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tutta l’indole generosa e guerriera di quella città. Bastava passare la sera in una delle strade principali, per accorgersi dal brulichìo, dall’atteggiamento insolito della gente, da quei drappelli d’operai, di studenti e di fanciulli, che qualcosa v’era, che qualcosa bolliva nell’animo di quel popolo, che qualche gran fatto era seguito o stava per seguire. Parevan tutte sere di festa.

Eran que’ giorni che, incontrando un soldato, si guarda; e si almanacca sul cavalleggere che traversò la strada con un plico nell’abbottonatura della tunica; e la gente si ferma a veder passare i convogli del treno d’armata; e nelle scuole de’ ragazzi non c’è più modo di tenere un po’ di quiete; e i vecchi ufficiali pensionati parlano ad alta voce nei crocchi dei caffè battendo il pugno sul tavolino; e le madri si fanno pensierose; e i giovanotti diventano pazzi; e le donne si veggono guardate un po’ meno del solito, e cessano un po’ d’intromettersi, come fanno sempre, in tutti i pensieri, in tutti i desiderii, in tutti i disegni; ch’è una fiera tirannide anche quella.

E Torino sentiva quei giorni; essa è la città di quei giorni. La mattina, i viali della piazza d’arme eran pieni di gente; le famiglie, i parenti, gli amici dei soldati della seconda categoria, chiamati da pochi giorni alle armi, la più parte ancora coi loro vestiti: cappelli a cilindro e papaline rosse, eleganti calzoncini chiari e grandi ghette da pastore alpigiano, soprabiti neri e giacchette cenciose, tutti alla pari: bello! Intorno alle caserme un girandolare continuo di mamme co’ fagotti sotto il braccio, un va e vieni di ufficiali e di messi della Divisione e della Piazza, e una folla di curiosi davanti alla porta; dentro, un chiasso assordante. La sera, dietro le fanfare e i tamburini della ritirata, una immensa turba che marciava in cadenza, a schiere di dieci o do-