? — mi domandavo: guarda che pazzo; perchè mi ama, perchè mi adora tanto, che io per lei sono la vita, il mondo, la felicità? In grazia di che tutto questo? Che meriti ho io? Chi sono? Ce ne son ben tante altre madri che non sono, che non fanno come lei, e perchè Iddio doveva proprio destinarlo a me quest’angelo? O perchè almeno non le ha dato un figliuolo più degno? No, no, lasciamelo dire; com’esserti grato abbastanza? come compensarti? Ti mettessi anche ai piedi la corona del mondo, ti renderei io forse la millesima parte del bene che mi ha fatto codesta tua bell’anima, codesto tuo santo cuore? Senti: te l’ho sempre detto, te lo ridico, te lo dirò eternamente, te lo ripeterei nel mio ultimo istante; voialtre madri nessuno vi conosce, pochi vi capiscono; ma se vi conoscessero e vi capissero tutti, se il mondo si occupasse delle grandi madri come dei grandi cittadini, a una madre come te, vedi, a un angelo come te si innalzerebbe un monumento....
Mia madre mi pose una mano sulla bocca.
.... — Un monumento d’oro, e tutti quelli che hanno anima e cuore, e io prima di tutti bacerebbero l’orma dei tuoi piedi come un’immagine sacra!
— Alberto! Alberto! taci! è troppo! io non reggo! —
E tutti e due, stretti per le mani, tremanti, ansanti, io in ginocchio, ella chinata sopra di me, ci guardavamo negli occhi, piangendo, sorridendo, chiamandoci per nome.
.... — E anche adesso ti bacio la tunica! — esclamò ella poi con impeto, e mi abbracciò e mi inchiodò la bocca sul petto.
— Madre! io le dissi tenendole ferma la testa colle mani e guardandola fiso: — tu sei sublime!
Pochi minuti dopo, tutti e due col lume in mano, ella andava verso la porta della sua camera, e io, dalla parte opposta, verso la mia.
Giunti sulla soglia ci voltammo tutti e due, si rise e si tornò in mezzo alla stanza.
— Che cosa volete voi? — le domandai stringendole il mento tra il pollice e l’indice per farle alzare la testa.
— Niente, e voi cosa volete?
— Niente anch’io; dunque andate per la vostra strada, voi.
— E voi andate pei fatti vostri. —
Un’altra volta tutti e due sulla porta e tutt’e due vôlti indietro.
— Alberto!... Chi sei tu?
— E tu chi sei?
— Tu sei un cattivo soggetto.
— E tu sei una santa. —
Ella mi guardò, scrollò la testa, e stette un po’ di tempo immobile in quell’atteggiamento, illuminata di sotto in su dalla candela, cogli occhi lucenti di lagrime, con un sorriso e una serenità così calma e soave che pareva proprio una santa.
Quante volte, ora ch’io vivo lontano da lei, tornando a casa a notte avanzata, solo, tediato, col peso di qualche rimorso sul cuore, mi par di vederla là sulla soglia, immobile in quell’atto, in aria di dirmi: — Tu sei un cattivo soggetto!
È un rimprovero dolce; ma solenne, che mi risuona nel profondo dell’anima, e mi fa pentire, e fermare il proponimento d’essere quindi innanzi più onesto, più buono, più degno di lei.
E addormentandomi, mi trema ancora dinanzi agli occhi l’immagine di quel volto ridente e luminoso.